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LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

Posted on 12 ottobre 2025 by admin

greciNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una goccia d’acqua e un granello di sabbia, da soli, sembrano fragili e insignificanti, passano inosservati, ignorati da chi guarda il mondo solo in grande.

Ma quando si chiamano fratelli e sorelle, quando si uniscono, la loro forza si moltiplica, diventano fiume, diventano massa e, trasformano il paesaggio.

Alluvioni e frane non nascono dalla potenza di un singolo elemento, ma dall’unione silenziosa di molti, è per questo che il terreno cambia forma, la terra si piega, il segno rimane inciso nella memoria collettiva dell’uomo.

Eppure, quando il danno o la trasformazione è grande, nessuno guarda a quella goccia o a quel granello e, tutti puntano il dito altrove, nessuno riconosce o avverte la potenza che nasce dalle piccole cose quando si uniscono.

Così è anche per gli arbëreşë, ognuno nella propria individualità, è una goccia, un granello, portatore di storia, cultura e memoria antica.

Ma quando ci si isola, si brilla per un attimo come una stella solitaria e poi si svanisce nel buio, nulla muta, ma quando si sceglie di unirsi, di parlare con una sola voce o, confrontarsi per unire allora si diventa forza viva, fiume che avanza, radice che resiste, cresce e fiorisce.

Il futuro non appartiene a chi si disperde, ma a chi costruisce insieme e, solo uniti, gli arbëreşe potranno lasciare un segno profondo nella storia, non come un ricordo sbiadito, ma come una costellazione che illumina il cielo.

Eppure, quando il danno è fatto e la trasformazione è troppo grande per essere ignorata, nessuno ricorda la goccia o il granello, perché troppo piccoli per essere riconosciuti, troppo simili a tutto il resto per essere individuati, si confondono, si camuffano, scompaiono nell’insieme.

E così, la loro forza rimane invisibile, anche se il segno che hanno lasciato è indelebile, come la memoria collettiva non si costruisce con l’eco isolata di una sola voce, ma con il coro compatto di un popolo che sa chi è e dove vuole andare e, solo così, nessuno potrà più ignorare la loro presenza.

Era il 2016 quando intrapresi un viaggio che non era soltanto geografico, ma interiore, ero alla ricerca di nuovi, frammenti di identità, segni che potessero illuminare il cammino della mia ricerca sullo sviluppo e sui processi identitari, così arrivai in un piccolo Katundë, dove il tempo sembrava aver lasciato intatte le sue orme.

Un ricercatore locale mi accompagnava tra le stradine strette e le pietre consumate di quel centro antico, dove i muri parlavano, in silenzio raccontavano di esodi lontani, di lingue conservate con tenacia, di un’identità che aveva resistito al vento dei secoli.

Mentre camminavamo, lui si fermò di colpo, mi guardò con uno sguardo attento, quasi stupito, e mi chiese a quale famiglia del paese appartenessi.

Rimasi perplesso, perché non avevo radici locali, eppure il suono delle mie parole, il ritmo della mia voce, le mie richieste toponomastiche e la direzione che prendevo prima che lui riferiva, avevano risvegliato in lui qualcosa di familiare.

Gli spiegai che parlavo quel luogo e dei suoi toponimi, per via delle mie ricerche, che ricordavo e portavo con rispetto nel mio modo di fare, come si porta un’eredità preziosa scritta nel sangue che riconoscevo in qui vichi e quelle soglie di casa.

Lui sorrise, ma non era un sorriso comune, era il sorriso di chi riconosce un legame invisibile antico di un suo pari che veniva da lontano e trascinava con sé un’alluvione di sapere antico.

Mosso da quell’incontro, volle che parlassi con altri ricercatori locali, con coloro che avrebbero potuto comprendere la portata di ciò che stava accadendo, non un semplice incontro, ma una possibilità di rinascita culturale.

Ma quando si rivolse a loro, trovò diffidenza, indifferenza e l’ospite veniva percepito non come dono, ma come disturbo, almeno per chi concepiva quei luoghi solitari e non una goccia, un granello simile ad altri sparsi in tutta la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

Alla fine, dovetti partire e, lui restò lì, fermo davanti alle case antiche e, nei suoi occhi vidi una delusione che non era rivolta a me, ma ai suoi stessi compaesani che non avevano colto la scintilla che poteva riaccendere un fuoco antico.

Quel giorno compresi una verità profonda, l’identità non si conserva solo nei libri o nei riti, ma negli incontri che sanno riconoscerla.

E quando manca l’ascolto, anche le lingue più antiche rischiano di restare sospese nell’aria, come echi che attendono orecchie pronte a raccoglierli.

C’è un momento nella storia in cui le decisioni tecniche e i protocolli diventano più che semplici atti amministrativi, diventano scelte che incidono nella carne viva di un popolo.

Dal 2014 le autorità di esercito civile ha smesso di adottare il protocollo “New Town”, quello stesso strumento che aveva spesso significato sradicamento, spostamento forzato, cancellazione di memorie collettive.

In quegli anni mi trovai a Roma a discutere la sorte di un Katundë, un luogo coinvolto in un piccolo cedimento non naturale, ma comunque residenza viva e colma di memoria, intreccio di storie e identità, minacciato da un trasferimento verso un “nuovo paese moderno”, pensato per efficienza e sicurezza, ma privo di anima.

La popolazione rifiutò di spostarsi e, sentiva, con un istinto che viene da secoli, che non si può trapiantare una radice viva senza farle perdere linfa.

Fu allora che cercarono nella mia ricerca e nella mia voce i motivi profondi di quel rifiuto, non avevo portato cifre né piani tecnici, ma avevo semplicemente raccontato il patire storico degli arbëreşë, popolo abituato a resistere, a portare avanti la propria identità anche quando tutto intorno spingeva all’assimilazione o alla fuga.

Alla fine, quel protocollo di sradicamento non venne adottato, non fu un trionfo personale, ma la conferma che la memoria, quando è viva, può ancora piegare la rigidità delle strutture.

Perché chi non lo sa dovrebbe impararlo, una sola goccia, ripetuta con costanza, può scavare la pietra più dura e, un granello di verità, piccolo ma tenace, può essere più forte di una corazzata in cemento armato. La memoria non ha tempo, attende, scava, resiste, quando trova ascolto, trasforma anche i protocolli istituzionali che da allora non sono più stati applicati.

Passarono anni, anni silenziosi, nei quali la mia ricerca sul Katundë non era stata dimenticata, ma conservata come un seme sotto la terra.

Poi, un giorno, fui rintracciato da chi, in quel tempo, governava agli inizi del secondo decennio di questo secolo e, cercava risposte, voleva sapere dove avessi studiato quel “protocollo” che non si legge nei manuali, ma che insegna a vivere e fare un Katundë, non un progetto urbanistico, ma una visione del mondo.

Mi ascoltò con rispetto, ma nelle sue domande avvertii la distanza tra chi studia per potere e chi impara per appartenenza e, allora risposi con semplicità, ma anche con fermezza: Solo chi nasce ascoltando l’arbëreşe   può comprendere davvero ciò che dico.

Perché questa conoscenza non è scritta nei libri, ma custodita nella voce delle madri, nei canti, nelle veglie, nei silenzi delle pietre antiche.

Non era superbia, era consapevolezza e, non si può insegnare un’anima a chi non è disposto ad ascoltarla. Così lasciai quel personaggio illustre alle sue carte e ai suoi progetti, tornai a casa, tra i miei, là dove la lingua non si traduce ma si respira, si parla.

Perché Katundë non fonda, si vive e, chi non lo sente, non potrà mai costruirlo ed è inutile cercarlo nelle vetrine di un museo, nelle narrazioni imbalsamate nelle cerimonie di vestizione, nei gesti delle mani di estranei che impastano prodotti per compiacere chi guarda da fuori.

Non è la somma di spettacoli turistici né il racconto di chi parla senza rispetto, senza garbo, senza ascolto, perché un Katundë è un corpo vivo è una frana gigantesca, costruita nel tempo da innumerevoli gocce di lacrime.

Gocce che hanno salato la terra, scolpito la memoria e dato forma a un’identità che nessuno ha mai davvero contato, raccolto o conservato.

Quelle lacrime non sono solo dolore, ma la materia stessa della resistenza e, ogni caduta, ogni rinuncia, ogni sradicamento mancato o imposto ha lasciato un segno, ha aggiunto un granello a quella frana silenziosa che regge l’anima arbëreşe.

E finché nessuno avrà il coraggio di chinarsi per raccogliere quelle lacrime, per custodirle e non per esporle, il Katundë resterà frainteso, scambiato per folclore, quando invece è storia viva, perché non è un racconto da osservare, è un luogo da vivere e ascoltare in arbëreşë.

Atanasio Pizzi Architetto                                                                                                    Napoli 2025-10-10

 

 

 

 

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LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

Posted on 08 ottobre 2025 by admin

asaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una donna arbëreşë si dispone come la Gioconda, con un sorriso appena accennato che trattiene memorie lontane.

I suoi occhi, azzurri e profondi, riflettono il mare Adriatico come uno specchio silenzioso e, in quello sguardo scorrono barche leggere, spinte da braccia operose che cercano una riva accogliente, una terra buona dove il vento non porti più solo nostalgia ma nuove promesse di vita.

Il volto fiero e, segnato da rughe storiche, come la terra che conosce i semi e sa come allevarli, con le mani o gesto iconico, tenendo i palmi, batte l’eco della lingua antica, dell’esilio e della speranza.

Dietro di lei, non colline toscane, ma i suoi occhi azzurri allargano la prospettiva delle onde l’Adriatico, che non è mai stato dimenticato.

Le sue mani non segnano confini ma sono pronte per fare abbracci, o meglio un infinito abbraccio del lato occidentale, quello che accolse, che ascoltò, che custodì, come fa il mare buono che sa cullare le partenze e onorare i ritorni immaginati.

All’orizzonte, la costa si dissolve nella luce e, a est, non c’è chiarezza ma lascia intendere una situazione naturale frastagliato, frammentata, in tutto un est che ad oggi rimane confuso, come un sogno in bilico tra ciò che fu e ciò che non è più.

Ma l’ovest, della prospettiva della nostra madre Gioconda, tutto appare tenerezza, con le colline che si chinano, ulivi che offrono ombra, mani che accolgono altre mani, ed è lì che il popolo arbëreşë trova riparo.

È lì che con le sue vesti di regina della casa rivive, ogni volta che viene nominata, cantata, dipinta e, nel suo sguardo non c’è solo nostalgia, ma resistenza silenziosa.

L’identità non si grida, si porta, come una veste ricamata a mano, come una lingua parlata sottovoce ai figli, come un nome che torna nei canti.

Non ha bisogno di essere riconosciuta per esistere, perché la sua verità è nel gesto semplice del cuore, le dita non formano simboli, ma ascoltano il battito, un battito che non appartiene solo a lei, ma a chiunque sappia ancora sentire il mare anche quando non si vede.

C’è un’immagine che nessun libro di storia riporta, eppure vive incisa nella memoria di chi, senza bandiere né riconoscimenti, ha custodito la verità più profonda degli Arbëreşë.

Non è un dipinto né una fotografia, ma una visione scolpita dal lavoro, dalla resistenza quotidiana, dal silenzio che non cerca gloria ma fa e unisce Gjitonia.

Le vicende degli Arbëreshë non sono state sostenute da alcuna aquila, né quella della patria perduta, né quella delle istituzioni moderne.

Nessuna protezione simbolica, nessun volo alto a garantire giustizia o memoria, perché la loro storia non è stata sorretta da emblemi, ma da fatica, dedizione e coscienza, in tutto da due teste vive, pensanti, operanti che hanno generato presenza senza pretendere di diventare icona.

Non emblema, ma origine, non immagine da esibire, ma sostanza da coltivare, ovvero quella realtà o, quella degli Arbëreşë autentica, mai vissuta come si racconta oggi nei circuiti ufficiali, e mai la natura, così com’è, imprevedibile e libera, potrà renderla possibile se continua a essere forzata dentro rappresentazioni false come una aquila a due teste, che non gi guadano per intendersi.

Tutto ciò che è stato costruito attorno all’identità arbëreshe negli ultimi tempi non nasce dal popolo, non da un potere occulto che non conosce la fatica.

Un potere che, invece di sostenere chi crea, chi lavora, chi custodisce, immagina e, impone visione conforme ai suoi interessi.

Un potere che ha fabbricato immagini vuote, cerimonie senza anima, simboli che parlano di una realtà che non è mai esistita, e mai potrà esistere.

E allora, nell’aria, non si innalza una rabbia sterile, ma una coscienza lucida, non come dottrina chiusa, ma come memoria viva,

Come rifiuto dell’occultamento, affermazione di chi ha tenuto acceso il fuoco mentre gli altri si limitavano a guardare le ceneri sollevate dal vento.

Infatti l’immagine che conta, l’unica che conta davvero, non è fatta per essere stampata nei manuali o celebrata nei congressi, ma vive fuori dalla storia scritta, fuori dai discorsi ufficiali, vive nel canto sussurrato in una casa isolata, nella lingua trasmessa senza scena, nel gesto ripetuto da chi non ha mai smesso di essere.

Vive nelle due teste che, da sempre, portano il peso e la forza della continuità, senza aquila, senza protezione, senza privilegio, ma con la potenza di ciò che non può essere cancellato, ovvero il senso della famiglia.

La Gioconda, con il suo volto sereno ma determinato, potrebbe rappresentare l’emblema delle madri arbëreshe, donne laboriose, silenziose ma centrali nella costruzione della famiglia e della comunità e, crea ambiguità come lo stemma dell’aquila bicipite, simbolo storico ereditato dall’Impero Bizantino e poi adottato dagli Albanesi e dalle comunità arbëreshe.

Quest’aquila, con due teste che guardano in direzioni opposte, è spesso letta come segno di forza e vigilanza, un corpo unico che sorveglia due mondi.

Ma questa immagine può anche essere riletta in chiave più intima e familiare, con le due teste che rappresentare i due genitori, la madre e il padre, che pur condividendo un unico corpo (la famiglia), si guardano sempre e direttamente negli occhi.

creando un equilibrio delicato e, ognuno guarda verso il futuro, il lavoro, il dovere riflesso negli occhi dell’altro/a.

Ma la vera forza di una famiglia, specie in una cultura come quella arbëreshe, dove la trasmissione orale è fondamentale, non sta solo nello stare fianco a fianco, ma nel sapersi guardare negli occhi anche senza parole, nel comprendersi profondamente per costruire insieme.

E quando entrambi “aprono la prospettiva”, voltano inevitabilmente le spalle alla prospettiva che coglie il compagno, la compagna un simbolo, un invito a ritrovare l’intesa per progredire come famiglia e comunità.

L’aquila bicipite è da secoli emblema delle genti arbëreshe, nata dal grembo della storia bizantina, adottata dal popolo diasporico e portata oltre il mare, essa è rimasta impressa sugli stendardi, nei canti e negli occhi di chi ha lasciato la propria terra per salvarne la memoria e, le sue due teste, rivolte in direzioni opposte, sorvegliano mondi lontani che comunque l’altro non sa, ascolta o immagina.

In quella postura fiera, tuttavia, si nasconde una ambiguità sottile e, le due teste non si guardano mai. Ognuna custodisce il proprio orizzonte, il proprio compito, la propria fatica.

Così, come non è uso nelle famiglie arbereshe, madre e padre che non camminano insieme non si incrociano nello sguardo e non costruiscono futuro.

Vivono nello stesso corpo simbolico ma orientati a sopravvivere, più che a costruire e forse potrebbe essere la storia si oggi che non ci appartiene in nulla.

Questa aquila che non si guarda porta addosso la lettera scarlatta: un marchio invisibile, un segno di incompletezza culturale.

Non è vergogna, ma memoria di una parola non ancora detta, di un’identità sospesa, in tutto è la lettera che brucia ma non parla, che pesa ma non costruisce, una lingua lasciata a metà, la tradizione che si tramanda ma non si rinnova, la famiglia che resiste ma non dialoga.

Eppure, nell’immaginario che appartiene ai sognatori e agli eredi di una storia viva, esiste anche un’altra aquila.
Una doppia testa che si guarda negli occhi, non per sorvegliarsi, ma per riconoscersi, diventando l’emblema di chi, pur restando custode della propria eredità, sceglie di confrontarsi con l’altro, con il compagno, la compagna, la comunità.

In quello sguardo reciproco si accende un nuovo alfabeto, un linguaggio condiviso e, questa seconda aquila porta non una cicatrice, ma una Z, l’ultima lettera dell’alfabeto.

Non perché rappresenti una fine, ma perché completa ciò che mancava, rappresenta la chiusura di un cerchio, il tassello che rende intera l’identità arbëreshe, ancora oggi in cerca della sua piena forma scritta, della sua voce autonoma.

Tra la lettera scarlatta e la Z si muove la storia di un popolo, non solo di bandiere e di lingue, ma di famiglie, di donne e uomini che hanno imparato a guardare lontano.

Forse il futuro della cultura arbëreshe non è né solo nel passato né solo nel domani, ma in quello sguardo reciproco, tra due teste che finalmente si guardano e scelgono di parlare la stessa lingua e camminare insieme come fecero Janarj e Adùlina.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-10-08

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FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

Posted on 03 ottobre 2025 by admin

Storie apparecchiate

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della minoranza Arbëreshë è intrisa di rappresentazioni in forma di resistenza culturale.

E qui, prima che altrove, molti sono intervenuti a costituire una “flottiglia di aiuto e soccorso”, in ogni epoca, le stive delle barche erano colme di lettere scarlatte, dalla A fino alla V, sempre con la Z mancante. Così organizzati, valicavano mari in tempesta, ostinandosi a fornire un’identità che ciclicamente riappariva nelle cronache, spacciata come essenziale per evitarne l’estinzione.

Tante flottiglie, guidate da corsari irremovibili, allora come oggi, issano ancora le antiche vele ormai tutte rattoppate. La bussola? Un pennino issato in un calamaio, immaginando che il mare sia un foglio su cui scrivere il parlato, quando fa tempesta.

A bordo si portano aiuti alfabetari, polverosi, nel tentativo di salvare i bambini in crescita con grammatiche prive di parlato e di ascolto.

Gli ufficiali di bordo erano tutti autoeletti, in nome di una scrittografie a dir poco fumosa, antica di millenni ma sempre tardiva, e per questo inevitabilmente affumicata.

Intanto, le menti più lucide e raffinate venivano lasciate a terra, perché il loro mondo non era fatto di scrittura, ma di pensiero e arte.

Nel frattempo, gli eletti della flottiglia si convincevano sempre più che la salvezza risiedesse nel ritorno dalle terre oltre l’Adriatico, armati di penna, calamaio e qualche verbo coniugato, per consolidare la storia e la cultura di questo popolo diasporico.

Credevano bastasse issare la bandiera della lingua moderna, dell’etimologia, del costume riproposto nelle feste comandate a modo di svilimento, per vincere una guerra culturale.

Ignoravano, però, che si combatteva su mari ben più vasti, non alla portata del loro pensiero monotematico.

Nel frattempo, fuori da quella flottiglia così convinta di sé, sulle colline o nei pressi del mare, lontano da quelle coste, nomi, memorie e accenti degli Arbëreshë, senza penna né calamaio, noti sui palchi dell’eccellenza mondiale, venivano dimenticati o ritenuti non rappresentativi della memoria.

La cultura non ha mai accolto il loro parlato, in senso metaforico o letterale, perché le loro storie e i loro silenzi carichi di significato non rientravano nei dizionari, né nei piani editoriali, televisivi o dello scarlatto immaginario fotografico.

Vivevano invece nella quotidianità, là dove si cercava un ponte solido verso il futuro, senza conoscere le regole della scienza esatta, del vernacolare sociale o dell’editoria.

E così, mentre pochi navigavano verso porti che nessuno conosceva, interi Katundë erano invasi, non da eserciti nemici, ma da un’apatia culturale silenziosa, che trasformava ogni casa in una zattera alla deriva. Non c’erano più timonieri, e la rotta si perdeva ogni giorno un poco di più e, chi aveva fame di identità, si trovava a elemosinare briciole dai tavoli degli Albanisti, dove la lingua arbëreşe, non è considerata più strumento vivo da indagare con cautela e rispetto.

Dove tutto si riduce nell’innalzare dialetti in forma di “come da noi”, tutto intorno si spegnevano gli entusiasmi, le pratiche sociali, le relazioni di credenza, il senso profondo di essere una comunità indivisibile.

Il paradosso era evidente, anzi palese, visto lo stato delle cose e dei fatti e, mentre tanti parlavano di salvezza, solo l’olivetano erano in soccorso dei bambini arbëreşe che naufragavano in tanti.

E forse è proprio qui che la flottiglia ha sbagliato mira, rotta e luogo per esaltarsi o meglio, nel voler guidare dall’alto il solo parlato, dimenticando che una cultura si tiene a galla solo se tutti remano insieme, anche quelli senza voce e salvagente, perché tramandare storie che galleggiano attraverso gli occhi, le mani, il cuore e il genio di luogo è un componimento che sfida il tempo.

Immaginare che una flottiglia di barchette, traballanti e senza rotta specifica, potesse incidere davvero su una regione storica, solida come una corazzata è, forse uno degli atti di presunzione più penosi che la mente umana potesse invaginare una sposa in costume partorire il figlio scrittore sulla cattedra.

La cultura arbëreşë quella autentica, sedimentata nei secoli, scolpita nella carne delle montagne, nel ritmo dei canti e nel silenzio delle madri, è una corazzata sopravvissuta a tempeste, invasioni, esodi, e oblii.

Né il tempo né la dimenticanza sono riusciti a scalfirla mai, tuttavia, in modo assurdo, è stata apparecchiata questa stessa flottiglia fragile, bisognosa di salvataggi improvvisati, come se la sua storia potesse essere raddrizzata da chi arriva tardi e senza orientamento di ascolto.

Queste barchette, spesso costruite con legno riciclato, gonfiato di ego e, titoli fragili, terminando così con il remare non contro la corrente dell’oblio, ma a favore dell’invasore culturale.

Forse non per scelta, forse per ignoranza, forse per l’irrefrenabile desiderio di apparire, comunque si sono travestiti da salvatori, mentre gettavano ancora più sale sulle ferite profonde dei naufraghi arbëreşë.

Hanno preferito così i riflettori della diffusione di massa, le interviste dei viandanti, gli esodi dai Katundë, le pubblicazioni prive di presenza, o di quanti partiti elogiano il proprio titolo e, quelli dove ancora si prega, senza distinguere con quale devozione e orientamento, si crede sia farina più solida della crusca.

Invece di rafforzare la corazzata del grano, hanno puntato i cannoni verso l’interno, convinti che la soluzione fosse il restante, mentre chi era partito per tornare e dare agio al costruito del bisogno, da decenni gli viene negato ogni tipo di natante per tornare.

Hanno finito per aiutare l’invasore, senza neanche rendersene conto, che accoglievano i linguaggi imposti, le estetiche vuote, le retoriche di salvaguardia che non salvano niente e nessuno.

Hanno copiato le effigi della madonna della Romana Pompei, portandola in processione tra le vie storiche Alessandrine.

Allestito immagini storiche con vestizioni moderne, le stesse che non lasciano parole a quanti conoscono il senso della vestizione di ragazza, Donna Sposa, Madre, Regina della casa e del fuoco, Vedova Incerta e Vedova Oculare.

E chi oggi di tutte queste regole tramandate oralmente chine ha fatto le spese? È sempre gli arbëreşë, in tutto, la memoria dei nostri padri e le nostre madri che oggi sono senza voce e, tutti coloro che parlano ancora una lingua senza riconoscimento, ma piena di senso.

Quelli che vivono la cultura, non la spettacolarizzano, quelli che sanno cosa si perde, ma non hanno microfoni per gridarlo, perché studiano discipline dove il parlato serve ad ascoltarla e progettare cosa fare.

Così, la flottiglia ha sbagliato mira, sparando e colpito chi dovevano difendere, aprendo falle e, mentre la corazzata ancora resiste, più sola e affaticata, le barchette si vantano delle loro imprese, senza capire di essere diventate parte del problema, e non della soluzione.

La flottilla, se davvero avesse voluto portare aiuto e, speranza agli Arbëreşë, non avrebbe mai dovuto puntare ad est dell’Adriatico per cercare gloria.

Non era là che si trovava il cuore pulsante della nostra cultura, non là, tra i sogni di ritorni impossibili o nelle nostalgie folkloristiche di un passato ormai ricordo.

L’aiuto doveva puntare a Napoli, verso quella capitale culturale che, nei secoli, seppe accogliere e valorizzare gli uomini penitenti che venivano dai Balcani, non come reliquie etniche, ma come protagonisti della storia europea.

Fu lì, sotto i cieli del Regno di Napoli, nei luoghi dove le famiglie e altri grandi nomi della storia meridionale, seppero riconoscere il valore degli esuli e, dove la minoranza arbëreşe, divenne corazzata culturale, non per concessione, ma per merito, non per compassione, ma per contributo.

Uomini veri, condottieri culturali, filosofi, religiosi, maestri di scienza esatta, architettura e storia, hanno costruito ponti tra mondi, e inventato giornali, non per oziare o tornare indietro, ma per portare avanti una visione globale del luogo che li aveva accolti.

È in quelle corti, in quei monasteri, in quelle terre contese, tra regni e rivoluzioni che l’identità arbëreşë ha preso forma come esempio vivente di coesistenza e resistenza, capace di dialogare senza dissolversi.

Chi oggi vuole aiutare gli arbëreşe, non deve cercare flottilla in forma di manuali linguistici dimenticati o spettacoli da piazza con costumi imprestati romanzando o rendendo idolo il vivere comune.

Deve invece ripercorrere quella rotta verso Napoli, verso la storia che ha saputo dare dignità, non solo folklore, una storia che ha trasformato una diaspora in cultura, una migrazione in testimonianza, una minoranza in modello.

Perché è da quella esperienza, autonoma ma integrata, antica ma proiettata nel futuro, che l’Europa lacerata di oggi potrebbe imparare e, potrebbe trovare risposte nuove alle sue crisi d’identità, ai suoi conflitti nati dalle attività migratorie.

La corazzata culturale arbëreşe, se ricordata nella sua verità e nella sua interezza, può ancora navigare con orgoglio grazie alle sue vele che seguono il vento.

Non per salvarsi, ma per continuare ad esistere e, solo chi prende il timone consapevole che la rotta non è mai facile, e ogni deriva ideologica raggirata, darà forza per trovare la spiaggia dove innalzare ponti, e non caricare zavorra.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                           Napoli 2025-10-03

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NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

Posted on 01 ottobre 2025 by admin

Patto

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nato all’interno del circoscritto del centro antico, quello stretto tra vicoli come vene vive di un organismo di pietra e, non ha conosciuto l’infanzia altrove oltre i muri a secco a cui il tempo e il sole arbëreşe aveva già tolto il legante.

E il tutto compilava un mondo racchiuso e, nel contempo ricco come un ventre gravido di suoni, odori, racconti, e regole non scritte più antiche delle stesse pietre.

Qui non esistevano ancora televisori in ogni casa, né telefoni, né quell’assordante silenzio moderno fatto di distanze vicine.

Lo stesso ambito dove la voce l’ho forgiata ascoltando solo il parlato e il canto materno, il primo suono, la prima grammatica, la prima preghiera.

Le parole, allora, si imparavano con l’orecchio, non con l’occhio ed erano tramandate, non insegnate come le voci delle madri, delle nonne, delle vicine, tutte diverse, ma solidamente unite da un unico canto.

Cresciuto poi nella parte più moderna, quella degli anni Cinquanta, dove le strade si allargavano e i palazzi si alzavano come sfide al cielo, portando dentro una forza che non veniva dal cemento, ma dal tufo, dai camini di casa, da quella fiamma viva che ardeva giorno e notte senza bisogno di essere guardata, una fiamma alimentata della memoria del radicamento.

Al centro di tutto questo scenario emergeva il valore sociale, Gjitonia, non solo come spazio, ma un’idea, una geometria umana o quadrato senza muri, fatto di usci sempre socchiusi, sedie appoggiate al muro, occhi che ti seguivano senza mai spiarti e, qui si cresceva sotto la sorveglianza collettiva, nella libertà vigilata dell’appartenenza.

Ogni porta era una soglia, ogni cortile una piazza, ogni anziano un archivio vivente, si imparava a stare al mondo osservando, ascoltando, assorbendo.

La regola era semplice, ma inflessibile e, qui non servivano punizioni scritte, bastava uno sguardo o il racconto di una vecchia storia per riportare al centro del dibattito il tuo posto nel mondo.

Non era un Eden, no, era un solido luogo dove si affinavano i cinque sensi e dove erano banditi i più irrilevanti fattori di imperfezione sociale.

Questa è l’energia che ha nutrito ogni bambino, dove l’eco dei canti, il profumo del pane, la cenere calda del camino, sono ciò che ancora oggi avvolge.

Non importa dove vai o, quante città attraversi, quante lingue ascolto, perché dentro di ognuno di noi, cammina sempre quel bambino scalzo sul lastricato caldo e avvolgente di Gjitonia.

C’era, in quel luogo antico e circoscritto, una regola non detta ma sempre rispettata, ovvero il parlare piano.
Non era solo per discrezione o pudore, ma per amore e rispetto dei vicoli, per il suono dell’acqua nei catini, per i sussurri delle donne affacciate, per il vento che portava il profumo della terra umida e dei fichi lasciati ad asciugare al sole.

E io bambino, sempre colmo di entusiasmo, incontenibile come la primavera tra le pietre, venivo educato non con rimbrotti o urla, ma con consigli sussurrati, a bassa voce, come si fa con chi si ama.
“Figlio mio, parla piano…” dicevano, “ché se gridi, penseranno che non sei di qui; ti scambieranno per un bambino d’altrove.”

E io, che a quel luogo sentiva di appartenere con tutto me stesso, con la voce, con i piedi nudi, con il cuore, imparai a parlare piano.

Non era paura, ma esclusivo desiderio di appartenenza e, così crescevo, educato dal vicinato intero, da quella comunità materna che mi osservava crescere con occhi buoni, pronta a correggerlo con tenerezza, mai con durezza.

Ogni donna era una madre o una nonna, ogni uomo uno zio, ogni vecchio un saggio con una storia sulle labbra e, ogni consiglio era carezza.

Quando arrivò il momento di andare a scuola, entrai in un mondo nuovo, qui nessuno parlava piano e la voce era squadrata, sicura.

Il maestro chiedeva e, gli altri bambini rispondevano, ridevano, gridavano, ma io no, preferendo rimanere in silenzio, non per timidezza, non per paura, ma per fedeltà di appartenenza solida misurata con il silenzio estremo.

Nel dubbio che il modo di parlare mi tradisse e, svelasse come “uno di fuori” – paradosso meraviglioso per chi non era mai uscito da quella manciata di strade – preferendo tacere.

E il silenzio era cosi radicato e rispettoso per quel luogo di formazione prima, così tanto, che il maestro si convinse che fossi muto e, nel dubbio anche di più.

Un bambino muto, dicevano, un’anomalia, uno da seguire con attenzione, da interrogare con gesti e occhi larghi, ma io non ero muto perché solidamente radicato.

Avevo dentro di me la voce dei luoghi natii, che non era mai silenziosa ma parlava con misura.
E ogni volta che doveva rispondere, pensava: “Se parlo troppo forte, se parlo come loro… forse non mi riconosceranno più, forse perderò il suono della mia terra.”

E così non imparai neanche a scrivere e quando iniziai a farlo mi dicevano che scrivevo come parlavo e qualche anziano, avvolte, mi invitava a cantare per avere conferma dei miei studi.

Una parola dopo l’altra, con la stessa lentezza con cui da piccolo aveva imparato a parlare piano.
Un nuovo modo per dire chi era, da dove venivo, senza gridarlo e senza perderlo.

Quando ero giovinetto e uscii dalle pieghe della Gjitonia, il mondo mi appariva più semplice, ma non per questo meno duro.

Non capivo ancora tutto, ma sentivo profondamente ciò che era giusto e ciò che non lo era e, ricordo ancora quegli sguardi duri, quei giochi dove vinceva sempre il più forte, e quelle voci, spesso adulte, che senza motivo spingevano a schiacciare, a sopraffare, a dominare l’altro.

Non c’era una vera logica in quel comportamento, ma era solo una spinta velata, che veniva accettata come normale.

Ma io non riuscivo a stare zitto e dentro di me qualcosa si agitava, come un fuoco che non voleva spegnersi e, mentre altri chinavano la testa o ridevano con i prepotenti per sentirsi parte del branco, io restavo in piedi, con lo sguardo fisso.

Non per coraggio, forse, ma per necessità, tuttavia la mia coscienza non mi lasciava tregua, anche se in cuor mio tremavo dentro, sapevo che non potevo ignorare l’ingiustizia.

Fu in quegli anni che iniziai a smuovere le prime barriere, non quelle di pietra o di ferro, ma quelle invisibili, dell’indifferenza, della paura e, della rassegnazione.

Lo facevo con piccoli gesti, una parola, un gesto di azione, uno sguardo solidale e condiviso con chi era lasciato indietro.

A volte bastava poco, e il mondo sembrava cambiare per un attimo, ma non avevo ancora le parole per spiegare tutto questo, ma qualcosa l’avevo già appreso.

L’avevo sentito nei racconti dei miei nonni, nelle storie dette a mezza voce nelle sere d’inverno, quando parlavano di tempi difficili, di divisioni profonde, ma anche di uomini e donne che avevano scelto di unire, invece che dividere.

Dicevano che chi tende la mano costruisce ponti, mentre chi alza muri si chiude da solo in una prigione e, fu così che diffuse in me una convinzione semplice ma potente, ovvero: unire è meglio che separare.

Non era solo un pensiero, ma una guida e, ogni volta che il dubbio mi sfiorava, che la rabbia o la stanchezza minacciavano di farmi cedere, prendevo una strada diversa, quella che mi portava verso i saggi.

Non sempre erano i più istruiti o i più ascoltati, ma sapevano stare in silenzio, e quel silenzio che insegnava più di mille discorsi.

Mi accoglievano con uno sguardo sereno, e con poche parole mi davano visioni di un mondo diverso, un mondo dove la fratellanza non era un’utopia, ma un orizzonte possibile.

Non c’era pena nei loro occhi, ma compassione, e nessun rancore ed erano lì, pronti, come se mi aspettassero da sempre.

Così, tra l’inquietudine e la ricerca, nacquero i miei primi passi sulla strada del giusto e, non avevo ancora un nome per quello che cercavo, ma sapevo che dovevo cercarlo.

E in quella che oggi si dice che sia la parte alta del Katundë, capii che il vero coraggio non era farsi temere, ma farsi comprendere.

Non era vincere sugli altri, ma vincere su sé stessi, ogni volta che il mondo ci spingeva a scegliere l’indifferenza e, io, giovinetto, scelsi di non voltarmi mai dall’altra parte.

Poi venne un tempo nuovo, dove le regole erano più rigide e la lingua che avevo sempre parlato e, che mi scaldava la bocca e il cuore divenne improvvisamente sbagliata.

Me lo fecero capire presto, anche senza dirmelo direttamente e, bastava uno sguardo, una smorfia, una risatina dietro le spalle quando aprivo bocca.

Parlavo solo in arbëreşë, quello denso di suoni antichi, carico di storie e fatica, di terra e di gente, in fondo era la lingua di mio padre, dei miei nonni, delle canzoni che si cantavano per strada o nei campi, l’eco del mio Katundë, come lo chiamavano i vecchi.

Ma a scuola, no, sin anche quando prendevo la via per raggiungerla si doveva parlava l’italiano che non mi apparteneva.

Era pulito, ordinato, quasi freddo e, non aveva il sapore del pane caldo al mattino, né l’eco delle risate nelle stalle, perché mi rievocava una maschera, che non mi apparteneva.

E così, piano piano, mi allontanai, non dalla scuola, perché ci andavo lo stesso, con rispetto, ma da quelli che cercava di cancellare ciò che ero.

Rimasi fedele al mio parlato, al mio modo di esprimermi, anche se qualcuno se ne vergognava, anche se i miei compagni, quando uscivamo in giro per Cosenza, abbassavano la voce quando mi sentivano parlare e, cercavano di correggermi, o peggio, mi ignorava.

Ma io no, non cambiavo, perché preferivo camminare da solo, piuttosto e, avvolte cantavo canzoni che avevo imparato da bambino, quelle che raccontavano di amori impossibili, di campi arati sotto il sole cocente, di partenze senza ritorno e di speranze appese alle stelle.

Canzoni che avevano parole dure come pietre e dolci come miele, camminavo per le strade della città con la testa alta e la voce bassa, come per non disturbare nessuno, ma anche per non tradire me stesso.

La mia non era ostinazione, ma era solo fedeltà e, il mio parlato non era solo un modo di dire le cose, era il modo in cui vedevo il mondo.

In quelle parole c’erano le mie radici, i miei dolori, i miei affetti, e in quel canto, c’era la mia libertà e, così imparai, senza saperlo, la solitudine dignitosa di chi rifiuta di cancellarsi per piacere agli altri.

Non c’era rabbia in me, solo una dolce resistenza e quando mi chiedevano perché parlavo ancora in quel modo, rispondevo: “io parlo e canto con la lingua che mi ha fatto uomo.”

Conclusa la parentesi cosentina, e dopo una breve esperienza a Reggio Calabria, partii per Napoli, deciso a portare a termine il mio percorso accademico.

Era un momento di passaggio, non solo geografico ma anche intellettuale, attraverso il quale lasciavo temporaneamente la mia terra per una città che, da secoli, rappresenta un centro nevralgico della cultura e della formazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, ciò che mi portavo dentro, più forte ancora della sete di conoscenza, era un’eredità mai del tutto compresa, né da me né, tantomeno, da chi l’aveva studiata sino ad allora, genitrici compresi.

E poco prima della mia partenza, un rappresentativo esponente della comunità arbëreşë, figura di grande esperienza e memoria storica, mi rivolse parole che mi sarebbero rimaste impresse a lungo:
“L’architettura, e in particolare le abitazioni del nostro Katundë, non sono mai state oggetto di studio da parte di alcuno e, se un giorno tornerai come professionista, forse potrai dare inizio a una nuova stagione di studi, mai affrontati fino ad oggi.”

In quel momento quelle parole suonavano come un incoraggiamento, quasi una benedizione, ma col tempo, però, le ho comprese come un vero e proprio passaggio di testimone, in sostanza un patto.

Perché lì, in quell’annotazione apparentemente casuale, si celava un vuoto storiografico, culturale e identitario che nessuno, fino ad allora, aveva considerato o dato peso all’ambiente costruito, le case, le strade, le piazze, i materiali e le tecniche tradizionali, meritassero uno sguardo analitico, scientifico, critico. La cultura arbëreşë sembrava custodire solo i codici rituali, linguistici e religiosi, ma ignorava il corpo fisico dei luoghi in cui questa cultura era vissuta e si era manifestata per secoli.

Durante gli anni napoletani, mentre i miei studi si aprivano verso visioni più ampie dell’architettura e dell’urbanistica, sentivo crescere in me la consapevolezza di un compito affidatomi per ricostruire, capire e salvare e sostenere la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

E così ho fatto, negli anni, raccogliendo materiali, facendo analisi, rilevando edifici, collaborando con eccellenze del misurare per fare restauro, in sostanza le figure più alte che dirigevano la facoltà di Napoli e come loro mi insegnarono.

Mi confrontavo con anziani le vere fonti locali, scattavo fotografie, ricostruivo trame insediative, sovrapponendo cartografie storiche.

Ho cercato, con metodo e con passione, di ridare voce a un patrimonio silente, che attendeva solo di essere ascoltato in arbëreşe.

Ma oggi, paradossalmente, il mio ritorno non è stato accolto e, le mie ricerche, frutto di anni di impegno solitario e di studio rigoroso, non trovano spazio.

In fondo lo capisco pure perché c’è timore, forse anche diffidenza, verso ciò che metto in discussione, come interpretazioni consolidate, narrazioni ufficiali, componimenti storici mai realmente interrogati.

In un certo senso, la mia opera rischia il “disturbare” un equilibrio fondato su omissioni, consuetudini e semplificazioni accademiche.

Eppure, non posso fare altro che continuare e, se la storia arbëreshe vuole sopravvivere come viva, deve accettare di rileggersi, anche nelle sue forme materiali, nei suoi silenzi e nelle sue dimenticanze.

L’architettura non è solo un fatto tecnico o estetico, ma testimonianza, identità, linguaggio e, nessun popolo può dirsi davvero consapevole di sé se ignora i luoghi in cui ha abitato il suo proprio passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-10-01

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