NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Le dimore dette minoritarie non hanno mai avuto l’adeguata rilevanza storica attraverso cui divulgare la loro importanza, nonostante siano state per secoli il supporto principale dell’intero apparato produttivo meridionale.
Antichi casali imposti strategicamente dai referenti territoriali, la ricerca di ambiti climatici e orografici paralleli, le regole consuetudinarie sono gli elementi che diedero origine alla trama urbanistica di queste piccole isole exstra territoriali d’Albania.
I manufatti edili degli esuli albanofoni, salvo qualche eccezione, sono costituiti da cellule, di uno o due ambienti, sistema elementare, atti a soddisfare le necessità primarie di abitabilità.
La tipologia del modello edilizio primario s’ispira alla tradizione micenea che caratterizza, in diversi aspetti, tutte quelle edificate nei territori che fanno parte del bacino mediterraneo.
Ciò che rende uniche, rispetto alla maggioranza dei popoli che le utilizzavano, è la caratteristica del nucleo familiare, poiché gli arbëreshë affidano le fondamenta della loro società al modello di famiglia allargata.
Per gli albanofoni, di questo intervallo storico, la famiglia continuava a essere costituita da due o più fratelli con le proprie mogli, i genitori e le rispettive proli.
Un gruppo ben consolidato, dalle quindici alle venti unità, all’interno del quale tutti rivestivano un ruolo fondamentale nella gestione o nell’espletamento delle attività sociali ed economiche avendo come priorità il benessere e l’equilibrio in senso generale del gruppo famigliare intero.
A rendere diverse le abitazioni degli autoctoni calabresi da quelle degli albanasi è la disposizione diffusa che si possono inquadrare in modo più specifico nei modelli urbanistici policentrici.
Esempi evidenti e ancora legibili sono stato estrapolati dallo studio delle planimetrie dei molti paesi della provincia di cosenza, comparando le plamunetrie storiche con quelle più recenti dell’Istituto Geografico Militare
La vita sociale degli esuli aveva luogo prioritariamente nello spazio circoscritto all’aperto, mentre quello costruito era considerato complementare.
Vero è che gli esuli i primi tempi andarono alla ricerca dei contesti territoriali paralleli e una volta riconosciuti gli ambiti ebbero vita facile a ripristinare l’antico habitat e sentire propri i nuovi territori delle colline del sud d’Italia.
La superficie abitativa primaria aveva forma quadrangolare, perimetrata da murature che sostenevano una copertura a falda unica, la cui pendenza era rivolta verso l’ingresso.
L’insieme di abitazioni primarie generava l’isolato, identificato nella lingua parlata dei minori come Manzana, essa si sviluppava secondo due tipologie: il primo attorno ad uno spazio verde kopshti; il secondo completamente edificato.
Gli accessi dei Katoj erano disposti lungo le strade perimetrali e caratterizzavano tutta l’estensione dei fronti con le tipiche porte a due battenti orizzontali gemellate a una finestra.
L’infisso, aveva una duplice funzione: con la parte superiore di solito aperta, a uso di finestra, mentre la parte inferiore era utilizzata come porta e rimaneva serrata da un chiavistello che consentiva l’apertura sia dall’interno che dall’esterno.
La piccola finestra gemellata aveva generalmente raggio d’apertura contrario rispetto a quello della porta di accesso, al fine di offrire una visione dall’interno, dello spazio antistante l’abitazione.
L’insula, Manzana, delimitata dalle tipiche rotondità murarie; ben presto con l’aumentare dei frazionamenti, esaurito la possibilità di occupare spazi in adiacenza e si inizia a sviluppare in verticale, per rispettare i confini di pertinenza e accogliere al suo interno una popolazione sempre più numerosa.
L’altezza delle abitazioni cresce col passare del tempo e si cominciano a vedere agglomerati di due piani oltre il volume della copertura.
Lo sviluppo verticale diventa purtroppo anche causa di numerosi crolli poiché costruire senza rispetto dei più elementari principi della statica, costringerà gli esuli ad affinare questa arte che non li ha mai resi protagonisti.
La carenza statica degli edifici e le continue sollecitazioni dovute agli innumerevoli terremoto, che interessano la regione nei secoli, sono il motivo per il quale gli edifici dei centri storici sono prevalentemente realizzati di materiale di spoglio.
Il giardino denominato Kopshëti, per gli albanofoni assume un ruolo importantissimo, giacché ogni famiglia ne possedeva uno che poteva essere in aderenza alla propria abitazione, allocato nei pressi o superfici di abitazioni crollate e mai più edificate.
Veri e propri presidi multifunzionali a cielo aperto, dove si svolgevano le attività più generiche, si realizzavano piccoli orti, si piantavano essenze arboree e floreali, si disponevano le Kanòje per l’essiccatura e spogliatura di prodotti agroalimentari.
Il giardino Kopshëti è una costante tipica nelle vicende urbane degli albanofoni perché rappresenta il primordiale modello di vero e proprio territorio-stato, che sarà arricchito con una trattazione molto approfondita.
Il perimetro edilizio si articola generalmente su un livello unico, ad eccezione della zona più interna soppalcata e accessibile con l’utilizzo di una scala a pioli dall’interno.
Gli arbëreshë che vivono secondo antichi modelli consuetudinari e privi di classi sociali predominanti, mantengono nelle loro abitazioni lo stesso schema tipologico, caratterizzandole esclusivamente nelle dimensioni planimetriche, la quantità degli arredi e il numero delle suppellettili.
L’ingresso ricadeva generalmente su una strada secondaria, rùath, e conduceva nella prima stanza attraverso cui un varco-porta collegava la seconda.
Mancano completamente le finestre nei lati lunghi poiché sono quelli predisposti per l’aderenza dei moduli, e qualora fossero stati forniti rimangono solo i varchi chiusi per consentire l’aggregazione di un nuovo modulo, questo è anche il motivo perché le uniche aperture sono rispettivamente: la porta d’ingresso, sempre gemellata con una piccola finestra, oltre al lucernaio che assume la funzione di aerare, ed è posta nella parte più interna della superfice.
I due locali dovevano rispondere razionalmente a tutte le esigenze degli arbëri, opportunamente integrate con l’antico spazio di pertinenza esterno: sheshi.
La prima stanza, assolve la funzione di cucina e filiera per la conservazione di prodotti agro-alimentari, la seconda, ancora più misera, stivata in successione, assumeva l’aspetto di una grotta adibita a dormitorio-dispensa.
Un volume edilizio accessibile solo dall’ingresso, che conteneva esclusivamente pochi arredi e un rudimentale camino, in seguito e per ispirazione ispanica, fu gemellato al forno.
I paramenti murari si presentano irregolari e approssimativamente intonacati, ricoperti da strati di fumigine, a fianco alla porta d’ingresso è collocato il forno, seguito dal ripiano in muratura sotto il quale è perennemente acceso il fuoco.
Nelle dimore più antiche sia il camino, che ancora non ha un aspetto architettonico per essere classificato tale, sia il forno rilasciavano i fumi direttamente all’interno del modulo e la via di espulsione avviene da un foro appositamente lasciato in copertura.
Nella zona più interna dell’ambiente sono sistemati uno o due strapunti, sopra assi di legno, nel mezzo di questa stanza, il tavolo, le sedie e qualche trespolo, altri arnesi per l’espletamento delle attività agricole sono depositati lungo le pareti.
Quando all’interno del Katojo si accende il fuoco, il fumo prodotto si spande e si addensa, con una tale concentrazione che guardare all’interno non si distingue niente e il respiro diviene difficoltoso, bisogna restare bassi e chi si siede vicino al fuoco cerca di piegarsi su se stesso per non essere avvolto.
La maggior parte di queste dimore è realizzata a quota del piano stradale, altre, e non poche, sono scavate nel declivio naturale del terreno, hanno murature perimetrali prive di fondazione e senza un’adeguata lamina di calpestio.
Si cucina in un focolare fisso posto nella prima stanza, dove il contenitore di creta continuamente cuoce le vivande per la giornata e quando queste non fossero necessarie, fornisce l’acqua calda, per decotti, infusi di erbe o mele e pere cotte.
Per quanto attiene alle condizioni igieniche, mancavano completamente i servizi e per le esigenze si utilizzava il giardino esterno, verso cui erano rivolti i piccoli, affacci.
Le case primarie erano costruite con materiali poveri quali legno, rami intrecciati e solo dopo il 1535 previa richiesta alle istituzioni preposte, sono stati concessi i permessi di costruire con mattoni di fango e paglia cotti al sole, pietre di fiume alettati su un impasto di argilla, sabbia e calce.
I tetti sono per lo più spioventi e riparano dalla pioggia ma non riescono a proteggere dal freddo, sono realizzati con paglia impastata con argilla.
Sono gli stessi esuli a fabbricarle e sempre loro si occupano periodicamente della loro manutenzione o a migliorarli, dapprima con la sostituzione del tetto con tegole sostenute da travi di legno e canne intrecciate, poi in seguito migliorando la qualità dei paramenti murari con pietre di fiume e mattoni in laterizio.
Il pavimento è generalmente di terra battuta, lo stesso piano di posa per edificare l’abitazione; è raro trovare esempi risalenti a questo periodo regolarmente pavimentate poiché di un periodo successivo.
I setti murari sono innalzati a quote diverse dei muri posti a valle della stessa fabbrica cosi come quelle perpendicolari a essi.
Strutturalmente le fondamenta non sono prioritarie, la consistenza dei terreni permetteva di affidare le murature direttamente sui pianori ricavati nei declivi.
Inizialmente le abitazioni furono costruite con materiali naturali dei quali non rimane traccia, infatti, di quelle primarie che furono bruciate nel 1535 e le nuove che furono utilizzate per almeno altri duecento anni non rimane nessuna traccia se non le relazioni dei tecnici regi.
L’orientamento dei modelli edilizi e la loro aggregazione rispetta l’esposizione solare e pone l’ingresso a ovest e il lato verso cui era rivolta la piccola finestrella di ventilazione a est, poiché era da questo fronte che bisognava difendersi giacché giungevano i venti di grecale.
L’illuminazione notturna era fornita dal focolare continuamente acceso e da lucerne realizzate con materiali poveri e alimentati a olio o con legna resinosa facilmente reperibili nei boschi adiacenti.
Il riscaldamento degli ambienti è affidato esclusivamente al focolare e ai bracieri, alimentati da carbone, ma generalmente era il giaciglio, che garantiva l’idonea climatizzazione invernale.
L’arredamento è costituito da un tavolo, sedie e ceppi, i bauli, mentre le credenze erano ricavate in antichi varchi murati o realizzate negli spessori dei muri .
Non c’erano armadi ma bauli in cui si riponevano le coperte e l’abito della festa, gli arredi sono scarsi e non paragonabili a quelli odierni; le sedie e il tavolo erano spostati da una stanza all’altra per il loro utilizzo e si fa un largo uso di ceppi che sono utilizzati anche come strapunti da lavoro.
Sono anche comuni le panche, la maggior parte di esse è in legno, ma ne esistevano anche in muratura, poste di fianco all’uscio di ogni abitazione.
Queste ultime sono considerate come il luogo di riunione o come cattedra e presidio degli anziani, ancora una volta come luogo di socializzazione e diffusione della notizia storica, rappresenta lo spazio di socializzazione esterno che rende possibile il trapasso consuetudinario generazionale.
Gli oggetti e gli abiti di uso comune erano appesi a chiodi di legno infissi nelle pareti, cosi come il pentolame e l’insostituibile scure deposta dietro la porta d’ingresso.
All’attento osservatore, apparvero come dei comuni magazzini sempre bui, al cui interno si nota una scala che porta a un soppalco, il pentolame appeso nei muri, le sedie, il tavolo le nicchie, i bastoni appesi che sorreggevano i salumi, i canestri dei pani e dei formaggi.
L’illuminazione all’interno è molto scarsa, ma protegge le abitazioni dall’elevata temperatura e dal vento oltre che dall’inefficienza statica, questo è il motivo per il quale l’area di finestratura è sempre di modeste dimensioni.
L’acqua che scorre dai monti vicini per la particolare conformazione del terreno offre una ricca rete di fonti tali e per le quali si divide la popolazione dei centri abitati per approvigionarsi di acqua potabile.
É raro trovare un abitatnte di una identificata gjitonia che attinge in una fonte diversa da quella abituale.
Inoltre, gli arbëreshë erano organizzati in modo da non disperdere il displuvio delle fontane e con l’utilizzo di canali che convogliavano le acque verso invasi, le gibie, assicuravano la fornitura d’acqua per irrigare orti in cui mettere a dimora ortaggi e frutti stagionali.
Le lavanderie erano ricavate lungo il corso dei torrenti e lavare la biancheria diventava un vero e proprio rito, impegnava le donne per tutta la giornata da mattino a sera.
A casa gli uomini arbëreshë passavano pochissimo tempo, poiché la maggior parte delle professioni maschili doveva svolgersi per forza di cose all’esterno, lavoravano i campi, o migrando per lunghi periodi giacché pastori, gli artigiani nelle proprie botteghe a lavorare sino a notte inoltrata.
Il tempo libero era prevalentemente dedicato alle assemblee molto numerose nei sheshi e i sedili delle persone più carismatiche diventavano il punto di riunione per ricordare le gesta degli illustri del passato.
Per le donne, invece, la situazione era completamente diversa: dovevano accudire ai figli, eseguire i lavori di casa, di solito relegate entro le quattro mura domestiche o eseguire lavori di prima spogliatura nei presidi terrieri di competenza, realizzare il corredo delle giovani in età di matrimonio.
Paradossalmente, però, la condizione di vita delle donne era più piacevole, poiché a loro erano affidate le relazioni tra le gjitone e la attività che richiedevano il mutuo soccorso: panificazione, preparare il rito del matrimonio, cerimonie religiose e sostenere nell’ambito dei legami di vicinato chi aveva avuto malanni o lutti.
I giovani ricevevano un’educazione casalinga e apprendevano dai familiari e dai gjitoni le nozioni basilari, le arti, il canto e la musica.
In generale, saper leggere era considerato molto importante, poiché occorreva capire che cosa enunciassero le capitolazioni, mentre scrivere era secondario poiché questa attitudine era affidata ai prelati che accompagnavano i gruppi e garantivano diffusamente questo servizio oltre a quello primario di carattere religioso che era fondamentale assieme alla lingua parlata per tutti gli arbëri.
La cucina arbëreshë si basava, come tutte quelle mediterranee, su quattro elementi fondamentali il grano, l’uva, l’oliva, il fico, frutti e ortaggi che generalmente quei territori garantivano una buona qualità, erano risorsa primaria.
La base dell’alimentazione era rappresentata dal pane che si produceva all’interno delle case private in stretta collaborazione con le famiglie facente parte la Gjitonia, così come tutte le altre attività che richiedevano l’utilizzi di più forze lavoro.
L’allevamento dei suini in appositi recinti-ricovero Zinbuni, assicuravano una quantità di prodotti complementarietà alla filiera alimentare.
L’arte culinaria Arbëri era ulteriormente caratterizzata per l’uso di vegetali, ortaggi e le innumerevoli minestre di verdure.
In questo periodo gli albanofoni come tutto il mediterraneo non conoscono ancora le patate che diverranno un alimento diffuso solo alla fine del 1700 e l’inizio del 1800.
E molto diffusa la consuetudine di cucinare e conservare sotto olio i vegetali che crescevano spontanei nei campi: cipolle, cicorie, rape, cardi, asparagi, e persino funghi, nonostante fosse nota la pericolosità di alcune specie.
Notevole è la produzione di latticini di pecora e capra dato che la pastorizia rappresenta una delle risorse primarie dell’etnia.
La cacciagione rappresenta un’ulteriore riserva naturale, anche se per gli esuli era vietato cacciare, ma questa sin dagli inizi non fu mai un problema giacché il controllo del territorio presentava maglie molto ampie e all’interno delle quali ci si poteva muovere agevolmente.
Il pescato era raramente cucinato anche perché la penisola Calabrese pur assumendo l’aspetto di un isola, i suoi abitanti non hanno mai affidato la loro economia alle attività marinaresche ma a quelle agro-silvo-pastorali, queste ultime, che poi sono le principali, erano svolte al suo interno, visto che le zone prossime alle coste erano malsane e infestate dalle famigerate zanzare anophele.
Erano disponibili notevoli varietà di frutta sia fresca come mele, pere, uva, melograni, fichi, prugne, oltre a quelle essiccate, mandorle, castagne, fichi e noci.
Diffusa era anche l’apicoltura per la produzione di miele o in alternativa si utilizzava il mosto bollito, per ottenerne uno sciroppo, mericoth, avente funzione di dolcificante.
Per quanto attiene alle bevande, si producevano spremute di Pireta, una sorta di mandarino selvatico, ma la principale e molto apprezzato era il vino, si utilizzava anche come integratore negli adempimenti agrari, bevuto puro, era noto per le numerose qualità, nonostante si dimostrasse incapace per essere trasportato e quindi commercializzato a grandi distanze.
Era diffusa la produzioni si marmellate di varia fattura, che veniva conservata in appositi contenitori in terracotta.
L’igiene personale e il proprio aspetto fisico erano garantiti dal talco e dal sapone, quest’ultimo prodotto da una miscela di cenere, olio e argilla; aveva come risultato dalle proprietà portentose.
Erano annoverate miscele d’olio e rosa, mandorla amara per la pelle e altre che potevano essere affiancate al latte con impacchi di sabbia e orzo, finalizzati a ringiovanire e tonificare la pelle.
Era abitudine lavarsi in casa, ma in molti eseguivano questa esigenza in modo radicale direttamente nei torrenti fluviali che avevano sempre un presidio dedicato a questa esigenza, non esisteva la biancheria intima: gli abiti assolvevano alla duplice funzione, mentre per le donne una sorta di camicia da notte Gligna, indossata sotto agli abiti contribuiva in modo più idoneo a questa funzione.
La pulizia dei piatti delle pentole oltre a tutti gli arnesi per cucinare e mangiare era eseguita in modo da poter produrre il più diluito quantitativo di liquami insaporiti da offrire ai maiali allungandoli con crusca e ghiande macinate.
Gli albanesi si possono classificare come i promotori della raccolta differenziata, vero è che ogni cosa non era mai dispersa in modo incontrollato poiché la filiera alimentare non produceva scarti di alcun tipo.
Essi trovavano sempre un utilizzo che potesse contribuire all’equilibrio naturale del sistema, un esempio è la cenere prodotta dalla combustione dei legnami, che veniva utilizzata o per produrre sapone o come dolcificante nel trattamento delle olive verdi.
Una società basata su elementi semplici ed essenziali che in quasi cinque secoli di permanenza nei territori del meridione non ha modificato in alcun modo l’assetto idrogeologico, o segnato con ferite irreversibili la qualità del territorio, vivendo in perfetta simbiosi in quegli ambiti, nel pieno rispetto delle regole che la natura dettava.