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OGNI ANNO TORNA SILENZIOSO PER LE VIE DOVE IL SUO CUORE BATTE ANCORA – A memoria di Pasquale Baffi

Posted on 10 novembre 2025 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Viviamo in un tempo di trasformazioni rapide, dove la modernità corre più veloce della memoria e, le nuove tecnologie, i linguaggi globali o i modelli culturali che ci arrivano da ogni parte del mondo sembrano cancellare, giorno dopo giorno, le tracce di ciò che siamo stati.

In mezzo a questo vortice, la nostra identità arbëreshë e il suo profondo valore spirituale, rischia di dissolversi come neve al sole.

È con questo spirito di riflessione e con tanto affetto che mi rivolgo a voi, nuove generazioni, Vashëş e Gagnunë, che crescete dove un tempo era Gjitonia e, voi oggi non avete strumento alcuno per ascoltare quel riverbero fatto di sapori antichi.

Vorrei chiedervi come vi sentite o, se siete ancora in grado di riconoscervi negli insegnamenti dei vostri nonni dei saggi locali o dalle gesta dei vostri genitori, le parole antiche, dei canti che raccontano chi siamo.

Orsù, ditemi qualcosa, siete felici in questo mondo moderno, ostile e vallato di moderna tessitura, che vi fa gridare nell’animo vostro silenzioso, l’aver bisogno di qualcosa di più.

C’è forse un desiderio che vi spinge a cercare altro, mentre un velo cala sui tempi belli di un tempo, e vi ritrovate a desiderare un ignoto cambiamento, tuttavia sappiate che anche io ho vissuto momenti difficili e, talvolta ho avuto paura di me stesso.

Oh Vashëşë e Gagnunë, ditemi qualcosa: siete stanchi di tentare di colmare quel vuoto identitario che vi accompagna e, di cosa avete in bisogno di aiuto.

Noi, che abbiamo attraversato queste ere, le abbiamo superate, e oggi possiamo guardarci indietro con orgoglio, portando nel cuore il buon nome di quanti hanno saputo sostenerci moralmente.

In tutti i bei tempi, mi ritrovo a desiderare il cambiamento E nei momenti difficili, ho paura di me stesso

Sono fuori dal profondo, guarda mentre mi tuffo Non incontrerò mai il suolo Schiantati sulla superficie, dove non possono farci del male Siamo lontani dal superficiale ora Dal superficiale

Siamo lontani dal superficiale adesso Sono fuori dal profondo, guarda mentre mi tuffo Non incontrerò mai il suolo Schiantati sulla superficie, dove non possono farci del male Siamo lontani dal superficiale adesso

Ricordo bene le difficoltà che ognuno di noi ha dovuto affrontare per diventare ciò che è oggi e, chi è adulto sa cosa significa perdersi e poi ritrovarsi, cadere e rialzarsi, capire che la vita non è fatta solo di sogni ma anche di prove, di attese, di silenzi.

Per questo, quando guardo i giovani di oggi, mi immedesimo nel loro animo e li vedo spaesati, desiderosi di apparire maturi, ma spesso ignari delle pieghe nascoste della vita e, allora per evitare che l’errore diventi condanna, noi adulti dobbiamo aprire le braccia, non per giudicare, ma per sostenere.

Non come singoli, ma come un fascio di saperi, uniti e solidi come la nostra storia ci ha insegnato, perché la forza di un solo uomo può spezzarsi, ma quella di una comunità resta salda nel tempo.

Guardando le generazioni che nascono oggi, sento nel cuore un misto di tenerezza e di timore, essi sono figli di un tempo veloce, in cui tutto cambia e nulla sembra durare.

Crescono tra schermi luminosi e parole che si perdono nell’aria, con il mondo intero a portata di mano ma con il rischio di non conoscere più la terra sotto i propri piedi.

Molti di loro non sanno più da dove veniamo, non conoscono le radici profonde che ci tengono uniti a questa storia antica, fatta di sacrificio, di emigrazione, di fede e di orgoglio.

Camminano sulle stesse strade che i loro avi hanno costruito con mani stanche, ma non sentono più il battito di quelle voci nel vento e, vivono nei nostri paesi, ma talvolta non ne conoscono l’anima.

Eppure ogni pietra, ogni canto, ogni parola in lingua arbëreshë racchiude un racconto che non possiamo permetterci di perdere e, se la memoria si spegne, anche la luce della nostra identità rischia di affievolirsi fino a scomparire.

Noi adulti, che abbiamo respirato la forza di quei valori antichi, abbiamo il dovere morale di riannodare quel filo spezzato tra passato e futuro e, non basta parlare di tradizione, ma bisogna viverla, donarla, farla amare e renderla viva e presente pe tutti, bisogna insegnare che la lingua dei nonni non è una reliquia, ma un ponte che unisce le generazioni.

Che le nostre danze non sono solo folclore, ma il ritmo di un popolo che ha saputo resistere nel tempo, in oltre, la fede e la solidarietà non sono parole vuote, ma la linfa che ci ha tenuti in vita nei secoli.

Le generazioni nascenti cercano senso, e noi possiamo offrirlo non con rimproveri o nostalgia, ma con presenza e ascolto.

Mostriamo loro che le radici non sono catene, ma ali e, chi sa e conosce da dove viene sa anche dove andare, per valorizzarla.

Solo così potranno scoprire che la modernità non deve cancellare ciò che siamo, ma può diventare un nuovo terreno dove far germogliare l’antico seme della nostra identità.

Ricordiamo loro che l’essere arbëreşë non è un fatto del passato, ma un atto quotidiano, in tutto una parola detta nella lingua dei padri, un gesto di rispetto verso la comunità, un sorriso che custodisce memoria.
Se riusciremo a far vibrare nei loro cuori questa consapevolezza, allora nessuna ondata di modernità potrà travolgerli davvero i nostri luoghi natii.

Perché un popolo che conosce se stesso non si perde, ma si rinnova e, a voi, giovani generazioni, voglio dire una verità che forse pochi osano ricordare e partire non significa tradire.

Andate, sì partite pure verso i luoghi più prestigiosi, dove la conoscenza si fa scienza, dove le menti si incontrano e si accendono.

Andate a studiare, formarvi, a respirare il mondo, ma non partite mai vuoti dentro e prima di salire sul treno della vita, fermatevi un istante a guardare la vostra terra, a toccarla, ad ascoltarla.

Conoscete la storia che vi ha generati, le lacrime e le speranze dei vostri avi, la lingua che è stata il loro scudo e il loro canto e, solo chi porta dentro di sé la consapevolezza delle proprie radici può camminare lontano senza perdersi.

Partire, per chi è arbëreşe, non è fuggire, ma è un atto d’amore verso la propria terra, andare terre lontane per imparare, formarsi, conquistare quella luce che un giorno dovrà tornare a illuminare i nostri Katundë.
Non partite per dimenticare, ma per ricordare e conservare memoria, non andate per cercare altrove ciò che qui non sapevate dove, come trovare e, tornare a costruirlo insieme a chi e rimasto a fare restanza che non conosce o avverte quei lamenti antichi che voi potrete rigenerare in voce saggia.

Perché chi parte con la memoria nel cuore conserva e rigenera, mentre chi resta senza coscienza della propria storia finisce, spesso, per cancellare e dimenticare.

È questo il principio che deve guidarvi a partire per ritornare, e ritornare per dare.

Sappiate che i luoghi ameni non si salvano con la nostalgia, ma con l’impegno, con l’azione e con la mente illuminata dal sapere.

Troppe volte abbiamo visto svanire le forze migliori, e troppe volte abbiamo visto restare chi preferiva l’inerzia alla crescita.

Eppure la storia ci insegna che ogni rinascita nasce da chi ha avuto il coraggio di andare, imparare, e poi tornare con il cuore colmo di idee e di amore per la propria comunità.

Non lasciatevi ingannare dal facile miraggio di chi pensa che restare fermi significhi essere fedeli alle proprie origini, perché chi lo fa giorno dopo giorno le cancella.

La vera fedeltà è nel movimento consapevole, nel viaggio che porta la radice con sé e la pianta di nuovo, più forte, dove il vento sembrava averla sradicata.

Partite, dunque, ma non come foglie trascinate via, ma partite come semi, pronti a tornare per dare frutto.

Vashëş e Gagnunë di questa terra sostenuta in arbëreşë, che portate negli occhi la luce del domani e nel cuore l’eco di un passato che non deve morire ascoltate, non lasciate che il tempo cancelli ciò che siete.
Ogni parola della nostra lingua, ogni rito, ogni canto che ci accompagna da secoli è un frammento d’eternità che chiede di essere custodito e, non dimenticate che appartenete a una stirpe che ha saputo resistere, che ha camminato tra montagne e mari senza mai perdere la dignità del proprio nome.

Vi auguro di partire senza paura, ma con la coscienza viva di ciò che rappresentate, e vi auguro ancora di portarvi dietro la voce dei vostri nonni, i loro gesti umili, la loro fede silenziosa e profonda.
E quando il mondo vi aprirà le sue porte e vi offrirà ricchezze, conoscenza e gloria, ricordatevi di tornare, non solo con le valigie piene, ma con l’anima rinnovata, con la mente illuminata e il cuore pronto a ridare vita a ciò che qui attende da troppo tempo di essere svelato.

Non c’è onore più grande che rendere viva la propria origine, non c’è vittoria più nobile che ritornare per costruire, per riaccendere i fuochi che rischiano di spegnersi.

Perché ogni volta che uno di noi torna con la consapevolezza del proprio essere arbëreşë, la nostra storia si rinnova, il filo della memoria si riannoda e la speranza riprende forma al ritmo di battitura di tessitura antica.

Voi siete la continuità di un popolo antico, la promessa che la modernità non ci cancellerà, ma ci trasformerà senza distruggerci e, abbiate cura dei vostri sogni e del vostro nome, perché in essi vive la radice e il futuro della nostra gente.

E ricordate sempre, chi parte ricordando, conserva e rigenera; chi resta dimenticando, colora, disperde o cancella, a quanti rimangono non rimane che il vostro cammino di luce, che in ogni luogo dove andrete portate con orgoglio il profumo e la voce della vostra terra.

Così, un giorno, quando ritornerete, non sarete solo figli del progresso, ma custodi di una storia che continua a parlare, a insegnare, e a rinascere con voi.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-11 – martedì, ma il ricordo è del 1799 quando era di lunedì

 

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