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L’ARTICOLO 3 - 6 - 9  DELLA COSTITUZIONE NON SONO PER IL PARLARE SOLTANTO

L’ARTICOLO 3 – 6 – 9 DELLA COSTITUZIONE NON SONO PER IL PARLARE SOLTANTO

Posted on 29 luglio 2021 by admin

CasaNAPOLI; Atanasio Architetto Pizzi  Basile – La caparbia volontà di aprire un nuovo stato di fatto,  per consolidare i trascorsi storici e culturali della regione arbëreshë, non trova favori nella scia spenta della cometa le  cui ceneri  ingrigiscono ogni cosa.

Continuare imperterriti a ritenere quale unica fonte, possa essere l’oasi che stagionalmente irriga metrica, consuetudini, costumi e religione, non fa presagire futuri longevi.

Non è concepibile immaginare che una scialuppa mal ridotta, poco capiente, di legno antico, possa adempiere a ruolo di cisterna per mantenere a galla, genio locale e i parallelismi di ambiente, è puro idealismo e quanti immaginano ciò, sono e restano in malafede o non hanno elementi culturali sufficienti per comprendere una diplomatica così complessa.

Nonostante siano stati innumerevoli i protocolli del passato e sino al secolo scorso, ad affiancare diverse discipline per la sostenibilità di questi modelli antichi, l’ arbëreshë, figlia delle prediche domenicali, resta materia per prescelti, in quanto, le linee di tutela sono immaginate “esclusivamente” nel numero dei parlati e a null’altro.

Si persegue, con ostinazione, la via degli archivi, biblioteche e depositi fascicolati comunalclericali, dove si conservano molte cose, delle quali poche utili, elevandole a regola indiscussa della storia di una non meglio identificata macro area.

Purtroppo, queste ostinazioni irreali, non vedono  i solchi della storia incisi sul territorio, arte degli uomini, che vi hanno vissuto in comune accordo con la natura.

L’uomo è l’artefice, attinge la punta del suo aratro, nel calamaio dell’ambiente naturale, suggella così il patto “irripetibile”, spetta poi agli uomini che verranno  sostenere con  parsimonia misurato il patrimonio.

Quanti hanno immaginato di lasciare il Genio Locale, al libero arbitrio dei comunemente, fuori dalle aule per le discussioni di sostenibilità, non facevano progetti sostenibili per il futuro.

Quanti si sono resi protagonisti di questo vetusto stato di fatto, si  assumano, oggi, la responsabilità storica della deriva prodotta e ancora in atto pericolosa.

Sono i colpevoli morali delle vicissitudini anomale che vivono gli elevati, le vie della storia, in nome delle esigenze moderne si preferisce coprire e cancella le forme della storia; in altre parole debilitare se non addirittura rimodellare il senso armonico dell’involucro protettivo la metrica arbëreshë.

Sino a pochi decenni addietro, emergevano con forza la vitalità di questi ambiti nel mentre si percorrevano  le vie  un tempo arbër; palesi erano le tante case con intonachi consumati, culle fondamentali per nuove generazioni, sulla scia di antiche consuetudini oggi non più tali.

Involucri costruiti in cui si parla, si piangeva e si gridava in antica inflessione; strati invernali di fumo, ricoperti calce, come i fogli di un calendario della vita, ormai ferma di scuro perenne.

Sono questi i segni attraverso i quali si percepisce l’insieme di case e di cose, unite idealmente da quel ponte  di canto, patti di mutuo soccorso in  valje di genere.

Solo pochi decenni addietro, quando camminando tra sheshi, rrhugat e hudat, i luoghi ameni di primavera,  conferma di gjitonia sostenibile, si faceva spogliatura agreste, tessendo legami familiari, mentre felici bambini crescevano giocando in lingua materna; poco più in la, case silenziose, sedie vuote vivevano di memoria, mentre si preparavano  semine di abbondanza per il futuro.

Oggi la memoria altrui si dipinge sui muri, quella locale cancellata e i luoghi che segnarono la storia, diventano una lavagna irriverente, per quanti offrirono la propria vita in giusta causa.

Ritenere che sia ininfluente il “genio locale degli arbëreshë”, quando tutto e facilmente rilevabile nei segni incontaminati sul territorio, da la misura di quanta cultura sia stata messa in campo.

Se nei secoli XV e XVII poco si sia attinto, per  lo scontro e il confronto tra indigeni e minoritari, tollerato nel secolo XVIII, perché iniziava il processo di formazione, oggi non si può immaginare tutela, in forma monoclonale in dormienza,  in epoca multimediale.

In base ai frammenti fisici e di memoria ancora vivi nelle macro aree che compongono la regione storica, non si concepisce perché si continua a porre nelle disponibilità di singoli o associati, la possibilità di tracciare percorsi inesistenti, nel mentre forme di cartografia statica, sono peculiarità in attesa per circoscrivere e tracciare percorsi di minoranza.

Di tutte le civiltà della storia, cui sono state attribuite attività di sviluppo, è del genio che le ha contraddistinte, lasciando tracce indelebili di epoca e luogo, quelle arbëreshë non sono ancora presenti in elenco.

Le minoranze storiche generalmente, emergono dal piano generale di una nazione, per le forme idiomatiche, tuttavia, questa singolarità identificativa non può e non deve essere come il modello risolutore, giacché, per disegnare una forma completa riferibile a un gruppo minoritario, vanno rilevati gli elementi fondanti e riverberanti l’espressione parlata.

A tal proposito valga di esempio cosa è successo quando si è dovuti operare per trasferire o meglio delocalizzare un paese minoritario del meridione.

Avendo per decenni i divulgatori ufficiali, tradotto erroneamente, il modello di mutuo soccorso o meglio, luogo pulsante dei cinque sensi: la “Gjitonia”, come “Vicinato” è avvenuto quanto qui di seguito s’informa e si racconta come monito per il futuro.

Oltre duecento famiglie hanno subito l’incubo, percorso il calvario ancora non terminato, pagando pegno, per colpa di quanto condussero ricerche identificative senza alcuna formazione specifica in seno alla minoranza.

La storia ricorderà per molto tempo a venire, in quanto, la mera forma orale erroneamente tradotta, anzi si dice sia stata estrapolata da ambienti indigeni e altre diaspore sociali, ha indotto i progettisti del nuovo sito in grave errore, segnando la vita dei malcapitati de locati, molti dei quali hanno preferito migrare, altri adire le vie legali e le figure più anziane passare a miglior vita.

Essendo questa vicenda largamente documentata con carte originali di prima mano, ancora non archiviate, si può affermare senza commettere errori di sorta, che la frase comunemente divulgata, più devastante e pericolosa in senso di smarrimento e soppressione dell’identità minoritaria, “sia stata”, dagli anni settanta del secolo scorso e sino a oggi senza ravvedimento o soluzione di continuità:

 

” La gjitonia, come il vicinato, il rione o il quartiere, disposta su uno slargo circolare”

 

Come un concetto così intimo e profondo sia stato lasciato alla libera interpretazione, non è dato a sapersi, eppure le avvisaglie disarmoniche erano palesi o facilmente deducibili, visto i sostantivi noti, per ogni genere capace di sfogliare un banalissimo dizionario.

La Gjitonia estrapolata dal consuetudinario linguistico doveva caratterizzare la minoranza non certo per banalizzarla, doveva risvegliare titoli di lettura, capitoli, specie in campo sociale urbanistico e architettonico, innescando processi di pensiero univoco sotto i quali riconoscersi.

Ciò nonostante si è fatta una confusione, a dir poco paradossale, tra: Gjitonia, Vicinato, Rione, Quartiere, Shesho, e Medina immaginandoli tutti come ingredienti da utilizzare secondo le salse che si ritenevano più gradite.

Se poi a queste volessimo aprire la penosa vicenda che associa gli agglomerati arbëreshë al modello urbano  denominato Borgo, è segno che il fondo della botte e stata talmente raschiato da dover utilizzare lo storico caratello di buon sangue, come legna da ardere.

La malgama di riferimenti pur avendo un sostantivo definitivo e preciso, illustrata in maniera poco attenta, poi offerta e distribuita ricoprendola da veli di melassa, ha consentito ai liberi pensatori, di utilizzare la radice a proprio piacimento e le dinamiche storiche di Katundë, Medina e Gjitonia, furono un banale componimento numerico o semplice certificato di estratto catastale.

Il dato ha così, sintetizzato il senso storico del modello urbano e sociale più antico del mediterraneo, determinato dalla numerazione di particella storica di vicinanza,  del catasto edilizio e dei terreni.

La leggerezza con cui si declinano le forme sociali della minoranza storica, più longeva del mediterraneo, devono da oggi in poi far riflettere, certamente vanno saggiamente, ponderate con ragione, da gruppi di lavoro multidisciplinare debitamente e preventivamente formati.

Non è più concepibile che singoli ricercatori, possano disporre della storia di tutti noi minoritari; l’atto della divulgazione deve essere condiviso, prima di esporre in pubblico, in conferenze divulgative o qualsiasi forma scritta, giacché, producono danno inestimabile alla consuetudine sociale se inesatte e quello che più fa danno lasciano  un tempo peggiore di quello trovato.

Se a questo associamo il dato che parliamo di popolazioni, come gli arbëreshë, notoriamente privi di qualsiasi forma scritta, se non casi tumultuosi che allontanano e non rende solidale la regione storica, si deve avere un rispetto maniacale delle cose dette fatte per conto e per nome degli arbëreshë.

Questo è uno solo degli argomenti, liberamente interpretati e lasciati nelle trattative dell’arbitrio di tutela ancora privo di un indirizzo condiviso, cui dovrebbero dare seguito alle attività, che con risorse istituzionali dovrebbero valorizzare con determinazione, le cose e i trascorsi delle minoranze.

Si sarebbe da trattare il costume tipico, ritenuto emblema unico, quanto invece non va oltre le macro aree.

Si dovrebbe creare un archivio degli illustri che hanno portato la regione storica arbëreshë in auge a brillare e alcune volte in ombra a penare.

Si dovrebbe realizzare la scala delle priorità, dove distinguere, pionieri della regione storica arbëreshë quali protagonisti incontrastati, nel campo dell’editoria, della scienza esatta, della cultura e nella ricerca di soluzioni sociali, come quella poi non più intrapresa e ancora sospesa della questione meridionale.

Qui pero entriamo troppo nei dettagli della politica e della storia che conta, forse e meglio rimandare ad altra sede gli argomenti, per adesso cerchiamo di focalizzare, gjitonia, costume e calendario arbëreshë, quello che prevede: il tempo grande e il piccolo, definiti da Aristotele, l’Estate per confrontarsi e l’Inverno per isolarsi.

Questi e molti altri ancora sono gli argomenti che dovrebbero rientrare nei trattati da focalizzare per rispettare gli articoli 3, 6 e 9 della Costituzione, senza voler entrare nei meriti Europei, che renderebbero troppo complicato e arduo l’argomento di tema diffuso, ma sin quando si ritiene che questo sia materia mono cellula e non per gruppi di ricerca e definizione, tutto si risolve in una coltre di cenere, la stessa che dal secolo scorso, strato dopo strato appiattisce ogni cosa, come prevede il disciplinare imperterrito della globalizzazione.

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IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E  LA CHIESA ARBËRESHË

IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E LA CHIESA ARBËRESHË

Posted on 19 luglio 2021 by admin

Senza titolo-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Dopo anni di costruttive interpretazioni comparando e letto le cose che compongono il costume, arbëreshë della media valle Crati (lato preSila), con scritti del bizantini, Alessandrini, si continua a predisporre manifestazioni, orfane dei più minimali principi di vestizione, quali il senso di civile coabitazione urbana, connessa ai valori religiosi della comunità arbëreshë, in tutto il ponte ideale che unisce cosa di casa e credenze di chiesa.

Gli archi e le linee che uniscono, credenze religiose e attività della consuetudine arbëreshë,  riferire del costume tipico la vestizione, l’uso e il portamento, diventa complicato e non di facile attuazione.

Predisporre come come iniziare a indossarlo, serve a terminare con agli elementi utilizzati, sia si tratti, di giovane ragazza, sposa promessa,  la settimana a seguire il matrimonio, e nel resto della vita prima in sposa e poi madre, il vestito giornaliero e terminare con l’allestimento per visite o accoglienza, non sono temi che possono essere trattati senza adeguata formazione .

Le vestizioni, comunemente confuse e di sovente tessute tra di loro, fanno emergere lacune a dir poco paradossali, il cui traguardo conduce irreparabilmente a rendere poco credibili le vesti. 

E’ per questo che senza soluzione di continuità, smarriscono ogni valore in forma di senso o motivo per il quale sono state realizzate dai maestri sarti, alla fine del XVIII secolo, sotto la vigile guida dei saggi lettori, greci bizantini.

Nello svolgimento degli avvenimenti moderni, bisogna stare attenti, quando s’indossano le vesti, in quanto esse richiedono una conoscenza di base, qui di seguito sintetizzata: definire la distanza dal suolo del gallone che non deve salire oltre la pinta delle scarpe; l’aderenza che deve rispettare, avvolgere senza farle apparire le forme anatomiche e mascherare di forma leggibile; gli elementi di rifinitura utilizzati, siano essi veli dorati o di porpora, ori, collane, orecchini o fasce in stoffa, più o meno, colorata hanno un tempo un luogo e una misura per essere esposte.

Del costume esistono diverse trattazioni, unirle tutte e renderle coerenti non è impresa facile, specie se poi a cimentarsi in questo complicato protocollo, sono giovani leve, che non conoscono nulla e non sanno neanche i rudimenti del protocollo; in alcuni casi, nel passato, è stata sfiorata la decenza, a tal proposito  non andate oltre, invitando per questo, figure di ogni ordine e grado, di riflettere, studiare per poi confrontarsi prima di apparire,  come generi fuori da ogni regola di senso.

Il costume arbëreshë della media valle del Crati, (lato presilano) è un trattato consuetudinario, religioso, linguistico, metrico, tramandato oralmente, quanti hanno avuto la fortuna di crescere a fianco o abbarbicati tra queste vesti materne, possono riconoscere il senso del protocollo e ogni piccola diplomatica di riferimento.

Cercare di sovvertire le regole o elevarsi a tutori, valorizzatori o rifinitori di questo protocollo, solo perché di fresca laurea o perché si è in grado di usare una macchina da cucire, al suono di strumenti anomali, fanno male alla regione storica arbëreshë e alla storia di  vestizione.

Quando s’indossa un costume della tradizione arbëreshë, della media valle del Crati, (lato presilano), serve essere lucidi, portatori sani di una tradizione, la cui radice affonda in tradizioni greco bizantine antichissime e non posso essere lasciati alla misura e i tagli dei comunemente che non avendo consapevolezza le cercano altrove e nell’attesa di trovare il bandolo della matassa, inventano.

La parte bassa del gallone pieghettato della zoga, deve mantenersi regolare su un piano orizzontale ideale, le pieghe terminare in vita, senza lasciare ombra, per intercettare o ipotizzare le parti anatomiche femminili, sia dei fianchi che dei glutei.

Il merletto debitamente inamidato, deve aderire alla giacca, quest’ultima a sua volta deve mantenersi aderente alle spalle ai fianchi e lungo la mezzeria dei seni per svoltare attorno alla base del collo.

Questi e molti altri, sono i minimali adempimenti che ogni indossatrice dovrebbe rispettare prima di esporsi in pubblica festività.

Senza dimenticare che il velo dorato ha un significato, diverso da quello porporato e ogni accessoriò di conseguenza completa il senso della vestizione.

Per questo non vanno intesi esclusivamente come mero arricchimento di bellezza o esibizione per carpire consensi, ma messaggio unico e indivisibile di una tradizione antica, che non deve e non può essere assolutamente smarrita per colpa dei noti comunemente.

Certamente non è in questo breve, che si può esporre quanto di sacro e profano è racchiuso in ogni elemento o atto che si compie prima e dopo la vestizione, ma avere un minimo di regola, serve almeno a non lasciare che il tempo intorbidisca ogni cosa.

Come accaduto per le architetture e dell’urbanistica o rimasto ben poco della credenza di Gjitonia, scambiata per quartiere, rione o vicinato, ragion per la quale, il costume sotto l’aspetto materiale è un componimento ancora intatto, difendiamo e divulghiamo, l’immateriale di memoria e il suo valore identitario.

Ritenere che esiste un costume moderno motivando la sua radice nella “llivera”, non è corretto dato che nessuna sposa andava vestita il giorno delle nozze come accadeva nell’aia, quando si separava il grano dalle impurità delle spighe.

Nessuna sposa andava in chiesa a maritarsi, portando il nastro nero apposto al collo, perché quello era un espediente, di gravidanza, che si utilizzava, almeno due settimane dopo, la sera delle nozze.

Questi e tanti altre regole di vestizione, complementari e fondamentali; o si conoscono compiutamente o si lasciano divulgare da quanti né anno consapevolezza, sia del significato storico, sia di quello civile e sia religioso, altrimenti si peccato e si dissipa la consuetudine di radice, se non addirittura si sfocia negli acquitrini del volgare che infanga e sommerge ogni cosa.

Altra cosa fondamentale, da non sottovalutare, è lasciare al libero arbitrio, di giovani operatori, stilisti o disegnatori, o generi diversi, la riproposizione moderna del tema costume, giacché, per il  valore storico è opera complessa, tutto si può fare ed è lecito applicarsi liberamente in questa disciplina, ma almeno cerchiamo di non farlo nelle manifestazioni di tutela e prima di tracciare linee o spalmare colori, si faccia ricerca storica, così ogni figura avrà consapevolezza di cosa inizia a violare con matita e senza alcuna misura di sorta.

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COME RIPETERE L' ESTATE TURBATA

COME RIPETERE L’ ESTATE TURBATA

Posted on 13 luglio 2021 by admin

Firma1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Avere vicino chi fa finta di stenderti la mano, senza coerenza, perché abituato a saltare da un pensiero a un desiderio, senza pace, porta la mente a un evento antico proposto con le stesse cadenze di agosto; ritrarre la mano onde evitare legami, è il minimo dovuto verso quanti si apprestano ad esporsi in altare.

Poi se tutto termina proprio li dove il vile avvenimento ebbe luogo è il segno che essersi allontanato da quei luogo, è stato un gesto saggio e distingue “uno”, rispetto i tanti parenti di quella vergognosa pagina di storia.

Cercare un posto lontano, è il gesto più coerente da attuare, per elevarsi rispetto a questi eterni pendolari della cultura religiosa e di consuetudine civile scambiata per llitirë.

Regione storica di artificiosi paradisi, palloni che non volano e nel silenzio, ovunque vanno scuotono le anime e producono rovine peggio di come il Vesuvio fece in Pompei.

Palloni gonfiati silenziosi, mossi da sibillini rumori orizzontali, colmi da insoddisfazioni perenni a cui si sommano personali turbamenti e vestizioni  di genere senza garbo e senso.

Fuggire dal mondo prodotto da questi esseri colmi di falsa boria, abbarbicati ai valori dell’ignoranza, per questo pura finzione disperata, è il gesto più nobile che possono fare le persone normali e di buon senso, che di agosto prendono le distanze.

Come in un gioco perverso, sono gli stessi comunemente che subiscono il fascino del profano scambiato per sacro, spargendosi, sin anche la testa di cenere per diventar poeti e confonde il tragico dal genuino della barbarie più cruda.

Sono gli stessi che imperterriti, senza mai avere consapevolezza dei loro gesti e teoremi divulgati, valgono meno di una posa di avanspettacolo, parabola di gesti mai attuati dalla storia; tutti accolgono di buon grado, tanto alla fine si prepara la tavola imbandita, dove si moltiplicano pani e ogni sorta di manicaretto vegetariano, animale e idoneo comunque per spartire.

Così facendo conquistano il palcoscenico pieno di luci sublimi, inconsapevolezza, di un nulla prodotto, se la meta di poter  spartire le cose ingorde, di vite mediocri, meschine e non certo di estrazione nobile.

Essi vivono sotto vuoto e in perenne stato d’assedio, combattono nemici spietati, generati nella perfidia figlia dell’ignoranza, dalla noia e dai legittimi derivati della loro mente.

Hanno voglia di salire sempre più in alto, per urlare e mostrare i falsi battiti del cuore e la perversa mentalità, il cui fine mira esclusivamente al vergognoso luogo di provenienza dove primeggia, l’ignoranza allo stato puro.

Chi vuole salvarsi da questa cattiva perfidia deve, per forza emigrare, salire più in alto che può, con il suo irripetibile bagaglio di cultura; solo così la parabola del corvo e dell’aquila ha modo di attuarsi, quando si raggiungono i confini dei comuni volatili, è allora che finalmente il corvo cade e nell’impattare a terra, mostra i limiti e vergogne di nudità, millantate per illibate.

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DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

Posted on 06 luglio 2021 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando sentiamo parlare di tutela delle minoranze storiche e come fecero gli incaricati del governo all’alba degli anni settanta del secolo scorso, riferiamo dell’art.6 della Costituzione italiana, tralasciando il dato che una minoranza non è solamente un esperimento idiomatico, rispetto al maggiore o maggioritario.

Tutto ebbe inizio agli inizi degli anni Settanta, quando il Parlamento, per attuare la tutela delle minoranze, nominò un “comitato di tre saggi” cui delegò il riconoscimento delle comunità costituenti minoranze linguistiche motivandone l’inclusione.

I designati furono Tullio De Mauro, Giovan Battista Pellegrini e Alessandro Pizzorusso, i primi due accademici linguistici e giurilinguista il terzo; essi in una relazione depositata nell’archivio del Parlamento, individuarono tredici minoranze, corrispondenti alle dodici, riconosciute con l’aggiunta dei Sinti e Rom.

Il 20 novembre 1991 la Camera dei Deputati approvò, per la prima volta, la legge n. 612 ( in 18 articoli) per la tutela delle minoranze linguistiche.

La proposta di legge n. 612 non fu approvata perché fu sciolto il Parlamento prima della sua approvazione anche al Senato.

E nel dicembre 1999, il governo D’Alema (1998-2000), la legge ebbe le idonee approvazioni per inserisrsi nei canali di attuazione.

Ad oggi se analizziamo, senza allontanarci troppo dai primi articoli della costituzione e nello specifico gli art. 3 e il 9, si evince un senso di manchevolezza fondamentale al significato di minoranza, verso aspetti materiali che l’articolo sei della costituzione, non contempla per realizzare una larga visuale di accoglienza della continuità detta minore.

Infatti, se nell’art. 3 cita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; l’ art. 9: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Si evince l’ampiezza del tema indispensabile per tutelare compiutamente la minoranza, alla luce dello stato di fatto, relegare tutto nell’art.6, si omette di considerare aspetti materiali, in senso di luogo caratteristico e caratterizzante la minoranza.

Questo spiega anche i risultati, in essere, da quando la legge ha dato avvio alla tutela, privando il percorso di attuazione dagli aspetti del costruito storico e del paesaggio naturale dove i minoritari trovarono dimora.

Se le minoranze storiche contemplate nel provvedimento, non hanno brillato in valorizzazione, si deve proprio a questa mancanza, specie nel caso degli arbëreshë, erroneamente citati come Albanesi che sono altra cosa, storicamente privi di forma scritta, quindi sarebbe stato fondamentale affiancare al genio locale a danze parlate e suoni senza radice.

Questo dato, per gli Arbëreshë in particolare, è stata una mancanza fondamentale, giacché,  ad essere tutelati sono stati aspetti immateriali non riferibili a nessuna forma materiale, preferendo addirittura adottasse esperimenti “indigeni” quando è stato il tempo di citarli.

Alla luce di questi e di altri innumerevoli stati di fatto, mai ritenuti indispensabili, nelle manifestazioni che avrebbero dovuto solidarizzare la minoranza, si è ostinatamente seguita la china idiomatica, al punto tale che i riferimenti storici in figure intellettive si ritengono siano solo quanti si sono cimentati a scrivere una forma linguistica nota per la diffusione orale.

La china così intrapresa restituire uno scenario senza precedenti, al punto tale che si ignorano eccellenze dell’editoria, della scienza esatta, della giurisprudenza e delle lettere classiche solo per citarne alcune.

Preferendo oltre agli scrittori impropri e improbabili, manifestazioni, in cui l’unico elemento in mostra sono le qualità musicali, le attività danzanti e l’espressione sintetica di un costume che si identifica come tipico e in mille sfaccettature dissimili.

Ogni manifestazione non ha mai posto in evidenza aspetti materiali come il costruito storico, nonostante una lingua con la sola metrica canora dovesse avere un luogo circoscritto o naturale, dove poterla riverberare senza inflessioni anomale.

Non è stata posta attenzione verso i modelli abitativi, prima estrattivi e poi additivi, ritenendoli simili a quelli indigeni, cosi come il modello di mutuo soccorso, confuso, con quello mediterraneo che ha tutt’altra radice.

Gli errori sono molteplici e perpetrati sempre dalle stesse figure, le stesse che immaginavano e ritengono ancora possibile che ogni atto commesso o prodotto negli ambiti del costruito potesse essere un prestito indigeno mal realizzato.

Certamente questa è una leggerezza storica senza precedenti e se oggi si ritiene che la legge  di tutela non sia stata efficace, lo si deve al fatto che abbia mirato solo alla salvaguardia da via monotematica.

Non ritenere che gli ambiti attraversati, bonificati e costruiti dal genio arbëreshë non fosse da considerare fondamentali, è un errore senza precedenti.

Una ben identificata minoranza si tutela identificando il territorio dove essa vive e se non è circoscritto come nel caso degli arbëreshë, si identifica come regione storica diffusa.

Essa va studiata identificata e caratterizzare con elementi finiti, gli stessi che nel meridione italiano identificano bel 109 centri antichi, ventuno macro aree, in  sette regioni del meridione italiano.

Davanti a un dato di fatto cosi esteso, seguendo le vicende storiche che rendono la regione storica la più solida in senso integrativo nel mediterraneo, pretende disciplinari di tema, capaci di rendere chiaro ogni aspetto, in senso tangibile ed in tangibile.

Oggi è terminato il tempo di pensare, pretendere e ordinare, che gli alberese sono un esperimento linguistico o esclusiva di una ventilata favella diversa.

Un paese arbëreshë nasce perché è il risultato di un pensiero antico, ideato dal genio arbanon locale, comprenderne il valore non è un esperimento di quanti non possiedono titoli; e ad essi che si raccomanda almeno di vivere con semplicità la conservazione di un paese arbëreshë, cercando di non trasformarlo continuamente in un cantiere a cielo aperto, dove ogni cosa è consentita, compreso cancellare strade della storia locale con adempimenti comuni, solo perché non si è in grado di progettare e capire dove si mettono le mani, quando si tratta dei solchi della storia.

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