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“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

Posted on 18 agosto 2024 by admin

boccolo(NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

sono gradite correzioni integrazioni e nuovi articoli per una migliore attuazione, nel caso ciò avvenisse: inviate ogni cosa all’indirizzo di posta elettronicaatanasio@atanasiopizzi.it

 

Premessa

La Comunità Arbëreşë preso atto dello stato in cui versa il patrimonio materiale e immateriale a essi riferito, ritiene sia doveroso attivarsi con quanto consigliato nel documento, qui di seguito riportato, con  titolo: Carta per la Tutela della Regione Storica Diffusa Arbëreşë, i concetti che saranno riferiti sono già largamente utilizzati e provati nelle Carte storiche del restauro; il fine che il documento vuole persegue è la sostenibilità “dell’intero patrimonio della minoranza Italo-Albanese”, per questo, la prerogativa del documento diventano gli aspetti caratteristici legati al territorio costruito, le aree rurali e il paesaggio inteso nel senso più completo, in quanto ciò rappresenta il contenitore fisico della storia, della cultura e della tradizione consuetudinaria tramandata oralmente in arbëreshë. Ciò per una lettura precisa rende indispensabile, che i centri facente parte della RsdS s’impegnano affinché la tutela non vada mai più intesa come “mera estrapolazione di frammenti storico linguistici”, in quanto, gli episodi di sintesi non hanno, né caratteristica, né forza per sostenere in senso globale le eccellenze storiche, del patrimonio minoritario.

 

CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËRŞË

Ambiti di Attuazione

 

Art. 1 – I comini che costituiscono la regione storica arbëreşë, convinti che la conservazione del patrimonio materiale e immateriale, interessi i tutori e i conservatori della arbëreşë, si augura che si possa giungere a una collaborazione sempre più estesa, condivisa e concreta, indispensabile per favorire e conservare idioma, consuetudine, arti, storia e cose della minoranza; si ritiene, in oltre, altamente desiderabile che le istituzioni e i gruppi qualificati, senza minimamente intaccare il diritto pubblico, possano manifestare il loro interesse per la salvaguardia del patrimonio attraverso cui la civiltà ha trovato la sua più alta espressione, oggi purtroppo largamente esposta e per questo compromessa dalle dinamiche di attuazione globale; gli intenti della RsdsA vogliono allargare i temi di studio ai singoli e alle organizzazioni della cooperazione intellettuale condivisa il cui fine mira a rendere sostenibile la cultura benevola sostenibile dalle singole macro aree.

Art. 2 – le norme di tutela si applicano negli ambiti caratterizzati e vissuti dalla minoranza, in cui sono ancora presenti episodi delle loro permanenza, per questo è importante individuare le arre geografiche ad esse riferibili, dove lingua, consuetudine, religione, rito e genio locale, sono divenute l’espressione del peso storico della minoranza dal XV secolo; va sottolineato che la carta ha il solo fine di tutelare, sostenere e valorizzare gli ambiti delle popolazioni di origine albanofona, che in leale convivenza con quelle indigene, vive nel pieno rispetto della giusta integrazione, secondo i diritti e i doveri sanciti della Costituzione Italiana.

Art. 3 – Le macro aree riferibili alla minoranza arbëreshë ricadono nelle regioni e le relative provincie qui elencate: Abruzzo, Provincia di Pescara; Molise, Provincia di Campobasso; Puglia, Provincia di Foggia, Taranto e Lecce; Campania, Provincia di Avellino e Benevento; Basilicata, Provincia di Potenza; Calabria, Province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria; Sicilia Provincia di Palermo, Trapani e Enna.

Art. 4Costatato che le condizioni della vita moderna vede soccombere le eccellenze storiche della regione storica, si trovano sempre più compromessa da episodi manifesti; si ritiene quindi opportuno formulare regole che si adattino alla complessità dei casi, e per questo si raccomanda quando segue:

1) la collaborazione dei conservatori, degli architetti, dei rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche, naturali, storiche e dell’idioma, i quali, quando raggiungono risultati che garantiscono idonea applicazione siano studi riferiti o divulgati.

2) a tal proposito si dovrà provvedere alla messa in atto di un canale multimediale condiviso dalla RsdsA, attraverso cui gli Uffici o sedi amministrative, delle metodiche portate a buon fine, diventino anche la vetrina prima, durante e dopo l’esecuzione delle metodiche di salvaguardia.

3) per questo sarà anche costituito un archivio centrale in cui convogliare per consultazioni o riferimenti di ogni natura riferibile alla minoranza in modo da evitare interpretazioni e manomissione ad ogni bene del patrimonio storico materiale ed immateriale 

Art. 5 È importante rilevare che negli interventi di edifici o quinte di ambiti storici, il carattere e la fisionomia tipica che caratterizza la fisionomia del rione, deve essere oggetto di cure particolari, nel pieno rispetto della tutela prospettica e cromatica. Oggetto di studio possono anche essere le piantagioni e le ornamentazioni vegetali per conservare l’antico carattere. Essa raccomanda soprattutto la soppressione di ogni pubblicità, di ogni sovrapposizione abusiva sottoservizi, di ogni industria rumorosa e invadente, in prossimità di episodi dell’arte e della storia.

1) per quanto detto va posta particolare cura agli elementi materici che compongono l’opera come la disposizione che essi anno per restituire la composizione stilistica e materica che non deve essere alterata con forme e materiali che ne deturpino il senso e l’equilibrio formale;

2)l’equilibrio materico è formale va mantenuto anche nelle forme di infissi tetti grondaie, cornicioni e ogni tipo di elemento che possa deturpare l’equilibrio storico degli ambiti in particolar modo quelli che ricadono all’interno del centro storico o identificate come zone(A). 

Art. 6 – Gli ambiti a cui fa riferimento la carta, sono il territorio e il costruito storico, tutelando, quali elementi caratteristici, sono le Kaljve, Katoj, rruhat, vicoli ciechi, gli orti botanici relativi, le abitazioni a due livelli, i profferli di frazionamento familiare, i moderni palazzi post napoleonici, le chiese, oltre ogni tipo di presidio religioso. Gli stessi che dal punto di vista urbanistico rientrano nella tutela, degli anfratti e tutte le opere realizzate dagli Albanofoni nella mitigazione del paesaggio da naturale a costruito. Al fine e per completare la tutela degli ambiti citati, va posta particolare attenzione alla toponomastica di ogni ambito, in quanto rappresentano l’evoluzione di avvenimenti caratteristici di mutua convivenza tra territorio e uomo, ed è per questo che le prospettive non devono perdere nella maniera più rigida, fome, pigmentazioni e l’articolarsi di queste secondo tempi e temi locali in linea con la storia; la norma si applica anche a tutti i beni immateriali e della manualità in senso generale, in quanto celano significativi elementi del contributo al sostentamento della cultura e delle arti in generale oltre all’agro, silvicola e pastorale arbëreşë.

Art. 7 – Oltre al costruito, le disposizioni di tutela trovano applicazione anche negli elementi immateriali quali canti pagani e religiosi o nella rievocazione storica degli appuntamenti di inizio estate, in quanto, atto d’integrazione tra indigeni e arbëreshë; sono anche oggetto di tutelare tutti gli avvenimenti e i riti che sono poi l’orologio biologico, lo stesso che scandisce le stagioni nell’anno solare, sia per quanto riguarda gli aspetti civili che religiosi, per questo vanno trascritti in precisi protocolli rituale che si avvalgono di tutte le scienze e le tecniche utili a dare significato univoco all’evento, previo lo studio di verificare storico certificante, la giusta attuazione.

Art. 8 – La conservazione del patrimonio arbëreshë quindi si applica per ogni macro area, habitat, manufatto, anfratto o episodio che sia rappresentazione fisica o materiale della cultura generale degli arbëreşë, costumi, consuetudine e religione strettamente legata al territorio e al suo costruito, trama di Iunctura diffusa della RsdsA, in quanto, contenuto e contenitore parallele alle aree geografiche d’Albania.

 

Finalità

Art. 9 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale serve a tramandare senza compromettere o modificare il patrimonio che non appartiene a noi, ma alle generazioni future e anche per queste ultime si applica lo stesso principio.

Art. 10 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale è limitato al solo usufrutto che non va inteso come sintesi del significato, ma coerentemente, siano utilizzati per dare continuità inequivocabile alle caratteristiche consuetudinarie, della lingua e di tutti gli atti materiali depositati nella parlata arbëreşë, impegnandosi per questo a non alterare o piegare secondo alloctoni procedimenti di sintesi, nulla di quanto ereditato.

Art. 11 – La conservazione e la tutela e il non applicare sin anche coloriture anomale, diventa quindi prioritario per ogni Albanofono che s’impegna alla sostenibilità della condizione ambientale secondo tradizione ereditata; saranno inoltre messe al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzo che possa alterare i rapporti di volumi, dei materiali e dei colori esistenti.

Art. 12 – I beni materiali e immateriali non possono essere separati dai luoghi storici nei quali sono stati testimoni, né dall’ambiente in cui si trovano. Lo spostamento di una parte o di tutto non può quindi essere accettato se non quando la sua difesa lo esiga o quando ciò sia significato da cause di eccezionale interesse di tutta la Regione storica diffusa e sostenuta dagli arbëreşë.

Art. 13 – Gli elementi della manifattura in senso generale o in particolare, manifatture, sculture, pitture o decorazione che sono parte integrante della regione storica o degli ambiti urbani, non possono essere separati da essi se non quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Art. 14 – La salvaguardi degli ambiti e le eccellenze tipiche degli Albanofoni vanno normati e sottoposti a processi, che devono rispettare protocolli preordinati; lo scopo è di conservare e di rivelare i valori formali e storici di ogni manufatto o evento consuetudinario, che trova coerenza nel rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche.

Art. 15 – La tutela di ogni cosa deve fermarsi, dove ha inizio l’ipotesi: sul piano della ricostruzione congetturale qualsiasi atto per il completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche, tecniche e consuetudinarie, deve distinguersi dalla progettazione architettonica o storica raccontata, le stesse che dovranno recare necessariamente il segno della nostra epoca. Il processo di valorizzazione e tutela sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio storico, archeologico e linguistico arbëreşë, riferito a un monumento, un manufatto, una consuetudine, un rito, un canto riferibile alla macroarea.

Art. 16 – Quando le tecniche tradizionali si rivelano inadeguate, il conservare che deve proteggere un monumento, manufatto o la stessa consuetudine può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi atti a produrre la corretta conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata con dati scientifici e sia garantita dall’esperienza e approvata dalle memorie storiche, la cui attendibilità sia garantita dall’essere un portatore sano e non riesumato.

Sostenibilità

Art. 17 – Nella conservazione e valorizzazione dei beni materiali e immateriali arbëreşë sono da rispettare tutti i contributi scientifici e storici che ne certifichino l’assetto, rilevando l’epoca di appartenenza, perché l’unità stilistica o di abbellimento non è lo scopo il principio della difesa; quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura di epoca anteriore non si giustifica che eccezionalmente, a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, ritenuto soddisfacente il suo stato di conservazione; il giudizio sul valore degli elementi in questione e la decisione circa le eliminazioni da eseguirsi non possono dipendere dal solo autore del progetto ma da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo e Il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) .

Art. 18 – Nelle opere di restauro o ripristino dell’integrità del manufatto di qualsiasi fattura, si dovrà fare uso di elementi destinati a sostituire le parti mancanti che devono integrarsi armoniosamente nell’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché la metodica di tutela non falsifichi il manufatto o il suo valore della consuetudine storica di memoria, al fine di rispettate, sia l’istanza estetica che quella storica.

Art. 19 – Le aggiunte non possono essere tollerate se sono all’interno delle regole consuetudinarie arbëreşë e, tutte le parti devono rispettare la coerenza storica ed estetica, l’espressione dal punto di vista della tradizione, dell’equilibrio e il rapporto con la storia di macro area.

 

Art. 20 – Gli elementi devono essere oggetti speciali e caratteristici del luogo, al fine di salvaguardare la loro integrità e assicurare coerenza con la macro area per l’idonea prosecuzione del messaggio; i lavori di conservazione e di ripristino del senso proprio del manufatto sono eseguiti e devono ispirarsi ai principi enunciati negli articoli precedenti.

Art. 21 – Le scuole di ogni ordine e grado saranno coinvolte con attività settimanali di ricerca e sopraluoghi al fine di prendere atto di quanto sia di loro appartenenza e che un giorno dovranno provvedere a tutelare.

Art. 22 – la toponomastica e gli appellativi di luoghi, rioni, vichi e prossimità abitative devono essere tutelati e ricollocati con diciture bilingue certificate e corrette, evitando di sostituirle con eventi o personaggi che in vita mai avrebbero sottoscritto tali scelte.

Art. 23 – l’ambiente non costruito rappresenta anche esso una traccia e quando contempla il tracciato storico delle attività agro salvo pastorali, cosi anche le fontane e gli abbeveratoi che furono stazioni strategiche della transumanza o i percorsi verso i presidi della trasformazione agricola, vanno valorizzati con la messa in opera di percorsi pedonali o ciclabili dell’arti agrarie.

Art. 24 – Lo stesso principio vale per l’estrazione di minerali o i forni della produzione di calce e mattoni o di ogni genere di prodotto lapideo, come cave o le dette “parere”.

La Storia

Art. 25 – La storia della minoranza albanofona va riferita secondo le cadenze cronologiche, a partire, dal XIV secolo a oggi, senza prevaricazioni e valorizzare, esaltare uomini e avvenimenti nei confronti e rispettosi di epoca, luogo o avvenimento. La regione storica va storicamente tracciata con regole precise, in cui si dia l’esatto valore per la letteratura, la scienza la religione e le leggi; la regola vale anche per i periodi, le cose e gli uomini neri che in regione storica vagarono (fortunatamente in numero molto esiguo), tutto quanto per disegnare un quadro definitivo e senza ombra o velo alcuno della storia per le eccellenze arbëreşë.

Art. 26 – Sottoporre ad attenta analisi la storia del Collegio Corsini e il peso culturale civile e religioso, in quanto primo luogo della sapienza arbëreşë, direttamente connesso nello scenario europeo, sia nella sede modica e, solidi principi di San Benedetto Ullano e poi in quella più estesa in ogni senso dopo il 1792 di Sant’Adriano, sino alla sua storica scissione con la nascita del convitto, la scuola di Sant’Atanasio in Roma e la solida Curia di Lungro nel 1919.

 Art. 27 – Va in oltre rilevata l’urgenza di stilare un elenco in cui le eccellenze dal punto di vista umano in campo letterale, ecclesiastico, giuridico e della scienza esatta e di tutte le discipline che contribuirono alla crescita e l’unificazione del meridione, le stesse che invece di essere vanto  devono fare la fila confusa per  apparire incontaminati alle nuove generazioni arbëreşë e terminare di voler valorizzare alcuni campanili a scapito di altri, che oggi potrebbero essere vanto mondiale per i primati raggiunti dalla RsdsA.

Art. 28 – I Comuni le Associazioni e le Università si impegneranno a fornire una chiara e leggibile storia di tutti i luoghi le cose e gli uomini della regione storica, priva di inutili rammenti che vogliono coprire alcuni aspetti, rispetto ad altri; per questo ogni relatore deve utilizzare tutti gli strumenti e le professionalità per avere piena consapevolezza degli ambiti e delle cose trattate; a tal proposito e opportuno rilevare che la RsdsA viene raccontata come chi paragona Cristoforo Colombo, a chi termino nelle coste dell’isola d’Elba.

I Presidi della Memoria

Art. 29 La messa in atto di musei esposizioni o eventi devono essere attuati nel pieno rispetto della tradizione con il fine di tramandare senza personali interpretazioni, quanto esposto o divulgato; il fine comune da perseguire è quello di tracciare un itinerario nelle diverse macro aree, che possano riferire in maniera unilaterale gli eventi storici e di quanto abbiano inciso su quel territorio la consuetudine le arti sartoriale e tutte le altre  attività agro, silvicole e pastorali, eccellenza per la quale furono accolti i minoritari.

Art. 30La vestizione dei costumi va eseguita secondo l’antico rituale, rispettando tempi e caratteristiche estetiche che completino in tutte le sue parti, l’esposizione delle preziosissime vesti; il costume femminile dalla tradizione arbëreşë e un elemento unico, è il riferimento storico, per questo va utilizzato nella sua interezza ed esclusivamente in manifestazioni e momenti istituzionali o religiosi, poi eventualmente la versione di sintesi molto più sobria, va esibita in spettacoli o manifestazione di senso pagano o commerciale senza atti di pura esposizione fine a se stesso.

Art.31 – I lavori per la tutela e la conservazione degli elementi materiali e immateriali delle caratteristiche arbëreşë saranno sempre accompagnati da una rigorosa documentazione, con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e fotografie redatte da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, uno Storico, un antropologo, un filologo, uno psichiatra e almeno un Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato).

La Difesa dell’Idioma

Art. 32 – Per la tutela e la conservazione dell’idioma e degli ambiti costruiti saranno eseguiti studi specifici all’interno della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, estrapolando e riunendo tutte le parlate tipiche delle macro aree a iniziare dal corpo umano e gli elementi prossimi al suo sostentamento e naturali; scremate di tutte le cadenze idiomatiche Ispaniche, Francofone e Bruzie; solo a seguito di questa operazione si porteranno a confrontare i risultati con quello della terra di origine odierna, per tornare in nell’antica terra di origine a riconfrontarli; il fine mira ad ottenere un solido fulcro antico  che non sia compromesso da chi gli arbëreşë rifiutarono di condividere cose  nel XV secolo, preferendo l’esilio e patire in terra altra ben da oltre cinque secoli.

Art. 33 – I dati ottenuti dal procedimento su citato per l’integrità dell’idioma, vuole evidenziare le parlate comprovate e definite da un comitato scientifico preordinato e che non siano il semplice confronto di appassionati che vivono macro aree dissimili o istituti che producono riversi di ricerca, ma da un comitato scientifico in questa fase così composto: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo, Un Filologo, Uno Psichiatra e il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) e un numero di Linguisti pari a quello di tutti i componenti la commissione.

Art. 34 – Le parlate tipiche saranno raccolte in due distinti volumi: il primo letterario e grammaticale; il secondo della manualità, delle scienze e delle arti, disegnato schematizzato in coloritura .

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Tale documentazione sarà depositata in pubblici archivi e sarà messa a disposizione degli studiosi.

La sua pubblicazione è vivamente raccomandabile.

Senza titolo

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I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

Posted on 14 luglio 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando i canali culturali dei media e istituzionali di ogni ordine e grado, trattano, analizzano o esprimono pareri sui centri abitati di radice arbëreşë, ovvero i Katundë, questi diventano argomento variegato di interpretazioni di epoche con cui non hanno nulla da condividere, perché sono la risorsa abitativa di luoghi in comune convivenza con le cose della natura che protegge l’uomo.

Ogni Katundë e, mi riferisco a quelli nati o ripristinati dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgi Castriota e, sino all’essedo concordato di termine del Impero Romano d’Oriente del 1533, rispetta lo stesso ordine dell’edificato, secondo quattro rioni tipici, che perimetrano spazi urbani, secondo iunctura dei gruppi familiari allargati arbëreşë.

La chiesa, l’antico loco indigeno, il promontorio, il nuovo edificato arbëreşë, sono il sunto dei rioni da cui prende avvio lo sviluppo di ogni Katundë, questo rappresenta il sostantivo in grado di riassume il valore di tutto il centro antico e nel corso del tempo di quello storico definendosi in lingua parlata della minoranza, luogo di movimento: Ka – indica un luogo; Tundë – sinonimo di Movimento.

Comunemente si riferisce di un “centro di radice Arbëreşë” definendolo, Borgo, identificandolo con disposizioni e tipologie urbane circolari e sociali, appellate Gjitonie, Sheşi o Quartieri, per poi tipizzare questi ultimi, nati attorno o nei pressi di palazzi nobiliari, dove sono conservati, pergamene, costumi e cose di varia natura, perché trascinate nei bauli ai tempi della diaspora del XIV secolo immaginando l’era medioevale come quella moderna della globalizzazione.

Si può da subito notare che nulla di ciò appartiene alla “Regione storica diffusa e sostenuta degli Arbëreşë”, quando si prende la via di approfondire argomenti e sostantivi, senza averne i requisiti di studio specifico, ma neanche basi di semplice lettura di un comune dizionario.

Specie se ci soffermiamo sul significato di Borgo, Sheshi e Gjitonia; secondo cui il primo dovrebbe essere una città murata e i Katundë degli Arbëreşë sono tutto e non vi è murazione che ne definisca termini e perimetri; il secondo dovrebbe essere uni spiazzo o piazza piccola e invece è un  “Rione”, dove la Iunctura familiare è fatta da Katoj, Vicoli ciechi, Orti, Vally, Supportici e viuzze strette e articolate; il terzo dovrebbe essere uguale al vicinato, ma se fosse realmente cosi, perché non lo si specifica e si usa questo sostantivo invece di Gjitonia e si spiega, cosa vuol dire? come qui di seguito faremo con dovizia di particolare ogni cosa.

Un Borgo è l’esatto contrario di un Katundë, in quanto, quest’ultimo, è realizzato secondo i canoni della città aperta, la stessa che oggi l’era modella appella come città metropolitana; lo Sheshi è un rione di Iunctura sociale, che non può essere definito da quanti non hanno titoli specifici in campo urbano o di valori sociali della storia degli uomini.

Uno Shëşi è un insieme costruito, fatto da case, vicoli articolati, orti, Vally e suppostici, dove la percorrenza del viandante ò regolata dalla articolata e difficile percorrenza delle strade pubbliche dove sono apposte gradinate e archi per la lenta percorrenza, queste ultime strette e colme di accessi delle piccole Kallive e, il più delle volte non conducono a spazi liberi se non in articolati spazi definiti Vally o negli orti di Iunctura dove non vi è via di fuga.

La Gjitonia è un termine con il quale gli arbëreşë, si organizzavano socialmente, negli ambiti del centro antico, definito “luogo dei cinque sensi”, lo stesso condotto diretto e sostenuto dal Governo delle donne che parlano vestono e crescono le nuove generazioni secondo protocolli rigorosamente in arbëreşë

A tal fine è bene precisare che un centro per essere definito di radice Arbëreşë deve contenere all’interno del suo perimetro primario, i Shëşi strategici di prima epoca, ovvero; il Loco degli indigeni locali e la Chiesa, a cui fanno seguito nell’attimo della riedificazione arbëreşë il Promontorio, il Loco di approdo, tutti disposti per consentire l’articolarsi e il confrontarsi secondo i principi di iunctura mediterranea.

Queste ‘architetture’, sia che nascessero con l’intento di integrarsi nei diversi ambiti culturali, sia che facessero dell’isolamento e dell’essere difesi dalle cose naturali il loro tratto distintivo, hanno contribuito a creare spazi urbani e luoghi dell’abitare, dotati di caratteri tipicamente ‘Arbëreşë’, continuando a vivere e svilupparsi radicandosi nei vari contesti paralleli ritrovati.

Le epoche che vanno dal XIV secolo Al XIX secolo definiscono spazi, vie e l’edificato, che nel corso della forbice prima citata, assume diverse tipologie e di espansione planimetrica, volumetrica e del tipo architettonico.

Questi si possono riassumere in: monocellulare piano, poi altimetrico, con profferlo, sino al XVII secolo, per poi assumere dopo il 1783 edificando la conformazione palazzata, naturalmente secondo le categorie economiche e sociali in differente crescita.

La tipologia monocellulare che dal greco individua la cellula abitativa tipica, ovvero Katoj o Katoj dirsi voglia, è una cellula primaria che racchiude i bisogni familiari primari, di rifugio e produzione e conservazione degli alimenti primari della dieta mediterranea o, delle tra “V” in arbëreşë, Verë, Vallë e Verdüràtë.

È qui che i valori di casa e le attività comuni di proto industria trovavano agio grazie alla fratellanza familiare che univa le madri nel tipico governo delle donne e produceva alimenti di conservazione di raffinata e eccellenza.

La mono cellula primari si componeva di uno spazio quadrangolare disposto lungo il vicoletto di transito pedonale con il lato più corto che in genere non superava i quattro metri e quello più esteso perpendicolare alla strada che aveva uno sviluppo variabile e poteva anche raggiungere i sei metri e oltre.

Il pianoro abitativo era ricavato scavando e rendendo piano nel solido terreno per la porzione utile a descrivere il perimetro interno della mono cellula che non aveva alcun sistema fondale, assicurato dalla solidità del terreno e quindi il perimetro murario che descriveva lo spazio casa aveva appoggi differente per i quattro muri perimetrali.

Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.

I Rioni, del Katundë, ovvero Kishia, Moticèlleth o Kalivë, Sheshi, Bregù e Nxertath, o di espansione, rappresentano il percorso evolutivo seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico.

Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile e l’orto botanico era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto botanico e stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, da agio al realizzare dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

La Gjitonia, (dove vedo e dove sento, il governo delle donne), sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreşë.

La Gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nello sheshi e in tutte le direzioni delle articolate rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali e non solo.

La Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata con precisi confini fisici.

Per questo gli agglomerati arbëreşë rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.

Il piccolo abituro, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia in tutto la nota adobe, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post decennio napoleonico.

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GIS e Beni Culturali: beni tangibili e beni intangibili GIS and Cultural Heritage: tangible and intangible assets Caterina Gattuso a, Atanasio Pizzi b, Valentina Roviello c

Posted on 22 giugno 2024 by admin

a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it

bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it

c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it

 

Abstract

La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.

In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.

Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in  una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.

 

Abstract

The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.

In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.

The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.

 

Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili

Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage

 

  1. Introduzione

Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.

La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.

Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.

I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.

  1. Beni tangibili e aree archeologiche

La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:

  • alla ricostruzione della stratigrafia del sottosuolo, che nel tempo è stato condizionato da frequenti variazioni eustatiche e da eventi vulcanici, con conseguenti interdigitazioni di depositi di ambiente marino, alluvionale, vulcanico, e la formazione di una circolazione idrica sotterranea superficiale (Sacchi M. et al., 2014, Amorosi A. et al., 2012);
  • allo studio dell’uso del suolo e della geo-morfologia costiera dall’antichità ad oggi, ossia lo studio dei processi di tipo naturale o antropico che hanno determinato l’evoluzione del territorio e della costa (D’Ambra G. et al., 2009, Ruberti D. et al., 2008);
  • allo studio delle popolazioni floristiche e faunistiche che popolano l’area, mirato alla conservazione del paesaggio, conferendole un’importanza non solo a livello naturalistico, ma anche ecologico (l’Oasi dei Variconi e la Pineta di Castel Volturno) (D’Ambra G. et al., 2005).

Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.

All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera).  L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).

 

Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le  aree interne dal mare, ma   anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.

 

  1. Beni intangibili e cultura arbëreshë

Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).

Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.

Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:

Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);

Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);

Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);

Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);

Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);

Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);

Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).

 

         Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.

 

Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.

La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.        

L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.

 

 

  • Carte storiche e disposizione dei centri urbani

 

L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.

 

 

L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.

Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).

Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.

 

Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.                                         

Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:

  • il recinto delimita il territorio ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, anch’essa circoscritta dal cortile, costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;
  • il giardino, luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.

Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).

 

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso  B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .

 

Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.

 

Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).

Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).

La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.

Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo    degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.

L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).

Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.

 

Conclusioni

Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.

Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.

Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.

In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un  importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.

Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.

 

References:

Amorosi A., Pacifico A., Rossi V., Ruberti D. (2012). Incisione tardo Quaternaria e deposizione in un ambiente vulcanico attivo: il riempimento della valle incisa del Volturno, Italia meridionale, Sedimentary Geology., 282, pp. 307-320, ISSN: 0037-0738.

Capasso B. (1905). Napoli Greco Roman, Arturo Berisio.

Cirelli F. (2006). Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato 1853 – 1860Calabria  Papato edizioni per conto della Soprintendenza della Calabria

Crimaco L. (1991), Volturnum, Quasar Edizioni – Roma, ISBN 88-7140-027-5 .

D’Ambra G., Petriccione M., Ruberti D., Strumia S.,Vigliotti M. (2005). Analisi multidisciplinare delle dinamiche dei caratteri fisici, antropici e vegetazionali nella Piana Campana (CE), Atti della 9° Conferenza Nazionale ASITA, Catania, 15-18/11/05, vol.1, pp. 843-851.

D’Ambra G., Ruberti D., Verde R., Vigliotti M., Roviello V. (2009). La gestione integrata della fascia costiera: studio e correlazione di variabili a carattere biologico, ecologico, chimico e sedimentologico del Litorale Domitio, in Provincia di Caserta, Atti 13° Conferenza Nazionale ASITA, Fiera del Levante Bari, 1-4/12/2009.

Dodaj P. (1941). Il Kanun le basi morarli e giuridiche della società albanese, Besa.

Giura, V. (1984). Storie di minoranze: ebrei, greci, albanesi nel Regno di Napoli. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane.

Gonzalès R. A. (2005). Exstremadura Popular Casas y Pueblos, Collezione arte/arqueologia.

Mandalà M. (2007). Mondus Vult decipi – i miti della storiografia arbëreshë, Pa: A. C. Mirror.

Mazziotti I. (2004). Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Edizioni il Coscile.

Pizzi A. (2003). Sheshi i Pasionatith.

Roviello V. (2008). Analisi geologico-ambientali del litorale domitio e del basso corso del fiume Volturno, Tesi magistrale inedita.

Ruberti D., Strumia S., Vigliotti M., D’Ambra G., D’Angelo C., Verde R., Palumbo L. (2008). La gestione integrata della fascia costiera: un’applicazione al litorale Domitio, in provincia di Caserta, Atti del Convegno Nazionale “Coste Prevenire, Programmare, Pianificare”. Maratea, 15-17/05/2008, Studi e ricerche della collana dell’Autorità di Bacino della Basilicata n. 9, 309-319.

Sacchi M., Molisso F., Pacifico A., Ruberti D., Vigliotti M. (2014). Evoluzione olocenica del Lago di Patria, Campania: un esempio Mediterraneo di laguna costiera associata a un sistema deltizio, Global and Planetary Change. 

De Leo P. (1988). Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Di Mauro Editore

 

 

 

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IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë  L’ina Casa)

IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë L’ina Casa)

Posted on 22 gennaio 2024 by admin

Ina Casa 2NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I diffusi manufatti abitativi vernacolari, dei centri minori e dell’agro Arbëreşë, qui presi in esame, hanno convinto a perseguire questa pista di indagine o ricognizione, con lo scopo di sensibilizzare le amministrazioni locali; in figure di genere, ordine e grado pertinente.

Il tema mira al recupero di un patrimonio largamente esposto ai disastrosi operatori, che non avendo misura e formazione pertinente hanno lasciato che il valore di questi storici manufatti, venisse deturpato dalle ire del tempo e dell’uomo munito di pico e accetta.

Quello che oggi ereditiamo dopo questo intervallo sciagurato, è lo stato di degrado rilevato, per il nulla fatto, verso questi esemplari unici dell’edificato vernacolare

I quali si sono potuti difendere solo grazie alla buona scelta dei materiali locali impiegati e resistono in autonomia alle avversità, offrendo a noi tecnici, un’ultima opportunità al loro cospetto, perché allievi dalla “Scuola Olivetara” e dare cosi una nuova era di rivalsa dopo l’indagine qui in proposta.

Questi esempi di architettura vernacolare irripetibili, sono ormai sulla via della terminazione e, in molti casi non si tratta più né di conservare e/o restaurare pur se presenti, ma siccome ignorati, hanno preso la via della terminazione.

Questa breve constatazione non vuole essere atteggiamento accusatorio o di giudizio, degli interventi pubblici o privati, posti o non posti in essere, ma piuttosto un tentativo di sensibilizzazione e trarre l’attenzione, su quanto non è stato fatto per la conservazione di antiche strutture, prive sia di rilievo per la memoria e sia di progetti a fini conservativi.

Inoltre si è constatato che gli esempi disponibili quelli vernacolari, monocellulari denominati Katoj, Moticelljè, Kocellja o Kallive, sono stati poco considerati, mancando una seria attenzione o interesse per la conservazione, che avrebbe dovuto seguire le regole del restauro, per la memoria che avvolgono questi luoghi.

Gli stessi e unici in grado di raccontare o meglio il teatro della storia antica e quella più recente sino agli anni sessanta del secolo scorso.

Quella storia che i letterati, o meglio gli scribi che non sanno di carta lucida, matite e righelli, ma carte e penna per annotare e certificare per conto di chi li ha preceduti, favole di miti diversi senza cavallo.

La possibilità di vedere in tempi brevi realizzato un progetto di ricerca vernacolare, con trasparenza per la sua origine ispiratrice dell’inesplorato mondo tangibile e intangibile degli innalzati storici, fatti dagli Arbëreşë.

Il rapporto, tra scuole locali e beni culturali, sarà uno dei passi fondamentali per aprire un nuovo protocollo di tutela innovativo, che parte dal basso per impedire la deriva di abbandono sino ad oggi lasciata alle ire del tempo.

Allargare l’interesse partendo dal basso con le scuole locali, pronte alla formazione nuova e, poi terminare nei piani alti delle istituzioni sino ad oggi assenti, pur se formate, ma mancanti di leggi specifiche verso il vernacolare Arbëreşë

Le considerazioni che qui seguono e prima sono trattate, mirano ad illustrare quali prospettive potrebbero avere le esperienze pregresse del gruppo di lavoro, le stesse utilizzate e riversate per sensibilizzare le nuove generazioni, verso questi manufatti locali, nelle scuole dell’obbligo lì di fianco e, identificate come vernacolare identitario delle proprie famiglie.

È chiaro che prima di avviare questo percorso di tutela, bisogna giungere ai risultati preposti, con l’ausilio di alte indagini in argomento vernacolare e con la stessa sensibilità utilizzare l’analisi, materica, che possa garantire quali sono gli di edifici civili o eventualmente religiosi e, dopo i protocolli di rilievo, da allegare a memoria del progetto di recupero a farsi, onde evitare di incorrere a errori che ne possano smarrire per sempre l’essenza.

Questo lavoro di rilievo grafico, fotografico, e materico serve a identificare e catalogare, ogni cosa dell’edificato vernacolare della ricerca, previo la definizione di un protocollo con la individuazione di fonti archivistiche e bibliografiche dello stato del modulo, anche se inglobato in edifici di epoca più recente gli stessi che caratterizzano numerosi edificati rinascimentali, diffusamente presenti nelle provincie meridionali.

Lo studio e l’analisi ormai sviluppate e pronte ad essere applicate, potrebbero alimentare future attività di lavoro e recupero del patrimonio vernacolare, gli stessi non contemplato nella tutela dei beni culturali e in specie relativi o caratteristica inequivocabile del territorio minoritario Arbëreşë, anche perché, la legge di tutela 482/99 ad oggi, non è arricchita con le disposizioni dell’art. 9 della costituzione Italiana.

Già consapevoli, dalla corposa, ma lacunosa, documentazione custodita dalle istituzioni tutte, si è partiti con il verificare numerosi centri antichi e i relativi cunei agrari, avvalendosi dell’effettivo stato di conservazione dei manufatti in loco.

Il materiale in elaborazione è stato schedato facendo riferimento, quanto più possibile, alle reali condizioni delle strutture e il materiale che compongono i manufatti.

Il rilievo e le indicazioni grafiche fotografiche e di osservazione in presenza, daranno seguito alla composizione di schede sulla base del comparto di indagine specifico, con le quali si vogliono fissare e fermare lo stato delle cose di conservazione in atto.

Tutto questo per avere lo stato all’interno di ciascuna specifica Manxzana (Rione tipico di Iunctura Arbëreşë) dello stato a seguito di specifico sopralluogo, relazione tecnica, oltre a specifica nota descrittiva, contenente i riferimenti di osservazione materica degli elevati e gli orizzontamenti di piano e lamia di copertura, oltre la descrizione del continuo dei manufatti articolati nel corso degli anni, in tutto, lo stato finale del bene culturale vernacolare Arbëreşë.

L’indagine mira a catalogare sia edifici sul territorio preso in esame, sin anche quanti distrutti o resi ruderi dal tempo e dei quali restano frammenti di testimonianza in resti di fondazione ancora, presenti sotto le eventuali colture.

A breve saranno reso noti reperti non catalogati o addirittura noti, dei quali si ha memoria nei vari sopralluoghi effettuati.

Allo scopo e stimolare ulteriori studi da parte degli specialisti o dalle giovani leve che portano la notizia nei propri ambiti familiari come domanda per ricevere risposta scientifica in seguito.

Alla catalogazione seguirà un’ampia informativa storiografica, o aggiornamento sullo stato della ricerca, in ordine della storia locale, la toponomastica, riferita al comune preso in esame.

Per quanto riguarda i materiali, visto il tema di indagine, si mira a produrre o allestire un Prontuario o manuale che ne dia ampia illustrazione.

Saranno date alle stampe illustrazioni fotografiche e grafici di memoria, al fine di fermare lo stato di quanto sarà descritto, e di quanto scoperto, anche inedito.

Con la consapevolezza che indagini di questa caratura, voglio restituire un lavoro unico di questo genere, l’auspicio o l’augurio vuole che quanto a breve esposto, sia un utile strumento per gli specialisti di nuova generazione o studiosi delle cose di storia locale.

Tutto questo ad iniziare con il comparare quanto di vernacolare innalzato nei centri antichi e dell’agro, specie quanto riferibile in prima stipula degli atti di sottomissione degli Arbëreşë.

Gli esempi estratto dai numerosi o risalenti alle disposizioni delle celle monastiche di area bizantina; le vetrine di genio vernacolare primo, la stessa metrica indagata e riproposta in epoca moderna, dai più illustri architetti del razionalismo del secolo appena trascorso.

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Pietra angolare

GJITONIA SISTEMA ABITATIVO VERNACOLARE IN RADICE CONVIVIALE MEDITERRANEO

Posted on 30 agosto 2023 by admin

Pietra angolareNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel mentre ci si affannava per meglio risolvere la questione Albanese dall’inizio del XIX secolo, terminando con la discutibile legge 482/99, nel mondo dell’architettura si innalzavano i valori Vernacolari, con protagonista: il sud della penisola balcanica, il sud dell’Italia, il nord della Tunisia e Marocco e sino al sud della spagna, del portogallo e dell’isola di Ibiza.

E se i comuni legislatori avessero mirato verso esperienze di tal senso forse oggi quella legge non avrebbe tante lagnanze a suo sfavore.

Un dato rimane ed è inconfutabile, ovvero, non si possono setacciare millenni di avvenimenti, per poi ridurre tutto a minoranza o al lamento di una lingua altra o previlegiando la sua origine a Sud della penisola balcanica, per poi appellarla Arberia, regione storica a Nord di quella nostra terra madre.

È tempo di conversare utilizzando l’appellativo “Regione Storica Diffusa degli Arber”, al fine di identificare parallelismi sostenibili e concreti del bacino Mediterraneo.

Attualmente si riconosce il paesaggio come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione della popolazione, assumendo la funzione di bene non statico, ma dinamico.

I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo  sono la prova evidente e ancora viva nella memori di ogni individuo.

La rapida urbanizzazione e la crescita di grandi città, l’accelerato sviluppo tecnologico e scientifico e l’emergere di mezzi di comunicazione e di trasporto di massa hanno mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, con la produzione di nuovi edifici e strutture, forme e tipologie edilizie senza precedenti, con il ricorso materiali sperimentali.

L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno creato paesaggi massicciamente modificati nonostante fossero identità locale o memoria storica di particolari eventi di non poco conto.

Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi sia tumultuosi e sia dell’identità locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni tutelati per i loro valori come patrimonio culturale.

Per questo, troppi luoghi e siti del patrimonio sono a rischio e, quando prima termineranno d’essere memoria.

Sebbene l’apprezzamento dell’architettura modernista, della metà del secolo, stia crescendo in alcune regioni, l’insieme di edifici, strutture, paesaggi culturali e siti caratteristici prima rurali e poi industriali del sono pericolosamente esposti o minacciati da una generale mancanza di consapevolezza, riconoscimento di tutela.

Troppo spesso sono aggrediti da processi di riqualificazione, da modificazioni inappropriate o semplicemente dall’abbandono inseriti in processi di modernizzazione che non hanno nulla a che vedere con i valori distintivi per i quali furono elevati o allestiti all’uso comune o privato.

Qui voglio difendere tutto ciò, in particolar modo tutti gli elevati realizzate dall’uomo e dei quali oggi non si prevedono sanzioni, in quanto non codificati o ritenuti storicamente attendibili, e quindi indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, diffusamente ignara della storia di luogo.

Memoria di una infinità di figure senza nome, distintesi a vario titolo, perché operosi in area locale, divenendo estremi, assoluti, nelle opere dell’arte per rispondere a esigenze o ai bisogni, di uomini silenziosi, in tutto, opere prime senza clamore.

Ed è per questo che non hanno trovato ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali, con i quali se ti confronti, sono pronti a difendere tragedie e opere d’un autore, un monumento, una chiesa, la facciata di un palazzo, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è confermato.

Ma nessuno si rende conto del bisogno che hanno le identità di luogo, valore estremo anche se minimo per i residenti, più di ogni mastodontico monumento o della più raffinata arte pittorica.

A ragion veduta dovrebbe essere posta attenzione particolare per ogni anonimo locale, specie se privo di identificativo famoso, specie se fa parte del vernacolare del costruito dei nostri Katundë.

L’Architettura senza architetti tenta di spezzare il nostro limitato concetto di arte del costruire, introducendo il nome non familiare di architettura senza pedigree.

Essa è così poco nota che non abbiamo neppure un nome per lei o di un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla dialettale, anonima, spontanea, indigena, rurale, a seconda dei casi.

Naturalmente non entra nello scopo di questo breve fornire una storia concentrata dell’architettura senza pedigree, e neppure una sua tipologia sommaria.

Essa dovrebbe solamente aiutare a liberarci dal nostro ristretto mondo di architetture ufficiali e commerciali, certamente inquadrare l’architettura senza autori, consente di rielaborare il significato di alcuni termini quali architettura “spontanea”, “minore” e “anonima”, operazione utile a definire il contesto di riferimento di questa ricerca che dall’Inghilterra e partita questo agosto.

Il lessico ed una precisazione di significato appaiono obbligatori soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini simili, anche se lo scopo vuole riferirli in Arbër.

È necessario approfondire quei termini che nel tempo sono stati usati, con accezioni molteplici, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo”.

Nella storia dell’architettura tale aggettivo è stato più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, una serie di opere apparentemente povere, legate a contesti locali, costruite con materiali del luogo e tecniche tradizionali.

Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea come sinonimo di architettura povera è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze primarie che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore.

L’architettura vernacolare è definita come l’architettura tipica tradizionale di un determinato luogo, realizzata secondo le esigenze locale, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle e utilizzando prodotti e materie prime locali secondo quello che si ha a disposizione.

L’architettura vernacolare è quindi un modo di costruire attento all’ambiente in cui sorge e alle tradizioni locali, l’aggettivo è una parola latina e compare infatti solo a partire dal XVIII secolo.

Essa non è altro che la pratica del genio locale, che dispone le cose in funzione del territorio su cui si sviluppa e degli abitanti.

Un edificio ideato secondo le tendenze dell’architettura vernacolare segue tre criteri dello sviluppo locale sostenibile (sociale, economico, ambientale) e promuove le attività sociali e professionali all’interno di una identificata area.

Gli immobili sono costruiti servendosi delle risorse disponibili è il vantaggio mira al costruire per essere le più durevoli contro le avversità e le condizioni metereologiche della macroarea in questione.

L’architettura vernacolare partecipa largamente alla rivalorizzazione del patrimonio, iscrivendosi così in un contesto di rispetto dell’ambiente e il clima occupa un posto di rilievo se non il primo a cui mirare, nell’immaginario architettonico, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di riscaldamento, mentre il raffrescamento e affidato al sistema murario e dei varchi accesso e controllo delle vie articolate.

Un edificio costruito secondo i principi dell’architettura vernacolare come “un edificio appartenente ad un insieme di costruzioni nate da uno stesso movimento di costruzione o di ricostruzione”, ovvero un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato la realizzazione.

Fanno parte di questa categoria le Moticellje, le Kalive o Katochi Arbër, di tutta la Regione Storica meridionale, dalla loro origine estrattiva e poi via via sino alla fine del seicento divenute le note case a profferto, i trulli a quadrilatero e dalla copertura conica, costruiti con massi di calcare, provenienti dai campi limitrofi.

Le case della costiera amalfitana e di tutta la costiera campana del tirreno, le case dell’estrema dura spagnola e delle isole del mediterraneo centrale.

Ne capitolo successivo si darà ampio e seguito dettagliato all’argomento, che aprirà un più ampio stato di fatto, per il riconoscimento di alte istituzioni preposte alla tutela della Regione Storica Diffusa degli Arbër e della loro terra di origine, nella grande penisola balcanica del mediterraneo.

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TEMINI DI MEMORIA INTIMA CHE SI RIVERBERANO DAL 28 FEBBRAIO 1985

TEMINI DI MEMORIA INTIMA CHE SI RIVERBERANO DAL 28 FEBBRAIO 1985

Posted on 27 agosto 2023 by admin

Chiesa CodraNAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se hai capacità di sussurrare agli elevati della Regione Storica con garbo ed educazione, ti risponderanno in lingua Arbër, con racconti di genio locale, così precisi e profondi, sin dove le fondamento poggiano e reggono le cose del nostro Katundë.

A tal proposito va rilevato che l’architettura delle popolazioni rurali, non è stata progettata da architetti o alti designer professionisti, in quanto le comunità, dalle famiglie proprietari si adatta all’ambiente e segue le esigenze della popolazione e del territorio dove è collocata. Per rispondere al caldo dell’estate e il freddo dell’inverno.

In tutto una tipica tradizionale di un determinato luogo, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle, utilizzando prodotti e materie prime secondo quello che si ha a disposizione, diventando l’edificato, modo di costruire attento all’ambiente e alle tradizioni locali, che per questo restano preservate. 

Ragion per la quale, saperla udire ed avvertite standole non più lontano dal tuo cuore è il modo per conoscere il resto delle cose, e varcare la soglia dove vive la storia.

Potrai udire i riverberi di quanti li elevarono e vi abitarono, in tutto le verità che manca allo scriba di ogni epoca, o quanti, non avendo misura per ascoltare e, comprendere cosa sia realmente accaduto, lungo lo snodarsi delle rughe, dento gli abituri di porte gemellate a mezza aperta; proprio lì dove l’igiene era compito affidata al tetto quando pioveva, gocce che scandivano lo scorrere del tempo e davano ritmo al conversare antico.

Ed è solo così che potrai comprendere ogni cosa se conosci la lingua e tradurre in forma comprensibile ogni cosa, riferita in battiti di cuore.

Con “le verità di luogo” emergono sin anche le giornate dal 12 e culminate il 18 agosto del 1806, con l’eccidio del Vescovo, un continuo riverbero di trame oscure senza soluzione di continuità iniziato nel 1799, con protagonista primo Pasquale Baffi, tutti episodi di una storia violenza, contro la solida credenza, che nel corso dei secoli è rimata incancellabile nella memoria di tutti i cittadini e impressa nei selciati coperti da catrame e cemento di qui luoghi del centro antico.

Cosi come deve essere memoria ogni episodio che ha visto giovani figure tragicamente mancate agli affetti delle famiglie, da quello storico ‘99 ad oggi e, fuori dalle mura natie.

Di questi, ogni nome e ogni cognome lasciamolo al ricordo e il dolore intimo dei familiari che ricorderanno sempre, tuttavia e. siccome si tratta di ragazzi e ragazze, nel mentre si preparavano alle cose della vita come protagonisti primi, sono diventati memoria velata, per la comunità intera, che oggi preferisce ammirare la trama dei veli evidenziai dalla polvere.

Tuttavia e per cancellare dubbi sarebbe opportuno apporre una stele, con su scolpiti cognomi appuntati e nomi estesi, per la memoria storica del Katundë, quella che appartiene ai suoi abitanti, gli stessi in continuo vagare camminano privi della memoria, delle cose, degli uomini e dei luoghi, oggi sempre più calpestati perché, memoria non  opportunamente mantenuta con rispettosa lucidità, compresa il grafito primo, davanti alla prospettiva violata della bimba appena concepita Adelina,  e mai nata per l’egoismo locale ancora in vita.

Quando avrà termine, egregi e ignari signori il gioco napoletano detto, “delle tre carte”,  onnipresenti devoti, che in base alle poste in gioco ora fanno i buoni poi i cattivi e in fine buttano lacrime al fianco dei poveri malcapitati che credevano di vincere, ma il gioco perverso li vuole sempre perdenti.

Le cose della “nostra storia” sono così e nessuno, mai avrà alcun beneficio civile, religioso o politico, perché poi alla fine troverete sempre uno che sa delle vostre lacrime.

Per questo è inutile associare “arche di stelle colorate” senza misura” thë mesj Jonë!!!!!” il quadro che appare non è certo quello che ogni volta speriamo possa esser giusto, tanto voi non siete artisti, perché come la gretina, avete marinato tutte le fasi sella scolarizzazione.

Attività inopportune e, prive di ragione senso e garbo d’essere; voi così………..,…,…..infangate irripetibili momenti di storia del passato locale, senza mai, prendere atto, dello sbigottimento diffuso specie verso gli onnipresenti documentaristi ormai istituzione, che non approvano queste attività di luogo inopportuni.

Ormai non si allestiscono altro che manifestazioni che ritenere, più volte labili è un complimento, per questo, sarete ricordati come barche, in balia degli eventi, privi di orientamento culturale e ogni genere comune di buon senso o garbo.

Appartenere alla categoria che condisce con grasso che cola, dal genio prescelto, lo stesso che arde vivo per comando occulto, rievocate solamente la isterica Ngulia dell’esaltato Frappitta.

A tal proposito sappiate, che distruggere e umiliare anfratti inermi, storia e uomini è un peccato culturale che nessuna penitenza, potrà mai ripulire, dal male che provocate, sarà inutile poi rivoltarvi nei vostri sogni e chiedere perdono, il risveglio vi dara conferma che il male fatto è stata cosa vera e solo il tempo lungo potrà cancellare.

Le figure eccellenti non sono ingredienti per condire storia a vostro piacimento, anche se d’istituto orchestrato. Esse non sono spezie per condire il vostro soffritto che bolle in angoli storici, mentre il fumo e i vapori prodotti, deturpano memoria.

Non sarà utile integrarlo con il macinato naturale di Stango, millantato come frammento genuino del vostro sapere, perché a ragion veduta è solo fumo dei vostri occhi.

Ormai vi resta solo stendere a terra Miletë, Sutaninë, Sutanërasj, Zoghen, Gipuni, Kesë e Shiale di porpora, immaginando che l’esaltar donne moderne, fa notizia di genere ed esalta i luoghi.

Pretendere di sapere cosa voglia dire, nel gergo militare, stendere a terra gli emblemi identitari, già eseguito oltre oceano senza e ancora averne misura dopo cinque decenni della vergogna conferma lo stato della vostra cultura, immaginata in giogatura alta, a tal proposito sappiate che non appartiene a voi ma al popolo che avreste dovuto rappresentare.

Tuttavia, un merito vi appartiene distintivo, ovvero, quello di accogliere tutti  gli individui capaci di masticare e spargere odio, separare persone, al solo scopo di reprimere iniziative di cui non avrete mai capacità d’intenti privi di cattiveria seminata lungo le rughe davanti le porte degli sheshi, specie se sono luoghi ameni di memoria buona.

Questo vi rende l’esempio primo, della culturale ormai in fase terminale; tuttavia, la cosa ancor più grave sono le figure che vi illuminano, vi orientano e vi esaltano, le uniche delle quali vi fidate senza prendere atto che, quando si accoppiano con voi conservano aghi spacciati per fare ricamo o rammendo, in realtà attrezzi di magia per accecare l’occhio del cuore e della mente che spargerà gocce di sangue in pena.

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È IL TURNO DELLA “SCUOLA” DI PALAZZO GRAVINA E, DELL’ALLIEVO DI LUNGO CORSO ARBËR (Arrëvoj moti i zhotjtë thë nghëruiturat me krje Arbër)

È IL TURNO DELLA “SCUOLA” DI PALAZZO GRAVINA E, DELL’ALLIEVO DI LUNGO CORSO ARBËR (Arrëvoj moti i zhotjtë thë nghëruiturat me krje Arbër)

Posted on 05 agosto 2023 by admin

CatturaNapoli Adriano

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La Facoltà di Architettura dell’Università Federico II, ha la sua sede storica in Palazzo Gravina di Napoli, è proprio qui in questo anfratto partenopeo, dove un tempo si estendevano le proprietà della basilica di Santa Chiara, nasce la prima indagine del “Genius Loci Arbanon” e, la storia del ricercatore Arbanon per i nuovi stati di fatto mai indagati.

È in questo elevato, grazie a eccellenti maestri di antica radice, i soli in grado di tramandare, tasselli essenziali ed irripetibili, per la tutela del costruito storico, agli allievi, migliori perché mai distratti.

Tramandando un modello di comportamento nell’indagare, in prima analisi generale, poi di confronto degli elementi finiti, in seguito connettere e articolare per costruire la tessitura più solida per sostenere il progetto, con sostanze del passato, del presente, a garanzia dell’isostatico futuro.

Sino a quando avremo ancora vivo il “solitario ceppo con le radici profonde”, è confermata la speranza che si possano innestare i germogli citati e, ottenere fusto, rami, fiori e frutti, di solida essenza Olivetara.

Oggi restano vive le nozioni riverberatesi nel cortile di Palazzo Gravina, che coprivano sin anche il riecheggiare di fastidiosi suonatori senza voglia di studiare, diversamente da quanti restavano irremovibili e attenti alle lezioni in corso.

Solo questi acquisirono i principi antichi, poi riversati anche nelle trame del costruito storico dei Kalabanon, Arbërj e Arbanon, dallo scrivente sempre vigile e presente, perché la scelta era stata per passione.

Sono queste nozioni solide e inossidabili, in seguito poste a germoglio buono, grazie ai casati cattedratici dell’eccellenza partenopea, quali: Alisio, Bove, Bisogni, Cantone, Capobianco, Cardarelli, Casiello, Cocchia, Distefano, De Felice, De Fez, De Seta, Fusco, Giura, Renna, Rubino, Vitale e altri, tutti Professori appartenenti, all’olimpo della ricerca, e tutti assieme sapevano far distinguere e dare valore al costruito storico, fedele al luogo naturale e utile agli uomini.

E un loro allievo con questo bagaglio di sapere, per l’attività svolta, ha iniziato innestare, i germogli conservati nello scrigno, della Regione storica diffusa degli Arbër, che non sono espressione di lamento in lingua altra, ma principi di azioni, fondamentali per tramandare le cose di tutti gli Arbër, ovvero di quanti, vissero serenamente con sacrificio e dedizione.

Se non fosse stato per questi grandi maestri della “SCUOLA” di Palazzo Gravina e, i principi di studio per il buon progetto di tutela, in campo di indagine storica, opera prima di tempo e genio locale, dal 1977 al 1982, seguito dal tirocinio nelle botteghe dei citati maestri/e, (imposti per risparmiare danaro a favore di germanici), oggi gli Arbër non avrebbero avuto chi potrebbe innestasse, molto più di una “lingua altra”.

Per questo la ricerca in lingua altra va caricata a dorso d’asino e portati nelle stalle dei mittenti perché prive di criteri del continuo, con aggiunte stilistiche, demolizioni di edifici per fini veicolabili o falsi valori ambientali anche modesti.

Per non parlare del “diradamento” o “isolamento” dei monumentali, attuati con violentando il tessuto edilizio, con le appariscenti coloriture romaniche, di superfici e infissi, delle antiche prospettive, per questo si affermano gli interventi di risanamento conservativo, basati su una preliminare profonda valutazione di carattere storico-critico, essenzialmente consistere in:

  1. a) consolidamento e tutela delle strutture essenziali degli edifici;
  2. b) eliminazione delle recenti sovrastrutture a carattere utilitario dannose all’ambiente ed all’igiene;
  3. c) ricomposizione delle unità immobiliari per ottenere abitazioni funzionali ed igieniche, dotate di adeguati impianti e servizi igienici, o altre destinazioni per attività economiche o pubbliche o per attrezzature di modesta entità compatibili con l’ambiente, conservando al tempo stesso vani ed elementi interni ai quali l’indagine storico-critica abbia attribuito un valore;
  4. d) restituzione, ove possibile, degli spazi liberi storicamente destinati a giardino ed orto;
  5. e) istituzione dei vincoli di intangibilità e di non edificazione o superfetazioni invasive.

Tutto questo, come definito nelle attività della carta di Gubbio, do si ravvisava, già da allora la necessità della valutazione storico-critica, secondo omogeneità di giudizi, affidata ad una commissione di alto livello formativo, da affidare ai professionisti qualificati, in tutto per avere stretta connessione con la commissione regionale dei Piani Regolatori, distribuendo così uniformità di intervento.

Tutto questo per liberare il territorio da interpretazioni di funzionari acerbi e senza, capacità intuito e vedute ambientali in continuità con la storia dei luoghi

Ma ce di più e, lascia a dir poco perplessi gli studiosi, sono, le lacune di innesto moderno tramandate di generazione in generazione, le quali invece di sollevare indignazione diffusa, sono vanto folclorico, scambiata per  eccellenza locale, in fine esposte come architettura parlante di una non meglio identificata arte.

Infatti il popolo più longevo del vecchio continente, distintosi per millenni per le solide attitudini identitarie, non è concepibili sintetizzarlo al mero dell’abuso edilizio come esercizio, o nella compilazione alfabetica, quando basterebbe guardarsi dento e scoprire, un codice alfanumerico, ripetuto perennemente dai battiti del cuore e memorizzato nella mente, di chi nasce Arbanon.

Sono i luminari, di cultura che dalle cattedre di Palazzo Gravina, hanno seminato perle di saggezza e, tutte assieme contribuiscono oggi a leggere, l’Ambiente naturale dei Katundë, secondo lo scorrere lento della storia di ieri, di oggi e dei domani.

È da Palazzo Gravina che parte, per la prima volta, un nuovo stato di fatto per leggere con attività di studio, pluri temi, i trascorsi e le eccellenze della popolazione Arbanon, particolarmente, partecipi, alla storia del mediterraneo, senza mai smarrire la consuetudine murata dai cuori e le menti dei suoi figli.

Sono sempre loro a non temere il tempo, tramandando la fede della promessa data, il genio seminato negli ambiti attraversati, bonificati per poi essere vissuti, in fraterna vicinanza con gli indigeni.

Parlare evidenziando, storia, fatti, cose tangibili e intangibili, oltre al genio locale degli Arbanon, non è cosa semplice e alla portata di comuni figure o esperti mai emigrati fuori dall’orto botanico familiare.

Onde evitare ciò, è bene precisare che prima di ogni altra cosa, è opportuno essere cresciuti all’interna di una famiglia di radice Arbanon e, per affermare sé stessi e la propria discendenza, deve aver vissuto di suoni, sudori e conquiste, ottenute, ascoltando dai tempi delle fasce, la zappa che sfrega sulla terra, quando era il momento di seminare, mentre in fasce, si cresceva sotto l’ombra degli ulivi o tra i filari delle viti.

Se questi suoni prodotti dal metallo quando separa la terra, non sono stati ascoltati, assieme al crepitio delle radici che si facevano la strada per germogliare; è il caso di fare altro, evitando così di allestire alfabetari per danno.

Scrivere la storia con protagonisti luoghi cose e uomini delle terre della penisola italiana, dalla parte meridionale, in continua allerta mussulmana, non può esimersi dal parlare di popoli alla ricerca di luoghi per fare famiglia, in tutto l’ambito ideale per vivere e progredire in simbiosi con la natura, quella più mite del mediterraneo.

L’elenco di queste genti in perenne movimento, pone in evidenza proprio gli Arbanon, nati non per reprimere, sottomettere o conquistare le terre di altri simili, ma l’esclusivo piacere di avere il privilegio di essere presenti e poter vedere sorgere, illuminare e tramontare, il sole più buono le terre più miti per l’uomo.

Di questa popolazione e sono molteplici, in questo breve, si vogliono esporre le cose e i fatti che hanno visto protagonista la minoranza indoeuropea più radicata del vecchio continente, ovvero gli Arbër, gli stessi ad aver vissuto le terre dei Balcani prospicenti l’Adriatico e confinanti con i Greci.

In tutto, essi sono i discendenti primi dalla frammentazione dell’originario popolo protoindoeuropeo, imparentati dal condividere, oltre al patrimonio linguistico, anche numerosi tratti sociopolitici, religiosi e culturali.

Costituiscono per questo la parte più genuina dei popoli d’Europa, storicamente fedeli al principio di non sovrapporsi ad altre genti e, né avere privilegi o incutere soprusi contro quanti già presenti.

Essi amano gli ambiti naturali per depositarvi la propria arte, la consuetudine, la credenza e tutte le cose genuine, perché genti di una fioritura comune, inclini a sostenere la natura del luogo e la propria specie.

È noto un principio, secondo il quale, bisogna avere il coraggio per essere critici costruttivi verso le cose che si amano, solo così si diventa guida, via maestra, cammino sicuro per le nuove generazioni.

Chi è legato alla storia dei luoghi natii o di adozione, non deve esimersi da questo obbligo, specie se l’argomento tratta delle eccellenti figure, la complessità dei sanciti che definisce gli elevati storici, il patto per il mutuo soccorso, espressi e ripetuti a torto dai fascicolatori seriali, che fanno “la coda” perché frequentano gli archivi.

Per iniziare e parlare degli accadimenti centrali, il punto di partenza degli oltre cento agglomerati urbani, non può che essere il XIII° secolo.

E’ ad iniziare  questo intervallo che si dispongono e si sviluppano gli agglomerati urbani e, prendono forma le macro aree secondo parallelismi, di memoria importata dalla terra di origine.

Iniziare è opportuno avviare lo studio con l’analizzare la città di Napoli, notoriamente nota per l’impianto greco romano, senza poi mai continuare ad approfondire la regolarità del cielo, la terra da quello che non appare.

In altre parole gli ordini popolani allocati tra la via Furcillense e il mare, la strada che in maniera a dir poco edificante viene banalmente definita Spaccanapoli.

In definitiva un’impinto urbano con la radice greca a cui sono state sovrapposte nelle varie epoche modelli romani, in continua evoluzione di forma dalla collina di Caponapoli sino alla Furcillense e poi da questa nel costone sino al mare con temi arabo bizantini.

Un banco tufaceo ricoperto da una coltre di lapilli puteolani e vesuviani, stratificazioni databili secondo le eruzioni vulcaniche, che le popolazioni subivano con caparbia devozione ricostruivano i mutevoli scenari in elevato.

Allo stato mancando precise notizie attribuite alla introduzione del culto religioso in Grecia, è da supporre che le colonie delle diverse nazioni si stabilirono in comune accordo, avesse­ro ciascuna le Guida e le cerimonie religiose del proprio paese, di modo che venisse col tempo a creare un sistema distribuito, secondo cui le varie parti di memoria, in: Celesti, Terrestri, ed Infernali:

i primi si chiamavano (Epurami), abitatori del Cielo, (Athanati) immortali;

i secondi, abitatori della terra, (Eroes) Eroi;

gli ultimi, sotterranei i terminati (Limès) Frontiera.

Una volta riconosciuta e individuata la progressione medesima, si calcolavano le porzioni territoriali, adibiti a credenza, radice, difesa, sostenibilità.

Dopo questa breve premessa, indispensabile a definisce il centro antico dell’originario sito, da cui estrapolare elementi utili per comprendere quali siano state le direttrici di sviluppo, successivi all’originario impianto greco a cui ebbero seguito disposizioni romane, bizantine o egizie/arabe, senza mai sfuggire al vigile controllo, delle due Aquile bicipiti che dominano e definiscono tutti i confini.

Due aquile che guardano a Nord e a Sud, limitando l’Est e l’Ovest, col il proprio corpo orgogliosamente esposto nei punti strategici pronti a generare stradioti.

Partendo dalle tre direttrici storiche che seguendo il sole da est a ovest, organizzano la citta di primo insediamento con i regolarissimi cardini, che se pur detti di matrice romana erano organizzati secondo consuetudini greche.

I tre decumani che rappresentano i solstizi dell’anno solare, originariamente raccontavano lo sviluppo del centro antico ovvero, la Strada della Somma Piazza, il superiore; la strada del Sole e della Luna il centrale e La via Furcillense l’inferiore, tre decumani, storicamente presenti a definire e dividere i dettami del Cielo della Terra e del Termine.

Tre limes che dividono citta la parte Greca, dalla Romana, da quella inferiore, dopo la Furcillense sino al mare, di estrazione rispettivamente Bizantina, Alessandrina e Araba.

E lo studio di queste epoche Partenopee, che riversata nelle macro aree delle sette regioni del meridione uniformano, l’edificato urbano dei cento Katundë Arbër, compreso la capitale Napoli.

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USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

Posted on 06 aprile 2023 by admin

Colore

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, perché poco attente alla conoscenza utile per le minimali cose da valorizzare, maliziosamente, hanno taciuto dando valore con men­daci ed ingrate osservazioni, di alcuni stranieri non parlanti, non potendo sfug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno avuto, per questo, modi di trovare altrove agio, sanità e quiete, sotto questo amenissimo clima proposto con la pro­tezione delle maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

A rivendicare dunque il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria, rendeva necessario un sito come Scesci i Passionatit che in  forma di manuale, ne met­tesse con chiara  parsimonia lo stato fisico e morale di ogni cosa e figura, in modo che anche uno svagato lettore che vo­glia solo deliziarsi di materiali, curiosità e avvenimenti, sia co­stretto suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi  nello stesso tempo quelle notizie che possano avere un posto sicuro, rendendo facile l’acquisire di tutte le comodità dilettevoli della storia e le cose Arbër.

Tale scopo si vuole giunge col presente lavoro e siate voi tutti giudici, o pubblico imparziale.

Se si esamina la storia degli interventi urbanistici nei “Centri Antichi IN Regione Storica”, si ha la misura di come in queste latitudini, le basi del restauro siano stati argomento mai approdato, così come l’analisi delle “tipologie edilizie” e ancor meno le direttive dei piani del colore, tutti indispensabili, per difendere questi ambiti irripetibili della storia del Mediterraneo.

Vero è che ha preso scena l’interesse del colore, non per valorizzare ripristinando lo stato storico dei fondamentali identificativi per valorizzare li luogo, ma si persegue il mero raffigurato, oltremodo, in contrasto con le leggi del buon senso, ignoto sin anche ai preposti d’ambito.

È palese constatare che nell’immagine comune, gli edifici del centro antico devono rinnovarsi, grave diventa non tener conto della radicata tradizione costruttiva e formale, che in passato ha caratterizzato l’ambiente e lo scenario urbano.

II gusto si evolve ma, soprattutto, mutano i processi produttivi in edilizia, mirando sempre più alla riduzione dei tempi di lavorazioni c dci costi, ormai uniformati ogni cosa e soprattutto luogo.

Tale esigenza va in contrasto con l’istanza di conservazione dell’immagine tradizionale e consolidata locale, di un ben identificato centro antico e, come ormai, diventata consuetudine, tendere a semplificare ulteriormente il linguaggio storico delle facciate, trasfigurando completamente il volto del costruito.

Ad esempio, in pochi anni molti edifici ottocenteschi riccamente decorati e colorati con tre differenti tinte di coronamento, allo scopo di esaltarne i valori plastici, sono stati oggetto di pittura, come gli stessi balconi e finestre, concepite per l’affaccio sulla strada e l’esposizione all’aperto di piante ornamentali, sono stati manomessi perdendo ogni valore di filtro tra l’interno dell’abitazione privata e lo spazio pubblico.

Molti altri esempi di alterazione delle caratteristiche architettoniche e decorative delle facciate potrebbero essere citati, ma è sotto lo sguardo di tutti la metamorfosi esteriore del centro abitato a causa di iniziative molto spesso di carattere individuale,

Tuttavia, addentrandoci nel nocciolo della questione e osservando il clima culturale odierno, ci si rende conto, che questo tema non ha mai raggiunto la maturità teorico-disciplinare, che potesse, dopo tante esperienze negative di varia natura, dar luogo almeno un barlume di ragione utile a sollecitare le oscure menti preposte, che preferiscono, prospettive diseducative di blasfemia se non addirittura mussulmana credenza.

La realtà dei fatti resta stesa alla luce del sole, in prospettiva storta, con le inopportune esibizioni di “non arte”; violenza gratuita verso, gli inanimati elevati, in altre parole gli inermi e statici paramenti pronti ad accogliere, o meglio subire questi messaggi a dir poco inutili.

Infatti sono gli stessi cittadini e proprietari utenti, a cui vanno aggiunti i turisti della breve sosta, che restano confusi alla vista dei concetti raffigurati di finitura, senza testa, corpo, ma dell’apparire di una coda che stridula o meglio raglia arte in strada quando è troppo tardi per tornare a casa.

Ancora oggi, infatti, la redazione di un Piano del Colore, a queste latitudini apparentemente mediterranee è un argomento ignoto, specie per gli innumerevoli dissacratori di pareti, che qui corrono scellerati, poi se il consenso arriva con il mutismo è anche degli uffici preposti, spinti dal comune disinteresse verso la tutela della storia, l’argomento assume le sembianze di emergenza sociale, a cui porre rimedio e rispondere con energico disappunto.

Ciò che ad oggi sfugge è il dato che l’abuso artistico cosi realizzato, sia dal punto di vista burocratico per le prassi edilizie private violate, potrebbe diventare un balzello civile e penale non irrilevante.

Se a questo sommiamo il dato inconfutabile che ostinandosi a compromettere superfici di muratura e imbrattare manufatti lignei, come infissi, porte finestre e lucernai, difficilmente le attività di recupero o restauro moderno, poco potranno fare se non compromettere ancora di più, con il pigmento anomalo sparso sulle superfici lignee e gli elevati storici del costruito.

Ma non è nemmeno raro imbattersi in atteggiamenti opposti, laddove il cittadino avverte che qualcosa non va, per questo riassume il disagio con una sentenza sbrigativa, rivolta a questo o quell’imbrattamento, dicendo per esempio che “è come un pugno in un occhio”, ma non basta, come sono inutili azioni di ribellione popolare, come parole indirizzate al vento che porta via, specie se rivolti alle istituzioni che nel contempo immaginano cose, di lumi d’ignoto a venire.

La radice di colore dei centri storici del meridione e specie dei paesi elevati dal XIII secolo, nasce dai rudimentali elevati, di primo insediamento, per questo, fare un’analisi specifica di luogo ed elementi naturali tipici, fornisce un quadro d’insieme pittorico, secondo il quale l’esigenza primaria degli abitanti di queste colline fu di mimetizzarsi, il più possibile, realizzando parallelismi cromatici con l’ambiente naturale e, per lo scopo assunse il ruolo di murazione ideale prima, per quanti trovarono luogo in queste colline boschive, agli albori del Età Moderna.

Paesi che si affacciano con discrezione sulla valle del Crati, offrendo gradevoli prospettive, attraverso le quali si poteva assistere al miracolo dell’apparizione notturna e della sparizione diurna.

Montuosità che per la forma dei suoi antichi canaloni, assumeva le sembianze di elefanti mastodontici, che voltavano le spalle al Crati per andare sulle rive del Tirreno.

Lo stesso fenomeno si verificava nel declivio della preSila Greca, un sistema di paesi o meglio Katundë, disposti a quote ragguardevoli e sicure, che per incanto sparivano alla visione diurna e apparivano con le fioche e tremolanti luci rossastre al calar del sole.

Oggi tutto questo non esiste più e se si va per panorami tra le colline a destra o a sinistra del fiume Crati, si possono individuare e riconoscere paesi ad oltre venti chilometri, a vista d’occhio, e pure senza occhiali, per le inopportune pigmentazioni, per non aprire pena verso le inadatte coperture.

Le pigmentazioni del nuovo costruito, per così dire, di radice pompeiana o addirittura a impronta d’arlecchino, priva di senso e di colore, va oltre i limiti della riservata decenza, che nel secolo scorso era ancora cultura, anzi oserei dire, un modello di convivenza e rispetto dell’ambiente naturale.

Tutto ciò che un tempo rappresentava la fioritura naturale di un ben identificato costruito, nel corso delle stagioni, nei Paesi, Katundë, o Frazione ha perso ogni sia connotazione per le finalità di convivenza ambientali e naturali.

Il genio degli abitanti che vivevano questi luoghi, ha ispirato sin anche il sancito dell’articolo nove della Costituzione Italiana, sono stati proprio questi ambiti ad ispirare chi dispose le basi e colse i germogli indispensabili a questo fondamentale pezzo della Costituzione del bel paese Italia.

Il colore dei numerosi centri antichi detti minori, è un esperimento naturale, che nasce dalle esigenze degli abitanti, sin dalla notte di tempi.

A ben vedere, mentre chi si insediava nelle isole o nella terra ferma a ridosso delle vie del mare, rendeva visibili il luogo abitativo, con colori forti ed appariscenti, una sorta di faro diurno per tornare a casa.

Diversamente da quanti si insediavano tra le colline e costruivano le case, cercando un compromesso tra gli elevati composti di elementi naturali locali di pigmentazione, realizzando una sorta di parallelo con lo stato agreste di fioritura d’aree.

Questo dà ragione ai numerosi elevati di pietra locale alettate e rifinite con impasto di calce, sabia torrentizia calcarea e argilla, utilizzata poi anche per dare continuità e coloritura muraria all’esterno.

Cosi come i coppi di copertura a doppia regola, realizzate con argille rossastre locali e poi infornate con scarse temperature, il fenomeno serviva a far germogliare in estate particolari muschi, che germogliavano il parallelismo cromatici della lamia di displuvio, con il contesto arboreo circostante.

Questo spiega anche il fenomeno di poca visibilità a distanza dei centri abitati di giorno e poi di notte, con le luminarie, apparire come miraggio collinare.

Per questo sostituire tetti con inadatti apparati moderno lamellari, dipingere momenti di vita e corredi, sulle superfici dei riservati elevati di luogo, diventa un esperimento senza senso e rispetto della storica consuetudine locale, ma quello che più duole si interrompe una volontà antica, la stessa che oggi potrebbero essere il vanto identificativo che magari, “i Borghi medioevali non hanno e ne avranno mai per costituzione formale”.

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Ma questa appena accennata è un’altra storia, ancor più amara, che tratta di Case favellanti, Minareti, Camini, Gjitonia, Scesci, o suonatori la Baglama seduti sulle resta delle colonne greche, uno scenario anomalo e ben lontano “thè mesi” materno, preferito dalle giovani leve al pitturarsi di Arberia.

 

 

P.S. non si dice Qendër, ma Mesë o Mesj chi non lo sa, si informi prima di scriverlo e mettersi al centro della tavola, sopra il ricamato a uncinetto, che non è un palco e ne una cattedra, ma solo un componimento casalingo per quando arrivano ospiti a ubriacarsi di vino.

Commenti disabilitati su USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

I CENTRI ANTICHI NICCHIE STORICHE DI ARCHITETTURA MINORE

I CENTRI ANTICHI NICCHIE STORICHE DI ARCHITETTURA MINORE

Posted on 31 luglio 2022 by admin

12040463NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile ) – Trattare il tema dell’Architettura Minore, non è un argomento semplice, perché nasce dal riassunto popolare, di quanti si sono adoperati ad estrapolare moduli abitativi dal costruito Maggiore.

Si può desumere che il costruito minore, rappresenta il sotto bosco, cui è attribuito il carattere identitario di case in continua evoluzione a partire dall’agro appena bonificato e pronto a germogliare.

L’insieme si potrebbe raffigurare a un bosco, dove gli elementi finiti, sono gli alberi ad alto fusto e tutto l’insieme in fioritura, specie quello prossimo alle superfici terrene si usa considerarle priva di valore e per questo mira di stravolgimenti, a favore dei sovrastati; “alberi di alto fusto l’Architettura Maggiore, la più emblematica e rappresentativa; il sottobosco con gli elementi più prossimi alle superfici calpestabile, l’Architettura Minore”.

Il sostantivo calpestabile, è stato volutamente usato, in quanto dalla nascita delle architetture minori, nulla è stato realizzato per la tutela di questi storici manufatti, nonostante il gran  numero innalzati, lamentava l’urgenza di istituire un catalogo utile a definirne epoche, volontà, ruoli e materiali.

Creare un’istituzione con finalità di predisporre attività, che  possano considerare storico non solo i palazzotti nobiliari nel suo insieme, ma la parte più intima , ovvero quella fondante il manufatto, nel corso della storia e la sua lenta crescita formale come ci appaiono oggi.

A tal proposito sarebbe stato utile aprire un nuovo stato di fatto in rilievo, grafico, materico e distributivo, che potesse rendere chiaro ai tecnici, le imprese e gli operatori e istituzioni locali, per evitare manomissioni gratuite, dello storico sottobosco.

Le ricerche, i rilievi avrebbero illustrato le tecniche di edificazione, gli elementi, i materiali e le malte utilizzate; gli schemi distributivi dell’edilizia residenziale povera, ossia le tradizioni costruttive in  equilibrio con i  luoghi e le disponibilità  abitative di quel tempo e in un ben identificato luogo

Ciò che resta dell’architettura della tradizione originaria, oggi rappresenta la parte essenziale dei piccoli centri antichi; il risultato storico di misure e proporzioni lente, dettate dallo scorrere dei secoli è per questo parte immortale.

L’edificato storico doveva rispondere alle minimali esigenze di abitabilità, non superava la doppia decina di metri quadri, la cui forma e sostanza, in pochi decenni ha mutato radicalmente il paesaggio storico, essendo stata sottoposto a carichi o sollecitazioni indicibili, le stesse che a ben vedere, di gran lunga superiori alle ragionevoli sollecitazioni di laboratorio, che i tecnici sono  abituati a riconoscere come benevole.

In altre parole, modeste abitazioni nate in forma di aggregati lineari o articolati in radice estrattiva, la cui consistenza non andava oltre il piano terra con l’aggiunta di un piano superiore, oggi diventate le fondamenta di costruzioni a tre, quattro livelli, con solai in cemento armato le di cui murature sono sollecitate da carichi spingenti di coperture,  mutando pesantemente la sostanza costruttiva e il paesaggio; carichi fisici e forme innaturali  riconducibili a espressione di luogo, non più compatibili in sicurezza.

Quella che oggi non ha più il ruolo di sottobosco, il costruito minore, è stato trasformato nel corso di alcuni decenni, in forma moderna residenziale, l’edilizia degli alloggi a costo irrisorio, economia a scapito dei rudimentali e originari elevati esistenti, le fondamenta di edifici destinati ad attività più moderne e complesse, in tutto,  strutture povere, senza alcun fronte estetico e materico in risposta alle sollecitazioni della statica e della dinamica.

“L’Architettura minore”, definita attraverso il Novecento, oggi vive dentro  i manufatti o insiemi, i quali è attribuito il ruolo di ambiente dei monumenti, “l’Architettura Maggiore”.

Mettere a fuoco i possibili significati che l’espressione “architettura minore” è un modo per rispondere al tema dell’equazione identificazione/tutela di un modello costruttivo sviluppatosi nel corso di  secoli.

Per terminare questa diplomatica sul costruito minore,  urge analizzare con dovizia di particolari gli  ambiti costruiti e modificati come oggi si presentano, attraverso , studi, comparazioni, analisi e progetti a scala diversa, fino alle proposte per affinare le tecniche di intervento, con lo scopo di ridurre l’impatto delle trasformazioni in disaccordo dell’uso, la cui risposta potrebbe mancare ai parametri di sicurezza e abitabilità  degli abitanti o dei turisti di breve durata.

Le architetture minori e il loro percorso evolutivo specie nei piccoli centri storici, sono un’emergenza latente, che va indagata con metodo; le amministrazioni responsabili, invece di adoperarsi in attività di accoglienza estiva a dir poco fuori luogo, celandosi dietro i paraventi dell’accoglienza culturale, dovrebbero attivarsi a indagare cosa sia stato caricato su quelle murature del passato.

Non è tempo più di fare i bimbi viziati, che vedendo i propri genitori capaci di camminare, caricano sulle spalle pesi che un tempo non si sarebbero affidati, neanche al mulo di Don Eugenio, il più robusto e caparbio mulo del paese, che oltre misura lui in quanto mulo scalciava, spezzando le corde di carico del basto, cosa che non possono fare le architetture dette minori.

Quando poi tutto sfugge di mano, è inutile chiamare antropologi confusi e senza ragione culturale, che non sapendo cosa dire, argomentano l’utilità di tutelare le processioni storiche, mentre la politica si attivano a demolire il paese, per prassi  economica condivisa.

È inutile rendere responsabile della culturali il mulo di Don Eugenio, il meschino resta sempre un mulo e più della sua forza bruta nulla può aggiungere; non gli si può chiedere disegni di prospettiva di chiese con minareti, o muri con finti panni stesi al sole, mentre quelli veri li indossa ancora sporchi Don Eugenio.

I centri storici minori, specie quelli di essenza etnica, non hanno bisogno di attrattori pittorici o grafiti di altre culture, per fare turismo e attività ricettive, in quanto, gli sheshi storici devono essere colmati  di consuetudini, ovvero i romanzi, a cui ogni figura del luogo, senza escludere nessuno, possono fornire elementi utili a innalzare i parametri economici grazie al ricordo locale delle figure più emblematiche che vi lasciarono storia.

Il ricordo quello che la minoranza festeggia a maggio con le valje, il momento più alto dedicato al costumi e la credenze, le stesse che  da millenni, senza l’ausilio della scrittura o di altro prodotto, che non sia il cuore e la mente, fanno parte del nostro essere minori.

I paesi di regione storica hanno solo urgenza di essere vissuti per tutelare i luoghi ameni; non serve, l’ausilio dei segni, per ricordare e comprendere la propria natura o il proprio passato, altrimenti a breve, viste le capacità di dialogo “litirë”, finiranno tutti per raccontare e disegnare realtà inesistente, riportate dagli ultimi che qui vi transitano per essersi smarriti in campagna perché non sapevano nulla fare.

Gli abitanti di un ben identificato centro antico, conservano autonomamente la propria memoria storica e nonostante tutto, hanno solide riserve di autonomia, quelle che li rende gente unica, perché in grado di uscire da casa e fare vita sociale, come usavano i nonni che per dare luce alle modeste case del sottobosco, usavano la calce e coprivano il fumo nero accumulato nel corso dei freddi inverni, gli stessi che iniziavano a oscurare le prospettive , ma solo all’interno delle case.

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REGIONE STORICA ARBËRESHË FIGLIA UNICA DELL’IMPERO CON CAPITALE COSTANTINOPOLI

REGIONE STORICA ARBËRESHË FIGLIA UNICA DELL’IMPERO CON CAPITALE COSTANTINOPOLI

Posted on 13 febbraio 2022 by admin

213725595_138178398424219_5901055145669427821_nNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Lungo il fiume Adriatico prima che sfoci nel mare jonio, dalla metà del XIII secolo ai primi decenni del XVI, le terre del meridione italiano, diventarono luogo parallelo di accoglienza dei principi, dei fondamenti e delle credenze che sostennero l’impero, sino a quando la capitale fu Costantinopoli.

Quel patrimonio sociale di credenze e consuetudini, unico e irripetibile, venne affidato alle genti che andranno a disporsi in quella che oggi s’identifica come Regione storica diffusa Arbëreshë.

Queste antiche terre che si insinuano nel bacino del mediterraneo, notoriamente considerate il banco di prova diffuso di tutti i popoli del vecchio continente, alla spasmodica ricerca di luoghi dove predisporre principi, cose e valori sostenibili per una lungimirante convivenza.

Ogni gruppo, una volta approdato in questo paradiso mediterraneo, predispose e segnò quelle terre con attività e cose in comune convivenza con la natura, escludendo tra questi l’impero romano quando la capitale era allocata nelle odierno terre laziali, tuttavia tutti gli altri, senza colpo ferire, innestarono germogli e temi per una seconda opportunità sostenibile,  realizzando modelli abitativi, sostenuti dai valori religiosi, quali, Romitori, Chiese, Oratori e complessi monastici.

Dell’Italia, a tale scopo e in maniera più attiva, nel periodo su citato, fu scelta la lingua di terra meridionale, diventa l’ambiente fertile per innestare le radici evolute nell’oriente bizantino, il cui interesse prioritario nel corso del tramonto dell’impero mirava a tutelare i valori di credenza iconografica della cultura di credenza, oggi ancora vivo nonostante le tante evoluzioni dello scorrere del  tempo e alle cose degli uomini.

Ritenere oggi, che i valori tutelati dalle genti della Regione Storica Diffusa Arbëreshë, possano esse alchimia idiomatica  innestata in un banalissimo sostantivo fuori luogo e tempo, è un errore a dir poco infantile e non più tollerabile.

Far risalire questo patrimonio vivo e indelebile in sette regioni, raggruppanti oltre cento paesi, in ventuno macro aree, ritenendoli il frutto  proveniente da la Luna, o  battaglie contro i mulini a vento di Donchisciotte della Mangia e Saggio Panza,  terminando nei banali  valorizzatori estivi, i quali, invece di migliorare la qualità della ricerca, inquinano e rallentano il corso della conoscenza, devastando documenti cose, case e fatti.

Non può essere più tollerato da nessuna figura politica, istituzione, civile e religiosa, perennemente raggirati  dalle cose de la Luna, di Saggia panza e dalla Mangia kisciottesca e dei tematici termo valorizzatori che bruciano ogni cosa.

Allo stato delle cose e per evitare che le ilarità culturali dilaghino e prima che diventino piena incontenibile, che infanga ogni limpida cosa, è bene porre fine a questo fenomeno apponendo a difesa della cultura una nuova generazione, barriera ideale, di figure competenti, capaci e motivati con temi idonei, per assumersi la responsabilità storica di tutela, con senso e grado il patrimonio della regione storica.

È tempo di avere consapevolezza delle cose vere che appartengono e fanno parte della regione storica, le quali, di sovente sono sottovalutate, per far brillare campanili in forma di camini, senza rendersi conto che ironicamente, il genio della pittura in pellegrinaggio, li ha riproposti in forma di minareto turco-fono; l’antica deriva culturale da cui gli arbëreshë vennero nominati per sfuggire per salvare la radice.

Adesso si battono i tempi post pandemici, che vorrebbero riavviare l’economia, secondo i dettami della ripresa e resilienza locale, una nuova deriva economica posta in essere a dir poco gratuitamente, questa se non idoneamente valutata, potrebbe rivelarsi pericolosa, se applicata senza le dovute cautele storiche, come già successo durante la delocalizzazione in monte Mula, questa infatti venne attuata senza aver scritto un rigo della radice storica arbëreshë.

Spetta alle persone munite di senso di sopravvivenza storica, predisporre misure temi e contenuti in forza della tutela del patrimonio che non è solo della regione storica, ma del genere umano intero, specie quello antico del mediterraneo che è stato sempre la fiamma per orientarsi.

Questa non è una questiono tra il tempo grande e il tempo piccolo, questo è il momento di tutelare un patrimoni inestimabile, quello vero e non quello dei personaggi misere, capaci di tradire caparbiamente fratelli arbëreshë o addirittura scambiare camini per minareti perché lo vociferano le architetture parlanti con vesti abusive e cancerogene degli anni sessanta del secolo scorso.

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