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PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

Posted on 17 gennaio 2025 by admin

GIORGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreşë e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.

Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.

La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.

Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.

Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.

Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.

La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano si a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.

Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.

Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.

Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.

L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.

Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord Giovanni Castriota, uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.

Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariati e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.

Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.

Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.

Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare  ad Alessandro Magno.

Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.

Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbër, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.

Portò a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti, sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana di tornare, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.  

Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.

Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.

Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto  di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perché quest’ultimo pare fosse  morto da qualche; entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariati dei Castriota.

Tuttavia l’atteggiamento denotava lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; vero è che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Arbanon a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.

Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.

Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.

Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la“Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica  tipica dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.

I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbëreşë.

E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già comunemente denominato Scanderberg.

Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, così dicendo:

“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbër, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piuttosto mi volgerò a espor, quale sia stata la cagione delle nostre disavventure; acciocché di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.

Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandosi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.

Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’usurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopo di che fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).

E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ove trovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.

Imperciocché: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni degli Arbër restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.

O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.

Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbër, tutti gli Arbër volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura, ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’Arbër la perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi, e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocché si disponga alla necessità de’ rimedi.

L’unione è l’unica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.

L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un, si recente, e un si illustre esempio.

Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo, e insuperabile fiume.

Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.

Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia po alcuna travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.

Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.

 Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento, di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.

La battaglia di Morava (per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi una poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.

Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.

Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Aarbëreşë, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi. Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.

Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiore agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.

L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva la regione arbëreşë, infonda nei Principi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”

La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.

Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreşë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.

Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.

Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.

A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Aarbëreşë era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.

Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbëreşë, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Aarbëreşë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.

Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).

Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove fu accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero.

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Comneno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.

Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso in Palazzo Reale il 27 Agosto del 1469 si pagano un ducato e un tari per far trasportare la roba di Madama Donica, moglie, che fu di Scanderbeg, alle case di Pietro Cola d’Alessandro che qui dimora sino al 1477, per poi tornare a vivere all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le furono affidate finanche le discendenze reali e la giovane figlia di Vlad III affidatale sino a raggiungere l’età per maritarsi.

La vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.

Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.

Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreşë”.

Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comneno, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono a essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.

A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:

i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;

i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.

In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.

Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.

Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreşë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.

Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbëreşë, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreşë.

Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.

Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.

Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene  utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.

Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.

Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.

Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.

Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa,  il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.

Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.

Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.

Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani del XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.

Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di lì a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.

Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.

I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:

“la giornata del risveglio della fratellanza Arbëreşë”

Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).

Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbëreşë “le Vallje”.

 

 

** – Nel Volume II° della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani – quando è tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellati non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo popolo, voleva dire:  “comunemente Scanderberg.

 

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Regno

I TEORETI ARBËREŞË CHE COPRONO LA GJITONIA CON PENA DI VICINATO (Conosco le strade e trovo tutte le case dove ha abitato la storia) U dji udetë e cìognë shëpitë i fiallëvetë thë mendë

Posted on 03 dicembre 2024 by admin

Regno

Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gjitonia è un concetto o principio cardine per la formazione culturale degli arbëreshë, ed essa, va oltre il semplice o banalissimo significato di mero “vicinato” di radice Materana.

Il termine di origine tardo antica che va oltre i tempi dei Saraceni, raccoglie, gestisce e valorizza l’insieme sociale secondo cui si univano “tutti i nostri” letteralmente tradotto nella parlata degli Arbëreşë e, riassunto in Gjitonia o Gjitonàtë.

La radice gjit- assume il senso di gjithë (che significa “tutti” – “intero”), con l’aggiunta del suffisso -on o -oni, che indica appartenenza o connessione di un determinato gruppo di famiglie “tonàtë”.

Nei contesti diffusi delle comunità Arbëreşë, Gjitonia è il luogo simbolico ideale per l’interazione sociale, di mutuo aiuto e gestione condivisa della vita quotidiana, assumendo per questo e così, il solido ruolo delle donne nel campo delle politiche della famiglia allargata, assumendone la guida del governo e in specie per la formazione educativa delle leve di genere in crescita formativa.

Essa, ingloba la coesione sociale, secondo concetti antichi delle terre dei Balcani e, senza alcuna soluzione di continuità storica, in ogni dove si sono trasferite le famiglie di uno stesso gruppo di Iunctura allargata, si è data vita a questo nido ideale di necessità, riseguendo e rispettando consuetudini antichissime per il buon esito sociale.

Gli aspetti secondo cui definirla o accostarla al mero vicinato indigeno, offende il valore identitario di questo protocollo e delle genti che ne sanno fare uso, oltre le numerose risorse sociali e di genio che i popoli in grado di attuarle ne ebbero agio.

Ma non solo questo, infatti si sminuiscono le operose radici, che non terminano di germogliare ancora oggi, e restano sempre pronte e volte ad accogliere quanti, le hanno tagliato e bruciato il tronco.

E nonostante tutto la rivedranno a breve fiorire, visto il bisogno generato dalle numerose derive che attanagliano le odierne società intese, pur non essendole civili, solidali e sicuramente inopportune per le nuove generazioni che vedono nella politica di parte il germoglio di seminato buono.

Gjitonia era e ha rappresentato, per secoli, il luogo della scuola, per le nuove generazioni, dove trovare risposte ai bisogni quotidiani per il portamento sociale più corretto, dedicata e diretta verso ogni necessità, di tutte le nuove leve secondo cui erano allevate e valorizzate, senza prevaricazioni, se non per le proprie attitudini o attività utili al sociale, senza mai discriminare niente e nessuno.

Qui vigeva il valore comune per il supporto pratico, come accadeva per i lavori agricoli, inserendo o disponendo le menti in crescita orientandoli per il migliore agio, nelle attività del governo degli uomini.

Tutto questo, trovava una solida radice nel sistema di Iunctura urbana dei Katundë, favorendone i temi della socializzazione sia in inverno che in estate e, questi spazi condivisi, senza recinzione alcuna, rappresentavano i teatri naturali o ideali trampolini, dove si dimostrava praticamente di saper conversare, raccontare, cantare e tramandare l’idioma arbëreşë secondo movenze culturali tipiche di chi non possiede modelli scrittografici.

All’interno della Gjitonia si delineavano e rafforzavano le norme di comportamento tradizionali, assumendo all’occorrenza, anche la funzione di tribunale, condotto e diretto dalle donne, riportando rimedio ai piccoli conflitti, senza ricorrere alle autorità formali o far intervenire quello degli uomini laboriosi.

Essa non si limitava al contesto abitativo privato o di tutti il sistema urbano, ma con e come cerchi concentrici senza limes, faceva riecheggiare patti intimi e concreti, tra famiglie legate da vincoli di promessa data, in tutto un’antica espressione condivisa e nota e intrisa dei valori dei cinque sensi.

Questo concetto è particolarmente significativo nei Katundë arbëreşë, dove la disposizione di iunctura familiare fornivano la giusta dimensione per innescare, giusti principi di coesione comunitaria, contribuendo attraverso la civile e attenta conservazione di usi, costumi e gesta che legavano la collettività, rafforzandone il senso di identità e appartenenza dell’antica promessa data: “Besa”.

Gjitonia, evidenzia aspetti e profondamente culturali, giacché la traduzione letterale “tutti noi” o “tutti i nostri” denota, accentuandone il valore condiviso e indissolubile di un determinato gruppo o collettività relativamente al senso di appartenenza, caratterizzando questa realtà unita.

Inoltre, gli intrecci condivisi, delineano un ambito ideale pulsante che solo l’insieme delle madri conosce e allestisce quotidianamente e dove trovava prevalenza ilgoverno delle donne”, il che suggerisce e da senso al ruolo centrale che esse ricoprivano nella gestione delle relazioni quotidiane, a livello pratico, simbolico e della credenza superiore che non era mai unica.

Nasce legittimo lo descrivere la Gjitonia come un luogo dei cinque sensi, una dimensione poetica o spazio indefinibile, perché volubile, in contino progredire o regredire di componenti inclusi o esclusi, in cui le attività di vita quotidiana si manifestavano in tutte le forme, come dialogo, suoni, odori, colori e tatto delle di mani operose che si tendevano per aiutare; in tutto, una visione affascinante e profondamente umanistica della solidità sociale degli Arbëreşë.

La Iunctura familiare allargata, tratta e riferisce di un modello abitativo che privilegiava l’aggregazione di più nuclei familiari imparentati, struttura comune, con spazi in cui erano condivisi anche aree private, un modello di sviluppo in risposta a esigenze pratiche come:

  • La sicurezza nei periodi di instabilità politica e incursioni avvenute nel corso dei secoli, generando un’economia secondo una scala di risorse naturali e strategiche come pozzi, forni e cortili.
  • Il rispetto della tradizione culturali relativa ai legami familiari che era sopra e prevaleva riconosciuto da tutti il rispetto e la coabitazione dei valori sociali nelle Gjitonie: tuttavia, ben presto venne influenzata dalle famiglie divenute a seguito di matrimoni più nobili, ed è da questo momento che gli originari valori egualitari, influenzarono fortemente l’organizzazione urbana, e le il vivere nelle proprie case, essendo tutto divenute luogo di cultura spesso includevano più generazioni e rami familiari, modificandone fortemente il modello della Iunctura familiare originario.

Tutto questo, incise fortemente nell’organizzazione degli insediamenti, rafforzandone il controllo sociale e garantire una gestione efficiente del lavoro agricolo e dei redditi garantiti a figure totalitarie.

La Chiesa, con la sua rete capillare di parroci e addetti, ebbe un ruolo importante nella diffusione di modelli abitativi comunitari, sin anche nella definizione e il circoscritto di specifici rioni.

Le confraternite e le organizzazioni ecclesiastiche, sempre di più, promuovevano l’assistenza reciproca e la coabitazione tra famiglie imparentate, specie nei contesti urbani, dove si allestivano valori metrici e di misura; con i noti, monti del grano.

Nei centri rurali e semi-urbani, furono le comunità di contadini e artigiani a rendere la Iunctura familiare una prassi consolidata e, vista la necessità di cooperare per il lavoro nei campi o nelle botteghe, favorì la creazione di unità abitative integrate a mulini, botteghe e attività artigiane utili al bisogno agreste silvicolo e pastorale e, in specie del trasporto a dorso di animali e carri.

In molti casi, l’organizzazione degli spazi era funzionale alla gestione collettiva delle attività lavorative, attraverso norme di urbanistica e tassazione, influenzò indirettamente il consolidarsi della Iunctura.

L’accentramento delle abitazioni consentiva un controllo più agevole sulle popolazioni e facilitava la raccolta di tasse e tributi, a tal fine furono promosse politiche che rafforzavano il modello urbano basato su rioni organizzati secondo gruppi e famiglie più estese.

Il modello si diffuse prevalentemente nei centri collinari e montani, dove la configurazione del terreno incoraggiava l’addensamento abitativo ed è così che i centri antichi abitati e sostenuti dagli Arbëreshë, sono un caso particolare, dove il modello della Iunctura familiare si estese alle tradizioni più intime, trasporta di tempi della diasopra, nel cuore e nella mente, tuttavia con il tempo, il modello si evolse per rispondere ai cambiamenti sociali ed economici:

L’espansione del centro antico a storico e la nascita di una classe borghese portò alla trasformazione degli spazi abitativi.

Tuttavia, in molti centri arbëreşë, il modello della Iunctura familiare rimane visibile nella struttura dei palazzi e dei rioni, con spazi comuni, cortili, scalinate e vicoli irregolari.

In sintesi, la diffusione del modello di Iunctura familiare fu il risultato di una combinazione di influssi popolari, ecclesiastici, nobiliari e poi dell’espansione dei centri antichi a cui le conseguenze economiche definirono la nuova Gjitonia, supportata da esigenze economiche e sociali che caratterizzarono le comunità.

L’ambiente naturale quando venne vissuto dagli Albanofoni ha subito trasformazioni in mutua convivenza con i parametri morfologici, orografici, della flora, della fauna e climatici, fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambito paralleli per addivenire alle tipologie urbane ancora leggibili;

  • il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, era costituita da un unico ambiente in cui vivere, con i pochi animali domestici, difendere le poche suppellettili e conservare alimenti;
  • il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale e botanico per i farmaci Naturali.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli Arbëreşë lentamente, hanno riposto il modello familiare allargato, assimilando esigenze di famiglia urbana e in seguito in tempi più recenti, vive il modello della multimedialità metropolitana che ignora le cose comuni.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, ha inizio la disposizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari e poi via via sempre più estesi e irriconoscibili.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati, tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica romana a scapito di quella greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat, oggi diventati i viali di espansione che non hanno regole familiari, ma necessità economica come ai tempi dei romani.

E’ sempre Gjitonia ad essere protagonista incontrastata, nel corso dei secolo, a dare agio alla famiglia allargata, facendola diventare famiglia urbana, oggi dopo gli anni sessanta del secolo scorso, vive nella misura metropolitana delle cose moderne, avendo a memoria poche cose riferite secondo le necessita dell’apparire e dei campanili locali che esaltano i singoli a scapito dei legami sociali che attendono rimedio e accoglienza per i tanti cuori li depositati a pulsare per far vivere quegli ambiti ameni.

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KRÙNDJEN E ZUNURATË ARBËREŞË TROVA AGIO TRA LA TERRA DI SOFIA E LE MURA DI NAPOLI  (lljeva Zëmëren ndë Katundë pësè besa imè hështë me motë e gjalë)

Protetto: KRÙNDJEN E ZUNURATË ARBËREŞË TROVA AGIO TRA LA TERRA DI SOFIA E LE MURA DI NAPOLI (lljeva Zëmëren ndë Katundë pësè besa imè hështë me motë e gjalë)

Posted on 20 settembre 2024 by admin

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GIS e Beni Culturali: beni tangibili e beni intangibili GIS and Cultural Heritage: tangible and intangible assets Caterina Gattuso a, Atanasio Pizzi b, Valentina Roviello c

Posted on 22 giugno 2024 by admin

a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it

bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it

c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it

 

Abstract

La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.

In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.

Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in  una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.

 

Abstract

The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.

In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.

The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.

 

Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili

Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage

 

  1. Introduzione

Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.

La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.

Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.

I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.

  1. Beni tangibili e aree archeologiche

La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:

  • alla ricostruzione della stratigrafia del sottosuolo, che nel tempo è stato condizionato da frequenti variazioni eustatiche e da eventi vulcanici, con conseguenti interdigitazioni di depositi di ambiente marino, alluvionale, vulcanico, e la formazione di una circolazione idrica sotterranea superficiale (Sacchi M. et al., 2014, Amorosi A. et al., 2012);
  • allo studio dell’uso del suolo e della geo-morfologia costiera dall’antichità ad oggi, ossia lo studio dei processi di tipo naturale o antropico che hanno determinato l’evoluzione del territorio e della costa (D’Ambra G. et al., 2009, Ruberti D. et al., 2008);
  • allo studio delle popolazioni floristiche e faunistiche che popolano l’area, mirato alla conservazione del paesaggio, conferendole un’importanza non solo a livello naturalistico, ma anche ecologico (l’Oasi dei Variconi e la Pineta di Castel Volturno) (D’Ambra G. et al., 2005).

Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.

All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera).  L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).

 

Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le  aree interne dal mare, ma   anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.

 

  1. Beni intangibili e cultura arbëreshë

Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).

Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.

Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:

Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);

Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);

Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);

Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);

Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);

Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);

Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).

 

         Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.

 

Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.

La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.        

L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.

 

 

  • Carte storiche e disposizione dei centri urbani

 

L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.

 

 

L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.

Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).

Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.

 

Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.                                         

Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:

  • il recinto delimita il territorio ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, anch’essa circoscritta dal cortile, costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;
  • il giardino, luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.

Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).

 

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso  B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .

 

Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.

 

Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).

Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).

La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.

Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo    degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.

L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).

Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.

 

Conclusioni

Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.

Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.

Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.

In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un  importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.

Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.

 

References:

Amorosi A., Pacifico A., Rossi V., Ruberti D. (2012). Incisione tardo Quaternaria e deposizione in un ambiente vulcanico attivo: il riempimento della valle incisa del Volturno, Italia meridionale, Sedimentary Geology., 282, pp. 307-320, ISSN: 0037-0738.

Capasso B. (1905). Napoli Greco Roman, Arturo Berisio.

Cirelli F. (2006). Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato 1853 – 1860Calabria  Papato edizioni per conto della Soprintendenza della Calabria

Crimaco L. (1991), Volturnum, Quasar Edizioni – Roma, ISBN 88-7140-027-5 .

D’Ambra G., Petriccione M., Ruberti D., Strumia S.,Vigliotti M. (2005). Analisi multidisciplinare delle dinamiche dei caratteri fisici, antropici e vegetazionali nella Piana Campana (CE), Atti della 9° Conferenza Nazionale ASITA, Catania, 15-18/11/05, vol.1, pp. 843-851.

D’Ambra G., Ruberti D., Verde R., Vigliotti M., Roviello V. (2009). La gestione integrata della fascia costiera: studio e correlazione di variabili a carattere biologico, ecologico, chimico e sedimentologico del Litorale Domitio, in Provincia di Caserta, Atti 13° Conferenza Nazionale ASITA, Fiera del Levante Bari, 1-4/12/2009.

Dodaj P. (1941). Il Kanun le basi morarli e giuridiche della società albanese, Besa.

Giura, V. (1984). Storie di minoranze: ebrei, greci, albanesi nel Regno di Napoli. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane.

Gonzalès R. A. (2005). Exstremadura Popular Casas y Pueblos, Collezione arte/arqueologia.

Mandalà M. (2007). Mondus Vult decipi – i miti della storiografia arbëreshë, Pa: A. C. Mirror.

Mazziotti I. (2004). Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Edizioni il Coscile.

Pizzi A. (2003). Sheshi i Pasionatith.

Roviello V. (2008). Analisi geologico-ambientali del litorale domitio e del basso corso del fiume Volturno, Tesi magistrale inedita.

Ruberti D., Strumia S., Vigliotti M., D’Ambra G., D’Angelo C., Verde R., Palumbo L. (2008). La gestione integrata della fascia costiera: un’applicazione al litorale Domitio, in provincia di Caserta, Atti del Convegno Nazionale “Coste Prevenire, Programmare, Pianificare”. Maratea, 15-17/05/2008, Studi e ricerche della collana dell’Autorità di Bacino della Basilicata n. 9, 309-319.

Sacchi M., Molisso F., Pacifico A., Ruberti D., Vigliotti M. (2014). Evoluzione olocenica del Lago di Patria, Campania: un esempio Mediterraneo di laguna costiera associata a un sistema deltizio, Global and Planetary Change. 

De Leo P. (1988). Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Di Mauro Editore

 

 

 

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LA CHIAVE ALBANESE”, UN DIBATTITO ATTORNO AD UN’IDEA REALIZZATA PER SCUTARI

Posted on 02 giugno 2024 by admin

AAAA

ALBANESE

Tashmë kur gjithçka ka përfunduar dhe që do të finalizohet me inaugurimin më 6 qershor 2024, ora 17:00, kur përpjekjet rraskapitëse, debatet dhe diskutimet e tensionuara, kanë mbetur pas, kërkoj me përulësi leje, të ndaj me ju disa mendime dhe të qasem të sjell disa sqarime, për atë që ka nxitur një zemëratë publike, evidentuar kryesisht në mediat sociale.

E ndjej detyrim të jem përballë atyre, me shumë prej të cilëve njihem, bashkëndajmë mendime për artin dhe na dhemb çdo plagë e Shkodrës, siç na lumturon dhe na bën krenar gjithçfarë kësaj përkatësie të qytetarisë dhe kulturës, i jepet si një shpërblim, të asaj që është dhe asaj që do të mbetet, në kresht të lartësimit.

Pata privilegjin të jem i mikluar nga një dhuratë kaq e begatë, të jem kurator i skulpturës monumentale “The Albanian Key”, e cila është vendosur në hyrje të Shkodrës, siç nuk u gjenda i befasuar nga stuhia që u ngrit prej reagimit qytetar. Paraprakisht e kam informuar autorin e veprës, Alfred Mirashi – Milot për atë çfarë do të shoqërojë vendosjen e skulpturës, për papajtueshmërinë, mospranimin dhe keqkuptimin që do t’i rrethvijë kësaj kurajoje artistike, për të guxuar dhe besuar te arti novator, te risitë, te ajo që ka premisë të sjellë një mënyrë ndryshe të ndërtimit të marrëdhënieve dhe ofertës komunikuese, si me qytetarët e interesave periferike për artin, ashtu edhe për ata që janë artistë.

Jo vetëm kjo formë e komunikimit artistik që Milot rreket të formësojë përmes një ide-konceptim revolucionar, por çdo ngulm estetik në historinë e progresit shoqëror, është ndeshur me një qëndresë, shpesh të pakalueshme të opinionit publik. Kjo ka çuar deri te linçimi i artistëve dhe masakrimi i veprave, por shpirti krijues ishte ai që sfidoi mbi çdo turrë drushë e zjarr apokaliptik, fyerje dhe përdhosje, tortura dhe vrasje mizore, duke triumfuar. Historia e artit ka pafund beteja të tilla, të cilat vetëm sa e kanë përsosur artin dhe ftuar publikun në një bashkëjetesë të pakonkurreshme me shijen e rafinuar estetike dhe fuqinë e mahnitshme të së bukurës.

Tendenca e qëndrimit të publikut, kryesisht atij shkodran, ndaj “The Albanian Key”, kësaj vepre arti, fituese e Konkursit Ndrkombtar “Art në hapësirën Publike”, shpallur nga ministria e Kulturs, u përball me një stinë tejet të mbarsur rrebeshesh. Shpesh mendimi i atyre që u bën pjesë e këtij kuvendimi publik, degjeneron në sharje dhe fyerje të një larmie krijuese, e denjë për një debat publik me fokus artin. Dhe kjo është arsye për të reflektuar, duke ju kundërvënë kësaj situate me maturi, durim, tolerancë dhe mirëkuptim, sepse arti vjen të ndërtojë ura e jo të thellojë hendeqe.

Secili mund të kishte dhe të ketë të drejtë, në atë që tha dhe do të thotë, në lidhje me këtë skulpturë konceptuale, që artisti e ka huajtur nga fluturimi i shqiponjës (siç është e ilustruar në imazh), e cila gjithashtu në alegorinë e saj shprehëse bart një mesazh të fuqishëm siç është çelësi, një çelës që hap çdo derë dhe çel qiejt e së sotmes së çdo shpirti. Art për tempullin e artistëve. Art monumental për qytetin që vepra krijuese e shpirtit e ktheu në monument këtë qytet. Art aty ku flitet dhe jetohet për të bukurën dhe me të bukurën.

Më në fund njerëzit mund të flasin, të debatojnë dhe të parashtrojnë ide për artin. Mjaft më me kufizimet dhe ndalimin, me censurimin e fjalës dhe linçimin e mendimit. Sot më shumë se kurrë, ky legjitimitet le të triumfojë dhe arti është një vlerë e vërtetë arti, kur ndodhet nën një fokus kaq të gjerë dhe bombarduar me një interesim të admirueshëm, vetëm për një kryevepër arti.

Fjala dhe mendimi i secilit që u bë pjesë e këtij arti ndryshe, është ajo çfarë e bën një komunitet, një grup shoqëror, apo edhe një masë e madhe njerëzish, të cilët duke shfrytëzuar mundësinë e shprehjes së mendimit të tyre, të kontribuojnë që kjo vepër arti të shndërrohet në një ngjarje për Shkodrën.

Përfshirja në një debat publik të këtyre përmasave, tregon një nevojë të ngutshme të opinionit për të qenë i pranishëm në një event të tillë krijues, edhe atëherë kur gjithçka e vendos një juri ndërkombëtare profesionistësh. Ndoshta dëgjesat publike si në rastet e zgjidhjeve të problemeve me ndjeshmëri të lartë për komunitetin, duhet të konsiderohen edhe për veprat e artit gjithashtu me interes publik. Edhe nëse kjo nuk është një praktikë rutinë e mënyrës se si përcaktohen rregullat e përfshirjes së opinionit në vendimmarrje të tilla, zbatimi, me gjithë kokëçarjet që do të gjenerojë do të sillte përfshirjen e komunitetit në atë që do të jetë një event.

Sa këtu ndodhemi, kur arti luan me të tjerë rregulla loje, na mbetet të bëhemi dëgjues të vëmendshëm dhe reagues të matur, përkundër një ofensive të potershme dhe një lumi të mbarsuer nga stuhia që del nga shtrati. Secili që ka të drejtë fjalës, gëzon legjitimitetin të dëgjohet, siç do të ishte në integritetin e secilit të jetë në lartësinë e atij qëndrimi, me të cilin mediat e huaja dhe kritika e artit, kryesisht ajo italiane e kanë konsideruar dhe shtjelluar me një përkujdesje të veçantë.

Ekipi i “The Albanian Key”, ka trajtuar me vëmendje dhe përgjegjësi profesionale reagimet e qytetarëve për veprën. Ka mbajtur shënim qëndrimin e secilit që u bë pjesë e këtij debate, pavarësisht sensit përmbajtjesor dhe pamjaftueshmërinë për të pranuar një artist, i cili është i vlerësuar ndërkombëtarisht, por pa mundur ende të gjejë të njëjtën përzemërsi nga bashkëkombasit e vet.

Gjithsesi, e drejta e secilit të ketë një mendim dhe një qëndrim për një vepër arti publike, është eksluziviteti që i mundësohet një shoqërie të emancipuar, e cila reagon dhe përfshihet, duke shpërfaqur prezencën personale në mënyrën se si ai ose ajo vendos komunikimin.

Të favorizuar nga rrjetet sociale dhe vetëdija qytetare, lidhjet e veçanta që ka ky komunitet me artin, artkrijues dhe artpërjetues, nxiti atë që të gjithë u bënë aktorë në këtë ngjarje të rëndësishme artistike që troket në portat e qytetit të Shkodrës.

Është në obligimin e çdo krijuesi të jetë i njohur me mendimin dhe qëndrimin e çdo individi për veprën e tij, e cila është një krijesë që ai e ka ngjizur në mendime dhe krijuar në shpirt për t’ia besuar më pas një grupi të madh kuratorësh, inxhinierësh, krijuesish.

 

Tradotto in Italiano da Atanasio Pizzi Architetto Basile, con Google traduttore, come fan tutti.

Ora che tutto è finito e si concluderà con l’inaugurazione, il 6 giugno 2024, alle ore 17, una volta lasciati alle spalle fatiche estenuanti, dibattiti e discussioni tese, chiedo umilmente il permesso di condividere con voi alcune riflessioni e Questo approccio porta alcuni chiarimenti su ciò che ha alimentato la rabbia del pubblico, evidenziato principalmente nei social media.

Mi sento in dovere di trovarmi di fronte a coloro che, molti dei quali conosco, condividiamo pensieri sull’arte e ogni ferita di Scutari ci ferisce, perché ci rende felici e ci rende orgogliosi, tutto ciò che appartiene a questa cittadinanza e cultura è dato come una ricompensa, cioè, quella che resterà, al culmine dell’esaltazione.

Ho avuto il privilegio di essere benedetto da un dono così ricco, di essere il curatore della scultura monumentale “La chiave albanese”, che si trova all’ingresso di Scutari, poiché non sono rimasto sorpreso dalla tempesta che si è scatenata dalla reazione dei cittadini. Ho precedentemente informato l’autore dell’opera, Alfred Mirashi – Milot, di ciò che accompagnerà la collocazione della scultura, dell’incompatibilità, del rifiuto e dell’incomprensione che circonderanno questo coraggio artistico, di osare e credere nell’arte innovativa, nelle innovazioni, di quello che ha la premessa di portare un modo diverso di costruire relazioni e offerta comunicativa, sia con i cittadini di interessi periferici nell’arte, sia con coloro che sono artisti.

Non solo questa forma di comunicazione artistica che Milot cerca di plasmare attraverso un’idea-concetto rivoluzionario, ma ogni insistenza estetica nella storia del progresso sociale, ha incontrato una resistenza spesso insormontabile dell’opinione pubblica. Ciò ha portato al linciaggio degli artisti e al massacro delle opere, ma è stato lo spirito creativo a sfidare ogni incendio e incendio apocalittico, insulto e profanazione, tortura e omicidio crudele, e a trionfare. La storia dell’arte ha infinite battaglie di questo tipo, che hanno solo perfezionato l’arte e invitato il pubblico a una convivenza senza rivali con il gusto estetico raffinato e lo straordinario potere della bellezza.

L’atteggiamento del pubblico, soprattutto di Scutari, nei confronti di “La chiave albanese”, quest’opera d’arte, vincitrice del Concorso internazionale “Arte nello spazio pubblico”, indetto dal Ministero della Cultura, ha dovuto affrontare una stagione molto piovosa. Spesso l’opinione di chi fa parte di questa assemblea pubblica degenera in insulti e insulti di tipo creativo, degni di un dibattito pubblico incentrato sull’arte. E questo è un motivo per riflettere, affrontando questa situazione con prudenza, pazienza, tolleranza e comprensione, perché l’arte viene a costruire ponti e non ad approfondire fossati.

Tutti potrebbero avere ed hanno ragione, in ciò che ha detto e intende, in relazione a questa scultura concettuale, che l’artista ha alienato dal volo dell’aquila (come illustrato nell’immagine), che anche nell’allegoria della sua espressione porta con sé un messaggio potente come una chiave, una chiave che apre ogni porta e schiude i cieli presenti di ogni anima. L’arte per il tempio degli artisti. Arte monumentale per la città che il lavoro creativo dell’anima ha trasformato questa città in un monumento. Arte dove la bellezza si parla e si vive con bellezza.

Finalmente le persone possono parlare, dibattere e proporre idee sull’arte. Basta con le restrizioni e i divieti, con la censura della parola e il linciaggio del pensiero. Oggi più che mai, che questa legittimità trionfi e che l’arte sia un vero valore artistico, quando è sotto un’attenzione così ampia e bombardata da ammirevole interesse, solo per un capolavoro.

La parola e il pensiero di tutti coloro che sono entrati a far parte di quest’arte diversa è ciò che fa sì che una comunità, un gruppo sociale, o anche una grande massa di persone, cogliendo l’opportunità di esprimere la propria opinione, contribuiscono a far sì che quest’opera d’arte diventi un evento. per Scutari.

Il coinvolgimento in un dibattito pubblico di questa portata dimostra l’urgente necessità che il pubblico sia presente a un evento così creativo, anche quando tutto viene deciso da una giuria internazionale di professionisti. Forse le udienze pubbliche, come nei casi di risoluzione di problemi di elevata sensibilità per la collettività, dovrebbero essere previste anche per le opere d’arte anche di pubblico interesse. Anche se questa non è una pratica di routine su come vengono definite le regole per l’inclusione dell’opinione in tale processo decisionale, l’implementazione, con tutti i grattacapi che genererebbe, porterebbe al coinvolgimento della comunità in quello che sarà un evento.

Finché siamo qui, quando l’arte gioca con altre regole del gioco, non ci resta che diventare ascoltatori attenti e soccorritori prudenti, nonostante un’offensiva potente e un fiume nato dalla tempesta che esce dal letto.

Chiunque abbia diritto di parola gode della legittimità di essere ascoltato, poiché sarebbe nell’onestà di tutti essere all’altezza di quell’atteggiamento, con cui i media e la critica d’arte straniera, soprattutto quella italiana, hanno considerato ed elaborato con cura speciale.

Il team di “The Albanian Key” ha gestito con attenzione e responsabilità professionale le reazioni dei cittadini all’opera. Ha preso atto dell’atteggiamento di tutti coloro che sono entrati a far parte di questo dibattito, nonostante il senso del contenuto e l’inadeguatezza ad accettare un artista apprezzato a livello internazionale, ma senza riuscire ancora a trovare lo stesso affetto da parte dei suoi connazionali.

Tuttavia, il diritto di ognuno ad avere un’opinione e una presa di posizione su un’opera d’arte pubblica è l’esclusività concessa a una società emancipata che reagisce e si impegna, manifestando presenza personale nel modo in cui decide di comunicare. Il favorito dei social network della coscienza civica, il legame speciale che questa comunità ha con l’arte, l’ideatore sperimentatore dell’arte, ha incoraggiato tutti a diventare attori di questo importante evento artistico che tocca tutti i porti della città di Scutari.

È dovere di ogni creatore conoscere l’opinione e l’atteggiamento di ciascun individuo nei confronti della propria opera, che è una creatura che ha concepito nei suoi pensieri e creato nella sua anima per poi affidare ad un folto gruppo di curatori, ingegneri, creatori, ingegneri, creatori, metalmeccanici.

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SE GIORGIO ERA UN SANTO QUALE NECESSITÀ CORREVA PER STERMINARE IL DRAGO E APPARIRE? (Giorgio deve stare con l’elmo mussulmano di radice caprina o con quello del drago a impronta cristiana)

SE GIORGIO ERA UN SANTO QUALE NECESSITÀ CORREVA PER STERMINARE IL DRAGO E APPARIRE? (Giorgio deve stare con l’elmo mussulmano di radice caprina o con quello del drago a impronta cristiana)

Posted on 04 maggio 2024 by admin

DragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel mondo dei segni e le divulgazioni storiche di massa, trova ragione, chi, dove, perché e come invia messaggi a favore o contro avvenimenti di necessità opportunamente mirata.

Specie se i tali messaggi sono subliminali per piegare l’uomo inconsciamente, in favore di quanti vogliono sottomettere e far apparire le cose secondo un personale tornaconto di piega, come piega o diplomatica di credenza o politica di sottomissione.

Scriveva nel suo racconto di approdo degli Arbëreşë, nel regno di Napoli “Gioacchino da Fiore, teologo e filosofo italiano” che questi, si fossero insediati dopo la morte dell’eroe Giorgio, per un antico patto stipulato dall’eroe, “volgarmente appellato Scanderbeg” con i regnanti fedeli all’ordine cavalleresco del drago.

Questa affermazione del dotto e storico calabrese, è sempre stato motivo di ricerca, perseguendo il fine di comprenderne, il significato completo di quella delegittimante frase.

La risposta di tutto ciò sta a Napoli e sotto gli occhi distratti di tutti i ricercatori, che volessero dare senso e collocare, in favore di questo condottiero ricattato, provato e poi liberatosi di tutte le angherie immaginabili dall’invasore mussulmane, che per la sua ritrosia storica verso gli invasori, venne eletto, poi, dal pontefice “atleta della credenza cristiana”.

Giorgio Castriota, subì le angherie turche imposte al padre e con grande intelligenza, seppe rispondere e reagire nei momenti più cruciali della sua esistenza invita o ravvedimento in favore dei suoi genitori e dei suoi sudditi che non tradì mai.

Per questo dopo la sua morte violato il suo sepolcro fu portato in trionfale pena, dai suoi persecutori seriali in giro per le sue terre, a confermare la sua non più esistenza, cosi come dovette scappare la moglie a Napoli per difendere il suo onore e quello del marito scomparso prematuramente e dei figli, altrimenti sicuramente sottoposti alla gogna in quelle terre dall’avanzare dei mussulmani.

Giorgio Castriota in una comparsa del 1462 appare, inciso in fusione bronzea, al seguito del re Aragonese vittorioso, nella epica battaglia di terra strutta nei pressi di Greci (AV).

E in questa fusione bronzea dell’epoca, né lui e alcun altro porta un elmo, a forma di cupola islamica sormontato da una capra biforcuta, conferma ne è il copricapo di Vlad III suo compagno di avventura contro i Mussulmani che si pone al fianco di un cavaliere con un copricapo con il “segno emblematico dell’Ordine del Drago”.

Questo segna in maniera indelebile la ragione per la quale Gioacchino da fiore, sottolineava il comunemente appellativo, oltre al fatto che quando furono fatte le fusioni per collocare le statue a Tirana e Roma, come d’incanto appaiono due emblemi a dir poco impropri; il primo è il copricapo in forma “di cupola mussulmana”  sormonta da uno spaesato agnello o capretto, dirsi voglia e,  a conferma dell’ironica vicenda sono la facciate dello storico museo dell’arte  nella piazza che schematizzano forme di due croci rovesciate (?????) cosa si voleva dimostrare e perlomeno chi  ammagliare?.

Se oggi si vuole diligentemente onorare, unendo gli Arbëreşë come voluti dallo storico condottiero, con le genti addomesticate dall’slam, sarebbe il caso di deporre non sul capo ma portato a braccio sinistra l’emblema storico dell’ordine del drago.

Noi qui e mi riferisco a tutta la regione storica sostenuta e divulgata in Arbëreşë, non abbiamo bisogno di emblemi ironici che compromettono il nostro orgoglio e i nostri trascorsi storici, ma una chiarificazione che definisca le ostilità mai deposte o terminate, tra le due sponde del fiume Adriatico, sottoposte al controllo dell’aquila a due teste con un solo cuore.

Tanto meno depositarle in termini senza orientamento, magari allineati con i lavinai e i butti storici locali, che per quanti sanno di storia lasciano molto a desiderare relativamente al rispetto che si deve rivolgere verso questa figura sino ad oggi offesa e disonorato dalle genti che vivono li dove sorge il sole.

Deruta

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI E DISEGNA, PERIMETRI DI CASE, VIE, VICHI E PIAZZE (Chi Studia Tutela Valorizza e Tramanda)

Posted on 25 marzo 2024 by admin

sale

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’acqua scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, le persone che osservano dalle rive desertiche, prendono spunto dai suoi suggerimenti, e costruiscono con il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare storica memoria, ai luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva, come: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Cangellë, Sentinë, Morrë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Valga come esempio primo il Lavinaio, refluo torrentizio che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, grazie al fondamentale corso naturale dove attingere sabbia per la crescita dell’edificato originario.

Risorsa offerta dalla natura, dove fermata la sabbia con apposite barriere, in diverse grammature ed usi, grazie alle quali, venne sin anche edificata la chiesa padronale di estrazione latina del Katundë arbëreşë.

Qui grazie allo scorrere dell’acqua, operosa nel rifinire la sabbia, nel tragitto che faceva sino a valle, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare si depositavano finemente in diversa grammatura, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere nel fiume. 

In tutto acque che scendono da monte, segnando i tracciati, poi divenuti progressivamente strade vichi e scalinate, in quel tempo, fondamentali per orientarsi, secondo un progetto naturale, del centro antico in crescita.

Il tutto, fu poi per opera dell’uomo, percorso che conduce nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace, o tiene velate cose, tuttavia rimane vigile e in attesa che le sia ridata voce, dove essa scorreva o cadeva, segnando il luogo e la storia.

Infatti è stato sufficiente lasciarla libera di scorrere, affinché componesse secondo natura, quei percorsi ben seguiti dagli uomini, perché espressione di iunctura; o meglio tessitura fatta di trame di acqua e di tempo, ben accolta dall’uomo, che non le ha più abbandonate.

Ho sempre immaginato, che l’edizione di un testo, portato a buon fine, potesse sollecitare i migliori propositi revisionando e arricchi­re le cose della storia e la scienza in contenuti senza riserve, in tutto dare vivacità e “freschezza” come lungo i lavinai del passato, hanno consentito di attingere e poi in epoca moderna fa lo scorrere condiviso dell’acqua, che appartiene indistintamente a tutti.

A tal proposito si vuole sottolineare quel due di maggio del 1935, quando furono invitati tutti i fruitori in Terra di Sofia, in un luogo comune su base ottagonale, perché identificato luogo religioso sociale e religioso dei cinque sensi, per fare una festa e accogliere l’acqua nuova, senza distinzione di rioni o Gjitonie, ma rappresentanza di tutto il centro antico a quei tempi in spasmodico ardire per essere rilanciati, dopo il secondo inverno nero mondiale.

Lo stesso che dagli anni ottanta del secolo scorso, venne strappato dalla prospettiva dell’intellighenzia beneaugurante degli ignari di turno, posto molto di lato, senza una cognizione di causa, perché già prima era stato negato anche lo scorrere del fondamentale liquido naturale, che unisce e disseta le menti dei giusti.

Ed è così che il deserto storico, sociale e religioso ha iniziato a prendere il sopravvento; la pietra cementizia ottagonale, diventata desertica e, per diversi decenni, poi apparisce impropriamente alimentato con riciclo infantile, con la speranza che unisca persone a cui si vieta di usarla, in tutto impedire quegli atti sociali e di fede, che uniscono e dissetano le persone e le cose genuine.

Ed è così che il quadrangolare fontanazzo evidenzia solamente le pene dell’acqua, che non scorre come fa la Storia, ma gira su sé stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda.

In questo breve sicuramente mancherà la citazione degli attori principali ma, il testo resta un esame di eccellenza, perché da quando il riciclo ha avuto inizio, la Storia del Katundë dove tutto è diventato piatto e non sfogliare pagine di storia buona, come fa l’acqua.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico sempre presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Katundëtë; dove oggi il tempo e l’acqua, van per mano e riempiono buche, e ingannano il comune viandante ignaro.

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Chiesa Codra

IL DICIANNOVE DI MARZO PER GLI ARBËREŞ, È IL GIORNO PER CONOSCERE IL NUOVO SOLE (Motj Satë ndëromj)

Posted on 19 marzo 2024 by admin

Chiesa CodraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le stagioni all’interno della Regione storica Diffusa degli Arbëreşë scandiscono le attività terrene secondo un legame inscindibile tra uomo, natura e credenza.

Un macro cosmo, dove i protagonisti erano e restano a tutt’oggi l’uomo, i luoghi addomesticati e la variabile naturale, quest’ultima ritenuta dalla credenza popolare a servizio dalle divinità.

Queste ultime, nel periodo della semina erano chiamate in causa attraverso manifestazioni che valorizzavano il buono, rappresentato o raffigurato dalla religione e il male era ritenuto pagano, avevano così inizio manifestazioni ben oltre i limiti del buon senso o del semplice raffigurato.

Tuttavia, a scandire lo scorrere del tempo nelle attività delle genti operose arbëreshë sono “l’inverno” (Dimër) e “l’estate” (Verà); le uniche e sole “due stagioni” a cui si legano tutte le attività terrene.

E anche Aristotele nei suoi trattati riferiti degli uomini; prediligeva, in quanto Greco, quanti vivevano negli ambiti collinari, in quanto strategicamente idonee per la formazione degli uomini; e i detti luoghi forgiavano e rendeva più propensi alle attività produttive oltre alle arti.

La stagione che iniziava il 19 marzo e terminava il 30 novembre, climaticamente la più soleggiata e, per questo consentiva la migliore crescita produttiva, sociale e artistica, diversamente, dagli anarchici delle zone di mare e gli associali delle aree montane.

Lo stesso calendario con i dodici mesi, qui in seguito, riportato in arbëreshë, racchiude questo teorema, in altre parole non è altro che l’espressione condivisa di due tappe temporali: la prima trova la rinascita dalla luce e il sole; la seconda il buio la notte, per consentire il riposo della natura e isolare gli omini.

Per gli Arbëreshë questi valori o tracce le ritroviamo attraverso le attività Kanuniane ligie alla socializzazione, alla produzione e il passaggio di testimone, per le nuove generazioni.

Senza mai distrarsi evitando di fare guai continuati con i giovani, ai quali se da una parte gli si dava fiducia per onorare luoghi e cose di una determinata famiglia, ma poi subito rimuovere e armarli di zappa per rassodare campi, in questa lunga stagione di rinnovamento, se non si dimostravano saggi nelle attività e le cose che eventualmente richiedevano il buonsenso atteso, nell’inverno trascorso e nelle stagioni di pena profusa.

E anche in questo caso, l’estate e l’inverno avevano un loro significato preciso, sia come pena trascorsa al buio della luce del camino in casa e come termine per la stagione della libertà, il sole che illumina ogni cosa fatta ed esposta.

L’estate e l’inverno, rispettivamente iniziano e terminano: il 19 di Marzo, il giorno di San Giuseppe; il 30 Novembre giorno di Sant’Andrea, due momenti largamente condivisi, vera e propria credenza popolare, in cui le allegorie all’interno della regione storica diffusa, si ripetono identicamente in ogni dove, con riti propiziatori in cui il pagano, quello che offrirà il sottosuolo (gli Inferi), si armonizza con il cielo (il Divino) per rendere vivibile la vita degli uomini sulla terra (il Purgatorio).

Gennaio – Jamari – Mese dedicato a Ianus (Giano), Dio bifronte, che segnava simbolicamente il passaggio dal vecchio al nuovo anno; Ianuain latino significa “porta”.

Febbraio – Fjovari – deriva da februa “purificazione”, il mese in cui si praticano le attività per la purificazione dei campi prima della semina.

Marzo – Marsi o Shën Sepa – Mese dedicato a Marte, dio della guerra o il mese dell’Equinozio di Primavera cade generalmente, alla fine della seconda decade di marzo e, a tal proposito è bene citare un antico detto: (S. Giuseppe il -19 marzo porta il candeliere in cielo perché sarà sole per illuminare l’estate.

Aprile – Prilj – dall’etrusco Apru, Afrodite dea greca e prima ancora, fenicia: essa rappresenta la dea della forza vitale, sotterranea, che induce le gemme a fiorire.

Maggio – Maji – il mese di Maia, dea della fertilità, era in questo mese che nell’antichità si praticavano i rituali mirati alla fertilità dei campi e si apponevano amuleti per allontanare il malefico.

Giugno – Querishtua o Curishtua – il mese dedicato alla dea Iuno, cioè Giunone; tuttavia è anche il mese delle ciliegie (quèrshi) e dalla mietitura (Cuermi), tagliare accorciare, raccogliere il grano.

Luglio – Lionarj – Dedicato a Gaius Iulius Caesar, Giulio Cesare,

Agosto – Gushti – Dedicato a Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus, l’imperatore Ottaviano Augusto.

Settembre – Vjesgt – Settimo mese dell’antico calendario di Romolo che vedeva settembre come settimo mese da marzo, e per alcune culture la numerazione si dilunga sino al dodicesimo mese dell’anno; tuttavia in questo mese cade l’Equinozio di Autunno (22 o 23 Settembre) nel quale il Sole sorge esattamente a Est . Va in oltre ricordato che: “San Michele -29 settembre- porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.

Ottobre – Shën Mitri o Vreshët – ottavo mese dell’antico calendario di Romolo, gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati consuetudinari/religiosi legati alla raccolta delle uve, da qui Shën Mitri o Vreshët.

Novembre – Shën Mërtini o Vereth – nono mese dell’antico calendario di Romolo gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati religiosi e legati alla maturazione del vino da qui Shën Mërtini o Vereth.

Va in oltre ricordato che: “Sant’Andrea -30 Novembre – porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.

Dicembre – Shen Ndreu – decimo mese dell’antico calendario di Romolo esso rappresenta anche la fine del Solstizio d’Inverno che cade il 21 o il 22 Dicembre.

In questi tre mesi ultimi mesi il Sole nel cielo è stato sempre più basso ed il suo percorso sarà sempre più breve.

Napoli, 2024-03-19 dove il tempo scorre non per tutti indifferente

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TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

Posted on 10 febbraio 2024 by admin

cicòope dragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.

Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con  diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando  con numerosi esperti partenopei, amici del settore,  in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte  con senso “pratico chiaro”  e,  soprattutto, in grado di veicolare due  cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò  “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano  i maestri della bottega Olivetara  senza mai “oltrepassare” i1  campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.

Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.

In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.

A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?

Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.

Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.

Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.

Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.

In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di  essere diffusa con sapienza in musei dedicati.

Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e

ambiente naturale.

Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.

In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.

Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.

Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.

Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.

In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:

– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;

– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;

– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,

– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;

– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;

– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;

– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo

Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?

È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.

Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:

– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;

– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;

– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;

– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;

– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;

– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;

– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.

È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.

Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.

La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».

Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.

D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.

Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.

Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.),  individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.

Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.

Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.

La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).

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Catturaii

RIFINITURA DEI PALINSESTI STORICI CULTURALI NELLA REGIONE STORICA ARBËR/N

Posted on 12 luglio 2023 by admin

   Catturaii

 

“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “

“La Regione Storico degli Arbër”

(radici di Ieri, certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)

Per un più completo palinsesto storico culturale dell’estate in corso, in attività che promuovono e rilevano la storia, le cose, il genio, i costumi, le chiese, le case l’ambiente naturale dei Katundë Arbër/n, onde evitare divulgazioni, prime, seconde, terze, ecc., ecc., ecc., si propone secondo studi e analisi comprovate, i temi seguenti univocamente, solidamente definiti e comprovati all’ausilio multi dipartimentali di antica radice:

 

  1. Paese “Borgo”, o in Arbër/n, è Katundë;
  2. Rione e Quartiere, o in Arbër/n, Sheshi;
  3. Centro Antico dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  4. Piazzetta in Arbër/n, Sheshë;
  5. Vicinato, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  6. Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  7. Il valore storico dei sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  8. Municipio, Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  9. Il costume da sposa, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  10. Prospettive violate e porte vituperate in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  11. Sheshi Passionatit, memoria di cuori violati Arbër/n;
  12. Tutela dell’idioma principi e progetti sostenibili;
  13. Urbanistica e percorsi evolutivi dell’abitare secondo regole le regole Kanuniane;
  14. Chiese Bizantine, Cistercensi e del sorgere de tardo medio evo;
  15. Il collegio Corsini e le tappe degli ecclesiasti Arbër/n;
  16. La primavera degli Arber/n e la sua battaglia evolutiva;
  17. Gli uomini Primi, Secondi e ultimi dell’illuminismo Arbër/n;
  18. In Arbër/n, Gjitonia in Italiano luogo dei cinque sensi;
  19. Se un Katundë non ha: Kishën, Bregunë, Sheshin e Ka Rrin Rellëth, è Borgo con murazioni fossati e moschee;
  20. Ori addobbi e titolati alla vestizione e all’esposizione quale sposa e regina della casa;
  21. I Nascituri, Infante, Fanciulli, Donne, Spose e Madri;
  22. Giuochi, Innamoramenti, Fidanzamenti, Matrimoni e Famiglia: i tempi della Vestizione;

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