Archive | novembre, 2020

L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

Posted on 27 novembre 2020 by admin

PaestumTaucher

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La testimonianza di pittura greca è l’emblema di ogni luogo, ogni dove e ogni uomo che vive questa vita; specie per chi studia, non confronta e divulga favole Arbëreshë dal XIII secolo, giacché, la raffigurazione è la  sintesi perfetta da cui si sarebbe dovuto partire.

Il tuffatore, la sfida che l’uomo per sua scelta si appresta ad affrontare da solo senza supporto alcuno, accompagnato dalla sua originaria veste, senza la certezza di cosa troverà dietro quello specchio d’acqua sfiorato dalla luce e privo di increspature che creano ombra.

Si tuffa nudo, senza vesti, costumi o emblemi allegorici, forte solo del suo animo, la sua sapienza ed il suo corpo; con le sole nudità si appresta ad affrontare un nuovo mondo, sicuro di poter presto riemergere e confrontare vecchie con la nuova sensazione.

Così è stato per gli arbëreshë nel XIII e così lo è per tutte quelle persone che non restano fermi ad aspettare che siano gli eventi ad avvolgerli e preferiscono affrontarle lealmente con le proprie forze.

Si dice che chi si tuffa nei mari, per emigrare porti con sé costumi e beni, purtroppo questa vecchia rappresentazione funeraria greca, “radice saggia”, da torto a tutti i comuni pensatori, perché il tuffo verso una nuova era si fa solo con l’anima, la sapienza e il corpo, il resto a venire sarà una dimensione, in cui si confortano le virtù del tuffatore (l’Uomo) con la nuova dimensione ospitante (la Natura).

Il tuffatore si espone convinto del suo gesto, si adopera nell’impresa, sicuro delle sue capacità, uno slancio, una postura per incunearsi senza stravolgere la superficie della nuova era, non ha dubbi mette in gioco se stesso e non teme risvolti malevoli.

Egli va alla ricerca di nuove misure naturali che possano accogliere il suo essere, non per le cose materiali che non porta con se, ma per l’immateriale che non conosce e gli consentirà di migliorare e aggiungere cose nuove, al bene del cuore, della mente e del suo corpo, in tutto del suo genere.

Questa è una parabola perfetta per gli arbëreshë e per quanti comunemente raccontano e diffondono le conseguenze di quel tuffo, augurandoci che almeno sappiano interpretare ciò che vedono e solo quello che è.

Questa immagine oggi diffusamente si può applicare alle mille vicende che si vivono lungo le coste del Mediterraneo, ma questa è una piaga più ampia per questo, la raffigurazione deve essere un monito per tutti.

Per concludere è bene che all’interno della regione storica sia ben chiaro l’evidente stato dell’atleta,   in procinto di iniziare l’esodo; e mentre si libera nell’aria mostra tutto quello che è, non è vestito e non trascina  “bauli con le vesti della sua futura sposa” ne librerie, colme di “alfabetari”  per le discendenze.

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1799 – 2019 IL LUOGO IDEALE DOVE REPRIMERE IDEALI E PROGRAMMARE “VENTENNI”

1799 – 2019 IL LUOGO IDEALE DOVE REPRIMERE IDEALI E PROGRAMMARE “VENTENNI”

Posted on 25 novembre 2020 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal primo incontro nel suo centro culturale e poi durante le conversazioni telefoniche, Gerardo  M. e lo scrivente, erano in linea sul dato che: le conseguenze subite dai giovani pensatori del 1799, non erano riferite alla ribellione popolare, ma a una nuova linea di pensiero innovativo, che andava cancellata e non doveva lasciare traccia ereditaria.

Vero è che rileggendo la storia, annotando i particolari del disciplinare adottato, verso i giovani pensatori, emerge un dato inconfutabile, in altre parole, negli immediati momenti che seguivano l’arresto, si operava a distruggere libri editi e ogni sorta di documento scritto.

Ovvero, tutto ciò che poteva avere forma o consistenza di un discorso, erano distrutti perché considerati pericoloso, al pari, anzi peggio, di chi lo possedeva o lo aveva scritto, per questo era opportuno dare subito alle fiamme l’edito, per evitare che sfuggisse.

Solo dopo si passava al processo e al conseguente afforcamento in pubblico, mentre chi nel chiuso delle proprie case e quanti li davanti a guardare, non alzava un lamento di diniego, ne prima, ne durante e ne dopo l’esecuzione.

Le vicende di bruciare gli editi e poi eliminare fisicamente gli antagonisti reali proseguono anche fuori dagli ambiti della capitale partenopea dal giugno del 99 e per diversi anni, si racconta almeno più di cinque e meno di sette.

Le ideologie dei giovani pensatori furono soffocate e chi magari vigliaccamente le ha conservate, non avendo la cultura per comprenderne il significato, le ha usate in malo modo.

Tuttavia, la metodica di bruciare il pensiero e poi eliminare fisicamente i pensatori, è finita sin anche tra le pianure e gli anfratti del regno, senza mai terminare la sua corsa, rimanendo viva imperterrita e senza epoca.

Un esempio che conferma questa regola viene anche dagli anfratti delle colline arbëreshë, dove proprio allo scadere di quegli anni, per un millantato limite di proprietà fu soppresso un Bugliari.

Le vicende poi si accavallarono venne, l’unità, le guerre e il bum economico sino ai motti della rivoluzione giovanile.

E vista ancora la divisione sociale che aleggiava tra le colline anzidette, un comitato di affari in maniera perversa immaginò di porre guida un altro omonimo, con a cuore, non la coesione sociale, ma il buon termine della sua carriera.

Ragion per cui, lo scettro passo nelle mani di un comitato d’affari, che ritenere solamente senza cultura, garbo, dignità e onore è un eufemismo che non da misura del danno prodotto, perché, ebbe inizio la stagione della moderna metodica del 1799, sopprimere le idee degli altri e poi togliere beni e benefici gli antagonisti.

Questo penare senza soluzione di continuità andò avanti sino agli inizi degli anni ottanta, stranamente, giusto un ventennio, dove al posto della svastica era stata posta la falce e il martello; il primo per tagliare risorse agli antagonisti il secondo per fare male fisicamente.

Il ventennio trascorse con una piccola parte sociale che accumulava ricchezza, la plebe che si cibava di trapesi e gli antagonisti a penare immaginando un idolo giusto.

Vennero gli anni ottanta, e festa fu, ma Emilio, Atanasio e Carletto si resero conto solo dopo i dieci minuti che seguirono lo spoglio che il nuovo era cresciuto nello “sheshi” di chi avrebbe dovuto sostituire il comitato prima citato e così fu continuità.

A subire furono gli stessi e andare avanti, se non tutti, una buona parte del citato comitato rimase sempre in piedi e comunque sempre comitato rimase.

Nulla sarebbe cambiato nei seguenti due ventenni e la deriva assunse forme e dimensioni paradossali, dove il rispetto e la tutela, divenne una leggenda, da citare davanti al camino in forma di favola ai nipoti adolescenti.

Dopo il primo ventennio e i due seguenti, di quinquennale illusione, un segno benevolo era apparso a Ovest delle colline, illudendo però nel breve di una stagione invernale quanti annotano e hanno lucida visione storica;  constatando ora come nell’ottanta, di dover riporre ago filo e ditale, nell’attesa di un quinquennio migliore per cucire, culturale, società, politica e religiosa, dilaniata e appesa al sole a perde consistenza.

Aveva tutte le caratteristiche di una nuova era, purtroppo quel bagliore scambiato per una nuova alba, non era di sole, ma un lampo di tempesta, perché  a ovest.

A ben vedere, nella stessa direzione è allocato lo “sheshi” del primo ventennio, proprio lì, dove finiva la strada che dalla piazza doveva essere la via di tutti, ma finì privata e solo per amici.

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LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

Posted on 16 novembre 2020 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’Arbëreshë nasce agricoltore del suo sapere, moto perpetuo di sentimenti e consuetudini antiche, alimentato dalla natura attraverso il territorio circostante; riverbero ritmico di quanto posto a dimora in inverno e cultura in estate.

Esso provvede alle sue necessità vitali, per se e il gruppo a cui è parte, all’interno del suo giardino, dove innalza l’abitazione è dispone l’orto.

Il giardino è il labirinto per difendersi dai simili e difendere fisicamente la famiglia;

l’abitazione e il luogo dove vive, prolifera, difende le cose materiali, misura indispensabile nel confronto con gli eventi naturali;

l’orto è la farmacia, per cautelarsi i dai venti e da esseri  non  visibili,  per questo più pericolosi per la sua salute.

Il modello sheshi così composto, diventa il centro proto-industriale, dove si mira a rispondere agli accadimenti per la sostenibilità del modello di vita arbëreshë, basato per questo su fondamenta consuetudinarie mediterranee.

Il “luogo dei mestieri”, predisposti in accordo con l’ambiente naturale, essi diventano il teatro delle tradizioni, in cui la natura promuove il trittico alimentare e l’uomo organizza secondo i ritmi sostenibili dell’ambiente  che ne pesa e ne modifica la consistenza dell’ambiente nello scorrere del tempo.

Tra gli abitanti del bacino mediterraneo le terre dell’Italia meridionale ricadenti nel quadrilatero equipollente che si estende dalla Grecia più orientale. sino al Portogallo più occidentale tra i paralleli 37° al 43°, gli stessi che secondo il Grinvic della geografia che lo voleva anticamente a Napoli, vedono gli arbëreshë protagonisti dell’antichissima tradizione tramandata secondo i canoni esclusivamente idiomatici di convivere con la natura senza mai immaginare di sopraffarla.

Essi senza mai abbandonare le diplomatiche orali ereditate nell’antichità, seguono con i ritmi delle due stagioni l’antico protocollo di tutela, arte popolare come elemento non di arrochire se stessi, ma tutelare lo sheshi e l’ambiente circostante.

Per questo la misura è presa dalle flessibilità dell’ambiente naturale, utilizzando, realtà estrattive, poi additive, comunque senza incutere o predisporre ferite che la natura nel breve di una stagione non è in grado di risanare.

L’abitare in luogo coinvolge l’essenza dell’essere umano, questo occupa e vive l’ambiente intorno a sé, percependo a misurare lo spazio attraverso la percezione dei cinque sensi.

La vita umana per questo si svolge senza soluzione di continuità, nello spazio luogo, che il corpo umano con le sue interazioni riconosce e sanifica continuamente le sfumature a lui malevole.

L’essere umano misura la spazialità del luogo, lo caratterizza per quanto a lui necessario, inserendosi nelle trame, non per conquistarlo per distruggerlo o sottometterlo come fanno le malattie, per questo ne diviene parte e in comune convivenza, creano l’equilibrio antico, per la quale è stata accostata.

Si potrebbe a questo punto iniziare a trattare le origini e gli emblemi dei generi Arbëreshë in senso di luogo storia e arte in campo artistico, architettonico e urbanistico, ciò nonostante si vuole iniziare con la vestizione, visto che è diventata una emergenza.

L giorno d’oggi essendo diventata la vestizione  il biglietto da visita dell’intero indotto della regione storica, e l’uso comune che si adotta, richiede almeno di leggere almeno il sunto del manuale d’uso e manutenzione, non diversamente da come si fa quando si adottano prodotti  sconosciuti.

Oggi è opportuno, dopo circa tre secoli di uso, rilevare che quanti si esibiscono con l’emblema di solidità, unione e prole familiare, immaginando si scalare l’olimpo della visibilità diffusa, commette un grave errore, specie nei confronti di quanti conoscono e sanno leggere per questo prendono una grande pena per i messaggi comunemente inviati.

Evitate di esporvi, se ignorate il senso delle posture o dell’ alzare il padre, sconfinare gratuitamente nella fonte della prole o addirittura sopprimere il senso di reggenza della casa; quelle vesti, fuori dalle abitazioni entro cui venivano indossate, vanno garbatamente indossate, perché se solo immaginate il segnale che inviano utilizzando le mani o fermarle in maniera errata, vi vergognereste non solo di voi ma del genere che rappresentate.

Sul costume è bene porre l’accento, sul dato che si articola secondo i seguenti elementi e secondo la prima ricerca storica di antica matrice, rappresentano: la famiglia, il futuro di questa ……………………Continua.

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BUARTIMË ILINË SHËGNËTH I HUDESË

BUARTIMË ILINË SHËGNËTH I HUDESË

Posted on 13 novembre 2020 by admin

Cattura.JPG839NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) -Come di sovente, nei giorni scorsi mi sono state segnalate numerose attività all’interno della regione storica arbëreshë, in senso di consuetudini, attività di confronto con la terra madre e progetti secondo i quali dovrebbero essere  rispettati i termini di tutela e valorizzazione storica tra passato, presente e futuro.

Di esse, essendo le altre  di carattere intangibile e per questo lasciano il tempo che fa,  l’osservare da tecnici un “Master Planning”, vantato dai committenti, come eccellenza, preoccupa e per questo si ritiene di precisare quanto segue.

La presentazione del modello in forma tangibile, lascia palesemente trasparire la totale inconsapevolezza di quali fossero le strategie d’indirizzo e programmazione per l’ottenimento di risultati,  questi attraverso il disegno sono prova espressiva di un procedimento che non dimostra quale fase voglia esternare in forma: preliminare, definitiva, esecutiva o cantierabile.

Astenersi nell’entrare nei meriti del grafico, in termini di scelte e di esigenze, per le quali sono stati richiesti e si è ritenuto produrre cose è un’analisi doverosa, visto che appiattisce i meriti del senso locale in forma tangibile.

In conformità di studi, condotti da oltre quattro decenni, sarebbe un errore non cercare di fornire elementi fondamentali, o meglio far almeno ruotare la direzione di quel grafico, perché l’inadeguatezza di affrancamento  si sviluppa incuneandosi in forma anonima nei valori religiosi e consuetudinari di riposo eterno.

Lavorare in ambiti minoritari dove la valorizzazione del consuetudinario della metrica e la credenza popolare, sono gli elementi fondamentali depositati in forma tangibile, alterarli, gratuitamente produce danno incalcolabile, specie se terminano la discendenza tra, passato, presente e futuro, le di cui generazioni, devono avere in eredità, adeguati aspetti tangibili da riverberare.

A tal proposito è bene ricordare che “Harj Shëgnët” il 12 giugno 1804, grazie alle direttive di Napoleone inizia a disciplinare, diventando per questo i luoghi per il ricordo degli uomini di un tempo.

Prima di allora era costume seppellire, nei sotterranei delle chiese e quando gli spazi divenivano insufficienti si sistemava in area urbana adiacente, creando per la bisogna spazi opportunamente recintati.

Dopo la Restaurazione, Legge 11 Marzo 1817 di Ferdinando I, regola nel meridione, costruzione dei luoghi dell’eterno riposo “Harj Shëgnët” e in ogni comune di qua del Faro, fece seguito il Regolamento Ministeriale  del 21 Marzo 1817.

Solo dopo una serie migliorativa, con l’atto del 14 Luglio 1841, veniva disposto ogni elemento indispensabile per accogliere secondo credenza e arte chi avrebbe riposato eternamente.

Nel 1839 nel nostro caso era presentato un progetto per“Harj Shëgnët”, rispondeva egregiamente a tutte le linee guida, sanitarie e clericali, in senso di credenza, orientamento e distanziamento, vie pedonali, spazi privati e murazioni atte a coprire l’intimità del luogo di riposo.

Dopo poco meno di duecento anni l’opera è stata continuamente menomata di ogni sua parte fondamentale avendo in eredità il senso manomesso e confuso di quel luogo di riposo, stravolto nel citato elaborato di premessa; coprendo di bare e di segni, sin anche la strada percorsa secoli or sono dai padri fondatori per scappare dagli antagonisti che li avevano condannati a morte certa.

Oggi vedere interrotta quella via proprio da un luogo di riposo di specie è palesemente un atto ironico, probabilmente, ma sotto l’aspetto dell’identità è un pezzo di storia pubblicamente e continuativamente violentata.

Non so se questa piccola nota sarà accolta con il dovuto rispetto, perché, si tratta non di prese di posizioni, politiche o di controversia gratuita, né si tratta di adempimenti espressi da alchimisti senza titolo ed esperienza.

Qui parliamo del rispetto per quanti non vivono più, espresso secondo i voleri antichi; sono i germogli che fioriscono per il ricordo; non ascoltarli e renderli propri, significano fare il prossimo “fosso”, in direzione verticale, l’unica anomalia ancora non contemplata in quel sacro perimetro, che così facendo diventa di accumulo.

Terminando questo breve, si può affermare che dall’innesto del torrente Galatrella al fiume Crati, dopo un percorso tortuoso ed impervio, giunti sul pianoro, termina la strada che alimentava la luce del Casale terra dentro “Harj Shëgnët” se oggi comunemente la si vuole sopprimere, non si fa altro che confondere la luce abbagliate, quando si nasce, con la fiammella di chi spira.

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LA MATTINA DELL’11 NOVEMBRE 1799, ALLE ORE 10.00 COSA FACEVANO A TERRA.

LA MATTINA DELL’11 NOVEMBRE 1799, ALLE ORE 10.00 COSA FACEVANO A TERRA.

Posted on 09 novembre 2020 by admin

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Descrivere come sia stata vissuta la giornata nel suo paese di origine, nei momenti prima, durante e dopo l’esecuzione di Pasquale Baffi a Napoli, dovrebbe essere il compito di ogni buon ricercatore, al fine di rendere noto alle generazioni locali, come l’11 Novembre del 1799, abbia avuto inizio la deriva dei fraterni valori arbëreshë.

Nulla è noto della misura del dolore di amici e parenti, visto che i suoi genitori erano già venuti a mancare da tempo, ne si ha consapevolezza dell’indignazione, dagli stati generali arbëreshë, i quali, di quella giornata, da oltre due secoli non fanno accenno alcuno negli annali, sia nel corso del decennio francese, sia dopo l’unità d’Italia quando era scomparsa la repressione Borbone, sia di generi e sia di annotazioni.

Quando l’arresto disposto da re all’indomani del 13 giugno, fu eseguito il 28 Luglio del 1799, nel luogo dove il Baffi si era reso irreperibile, immediatamente fu condotto nelle regie carceri della Vicaria, dove ebbe inizio un calvario, senza alcun rispetto sin anche per la moglie, che fu persino invitata, a cercare un altro marito.

Chiaramente l’arresto e gli inviti alla moglie erano idea del regista e dal vile servo G.M ricompensato con  42,9 dei 500 ducati sequestrati in casa del Baffi; a tali fatti nulla si ha da aggiungere, giacché, basta metterli in secessione di tempo, di luogo, di pene e di gloria altrui, per rilevare la viltà di regia.

Dopo un calvario fatto d’illusioni, offese e umiliazioni, subite dalla moglie oltre le risorse tolte ai figli, come anzi detto , l’8 Novembre del 1799, il generale della suprema corte: condanna “a morir stile forche” Pasquale Baffi, e la sentenza eseguirsi lunedì, undici corrente novembre, conducendo il detenuto, il dieci di novembre nella struttura nei pressi della Piazza del Carmine.

L’ordine, in oltre, precisava che si doveva predisporre la truppa per accompagnato il giustiziando al patibolo, oltre a disporre pattuglie per la città, per evitare qualunque disordine.

Il Superiore “Dei Bianchi della Giustizia che accompagnavano i condannati a morire” riceveva quest’altra lettera: la mattina alla solita ora si rechi ad esortare a ben morire, detto Baffi, e dopo le solite ventiquattro ore di Cappella lo si accompagni al patibolo.

Così dopo l’andata, dei padri religiosi, il giorno 11 novembre 1799, verso l’ora “diciassettesima e mezzo”, in otto coppie di soldati, preceduti dal crocifero, uscì col detenuto, verso l’ora “diciottesima” di quel dì, ad affrontare la morte.

Il terribile particolare narrato dai cronisti è a dir poco raccapricciante: “ per essere stato cattivamente afforcato, si sciolse il cappio e per completare l’opera, il carnefice, scese dal patibolo e preso il povero Baffi, come si fa con un agnello, gli cinse con un coltellaccio la gola”.

Il Baffi venne abbandonato, a terra come monito per gli attoniti spettatori, ricorrenza nota che subivano i condannati per volere speciale della corona.

Tornando ai nostri giorni, se agosto è passato ignorando sin anche il ricordo  dell’eccidio del Vescovo Bugliari, l’auspicio di tutti gli studiosi locali di buon senso, vorrebbe costituire la “Fondazione Pasquale Baffi” al fine di ricordare ogni giorno, ogni mese, e ogni anno a venire, quale significato ha, dare se stessi e il proprio sapere per il ben comune senza distinzioni di genere.

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ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

1008s

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’abitazione rappresenta l’artificio o involucro che l’uomo realizza per dare seguito alla permanenza in territori ritenuti a lui idonei, dove ritiene sia opportuno vivere.

In genere le terre dei luoghi di allocamento sono espressione del connubio tra natura e uomo, un legame generalmente vivo e pulsante che non ha soluzione di continuità, in cui entrambi danno e prendono secondo le necessità, mirate o indotte.

L’abitazione o involucro vernacolare, dopo la sua attuazione, protegge l’uomo da eventi climatici e di specie, non sempre in linea con le esigenze del genere umano.

Per questo, tutto quanto disposto e proposto dall’uomo in senso abitativo, inizia a caratterizzare l’ambiente naturale e, quando i ruoli s’invertono e la natura appare come se amplificasse le sue necessita, del suo andare delle più estreme manifestazioni.

L’abitazione nel corso dei secoli, assunto la funzione di memoria evolutiva, sia del luogo che dell’uomo, segnando il grado di geniali compromessi, tra natura che dispone e l’uomo che trasforma, sempre meno, in forma sostenibile.

I trattati su tali eventi sono trascritti dallo scorrere del tempo, si modificano continuamente, sia si tratti di vita nelle selve, sia in zone lacustri, di montagna, collinari o desertiche.

Tutti i modelli di microclima realizzati dall’uomo, comunque e dovunque perseguono il principio di creare un microclima rifinito, rispetto all’ambiente naturale che lo contiene; disponendo per questo forme atte a preservare la specie uomo, dalle insidie naturali, animali o di simili avversi.

Sin dalle costruzioni primitive la fattura strutturale e quella distributiva, rispondeva, in misura minima, alle esigenze locali, sia si trattasse di terreni coperti in strato d’acqua, sia collinari temperati o montuosi, creando una barriera sempre crescente verso ogni forma di accanimento esterno.

La caratteristica costruttiva quindi nasce nel palcoscenico, in cui i protagonisti, ambiente e uomo si misurano continuamente: tra natura, che propone e l’intelligenza dell’uomo, che trasforma.

Le case delle aree pianeggianti furono realizzate su impalcati di legno, perché questo comunemente era coperto dall’acqua, consentiva di liberarsi, alla meglio, dalle emanazioni febbrigene del suolo, Venezia stessa, fu costruita secondo tale direttiva anche se in epoca relativamente antica.

Così avvenne quando gli ambiti sono in altitudini e longitudini dissimili, pur garantendo una buona vivibilità, serviva tenere in serbo apparati idonei a garantire la vivibilità per l’uomo, non sempre in linea per la genesi naturale del luogo.

Nelle aree collinari, s’inizio con le forme estrattive, Matera e un solido esempio, seguita da quella additiva, con abitazioni innalzate di materiali locali; dal ghiaccio polare, ai rami, pietre, argilla delle zone collinari e montane mediterranee, ai pozzi delle aree desertiche.

Da semplici ricoveri amovibili nei primordi della civilizzazione, l’uomo, passa per transizioni a ricoveri più articolati e in linea con la vita in continua evoluzione.

Non è necessario risalire ai primi albori della civiltà umana per trovare l’uomo in abitazioni di fattura elementare, tutte accomunate da fonti d’acqua, elemento primario ed indispensabile da cui partire per caratterizzare il luogo e ambiente vissuto.

Le abitazioni, siano esse realizzate, in spianate lacustri, in valli, in fianchi di colline e o vette montuose, possedevano corsi o fonti, le stesse che oggi ritroviamo in tutte gli agglomerati piccoli, medi e grandi che hanno fatto la storia degli uomini.

Popolazioni più evolute come quelle mediterranee aggiunsero, altre alla porta d’ingresso dell’abitazione, anche la finestra, nel cui vuoto ricavato, modellavano pelli di vescica, per illuminare l’interno, senza disperdere calore o dare accesso a insidie in forma d’insetti.

Il progredire lento e continuo del Genius loci abitativo, inizia con l’addomesticare luoghi d’insediamento, e di pari passo fornire maggiore solidità alle strutture innalzate dell’uomo, per vivere ambiti identificabili come propri o laboratori per misurare la flessibilità della natura.

Tutto ciò, sulla scorta di un elenco di consuetudini di memoria, di tempo e di uomini, che consegue il raffinare sin anche il gusto artistico dell’opera muraria.

L’esperienza attraverso le dinamiche climatiche vissute dei popoli mediterranei, consentono il conseguimento di traguardi che divengono primato di alcuni uomini rispetto ad altri; abitazioni attraverso cui si possono identificare popoli, le  consuetudini che seguirono e le priorità sociali poste in essere.

I Greci non seguivano l’emblema dell’abitazione, in senso di casa, perché la famiglia si riconosceva nel tempio, quasi completamente pubblica, agitata da grande volubilità negli avvenimenti politici, orfani del sentimento più delicato del posto per la donna nella loro esistenza, per questo decorando con fina architettura le loro case, lasciando in secondo piano l’agiatezza interna.

I Romani, riconoscendosi negli ordinamenti civili, più stabili della loro politica di grandi dominatori, erano più legati dei Greci alla donna, alla famiglia, di conseguenza maggior culto per la casa.

Anche nelle sezioni naturali abitative delle rovine di Pompei si rileva, la grandiosità delle abitazioni e il lusso con cui se ne decoravano l’interno.

Pareti finemente affrescate e pavimenti arricchiti con mosaici; camere, colonnati ricoperte d’oro, di madreperla e adornate di pietre preziose.

Tutto finalizzato all’agiatezza e affienare costumi, manifestazioni di una ricchezza e potenza, sconfinata di un popolo conquistatore.

È presso i Romani, quando la capitale era Costantinopoli, che l’abitazione prese grande e splendido sviluppo, non solo per le classi sociali ai vertici del sistema imperiale, sin anche negli ambiti più reconditi, vennero avviate politiche abitative dove l’emblema familiare iniziò diffusamente ad apparire e prendere luogo specie nei confini dello sterminato impero, in forma allargata.

È grazie a greci e romani che prendono spunto i centri antichi detti minori specie quelli che abbracciano l’antico regno di Napoli da sud a nord, predisponendo centri abitati nei pressi agresti, così  come la capitale dell’impero si misurava con le sue colonie e in specie quelle più recondite.

 A tal modello urbanistico, fece seguito un intervallo di media curanza, specie nelle case del  popolo, che dopo aver definito volumetrie e funzioni interne utili all’uomo, venne trasformato, fu utilizzata come parte urbanistico difensivo, in sistema di sheshi (il labirinto), le cui abitazioni costruite in aderenza, servite da strette vie, con poca aria e luce variabile; divennero il contorno difensivo dei Castrum feudali.

L’era segna anche l’abitazione quale possedimento per la discendenza, anche per le classi meno abbienti e con l’accalcarsi dei moduli abitativi in aderenza si aggiunsero emergenze igieniche non trascurabili per le quali, la natura chiederà ripetutamente conto in varie epoche, oltre agli interessi maturati dai derivati dall’ambiente naturale violato, in diverse forme.

Resta comunque il dato secondo cui l’abitazione per la stabilità della vita politica ed economica, ebbe un ruolo fondamentale perché i modelli assunsero non solo il ruolo di rifugio per la notte, ma anche utile di giorno per la trasformazione e il confezionamento dei frutti dalla terra.

La classe operaia agreste a quei tempi, fondava la base della catena economica del mediterraneo, la casa la notte rifugio per rigenerarsi e di giorno coltivare l’essenza sociale nei periodi non lavorativi e come la terra anch’essi riposavano.

L’abitazione è anche stalla per i fedeli animali da soma e del latte mattutino è il luogo per conservare e affinare gli indispensabili attrezzi, per un più cospicuo ritorno economico.

La casa nelle ore di relativa libertà, continuava a essere anche il luogo per difendersi, delle colonie, ovvero, i territori agreste, mediamente distanti, posti generalmente a valle, quindi più esposti ai pericoli derivanti dal famigerato anofele.

Presso le nazioni che vivono affacciate sul bacino del mediterraneo, con il crescere accentramento, non migliorarono le dinamiche abitative, sia dal punto di vista strutturale che igienico, in quanto i moduli si espansero in altezza, questo nuovo modo di costruire, espose a nuovi rischi l’abitazione che in questo modo ingloba anche le ire di eventi tellurici, oltre al perenne insinuarsi, nei fessurati conseguenti rimasti scuciti, l’aria intrisa di vaiolo e  peste che diedro non poche pene al genere umano.

Sotto l’aspetto puramente abitativo nell’area che si estende dalla Turchia sino alle zone più recondite, del Portogallo, il modulo abitativo attinge comunemente dall’architettura romana, mentre da quella greca prende i caratteri distributivi urbanistici con gli sheshi che diventano l’emblema difensivo privo di barriere sia in forma di murazioni e sia di fossati.

Il modello, specie, nei centri identificati come castrum, casali, mote, terre, frazioni e comunque sistemi abitativi riferibili ai centri di residenza dei principi o locali, continua il suo lento evolversi sino al 1783.

Questa diventa una data fondamentale, in quanto, il conseguente terremoto fa crescere l’interesse delle classi dirigenziali non per mera la salute delle classi meno abbienti, ma per il declino economico a cui si va incontro se non si adoperano nuove strategie per la solidità delle abitazioni, il cui sistema aggregativo da forza al luogo dei cinque sensi, l’unica formula che da linfa nuova all’economia da quel tempo in avanti.

Nell’Italia meridionale per quanto attiene la salubrità dell’abitare si deve attendere il regolamento 6 settembre 1876, n. 2120 che sino ad allora, pur essendo stati vissuti molti patimenti in senso igienico, solo dopo l’alternarsi di pestilenze sività ed eventi tellurici, si pose attenzione allo stato della salubrità pubblica all’interno dei centri antichi, con la legge di sanità pubblica del 20 marzo 1868, nel di cui Capitolo primo, si stabiliscono i parametri di salubrità, delle abitazioni e dei  luoghi  abitati a cui non si può sottrarre, stabilendo che:

” Art. 44 La tutela della pubblica salute, per quanto concerne le abitazioni e i siti destinati soltanto ad uso dei privati, è affidata ai sindaci; i quali vi provvedono curando l’esatta osservanza dei regolamenti comunali di igiene pubblica, ed osservando da parte loro quelle prescrizioni, il cui adempimento è posto a carico dell’Amministrazione comunale.

” Art. 45 L’autorità dei sindaci in materia sanitaria si estende anche agli ospedali, luoghi di detenzione, istituti pubblici e stabilimenti sanitari, tutte le volte si tratti di un fomite qualunque di insalubrità, capace di estendere la sua azione anche al di fuori con danno al vicinato.

” Art. 46 I regolamenti d’igiene pubblica per ciò che concerne la salubrità delle  abitazioni  prescriveranno principalmente l’osservanza delle seguenti disposizioni:

” a) le case siano edificate in guisa misura e che non sia difetto di aria e di luce;

” b) siano provviste di latrine, le quali devono essere costruite in modo da non lasciar adito ad esalazioni danno::;e ad infiltramenti;

” c ) gli acquai e gli scaricatoi delle acque immonde e residue degli usi domestici siano costruiti in maniera da non pregiudicare e guastare i pozzi:

” d) le case, o parte di esse costrutte o restaurate, non possano essere abitate prima che siano dichiarate abitabili dalla Giunta comunale, sentito il parere, della Commissione municipale di sanità.

” Art. 47 I suddetti regolamenti potranno inoltre prescrivere, dove esistete un considerevole agglomeramento di abitazioni, possa essere proibito di tener stalle permanenti ad uso di interi armenti o pecore di capre o di altre specie di animali.

L’ultima legge sul risanamento e quella dei prestiti a miti interessi o di favore, con cui il Governo, facilitava molto le operazioni finanziarie dei Comuni, per spese tendenti a migliorare il proprio abitato, nonché l’istituzione di Commissioni di ingegneri e sanitari, addetti alla Direzione superiore del Regio o di quelle istituite nelle singole Prefetture delle provincie, per il fine di agevolare lo studio delle opere di risanamento a farsi dai Comuni stessi.

Esse varranno molto per ottenere una razionale riforma in questo settore, così essenziale del benessere della specie umana. 

Dalla nascita delle abitazioni, l’uomo si è evoluto, sino a raggiungere livelli apparenti di una vita migliore, non alla pari della sostenibilità dell’ambiente costruito e altera a dismisura l’equilibrio sostanziale tra natura e uomo, mutando lo stato delle cose, dove a soccombere in apparenza è la natura, ma chi coglie i frutti più malevoli è l’uomo.

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LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

eagle with two headsNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nonostante siano stati educatamente informati, constatato  palesemente il grado d’immaturità, sin anche nel comprendere quale fosse il senso del verbo : “rilancio”.

Gli fu offerta una chiave di lettura per avere chiara ogni loro decisione, a fini di tutela e conservazione; rilevando, che la memoria storica, da decenni è posta nelle disponibilità di comuni apprendisti/e, che notoriamente, non avendo vissuto o formatisi a Napoli, come fecero le eccellenze della storia di Terra, non hanno maturità sufficiente e predispongono esperimenti malevoli che adombrano, con veli malevoli, ogni opportunità di rilancio.

Nulla è stato incamerato in memoria, da quella breve conversazione, dove vissero i famosi Olivetari, quelle poche, semplici e fondamentali parole, durarono nella memoria, solo per poco meno di 356 K/m, e giunti, dove il patrimonio è casa, i principi divennero foglie al vento.

Vero è che allo stato dei fatti, continuarono imperterriti a preferire figure di genere confuso, esiliando nel contempo, ai margini del dibattito sociale culturale, tangibile ed intangibile, la parte sana con titoli, meriti e memoria di garbo locale.

Dopo tante belle parole e garbati intendimenti futuri fu preferita “la continuità culturale malevola”; la stessa che immagina, dispone e progetta, bandiere per terra, compromessi senza senso, apparizioni, progetti, restauri, toponimi e ogni sorta di espressione allegorico-giullaresca, presentata come memoria genuina.

Se a questo si aggiunge il dato che socialmente non si raggiungono neanche i minimali requisiti di rispetto dei cinque sensi, è palese che non vi sia più nulla da aggiungere al pozzo nero della rinascita, colma in vero di pregiudizi.

Non abbiamo bisogno dei figli dei mandatari dell’eccidio del 1806, per conoscere,sapere, valutare, come e cosa ricordare della nostra storia locale “unica e irripetibile”.

A tal proposito è bene precisare che esistono e sono numerose le eccellenze locali; se per qualche banale motivo non avete capacità per distinguerle, perché privi di nobili principi, chiedete e sarete illuminati da quanti sanno parlare capire e proporre “rilancio”.

Il modello di famiglia più duratura e solida del vecchio continente, prevedeva nel suo disciplinare, di affidare per dirigere e coordinare la continuità storica e sociale del gruppo familiare, alla persona più “caparbia e lucida”, per la crescita perpetua del gruppo.

La persona più “caparbia e lucida”, predisponeva strategie e assegnava ruoli specifici ai generi, in funzione delle capacità che essi palesavano sin da giovani, senza alcuna prevaricazione, perché la meta da perseguire non mirava alla gloria del singolo, ma alla continuità identitaria, economica, sociale e storica della specie.

Questo semplice ed elementare principio, ha reso possibile il riverberarsi delle famiglie, dalla notte dei tempi sino a oggi; è lecito, quindi, chiedersi: perche del 2019 in avanti, ad assegnare i ruoli siano i meno “capaci”, che della “lucidità” mentale ne fanno un uso improprio immaginando che sia luce a uso e consumo della propria figura che pur se illuminata mostra solo ed esclusivamente la sua ombra.

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