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PIETRE LEVIGATE CHE RACCHIUDONO L’IDENTITÀ ARBËREŞË DA SECOLI   purù ù si ghuratë bhëghë jatrojnë

PIETRE LEVIGATE CHE RACCHIUDONO L’IDENTITÀ ARBËREŞË DA SECOLI purù ù si ghuratë bhëghë jatrojnë

Posted on 08 agosto 2025 by admin

FondazioniNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’infinita murazione di iunctura familiare, silenziosa ma pulsante, continua a sostenere le architetture invisibili dei centri storici arbëreşë.

Essi non sono solo case che affacciano su vicoli stretti e tortuosi, ma nodi di memoria intrecciati da generazioni, in tutto pareti che raccontano appartenenze, voci e riti antichi.

Qui, la famiglia non è un’unità chiusa, ma una rete porosa che tiene in vita la lingua, la fede e l’anima di un popolo migrato senza mai andarsene davvero o dimenticare i luoghi natii.

Ogni cortile è un confine tra tempi, ogni anziano un archivio vivente e, la comunità resiste non solo perché rimane, ma perché continuamente si ricostruisce dentro il cuore delle sue stesse mura.

Nei centri antichi dove vivono gli arbëreşë, il tempo scorre in due direzioni: una che scava silenzi nella continuità di chi resta, e un’altra che si tende come un filo sottile tra l’andarsene e il tornare.

Chi rimane, immerso nella quotidianità del luogo, spesso dimentica, non per disamore, ma perché l’abitudine erode i contorni del ricordo.

Le pietre, i riti, le parole diventano sfondo, e il vivere stesso smussa la memoria collettiva, che attende anzi grida il desiderio di essere rigenerata.

Chi parte, invece, custodisce e, porta con sé il profumo del pane rituale, il suono gutturale del parlato materno, l’eco di una liturgia ascoltata da bambino.

Nella distanza, ogni dettaglio si amplifica, diventa oggetto di cura ed è proprio nl momento del distacco che si sedimenta la memoria, e il desiderio anzi la promessa del ritorno.

Senza misura e non è fatto di lunghi, brevi periodi o solo simbolico, perché lo scopo il potere mira a ridestare ciò che il tempo aveva sopito.

Il forestiero che torna non è mai straniero, ma portatore di un’identità affilata dalla nostalgia, capace di rigenerare legami e rinnovare significati.

Come ad esempio svelare usanze che parevano perdute, ridà valore a gesti minimi, ravviva le case vuote con parole antiche e prospettive nuove.

Il suo sguardo che proviene dall’esterno è necessario, perché ha il valore di uno specchio che riaccende la consapevolezza in chi è rimasto.

Così, il movimento non è fuga, ma ciclo e, la partenza non è rottura, ma solidità di quel momento, il ritorno non è solo memoria, un seme antico che inizia a fare radici per fiorire come si fa con la buona semina.

Sulla riva del tempo si sviluppa una forza silenziosa in ciò che si stacca dal flusso e trova il coraggio di restare esposto.

Una pietra rimossa dal fiume, che per anni è stata levigata, trascinata, nascosta nel fondo opaco della corrente e, quando finalmente si adagia sulla riva, non è più solo un frammento in balia del corso.

È materia nuova, temprata dal passaggio e ora posta alla luce, sotto il sole, dove può rivelare tutta la sua forma.

Così accade anche per le comunità dove, le persone, i luoghi che scelgono di non lasciarsi travolgere dalla corrente del tempo ma di uscire, di mostrarsi, di prendersi lo spazio dell’attesa.

I centri storici arbëreşë, con le loro pietre antiche, sono come quelle rocce emerse: sopravvissute a secoli di mutamenti, guerre, migrazioni, assimilazioni culturali.

Eppure restano ancora lì, a brillare quando il sole, la memoria, la coscienza, l’attenzione, vi si posano sopra.

Non temono le stagioni, perché le hanno già attraversate, non temono l’erosione, perché sono forgiate nella resistenza.

E non temono neanche l’oblio, perché hanno imparato che, al di fuori del fiume, la forma che si prende non è casuale, ma una scelta di vita, da cui ogni incisione è segno di storia, ogni spigolo è testimonianza, ogni levigatezza è memoria.

Lontano dal fluire continuo che inghiotte e confonde, ciò che è stato portato fuori può finalmente essere visto, riconosciuto.

Può riflettere la luce e generare nuova vita. Come una pietra sulla riva, non è più solo ciò che era: è ciò che diventa.

Per questo il ritorno deve essere accolto come un atto generativo all’interno delle dinamiche che governano le comunità diasporiche e, nello specifico, quelle di matrice arbëreşë, dove il tema del ritorno non deve essere intesa come supremazia o dominio verso i restanti.

Ma deve assumere assume un valore che va oltre la semplice dimensione geografica, perché tornare non è soltanto il movimento fisico verso il luogo d’origine, ma è, più profondamente, un atto culturale e simbolico.

In tutto un rientrare dopo essere stati forgiati altrove, per cui il momento diventa esperienza esterna che vuole unire e non separare per essere risorsa.

Chi parte spesso si allontana per necessità o per desiderio di conoscenza e, nel tempo, questa distanza diventa elaborazione.

E quanto era considerato ordinario si carica di significato, ciò che era dato per scontato si definisce nella memoria.

La cultura, il parlato, l’ascolto, i rituali familiari e comunitari si sedimentano nel ricordo, fino a diventare patrimonio consapevole.

È in questo processo che l’individuo si “forma” o meglio, si forgia, come avviene per la pietra levigata dal fiume che poi si deposta sulla riva.

Una volta formati da questa esperienza, tornare non è mai un semplice “rientrare”, ma un “ritorno qualificato”.

Si torna con occhio nuovo, con la capacità di riconoscere il valore delle cose che per chi è rimasto possono essersi assopite nell’abitudine.

Il ritorno, in questa chiave, diventa un atto generativo che produce consapevolezza e, riattiva memorie, crea connessioni interrotte svelando le opportunità nascoste, sfuggite alla memoria di chi fa statica restanza.

Per chi è rimasto, questo ritorno non deve essere percepito come una minaccia, una sfida o come un giudizio o critica fatta dall’esterno, ma come una nuova occasionepe dare continuita storica a un determinato luogo Katundë.

Il tutto deve essere inteso come certezza che da ora in avanti potrà e dovrà fare solo cose genuine, non per idealismo, ma perché il tempo della dispersione ha affinato la visione e ridefinito le priorità. Il bene che si genera nel ritorno è un bene condiviso, partecipato, costruito con lentezza ma con l’intenzione bene in opera diffusa.

Nei piccoli centri arbëreşë, spesso segnati da spopolamento e marginalità, questo tipo di ritorno può rappresentare un momento di svolta, non come mera parentesi nostalgica che immobilizza, ma come progettualità che innova nel rispetto delle radici.

La comunità, grazie a chi ritorna forgiato, può imparare a vedersi di nuovo e, magari con il rigenerarsi delle pieghe amene che oggi appaiono adombrate e, magari prive della giusta luce per farle brillare come erano un tempo.

Anche solo rinnovare un muro, rifare una parete, ridare forma al contatto tra la base e l’elevato, tra la fondazione e ciò che vi cresce sopra, è come compiere un gesto di memoria.

È lì, in quella giunzione antica, che si custodisce il senso profondo dell’abitare, del costruire, del tramandare.

Così, ogni pietra riposizionata, ogni intonaco steso, non è solo un atto tecnico, ma un piccolo rito di continuità, un frammento della storia degli Arbëreşë che ritorna alla luce.

Nelle case, nei muri, nelle geometrie delle architetture, rivive il parlato e l’ascolto, il canto, l’identità di un popolo che ha saputo conservare le proprie radici pur lontano dalla madrepatria.

Restaurare una parete, una casa o un palazzo allora, non è solo conservare il passato, ma rinnovare un legame profondo tra memoria e presente, tra terra e spirito.

Non tutto ciò che appartiene alla storia si conserva dietro un vetro o tra le pagine di un libro in biblioteca o un atto di archivio.

Ci sono memorie che si trasmettono attraverso i gesti, che si radicano nei corpi prima che nelle parole e, quando una mano si posa su una pietra per raddrizzarla, per riportarla al suo posto, non sta solo ricostruendo un muro, ma sta ricucendo un legame, sta riattivando un patto antico tra chi costruì e chi oggi torna a vivere.

Rinnovare una parete, rifare l’unione tra la fondazione e l’elevato, è come riportare in vita un dialogo sospeso.

È come se le voci di chi se n’era andato, portando con sé, la festa e il dolore del distacco, trovassero finalmente un punto in cui tornare a parlare.

Il tutto non è solo un gesto tecnico, ma un atto di memoria incarnata e, il muro rinnovato non serve solo a reggere il peso del tetto, ma anche a reggere la storia che ancora pulsa tra quelle pietre.

Chi è partito, chi ha lasciato queste terre per cercare altrove un pezzo di futuro, porta nel cuore il suono di una lingua imparata dai nonni, l’odore del pane cotto a legna, la geometria delle stanze strette dove si pregava in due lingue.

Tornare non è soltanto varcare una soglia per ritrovare la misura del proprio nome in un paesaggio che non ha dimenticato, ma posare di nuovo in piedi su una terra che non chiede spiegazioni, perché riconosce il passo e il peso di quella figura.

Così accade che, nel rinnovare una parete, si rinnovi anche la fedeltà a una storia che non ha bisogno di essere celebrata nei musei.

Perché i musei custodiscono, ma non vivono e, invece, i muri che si rialzano oggi, con mani giovani e vecchie insieme, raccontano di una memoria che si fa presente, che abita ancora.

E allora il matrimonio tra fondazione ed elevato diventa simbolo di ciò che resiste, come un popolo che non ha mai smesso di essere, anche quando sembrava disperso.

Non serve altro che ascoltare, perché le pietre parlano, e lo fanno nella lingua antica degli Arbëreşë, quella che sa di vento, di resistenza e di radici che non si spezzano.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2024-08-08

 

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IL GENIO DEL BISOGNO ARBËREŞË A CONFRONTO CON L’IRA DELLE ARCHE VERTICALI  Kalljva e mallj i shëtrëmburë

IL GENIO DEL BISOGNO ARBËREŞË A CONFRONTO CON L’IRA DELLE ARCHE VERTICALI Kalljva e mallj i shëtrëmburë

Posted on 28 luglio 2025 by admin

Bosco arberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il genio Vernacolare arbëreşë nasce perché radicato nel territorio, opera del bisogno, a misura del clima, fatto con materiali locali in sudore quotidiano operoso.

Tutto questo per realizzare un’architettura umile, sostenibile, necessaria e, capace di espandersi nell’ambiente del quale rifletteva e riflette l’identità collettiva, per quanti e di quanti avevano necessità di risiedere, in confronto con l’ambiente naturale e dare vita al luogo parallelo ritrovato.

Ad oggi si contrappongono a questa storica metodica opere in elevato di cunei multiformi appellati “Boschivi Verticali”, dove l’arte dell’apparire, adombra ambiente, natura e genio dell’uomo.

Pur ispirandosi alla natura, essi trovano agio nell’apparire verticale come un tempo facevano i cunei che spaccavano la legna del bosco o le pietre dei monti e, oggi si vogliono sovvertire ruoli, forma e sostanza.

In tutto sono una metrica di sostenibilità esclusivamente estetizzata, pensata per stupire, in quanto simbolo di una nuova ecologia di facciata, dove il verde è puro, semplice travestimento di immagine privo di utile sostanza.

E mentre un tempo l’architettura vernacolare univa, perché linguaggio comune, tessendo filamenti di paesaggio, nature e vita, il verticalismo edilizio dei cunei divide i componimenti naturali unitari.

Nei trascorsi dell’architettura del bisogno non c’era utopia di necessità, ma convivenza, equilibrio tra uomo e territorio, con i suoi ritmi nella stagione lunga fuori la porta di casa e, nella stagione corta, all’interno del volume misurato di necessità per gli uomini.

Ogni casa era un frammento di paesaggio, ogni Katundë un’estensione del bosco di collina, che forniva acqua limpida, che scorreva silenzioso.

Il Bosco Verticale, è utopia senza domani, un’immagine potente, sospesa nel vuoto più estremo e per questo in grado di dialogare solo con il vento.

Non è più un abitare, ma una vetrina, dove il verde apparisce abbarbicato lungo lo scorrere del cemento e, diventa solo il componente di una quinta innaturale, perché il monte che è verticale, non è mai verde ma colmo di grigiore.

Nonostante tutti sanno che, i boschi non sono in verticale, ma sono gli alberi a crescere e, le foreste vere non si arrampicano sulle montuosità granitiche, dove regna solo il gelo e la neve.

Perché i Boschi nascono e si estendono lungo le colline, dove le radici, si allargano e vivono nel tempo, abbracciati dal sole e, mai lo fanno nelle rocce montuose sempre pronte a disgregarsi per il gelo.

Questi edifici non uniscono ma dividono, in quanto sono cunei, identici simili o equipollenti a quelli che un tempo si usavano per spaccare il legno o dividere il marmo, essi si elevano nei luoghi di confronto e  movimento (Katundë) per dividere e formare due fronti fraterni, chi può abitarli o chi li osserva dal basso, tra natura e realtà, avverte subito che esse sono prodotto di una natura impossibile.

Non siamo più nel regno dell’abitare, ma in quello della rappresentazione da palcoscenico, infatti, pur essendo rivestiti di piante, questi giganti verticali, in attesa di essere fumosi, non saranno mai un ponte, ma solo ed esclusivamente cunei, notoriamente strumenti che nell’immaginario collettivo dividono solidi frammenti unitari.

Come un tempo si usavano per spaccare i tronchi nei boschi, oggi si infilano nello spazio urbano, marcando distanza tra abitanti e natura, in tutto una vita sospesa non più con i piedi per terra.

Questi boschi innaturali, non sono gesto d’unione, ma frattura, tra l’idea di abitare, desiderio di apparire, diversamente all’architettura vernacolare che tesseva relazione, di radice.

Notoriamente al giorno d’oggi queste canne al vento, che simulano una perenne primavera, si ergono come simboli di esclusione, scollegati dal contesto che li circonda, a cui viene vietato di espandersi perché devono solo apparire nella prospettiva innaturale creata ad arte.

Diversamente dall’architettura vernacolare che nasceva per espandersi come organismo vivo, capace di crescere assieme alla comunità per, adattarsi a tempo e stagioni.

Ampliandosi come fa un centro antico o un bosco vero, lentamente, facendo crescere le sue radici orizzontali, nella terra sempre uguale.

Il Bosco Verticale, invece, nasce già compiuto, senza possibilità di evoluzione, è già alto, ma non lascia passare il vento e non consente al alcun che, neanche il pascolare tra ombra e luce, ponendosi più come un cancello e non certo come via luminosa e libera.

È rappresenta un oggetto, una figura e sin anche una cassaforte chiusa, che non cresce, non si espande, non dialoga, ma natura imprigionata in un perimetro, una verticalità che non appartiene al bosco, ma alla visione dell’apparire.

In natura, i boschi crescono sulle colline, si diffondono in orizzontale, erano accarezzati dal sole, dalla luna che indicava la via all’acqua e al vento.

Nessun bosco nasce in verticale, le radici non si arrampicano, cercano profondità, la narrazione del Bosco Verticale è una illusione prospettica, una scena che si esaurisce nello sguardo, senza un futuro di reale trasformazione.

L’architettura vernacolare era fatta con ciò che il luogo offriva, pietra, legno, terra, paglia, divenendo emblema o espressione spontanea di un equilibrio tra uomo, natura e ambiente.

Non emulava la natura, ma ne faceva parte e, cresceva come un organismo collettivo, lentamente, seguendo le esigenze delle stagioni, i limiti del territorio e dell’uomo.

Il Bosco Verticale, al contrario, porta il bosco dove esso non può vivere e tutto si trasforma in un gesto estetico potente, ma innaturale anzi oserei dire devastante.

Vero restano gli atti e i fatti, perché, inserire un frammento di foresta dentro un quartiere urbano è come sradicare un animale dal suo habitat, lo si toglie dal suo recinto per trasformarlo in simbolo per abbellire il centrotavola, o il pappagallo che ripete cose inconsulte.

Un bosco non nasce tra vetro e acciaio, non vive appeso ad altezze di cime tempestose e, non cresce in luoghi innaturali respirando, traffico e seminando cemento.

Il bisogno dell’uomo è fatto di terra, di umidità, sole, e vento silenzioso, qui invece, ogni cosa risulta essere isolata, contenuta, ingabbiata, non più come fa la natura e, la rappresentazione o meglio la sceneggiata vuole salire di prepotenza sul palco della natura.

Il vernacolare univa, perché parlava la lingua del luogo, diversamente da questo verde urbano, che invece, non parla con ciò che lo circonda, rimanendo solitaria immagine sradicata, una principessa che ha perso la via maestra e qu diventa estranea, inutile, terminando nel bacino dell’estetica che una storia che non gli appartiene.

I Katundë che vivono alla giornata, non cercano simboli, ma sono alla ricerca di sé stessi e, restano imbibiti di senso e garbo, non hanno bisogno di sfoghi fumosi e verticali, ma di spazi che li rappresentano, e fanno ascolto, in tutto un bisogno di architetture che parli la loro lingua, non di icone e simboli privi di credo.

Il Bosco Verticale è un’immagine potente, ma effimera, infatti apparisce, stupisce e violenta l’immaginario. Non crea legami, non espande radice, perché è solo in camino che non funziona, ma emana e riempie di fumo il vernacolare abitato, lo si guarda, lo si fotografa, lo si celebra e, poi svanisce nella routine della città, senza lasciare alcuna traccia nell’anima del luogo, se non la fumigine, che ci costa imbiancare nel corso della stagione lunga.

L’architettura vernacolare, invece, non aveva e non ha bisogno di stupire, perché fuoco vivo nel tempo e nello spazio, si costruiva per avvicinare generi, ed era fatta per essere usata, trasformata, tramandata in quanto gesto collettivo, non mero spettacolo.

Oggi più che mai, serve tornare a un’architettura che non isoli, che non si elevi per separare, ma che si radichi per unire.

Un’architettura che non venga ammirata e poi essere dimenticata, o segnare fastidiosamente l’immaginario collettivo senza essere mai potuta abitata, riconosciuta o vissuta.

Nei Katundë, le prospettive sono libere, non si impedisce di guardare il sole né la luna, qui si alza lo sguardo per contemplare simboli di credenza reali.

L’orizzonte resta aperto, perché abitare è anche poter vedere lontano, condividere la luce, il vento, il tempo.

Là dove l’architettura diventa monumento o fine a sé stessa, lo spazio si chiude, le prospettive imposte diventano teatrali, pittoriche, da rivista e distraggono lo stare insieme.

Ci si perde nell’immagine, si dimentica la relazione, non fanno il bene del vivere comune, ma del mercato senza uno scopo per il bene della comunità ma del singolo o dichi lo rappresenta.

I Katundë non hanno bisogno di stupire, ma bisogno di durare e continuare a vivere per dare agio sociale all’uomo e alla natura, offrendo spazi semplici, ma profondi, dove la bellezza è nella misura, nel ritmo, nel dialogo con ciò che è intorno e, l’abitare non è consumo, ma condivisione.

L’architettura vernacolare nasceva per unire, fatta con ciò che il luogo offriva: pietra, legno, terra, essa cresceva lentamente, come i Katundë, e tutti gli insediamenti umani radicati nella terra, nella collettività, nel ritmo delle stagioni.

Ogni casa era parte del paesaggio, mai sua negazione. Non imitava la natura: ne faceva parte.

Il vernacolare era espansione, adattamento, linguaggio vivo, si costruiva con il tempo e con la gente, senza utopie, senza spettacoli.

Nascevano per svilupparsi e crescere, per essere tramandato e, senza apparire, ma appartenere a chi doveva conservare memoria.

Oggi invece si alzano totem. Il Bosco Verticale, per quanto ricco di suggestione, non unisce, ma divide. È un’immagine potente, ma isolata. Un bosco appeso al cielo, che non nasce dalla terra, che non può espandersi né trasformarsi. Non ha prospettiva di futuro, solo quella dell’apparizione, è utopia senza domani.

Un tempo si usavano i cunei per spaccare il legno dei boschi e, oggi, questi grattacieli verdi sono cunei urbani: si insinuano nella città non per tessere relazioni, ma per tagliare, per separare. Tra chi abita e chi guarda. Tra natura e imitazione. Tra reale e simbolico.

Il bosco, quello vero, cresce sulle colline, orizzontale, espanso, radicato e, non vive sospeso e mirando verso il vuoto, in vetro e acciaio, non è balcone irrigato da fontane e, sradicarlo dal suo ambiente per allestirlo in verticale privandolo della sua anima naturale.

I Katundë di oggi hanno bisogno di essere ascoltati, non coperti da icone, senza storia o credenza, ma abbisognano di spazi che lascino vedere il sole e la luna, che non impongano prospettive pittoriche o narrazioni di un mercato che non consente confronto.

Il buon abitare non si costruisce sull’immagine, ma sulla relazione, che non distragga, ma accompagni, che non celebri sé stessa, ma custodisca il vivere comune.

Il vernacolare era presenza silenziosa e necessaria, diversamente, dalle canne fumarie travestite di oggi, per quanto verdi, appaiono per essere subito dimenticati e fanno paura per il fumo che quanto prima spargeranno nell’aria.

È tempo di tornare a costruire per durare, non per stupire, per radicare storia, non per cancellare un modo antico dell’abitare, che non è solo apparire ma memoria e rispetto del passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-07-27

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L'ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

L’ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

Posted on 10 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Disquisire, palare o esprimere pareri relativi a una minoranze storica non deve essere finalizzato semplicemente nel difendere una lingua, un canto, un costume tradizionale o trascrivere inadatti abecedari, ma riaffermare il principio secondo cui l’identità culturale non si esaurisce nelle parole che pronunciamo o negli atti di semplice apparizione folcloristica, perché si radica in un modo di essere, in una visione del mondo, in una trama invisibile, fatta di valori, gesti, memoria di un been identificato luogo.

Essere parte di una minoranza, come quella presente da secoli, appellata Arbëreşë, non significa solo parlare un idioma diverso, tramandare melodie antiche, accompagnate dal suono di inadatti strumenti a mantice o corda.

Il che non giustifica adagiare nel presente una storia sensibile di un’etica e relazioni che resistono al tempo e si riverbera senza mai distorcersi, perché una minoranza è uno stile di vita che rispetta la terra abbandonata e, nel contempo valorizza quella parallela ritrovata, in tutto il principio antico, della parola data.

La stessa che diventa forma di pensiero che valorizza il legame tra le generazioni, il senso del limite, il valore delle donne e l’operato degli uomini, i due governi che fanno l’ospitalità più genuina del vecchio continente.

Difendere questa minoranza non è dunque un atto nostalgico, ma un gesto di giustizia culturale, e riconoscere che la vera ricchezza di una società non sta nell’omologazione, ma nella pluralità.

Dato che non esistono “culture piccole”, ma solo sguardi superficiali e, ogni cultura diviene universo, storia, o insegnamento che può essere radicata o aperta, ma fedele a sé stessi per dialogare.

In un tempo in cui tutto corre verso l’uniformità, riaffermare la dignità di una minoranza che resiste è un atto rivoluzionario, o messaggio, in quanto non sono solo ciò che producono o consumano, ma anche memoria e ricordo, di ciò che si sceglie di custodire.

E allora, oggi, non chiediamo solo protezione o riconoscimento, chiediamo ascolto, chiediamo che la nostra presenza sia considerata una risorsa, non un residuo della nostra differenza, in tutto una forma di valore, non una distanza da colmare.

Perché, in fondo, difendere una minoranza significa difendere il diritto di ogni essere umano a essere sé stesso, in modo pieno, libero, umano.

Vale per questo anche la vestizione tradizionale delle donne, che in molte culture e in particolare nelle comunità storiche come quella Arbëreşë, non è semplice modello estetico o folklorico.

Esso rappresenta un codice simbolico profondo, che racchiude valori familiari, religiosi e identitari, che non possono essere stilizzati nell’inadatto adempimento di mezza festa o mezzo lutto, come se questi appuntamenti non fossero un tutt’uno con il sole e la luna che fanno giorni solidi.

In ragione di ciò in questo scenario identitario ritrovato la tradizione commessa all’abito diventa una dichiarazione silenziosa di appartenenza, di rispetto e di sacralità.

La vestizione tradizionale femminile è spesso ispirata a un senso di pudore e di bellezza sobria che rimanda direttamente ai valori della chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa, ma come centro spirituale della comunità.

L’atto stesso di indossare certi capi in determinati momenti come: feste religiose, matrimoni, processioni è un rituale che unisce il quotidiano al trascendente.

Nel modo in cui una donna si veste per la festa, si legge il rispetto per ciò che è sacro, per il tempo lento, per il significato profondo delle cose.

La cura con cui si tramandano gli abiti cuciti, ricamati, aggiustati, conservati, parla di una cultura della casa come spazio di trasmissione dei valori.

Ogni dettaglio, ogni filo, ogni gesto di vestizione racconta una storia: di madri, figlie, nonne.

Ed è nella casa che si impara a portare quell’abito con rispetto, e a comprenderne il valore.

“L’abito non è solo indossato, ma deve essere anche saperlo vivere, tramandare, ereditato, perché esso rappresenta un modo di essere e fare famiglia.”

Nelle culture tradizionali, la donna è ponte tra la casa e la chiesa, tra il quotidiano e il sacro e, l’abito, rappresenta la sintesi visibile di questa alleanza.

Non è limitazione, ma espressione identitaria, consapevolezza di un ruolo che è custode, guida e presenza silenziosa solidamente connessa alla consuetudine della storica radice delle terre gli Arbëreşë furono costretti a migrare con dolore.

Nel silenzio dell’abito c’è una dichiarazione potente, in quanto con esso palesiamo ciò che onoriamo, e onoriamo ciò che amiamo.

Nella vestizione tradizionale delle donne di Arbëreşë non c’è solo tessuto, ma casa, fede e storia. Ogni abito portato con rispetto è un atto di memoria e di futuro, il gesto non vuole essere mero conservare un costume, ma di proteggere un codice etico, un modo di vivere che tiene insieme il sacro e l’intimo, la comunità e la persona e, oggi conoscere per difendere questi segni significa rimanere civiltà inarrivabile.

Che l’Arbëreşë non sia soltanto una lingua è dimostrato da una lunga e profonda tradizione culturale, religiosa e intellettuale che attraversa i secoli e le generazioni.

Parlare di arbëreshë significa parlare di un’identità viva, che ha saputo resistere e rinnovarsi, portando con sé non solo parole, ma anche valori, pensieri, simboli e gesti.

Lo dimostrano, in primo luogo, figure come Giuseppe Bugliari prelato, il cui pensiero lucido e coerente ha rappresentato un faro nella difesa della specificità culturale e spirituale del popolo arbëreshë. Con lui, Pasquale Baffi ha incarnato una forma di impegno civile e culturale che ha saputo unire la fedeltà alla tradizione con l’apertura al dialogo moderno, dimostrando come l’identità non sia una gabbia, ma una radice da cui crescere.

Non si può dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai vescovi Bugliari, custodi della fede bizantina e interpreti di un’autonomia religiosa che ha rappresentato, nei secoli, un baluardo contro l’assimilazione forzata e una forma alta di resistenza culturale.

Il genio di Luigi Giura, figura simbolica di creatività e pensiero, testimonia come il pensare e immaginare in Arbëreşë abbia saputo produrre visioni e opere capaci di parlare ben oltre i confini delle comunità diasporiche.

La giustizia secondo Rosario Giura, che non la misurava in favore dei regnati di turno, che volevano vendetta di ogni gesto che non erano mai reato.

La lealtà di Pasquale Scura, espressione concreta di un legame profondo con le proprie origini e con la propria gente, richiama il valore della memoria condivisa e della responsabilità collettiva.

Infine, l’opera editoriale di Vincenzo Torelli, attento e instancabile nel dare voce e visibilità a una cultura spesso marginalizzata, ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e alla valorizzazione dell’identità Arbëreşë che preferiva il canto alla musica nel panorama culturale italiano ed europeo.

Tutto questo dimostra che l’Arbëreşë non è solo un codice linguistico da preservare, ma un sistema complesso di saperi, pratiche e valori che continuano a vivere grazie al contributo di donne e uomini che, con passione e dedizione, hanno saputo trasformare la memoria in futuro.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                             Napoli 2025-07-10

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KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2025 by admin

 

GjitoniaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questo breve tema di studio si vuole definire lo spazi Katundë da cui iniziarono a muoversi e, come servì a sostenere le terre parallele ritrovate, per essere caratteristica e agio consuetudinario degli Arbëreşë, avendo a riferimento i Danteschi valori che descrivevano la “terra lagrimosa dolce”, il luogo dove il vento, passa sopra un pugno di pia gente.

Il che lascerebbe immaginare che un Katundë Arbëreshë, sia insieme umido, ma non è così, infatti le lacrime appartengono alle persone sensibili e, colme di valori emozionali di sentimenti solidi, in oltre il vento, che qui accarezza i generi, rende l‘ambiente sano e colmo di sensibili valori identitari, come una carezza materna viene rivolta al nascituro.

I Katundë in ragione del patto stipulato da indigeni e Arbëreşë, con testimoni la luna e il sole, viene predisposti secondo “arche di accoglienza” con funzioni specifiche da Giorgio Castriota in comune accordo, con il re Aragonese Alfonso V d’Aragona, più noto come il Magnanimo, grazie ai quale dal 1471 sino al 1502 giunsero profughi dalle terre oltre adriatico.

Cui segui una seconda ondata con ottomila profughi Grecofoni/Arbëreşë dopo il 1535, consolidando l’accoglienza migratoria del bisogno, per la salvaguardia del patrimonio culturale, portato nel cuore e nella mente dalle terre Balcane, per essere radicate senza alcun innesto mussulmano, in quelle terre mantenute dagli Angioini sino ad allora aride, impappolate e senza una consuetudine solida e duratura.

Va in oltre sottolineato che in urbanistica, il termine “arche” è usato per descrivere il principio o la base su cui si fonda un centro urbano e la sua pertinenza territoriale in valore.

E facendo riferimento alla struttura originaria di un centro abitato, come un Katundë articolatosi nel corso del tempo, il tutto restituisce uno scenario storico solido, indelebile e impenetrabile.

In questo contesto, si può parlare di “arche” anche quando si analizzano le fasi storiche di sviluppo, osservando come i principi fondatori del Katundë, siano legati ad uno specifico territorio il suo uso, la distribuzione degli spazi privati e pubblici, e ritrovare la connessione di queste funzioni, di come abbiano generato e influenzato la crescita o lo sviluppo di questi luoghi di memoria storica.

Quando si affrontano argomenti con tema i sistemi abitativi e i relativi ambiti Silvicoli, Agro e Pastorali, ritrovati per allestire consuetudini di origine Arbëreşë, bisogna essere molto scrupolosi o meglio attenti e giustamente formati, prima di diffondere teoremi, nomi, sostativi e tempi, ande evitare di dover poi dare ad altri il compito o la pena di correggere ogni cosa, allestendo diplomatiche, che dovranno correggere i teatrini senza regia, con protagonisti tempo, natura e omo, tutti ignudi ed esposti vergognosamente senza rispettare la memoria e storica.

Il sistema abitativo Katundë, (dall’Arbëreşë); “luogo di movimento e operoso”, vero e proprio germogli di risorse umane dove partire, per espandersi lungo le vie di cresta, di risorsa aurica territoriale, fatta di ori silvici a monte e, pastorali in agri verso valle.

Il sistema cosi, riconosciuti, non sono semplici da intercettare e definire correttamente, specie da chi non è formato e sa fare un mestiere specifico, perché le similitudini ad altre realtà storiche equipollenti, non sono di facile lettura e, quasi sempre generano o hanno generato, libero valore storico, attribuendo a quei luoghi, termini e cose senza definizione o appellativi specifici riferito alle tempistiche di sviluppo, privi dei minimali valori del bisogno e tradizioni di questa antica popolazione, del vecchio continente europeo; in tutto un patto stipulato tra uomo e territori, con il sole e la luna a rivestire il ruolo di testimoni.

L’insieme abitativo e le pertinenze di territorio fondamentali per il sostentamento, sono l’insieme che, nel protagonismo abitativo, racchiude nel percorso evolutivo fatto dalla natura, l’uomo e il tempo poi annotate nelle pieghe o trame della storia stese al sole e illuminate anche dalla luna senza veli, per questo, chiare ed inequivocabili.

Generalmente lo spettacolo naturale lo offre la collina, secondo le teorie di Aristotele, annotate nel libro settimo, dove rifermento della collocazione altimetrica dei presidi abitativi e dei relativi abitanti dice:

chi risiede in montagna dove il freddo incide al processo sociale è tendenzialmente chiuso e ristretto nelle sue attività di coesione e produzione.

O ancora peggio chi vive vicini al mare, generalmente incline all’ autarchia e irrispettoso delle leggi, per le troppe frequentazioni, riferendo così chiaramente a quanti mirano a promuovere sé stessi e la loro pletora servile; diversamente da quanti abitano e vivono in ambiti collinari sono notoriamente predisposto alle attività e alle arti valorizzando luogo e genti pronte al sacrificio per il bene comune.

Infatti questi ambiti sono i più strategici ad offrire risorse naturali, in forma acqua dolce di sorgenti o torrentizi, boschi per legna, oltre i terreni più fertili per l’agricoltura e la pastorizia.

Inoltre, i terreni collinari possono essere più favorevoli per alcune coltivazioni rispetto alle pianure troppo soleggiate o le montagne troppo fredde per ogni attività.

Nel contempo la collina offre la posizione naturale difensiva più idonea, rendendo più difficile, il sopraggiungervi dal mare, in tutto un punto elevato, facile da sorvegliare a scapito di ogni sorta di invasore.

Le zone collinari sono meno suscettibili a inondazioni rispetto alle pianure. Essendo situate a un’altezza maggiore, queste aree sono più sicure in caso di piogge intense o fiumi in piena.

Esse beneficiano di un clima più temperato, evitando il caldo eccessivo delle pianure, alture a offrire una maggiore ventilazione e condizioni più salutari, considerate luoghi sacri o simbolicamente significativi in molte culture, e costruirvi un insediamento conferiva prestigio e un senso di “elevazione” rispetto al resto del mondo.

Va in oltre sottolineato, il dato secondo cui gli Arbëreşë sopraggiunsero nel meridione lungo gli abbracci naturali delle coste dello Jonio e preso atto della pericolosità di quei luoghi troppo esposti, oltre le insidie dalle famigerato anofele, per le vicende derivanti secoli prima a loro sconosciute ma che la storia odierna attribuisce al dominio romano, un il danno ambientale prodotta, quando utilizzarono e spogliarono l’appennino meridionale, estirpando alberi per sodisfare le esigenze dei loro innumerevoli cantieri, rendendo i corsi fluviali palladosi, cosi come tutte le piane di deflusso verso il mare.

Questo è anche il motivo o dato di fatto secondo cui, ogni centro abitato, non è mai allocato ad altitudini inferiori ai 350 metri sul livello del mare, lime storico, dove questo insetto infestante trovava il suo ambiente ideale per colpire e trovare agio di lunga vita e solo l’altitudine indicata precedentemente le rendeva inefficaci le sue mortali punture, non erano più terminali.

Questo limite territoriale, in genere, era individuato con il toponimo di “Vote” indicante, un torrentizio disposto prima della via di costà da non superare.

Tuttavia per esigenze lavorative si poteva anche fare, breve permanenza e con particolari momenti climatici non dilungati, oltre una ben nota fascia giornaliera climatica, che assolutamente non doveva essere prolungata oltre misura di esperti o di residenza prolungata e stabile.

Qui chiaramente ci addentreremo, focalizzando la ricerca di Paesi, Vichi, Contrade, Civitas, Casali e ogni altro agglomerato urbano di collina abbandonato o poco abitato al XIV secolo della Calabria Citeriore, un tempo risorsa della Sibari fannullona, poi bizantina e, sogno di conquista dei longobardi, poi trasformate in grange cistercensi e in fine mira degli Arbëreşë senza terra o dimora, in apparenza.

Giacché come accennato prima, luoghi da sottoporre a controllo dei regnati della capitale Napoli, visto i trascorsi di interessi dei principi locali e le loro dinastie con i trascorsi francofoni, non più tollerati.

Da ciò quando gli arbëreşë giunsero in questi ambiti di arche concordate e pre definite, trovarono un sistema religioso, affiancato a un insieme articolato di abituri estrattivi, dovendosi per questo prodigare ad affiancare il sistema di promontorio e quello di nuova edificazione civile più consona alla propria consuetudine.

Quella che in alcuni casi li costrinse a una distanza di sicurezza che se il presidio antico ritrovata aveva valore di autonomia religiosa o civile si doveva rispettare la distanza minima di mezzo miglio.

Va sottolineato che dal punto di vista amministrativo dei territori, incidendo, con gabelle per sostenere credenza e vita civile senza alcun servizio.

Dove clerici locali e principi riscuotevano per conto della credenza papale e quella civile della reggenza del regno napoletano.

Questo in specie era diviso in principati, dove ognuno pensava a favore del proprio orticello per diventare nota produttiva di vanto ai piedi del re, accontentandosi solo di partecipare alla reggenza alta, come sempre figure di secondo piano, mentre quella regia era sempre affidata a dinastie ora francofone, ora ispaniche e sin anche austriache, tutto qui alternandosi a dominare e allestivano il loro trono nei variegati castelli, secondo una costante storica singolare.

E solo pochi storici, furono capaci a rilevare, ovvero le merlature della difesa della residenza reale, nella capitale che non erano rivolte a mira delle vie degli invasori facilitate dal mare, ma verso la citta ribelle, per sottomettere la larga e variegata strada di residenze principesche del regno.

Infatti non c’è mai stata una dinastia che sia originaria di Napoli o che possa essere definita tale, vero resta il dato che quanto la città e la sua regione hanno avuto un’importante storia di dominazioni straniere o dinastia alcuna in originarie del territorio del regno.

Anche “Partenope” si riferisce all’antica sirena mitologica ma comunque di radice Greca, quindi storicamente non c’è mai stata una dinastia autoctona che abbia regnato direttamente sul Regno di Napoli in modo esclusivo.

Infatti le dinastie che hanno governato la città e il regno, furono Angioini, Aragonesi e Borboni, provenivano da fuori Napoli (Francia, Spagna e Austria).

Questo singolare processo di dominazione, ha reso gli arbëreşë partecipi al pari degli indigeni locali, che non si sentivano a casa propria liberi del vivere il proprio territorio.

Nascono per questo pensieri contrapposti, che per i loro conflitti interni non mutano per secoli e bisogna attende i catasti onciari e il successivo decennio francese per vedere uniti territori secondo aree omogenee e vedere scomparire la cassa sacra che lascio ai legittimi contadini nuove porzioni di terreno.

In tutto i rioni riconoscibili in Chiesa, Kallive, Karinë relletë, Bregù a cui nel tempo si articolarono nuovi şeşi in grado di generare il sistema Katundë ad iniziare dalle case additive o vernacolari del bisogno.

I rioni su citati, rappresentano il percorso evolutivo che il borgo ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, inizia la definizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

Gjitonia, sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antica scuola di formazione governato dalle donne indispensabile per la consuetudine, le arti e il parlato arbëreşë oltre i valori di credenza cristiana costantinopolitana.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici e, si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari e dei silvici luoghi di pertinenza locale.

Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata o ricentrata dirsi voglia, per questo, Katundë rappresentano il cardine e rappresenta la terra lagrimosa che sostiene lingua, religione e storia, quell’ambito capace di produrre il modello d’integrazione più riuscito, solido e duraturo del mediterraneo.

Il piccolo elevato vernacolare, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati, poi blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena, realizzando la casa che di volta in volta soddisfa il bisogno abitativo del bisogno familiare.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente soppressione della Giunta di Cassa Sacra, gli del Katundë ebbero un nuovo sviluppo urbanistico/architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

È questa l’epoca in cui si migliorano i cunei agrari della produzione e della trasformazione, in ogni Katundë, Paese, Frazione o Contrada arbëreşë o indigena, si elevano cosi dal secolo XVII al XVIII, i palazzi nobiliari, influenzata dallo stile Barocco, con lune facilmente riconducibili ad un’epoca ben precisa.

Gli ambiti urbani, assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello con uno spazio di tempera per evitare il troppo calore estivi e il freddo dell’inverno.

Va in oltre precisato che dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, i frazionamenti delle proprietà abitative, richiesero l’uso delle scale esterne, (il profferlo), in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive di vie, ruga, Vallj, aggiungendo modesti ristretti supportici che consentivano appena il passaggio di asini con le ceste.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e la classe media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici e inserendo in molti esempi ancora esistenti, anche se alcuni sono stati inglobati o resi parte del volume di questi storici manufatti, che in questo modo hanno ingabbiato sia i profferli di accoglienza che i minati di affaccio nobiliare.

Il sistema urbano veniva organizzato secondo pertinenze di Iunctura familiare, localmente denominati o specificamente identificati nel loro insieme; in “rioni di toponomastica storica” organizzati secondo i bisogni di determinati intervalli storici, un compromesso abitativo tra indigeni locali di antica radice di conquista, a cui si aggiunsero, poi in due distinte epoche gli esuli Arbëreşë della diaspora, prima quanti giunsero dopo la morte dell’eroe Giorgio 1471/1502 e dopo gli Epiroti o Coronei del termine del 1533.

In Arbëreşë denominati Şeşi e, non sono meri spiazzi o piazzette dove affacciano gli ingressi di un numero indefinito di case, come comunemente è stato diffuso, da inadatti teoreti, senza alcuna formazione storica, se non quella di riversare aceto contaminato ad opera dei liberi mescitori delle cantine locali, dove il vino veniva unito ad acqua, e spacciato per esempio genuino.

Essi sono un sistema urbano fato di Case Vernacolari (Kalivatë), Vicoli (Rruhat), Sottoportici (Suportë), Larghi senza Uscita (Vagllj i Mbulitur) Vicoli Ciechi, Vicoli (Rruhatpa sitë), Orti Botanici (Kopshëti jone) Scale in Salita (Udatë me Pedastrozullë), il tutto per compilare un insieme per la lenta percorrenza e il controllo di eventuali viandanti non appartenenti alla Iunctura specifica del Katundë.

Tutto l’insieme cosi compilato o realizzato era diretto dal governo delle donne e ed è in questi sistemi urbano che le donne conservavano consuetudini e tramandavano principi sociali e del parlato che poi erano la prova iniziatica delle capacita che i generi in crescita ponevano in essere, riverberando la solidità dei principi trasmessi, o ereditati.

Queste attività per la difesa della propria identità, in comune progredire, ha superato ogni genere di attacco sociale, culturale e sin anche religioso, ma la forza estratta dalla consuetudine di antichi valori,  hanno permesso o meglio consentito di superare e distogliere moltissime attività in tale senso.

Tuttavia dagli anni settanta del secolo scorso e sempre con più arroganza linguistica e antropologica, con editi a dir poco infantili e senza radice stoica, secondo direttive subliminali proveniente dalle rive frastagliate e in accoglienti il fiume adriatico ad ovest, li dove incide la luna e le stelle.

È inutile cercare di illuminare, con menzogna inimitabile il sole, in quanto il nero della notte porta pensieri solidi agli arbëreşë, che stendono al sole le solide consuetudini che incidono le regole su quel “Calendario Marmoreo denominata Gjitonia”, che non potrà mai essere corretto, come si fa con gli scritti moderni, perché la consuetudine arbëreşë rimane scolpito nella pietra senza spazio di alcuna aggiunta.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                            Napoli 205-02-13

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“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

Posted on 18 agosto 2024 by admin

boccolo(NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

sono gradite correzioni integrazioni e nuovi articoli per una migliore attuazione, nel caso ciò avvenisse: inviate ogni cosa all’indirizzo di posta elettronicaatanasio@atanasiopizzi.it

 

Premessa

La Comunità Arbëreşë preso atto dello stato in cui versa il patrimonio materiale e immateriale a essi riferito, ritiene sia doveroso attivarsi con quanto consigliato nel documento, qui di seguito riportato, con  titolo: Carta per la Tutela della Regione Storica Diffusa Arbëreşë, i concetti che saranno riferiti sono già largamente utilizzati e provati nelle Carte storiche del restauro; il fine che il documento vuole persegue è la sostenibilità “dell’intero patrimonio della minoranza Italo-Albanese”, per questo, la prerogativa del documento diventano gli aspetti caratteristici legati al territorio costruito, le aree rurali e il paesaggio inteso nel senso più completo, in quanto ciò rappresenta il contenitore fisico della storia, della cultura e della tradizione consuetudinaria tramandata oralmente in arbëreshë. Ciò per una lettura precisa rende indispensabile, che i centri facente parte della RsdS s’impegnano affinché la tutela non vada mai più intesa come “mera estrapolazione di frammenti storico linguistici”, in quanto, gli episodi di sintesi non hanno, né caratteristica, né forza per sostenere in senso globale le eccellenze storiche, del patrimonio minoritario.

 

CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËRŞË

Ambiti di Attuazione

 

Art. 1 – I comini che costituiscono la regione storica arbëreşë, convinti che la conservazione del patrimonio materiale e immateriale, interessi i tutori e i conservatori della arbëreşë, si augura che si possa giungere a una collaborazione sempre più estesa, condivisa e concreta, indispensabile per favorire e conservare idioma, consuetudine, arti, storia e cose della minoranza; si ritiene, in oltre, altamente desiderabile che le istituzioni e i gruppi qualificati, senza minimamente intaccare il diritto pubblico, possano manifestare il loro interesse per la salvaguardia del patrimonio attraverso cui la civiltà ha trovato la sua più alta espressione, oggi purtroppo largamente esposta e per questo compromessa dalle dinamiche di attuazione globale; gli intenti della RsdsA vogliono allargare i temi di studio ai singoli e alle organizzazioni della cooperazione intellettuale condivisa il cui fine mira a rendere sostenibile la cultura benevola sostenibile dalle singole macro aree.

Art. 2 – le norme di tutela si applicano negli ambiti caratterizzati e vissuti dalla minoranza, in cui sono ancora presenti episodi delle loro permanenza, per questo è importante individuare le arre geografiche ad esse riferibili, dove lingua, consuetudine, religione, rito e genio locale, sono divenute l’espressione del peso storico della minoranza dal XV secolo; va sottolineato che la carta ha il solo fine di tutelare, sostenere e valorizzare gli ambiti delle popolazioni di origine albanofona, che in leale convivenza con quelle indigene, vive nel pieno rispetto della giusta integrazione, secondo i diritti e i doveri sanciti della Costituzione Italiana.

Art. 3 – Le macro aree riferibili alla minoranza arbëreshë ricadono nelle regioni e le relative provincie qui elencate: Abruzzo, Provincia di Pescara; Molise, Provincia di Campobasso; Puglia, Provincia di Foggia, Taranto e Lecce; Campania, Provincia di Avellino e Benevento; Basilicata, Provincia di Potenza; Calabria, Province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria; Sicilia Provincia di Palermo, Trapani e Enna.

Art. 4Costatato che le condizioni della vita moderna vede soccombere le eccellenze storiche della regione storica, si trovano sempre più compromessa da episodi manifesti; si ritiene quindi opportuno formulare regole che si adattino alla complessità dei casi, e per questo si raccomanda quando segue:

1) la collaborazione dei conservatori, degli architetti, dei rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche, naturali, storiche e dell’idioma, i quali, quando raggiungono risultati che garantiscono idonea applicazione siano studi riferiti o divulgati.

2) a tal proposito si dovrà provvedere alla messa in atto di un canale multimediale condiviso dalla RsdsA, attraverso cui gli Uffici o sedi amministrative, delle metodiche portate a buon fine, diventino anche la vetrina prima, durante e dopo l’esecuzione delle metodiche di salvaguardia.

3) per questo sarà anche costituito un archivio centrale in cui convogliare per consultazioni o riferimenti di ogni natura riferibile alla minoranza in modo da evitare interpretazioni e manomissione ad ogni bene del patrimonio storico materiale ed immateriale 

Art. 5 È importante rilevare che negli interventi di edifici o quinte di ambiti storici, il carattere e la fisionomia tipica che caratterizza la fisionomia del rione, deve essere oggetto di cure particolari, nel pieno rispetto della tutela prospettica e cromatica. Oggetto di studio possono anche essere le piantagioni e le ornamentazioni vegetali per conservare l’antico carattere. Essa raccomanda soprattutto la soppressione di ogni pubblicità, di ogni sovrapposizione abusiva sottoservizi, di ogni industria rumorosa e invadente, in prossimità di episodi dell’arte e della storia.

1) per quanto detto va posta particolare cura agli elementi materici che compongono l’opera come la disposizione che essi anno per restituire la composizione stilistica e materica che non deve essere alterata con forme e materiali che ne deturpino il senso e l’equilibrio formale;

2)l’equilibrio materico è formale va mantenuto anche nelle forme di infissi tetti grondaie, cornicioni e ogni tipo di elemento che possa deturpare l’equilibrio storico degli ambiti in particolar modo quelli che ricadono all’interno del centro storico o identificate come zone(A). 

Art. 6 – Gli ambiti a cui fa riferimento la carta, sono il territorio e il costruito storico, tutelando, quali elementi caratteristici, sono le Kaljve, Katoj, rruhat, vicoli ciechi, gli orti botanici relativi, le abitazioni a due livelli, i profferli di frazionamento familiare, i moderni palazzi post napoleonici, le chiese, oltre ogni tipo di presidio religioso. Gli stessi che dal punto di vista urbanistico rientrano nella tutela, degli anfratti e tutte le opere realizzate dagli Albanofoni nella mitigazione del paesaggio da naturale a costruito. Al fine e per completare la tutela degli ambiti citati, va posta particolare attenzione alla toponomastica di ogni ambito, in quanto rappresentano l’evoluzione di avvenimenti caratteristici di mutua convivenza tra territorio e uomo, ed è per questo che le prospettive non devono perdere nella maniera più rigida, fome, pigmentazioni e l’articolarsi di queste secondo tempi e temi locali in linea con la storia; la norma si applica anche a tutti i beni immateriali e della manualità in senso generale, in quanto celano significativi elementi del contributo al sostentamento della cultura e delle arti in generale oltre all’agro, silvicola e pastorale arbëreşë.

Art. 7 – Oltre al costruito, le disposizioni di tutela trovano applicazione anche negli elementi immateriali quali canti pagani e religiosi o nella rievocazione storica degli appuntamenti di inizio estate, in quanto, atto d’integrazione tra indigeni e arbëreshë; sono anche oggetto di tutelare tutti gli avvenimenti e i riti che sono poi l’orologio biologico, lo stesso che scandisce le stagioni nell’anno solare, sia per quanto riguarda gli aspetti civili che religiosi, per questo vanno trascritti in precisi protocolli rituale che si avvalgono di tutte le scienze e le tecniche utili a dare significato univoco all’evento, previo lo studio di verificare storico certificante, la giusta attuazione.

Art. 8 – La conservazione del patrimonio arbëreshë quindi si applica per ogni macro area, habitat, manufatto, anfratto o episodio che sia rappresentazione fisica o materiale della cultura generale degli arbëreşë, costumi, consuetudine e religione strettamente legata al territorio e al suo costruito, trama di Iunctura diffusa della RsdsA, in quanto, contenuto e contenitore parallele alle aree geografiche d’Albania.

 

Finalità

Art. 9 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale serve a tramandare senza compromettere o modificare il patrimonio che non appartiene a noi, ma alle generazioni future e anche per queste ultime si applica lo stesso principio.

Art. 10 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale è limitato al solo usufrutto che non va inteso come sintesi del significato, ma coerentemente, siano utilizzati per dare continuità inequivocabile alle caratteristiche consuetudinarie, della lingua e di tutti gli atti materiali depositati nella parlata arbëreşë, impegnandosi per questo a non alterare o piegare secondo alloctoni procedimenti di sintesi, nulla di quanto ereditato.

Art. 11 – La conservazione e la tutela e il non applicare sin anche coloriture anomale, diventa quindi prioritario per ogni Albanofono che s’impegna alla sostenibilità della condizione ambientale secondo tradizione ereditata; saranno inoltre messe al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzo che possa alterare i rapporti di volumi, dei materiali e dei colori esistenti.

Art. 12 – I beni materiali e immateriali non possono essere separati dai luoghi storici nei quali sono stati testimoni, né dall’ambiente in cui si trovano. Lo spostamento di una parte o di tutto non può quindi essere accettato se non quando la sua difesa lo esiga o quando ciò sia significato da cause di eccezionale interesse di tutta la Regione storica diffusa e sostenuta dagli arbëreşë.

Art. 13 – Gli elementi della manifattura in senso generale o in particolare, manifatture, sculture, pitture o decorazione che sono parte integrante della regione storica o degli ambiti urbani, non possono essere separati da essi se non quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Art. 14 – La salvaguardi degli ambiti e le eccellenze tipiche degli Albanofoni vanno normati e sottoposti a processi, che devono rispettare protocolli preordinati; lo scopo è di conservare e di rivelare i valori formali e storici di ogni manufatto o evento consuetudinario, che trova coerenza nel rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche.

Art. 15 – La tutela di ogni cosa deve fermarsi, dove ha inizio l’ipotesi: sul piano della ricostruzione congetturale qualsiasi atto per il completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche, tecniche e consuetudinarie, deve distinguersi dalla progettazione architettonica o storica raccontata, le stesse che dovranno recare necessariamente il segno della nostra epoca. Il processo di valorizzazione e tutela sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio storico, archeologico e linguistico arbëreşë, riferito a un monumento, un manufatto, una consuetudine, un rito, un canto riferibile alla macroarea.

Art. 16 – Quando le tecniche tradizionali si rivelano inadeguate, il conservare che deve proteggere un monumento, manufatto o la stessa consuetudine può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi atti a produrre la corretta conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata con dati scientifici e sia garantita dall’esperienza e approvata dalle memorie storiche, la cui attendibilità sia garantita dall’essere un portatore sano e non riesumato.

Sostenibilità

Art. 17 – Nella conservazione e valorizzazione dei beni materiali e immateriali arbëreşë sono da rispettare tutti i contributi scientifici e storici che ne certifichino l’assetto, rilevando l’epoca di appartenenza, perché l’unità stilistica o di abbellimento non è lo scopo il principio della difesa; quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura di epoca anteriore non si giustifica che eccezionalmente, a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, ritenuto soddisfacente il suo stato di conservazione; il giudizio sul valore degli elementi in questione e la decisione circa le eliminazioni da eseguirsi non possono dipendere dal solo autore del progetto ma da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo e Il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) .

Art. 18 – Nelle opere di restauro o ripristino dell’integrità del manufatto di qualsiasi fattura, si dovrà fare uso di elementi destinati a sostituire le parti mancanti che devono integrarsi armoniosamente nell’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché la metodica di tutela non falsifichi il manufatto o il suo valore della consuetudine storica di memoria, al fine di rispettate, sia l’istanza estetica che quella storica.

Art. 19 – Le aggiunte non possono essere tollerate se sono all’interno delle regole consuetudinarie arbëreşë e, tutte le parti devono rispettare la coerenza storica ed estetica, l’espressione dal punto di vista della tradizione, dell’equilibrio e il rapporto con la storia di macro area.

 

Art. 20 – Gli elementi devono essere oggetti speciali e caratteristici del luogo, al fine di salvaguardare la loro integrità e assicurare coerenza con la macro area per l’idonea prosecuzione del messaggio; i lavori di conservazione e di ripristino del senso proprio del manufatto sono eseguiti e devono ispirarsi ai principi enunciati negli articoli precedenti.

Art. 21 – Le scuole di ogni ordine e grado saranno coinvolte con attività settimanali di ricerca e sopraluoghi al fine di prendere atto di quanto sia di loro appartenenza e che un giorno dovranno provvedere a tutelare.

Art. 22 – la toponomastica e gli appellativi di luoghi, rioni, vichi e prossimità abitative devono essere tutelati e ricollocati con diciture bilingue certificate e corrette, evitando di sostituirle con eventi o personaggi che in vita mai avrebbero sottoscritto tali scelte.

Art. 23 – l’ambiente non costruito rappresenta anche esso una traccia e quando contempla il tracciato storico delle attività agro salvo pastorali, cosi anche le fontane e gli abbeveratoi che furono stazioni strategiche della transumanza o i percorsi verso i presidi della trasformazione agricola, vanno valorizzati con la messa in opera di percorsi pedonali o ciclabili dell’arti agrarie.

Art. 24 – Lo stesso principio vale per l’estrazione di minerali o i forni della produzione di calce e mattoni o di ogni genere di prodotto lapideo, come cave o le dette “parere”.

La Storia

Art. 25 – La storia della minoranza albanofona va riferita secondo le cadenze cronologiche, a partire, dal XIV secolo a oggi, senza prevaricazioni e valorizzare, esaltare uomini e avvenimenti nei confronti e rispettosi di epoca, luogo o avvenimento. La regione storica va storicamente tracciata con regole precise, in cui si dia l’esatto valore per la letteratura, la scienza la religione e le leggi; la regola vale anche per i periodi, le cose e gli uomini neri che in regione storica vagarono (fortunatamente in numero molto esiguo), tutto quanto per disegnare un quadro definitivo e senza ombra o velo alcuno della storia per le eccellenze arbëreşë.

Art. 26 – Sottoporre ad attenta analisi la storia del Collegio Corsini e il peso culturale civile e religioso, in quanto primo luogo della sapienza arbëreşë, direttamente connesso nello scenario europeo, sia nella sede modica e, solidi principi di San Benedetto Ullano e poi in quella più estesa in ogni senso dopo il 1792 di Sant’Adriano, sino alla sua storica scissione con la nascita del convitto, la scuola di Sant’Atanasio in Roma e la solida Curia di Lungro nel 1919.

 Art. 27 – Va in oltre rilevata l’urgenza di stilare un elenco in cui le eccellenze dal punto di vista umano in campo letterale, ecclesiastico, giuridico e della scienza esatta e di tutte le discipline che contribuirono alla crescita e l’unificazione del meridione, le stesse che invece di essere vanto  devono fare la fila confusa per  apparire incontaminati alle nuove generazioni arbëreşë e terminare di voler valorizzare alcuni campanili a scapito di altri, che oggi potrebbero essere vanto mondiale per i primati raggiunti dalla RsdsA.

Art. 28 – I Comuni le Associazioni e le Università si impegneranno a fornire una chiara e leggibile storia di tutti i luoghi le cose e gli uomini della regione storica, priva di inutili rammenti che vogliono coprire alcuni aspetti, rispetto ad altri; per questo ogni relatore deve utilizzare tutti gli strumenti e le professionalità per avere piena consapevolezza degli ambiti e delle cose trattate; a tal proposito e opportuno rilevare che la RsdsA viene raccontata come chi paragona Cristoforo Colombo, a chi termino nelle coste dell’isola d’Elba.

I Presidi della Memoria

Art. 29 La messa in atto di musei esposizioni o eventi devono essere attuati nel pieno rispetto della tradizione con il fine di tramandare senza personali interpretazioni, quanto esposto o divulgato; il fine comune da perseguire è quello di tracciare un itinerario nelle diverse macro aree, che possano riferire in maniera unilaterale gli eventi storici e di quanto abbiano inciso su quel territorio la consuetudine le arti sartoriale e tutte le altre  attività agro, silvicole e pastorali, eccellenza per la quale furono accolti i minoritari.

Art. 30La vestizione dei costumi va eseguita secondo l’antico rituale, rispettando tempi e caratteristiche estetiche che completino in tutte le sue parti, l’esposizione delle preziosissime vesti; il costume femminile dalla tradizione arbëreşë e un elemento unico, è il riferimento storico, per questo va utilizzato nella sua interezza ed esclusivamente in manifestazioni e momenti istituzionali o religiosi, poi eventualmente la versione di sintesi molto più sobria, va esibita in spettacoli o manifestazione di senso pagano o commerciale senza atti di pura esposizione fine a se stesso.

Art.31 – I lavori per la tutela e la conservazione degli elementi materiali e immateriali delle caratteristiche arbëreşë saranno sempre accompagnati da una rigorosa documentazione, con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e fotografie redatte da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, uno Storico, un antropologo, un filologo, uno psichiatra e almeno un Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato).

La Difesa dell’Idioma

Art. 32 – Per la tutela e la conservazione dell’idioma e degli ambiti costruiti saranno eseguiti studi specifici all’interno della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, estrapolando e riunendo tutte le parlate tipiche delle macro aree a iniziare dal corpo umano e gli elementi prossimi al suo sostentamento e naturali; scremate di tutte le cadenze idiomatiche Ispaniche, Francofone e Bruzie; solo a seguito di questa operazione si porteranno a confrontare i risultati con quello della terra di origine odierna, per tornare in nell’antica terra di origine a riconfrontarli; il fine mira ad ottenere un solido fulcro antico  che non sia compromesso da chi gli arbëreşë rifiutarono di condividere cose  nel XV secolo, preferendo l’esilio e patire in terra altra ben da oltre cinque secoli.

Art. 33 – I dati ottenuti dal procedimento su citato per l’integrità dell’idioma, vuole evidenziare le parlate comprovate e definite da un comitato scientifico preordinato e che non siano il semplice confronto di appassionati che vivono macro aree dissimili o istituti che producono riversi di ricerca, ma da un comitato scientifico in questa fase così composto: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo, Un Filologo, Uno Psichiatra e il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) e un numero di Linguisti pari a quello di tutti i componenti la commissione.

Art. 34 – Le parlate tipiche saranno raccolte in due distinti volumi: il primo letterario e grammaticale; il secondo della manualità, delle scienze e delle arti, disegnato schematizzato in coloritura .

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Tale documentazione sarà depositata in pubblici archivi e sarà messa a disposizione degli studiosi.

La sua pubblicazione è vivamente raccomandabile.

Senza titolo

Commenti disabilitati su “CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

Posted on 14 luglio 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando i canali culturali dei media e istituzionali di ogni ordine e grado, trattano, analizzano o esprimono pareri sui centri abitati di radice arbëreşë, ovvero i Katundë, questi diventano argomento variegato di interpretazioni di epoche con cui non hanno nulla da condividere, perché sono la risorsa abitativa di luoghi in comune convivenza con le cose della natura che protegge l’uomo.

Ogni Katundë e, mi riferisco a quelli nati o ripristinati dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgi Castriota e, sino all’essedo concordato di termine del Impero Romano d’Oriente del 1533, rispetta lo stesso ordine dell’edificato, secondo quattro rioni tipici, che perimetrano spazi urbani, secondo iunctura dei gruppi familiari allargati arbëreşë.

La chiesa, l’antico loco indigeno, il promontorio, il nuovo edificato arbëreşë, sono il sunto dei rioni da cui prende avvio lo sviluppo di ogni Katundë, questo rappresenta il sostantivo in grado di riassume il valore di tutto il centro antico e nel corso del tempo di quello storico definendosi in lingua parlata della minoranza, luogo di movimento: Ka – indica un luogo; Tundë – sinonimo di Movimento.

Comunemente si riferisce di un “centro di radice Arbëreşë” definendolo, Borgo, identificandolo con disposizioni e tipologie urbane circolari e sociali, appellate Gjitonie, Sheşi o Quartieri, per poi tipizzare questi ultimi, nati attorno o nei pressi di palazzi nobiliari, dove sono conservati, pergamene, costumi e cose di varia natura, perché trascinate nei bauli ai tempi della diaspora del XIV secolo immaginando l’era medioevale come quella moderna della globalizzazione.

Si può da subito notare che nulla di ciò appartiene alla “Regione storica diffusa e sostenuta degli Arbëreşë”, quando si prende la via di approfondire argomenti e sostantivi, senza averne i requisiti di studio specifico, ma neanche basi di semplice lettura di un comune dizionario.

Specie se ci soffermiamo sul significato di Borgo, Sheshi e Gjitonia; secondo cui il primo dovrebbe essere una città murata e i Katundë degli Arbëreşë sono tutto e non vi è murazione che ne definisca termini e perimetri; il secondo dovrebbe essere uni spiazzo o piazza piccola e invece è un  “Rione”, dove la Iunctura familiare è fatta da Katoj, Vicoli ciechi, Orti, Vally, Supportici e viuzze strette e articolate; il terzo dovrebbe essere uguale al vicinato, ma se fosse realmente cosi, perché non lo si specifica e si usa questo sostantivo invece di Gjitonia e si spiega, cosa vuol dire? come qui di seguito faremo con dovizia di particolare ogni cosa.

Un Borgo è l’esatto contrario di un Katundë, in quanto, quest’ultimo, è realizzato secondo i canoni della città aperta, la stessa che oggi l’era modella appella come città metropolitana; lo Sheshi è un rione di Iunctura sociale, che non può essere definito da quanti non hanno titoli specifici in campo urbano o di valori sociali della storia degli uomini.

Uno Shëşi è un insieme costruito, fatto da case, vicoli articolati, orti, Vally e suppostici, dove la percorrenza del viandante ò regolata dalla articolata e difficile percorrenza delle strade pubbliche dove sono apposte gradinate e archi per la lenta percorrenza, queste ultime strette e colme di accessi delle piccole Kallive e, il più delle volte non conducono a spazi liberi se non in articolati spazi definiti Vally o negli orti di Iunctura dove non vi è via di fuga.

La Gjitonia è un termine con il quale gli arbëreşë, si organizzavano socialmente, negli ambiti del centro antico, definito “luogo dei cinque sensi”, lo stesso condotto diretto e sostenuto dal Governo delle donne che parlano vestono e crescono le nuove generazioni secondo protocolli rigorosamente in arbëreşë

A tal fine è bene precisare che un centro per essere definito di radice Arbëreşë deve contenere all’interno del suo perimetro primario, i Shëşi strategici di prima epoca, ovvero; il Loco degli indigeni locali e la Chiesa, a cui fanno seguito nell’attimo della riedificazione arbëreşë il Promontorio, il Loco di approdo, tutti disposti per consentire l’articolarsi e il confrontarsi secondo i principi di iunctura mediterranea.

Queste ‘architetture’, sia che nascessero con l’intento di integrarsi nei diversi ambiti culturali, sia che facessero dell’isolamento e dell’essere difesi dalle cose naturali il loro tratto distintivo, hanno contribuito a creare spazi urbani e luoghi dell’abitare, dotati di caratteri tipicamente ‘Arbëreşë’, continuando a vivere e svilupparsi radicandosi nei vari contesti paralleli ritrovati.

Le epoche che vanno dal XIV secolo Al XIX secolo definiscono spazi, vie e l’edificato, che nel corso della forbice prima citata, assume diverse tipologie e di espansione planimetrica, volumetrica e del tipo architettonico.

Questi si possono riassumere in: monocellulare piano, poi altimetrico, con profferlo, sino al XVII secolo, per poi assumere dopo il 1783 edificando la conformazione palazzata, naturalmente secondo le categorie economiche e sociali in differente crescita.

La tipologia monocellulare che dal greco individua la cellula abitativa tipica, ovvero Katoj o Katoj dirsi voglia, è una cellula primaria che racchiude i bisogni familiari primari, di rifugio e produzione e conservazione degli alimenti primari della dieta mediterranea o, delle tra “V” in arbëreşë, Verë, Vallë e Verdüràtë.

È qui che i valori di casa e le attività comuni di proto industria trovavano agio grazie alla fratellanza familiare che univa le madri nel tipico governo delle donne e produceva alimenti di conservazione di raffinata e eccellenza.

La mono cellula primari si componeva di uno spazio quadrangolare disposto lungo il vicoletto di transito pedonale con il lato più corto che in genere non superava i quattro metri e quello più esteso perpendicolare alla strada che aveva uno sviluppo variabile e poteva anche raggiungere i sei metri e oltre.

Il pianoro abitativo era ricavato scavando e rendendo piano nel solido terreno per la porzione utile a descrivere il perimetro interno della mono cellula che non aveva alcun sistema fondale, assicurato dalla solidità del terreno e quindi il perimetro murario che descriveva lo spazio casa aveva appoggi differente per i quattro muri perimetrali.

Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.

I Rioni, del Katundë, ovvero Kishia, Moticèlleth o Kalivë, Sheshi, Bregù e Nxertath, o di espansione, rappresentano il percorso evolutivo seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico.

Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile e l’orto botanico era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto botanico e stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, da agio al realizzare dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

La Gjitonia, (dove vedo e dove sento, il governo delle donne), sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreşë.

La Gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nello sheshi e in tutte le direzioni delle articolate rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali e non solo.

La Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata con precisi confini fisici.

Per questo gli agglomerati arbëreşë rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.

Il piccolo abituro, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia in tutto la nota adobe, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post decennio napoleonico.

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GIS e Beni Culturali: beni tangibili e beni intangibili GIS and Cultural Heritage: tangible and intangible assets Caterina Gattuso a, Atanasio Pizzi b, Valentina Roviello c

Posted on 22 giugno 2024 by admin

a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it

bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it

c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it

 

Abstract

La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.

In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.

Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in  una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.

 

Abstract

The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.

In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.

The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.

 

Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili

Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage

 

  1. Introduzione

Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.

La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.

Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.

I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.

  1. Beni tangibili e aree archeologiche

La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:

  • alla ricostruzione della stratigrafia del sottosuolo, che nel tempo è stato condizionato da frequenti variazioni eustatiche e da eventi vulcanici, con conseguenti interdigitazioni di depositi di ambiente marino, alluvionale, vulcanico, e la formazione di una circolazione idrica sotterranea superficiale (Sacchi M. et al., 2014, Amorosi A. et al., 2012);
  • allo studio dell’uso del suolo e della geo-morfologia costiera dall’antichità ad oggi, ossia lo studio dei processi di tipo naturale o antropico che hanno determinato l’evoluzione del territorio e della costa (D’Ambra G. et al., 2009, Ruberti D. et al., 2008);
  • allo studio delle popolazioni floristiche e faunistiche che popolano l’area, mirato alla conservazione del paesaggio, conferendole un’importanza non solo a livello naturalistico, ma anche ecologico (l’Oasi dei Variconi e la Pineta di Castel Volturno) (D’Ambra G. et al., 2005).

Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.

All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera).  L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).

 

Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le  aree interne dal mare, ma   anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.

 

  1. Beni intangibili e cultura arbëreshë

Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).

Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.

Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:

Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);

Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);

Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);

Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);

Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);

Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);

Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).

 

         Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.

 

Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.

La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.        

L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.

 

 

  • Carte storiche e disposizione dei centri urbani

 

L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.

 

 

L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.

Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).

Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.

 

Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.                                         

Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:

  • il recinto delimita il territorio ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, anch’essa circoscritta dal cortile, costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;
  • il giardino, luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.

Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).

 

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso  B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .

 

Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.

 

Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).

Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).

La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.

Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo    degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.

L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).

Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.

 

Conclusioni

Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.

Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.

Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.

In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un  importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.

Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.

 

References:

Amorosi A., Pacifico A., Rossi V., Ruberti D. (2012). Incisione tardo Quaternaria e deposizione in un ambiente vulcanico attivo: il riempimento della valle incisa del Volturno, Italia meridionale, Sedimentary Geology., 282, pp. 307-320, ISSN: 0037-0738.

Capasso B. (1905). Napoli Greco Roman, Arturo Berisio.

Cirelli F. (2006). Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato 1853 – 1860Calabria  Papato edizioni per conto della Soprintendenza della Calabria

Crimaco L. (1991), Volturnum, Quasar Edizioni – Roma, ISBN 88-7140-027-5 .

D’Ambra G., Petriccione M., Ruberti D., Strumia S.,Vigliotti M. (2005). Analisi multidisciplinare delle dinamiche dei caratteri fisici, antropici e vegetazionali nella Piana Campana (CE), Atti della 9° Conferenza Nazionale ASITA, Catania, 15-18/11/05, vol.1, pp. 843-851.

D’Ambra G., Ruberti D., Verde R., Vigliotti M., Roviello V. (2009). La gestione integrata della fascia costiera: studio e correlazione di variabili a carattere biologico, ecologico, chimico e sedimentologico del Litorale Domitio, in Provincia di Caserta, Atti 13° Conferenza Nazionale ASITA, Fiera del Levante Bari, 1-4/12/2009.

Dodaj P. (1941). Il Kanun le basi morarli e giuridiche della società albanese, Besa.

Giura, V. (1984). Storie di minoranze: ebrei, greci, albanesi nel Regno di Napoli. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane.

Gonzalès R. A. (2005). Exstremadura Popular Casas y Pueblos, Collezione arte/arqueologia.

Mandalà M. (2007). Mondus Vult decipi – i miti della storiografia arbëreshë, Pa: A. C. Mirror.

Mazziotti I. (2004). Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Edizioni il Coscile.

Pizzi A. (2003). Sheshi i Pasionatith.

Roviello V. (2008). Analisi geologico-ambientali del litorale domitio e del basso corso del fiume Volturno, Tesi magistrale inedita.

Ruberti D., Strumia S., Vigliotti M., D’Ambra G., D’Angelo C., Verde R., Palumbo L. (2008). La gestione integrata della fascia costiera: un’applicazione al litorale Domitio, in provincia di Caserta, Atti del Convegno Nazionale “Coste Prevenire, Programmare, Pianificare”. Maratea, 15-17/05/2008, Studi e ricerche della collana dell’Autorità di Bacino della Basilicata n. 9, 309-319.

Sacchi M., Molisso F., Pacifico A., Ruberti D., Vigliotti M. (2014). Evoluzione olocenica del Lago di Patria, Campania: un esempio Mediterraneo di laguna costiera associata a un sistema deltizio, Global and Planetary Change. 

De Leo P. (1988). Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Di Mauro Editore

 

 

 

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IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë  L’ina Casa)

IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë L’ina Casa)

Posted on 22 gennaio 2024 by admin

Ina Casa 2NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I diffusi manufatti abitativi vernacolari, dei centri minori e dell’agro Arbëreşë, qui presi in esame, hanno convinto a perseguire questa pista di indagine o ricognizione, con lo scopo di sensibilizzare le amministrazioni locali; in figure di genere, ordine e grado pertinente.

Il tema mira al recupero di un patrimonio largamente esposto ai disastrosi operatori, che non avendo misura e formazione pertinente hanno lasciato che il valore di questi storici manufatti, venisse deturpato dalle ire del tempo e dell’uomo munito di pico e accetta.

Quello che oggi ereditiamo dopo questo intervallo sciagurato, è lo stato di degrado rilevato, per il nulla fatto, verso questi esemplari unici dell’edificato vernacolare

I quali si sono potuti difendere solo grazie alla buona scelta dei materiali locali impiegati e resistono in autonomia alle avversità, offrendo a noi tecnici, un’ultima opportunità al loro cospetto, perché allievi dalla “Scuola Olivetara” e dare cosi una nuova era di rivalsa dopo l’indagine qui in proposta.

Questi esempi di architettura vernacolare irripetibili, sono ormai sulla via della terminazione e, in molti casi non si tratta più né di conservare e/o restaurare pur se presenti, ma siccome ignorati, hanno preso la via della terminazione.

Questa breve constatazione non vuole essere atteggiamento accusatorio o di giudizio, degli interventi pubblici o privati, posti o non posti in essere, ma piuttosto un tentativo di sensibilizzazione e trarre l’attenzione, su quanto non è stato fatto per la conservazione di antiche strutture, prive sia di rilievo per la memoria e sia di progetti a fini conservativi.

Inoltre si è constatato che gli esempi disponibili quelli vernacolari, monocellulari denominati Katoj, Moticelljè, Kocellja o Kallive, sono stati poco considerati, mancando una seria attenzione o interesse per la conservazione, che avrebbe dovuto seguire le regole del restauro, per la memoria che avvolgono questi luoghi.

Gli stessi e unici in grado di raccontare o meglio il teatro della storia antica e quella più recente sino agli anni sessanta del secolo scorso.

Quella storia che i letterati, o meglio gli scribi che non sanno di carta lucida, matite e righelli, ma carte e penna per annotare e certificare per conto di chi li ha preceduti, favole di miti diversi senza cavallo.

La possibilità di vedere in tempi brevi realizzato un progetto di ricerca vernacolare, con trasparenza per la sua origine ispiratrice dell’inesplorato mondo tangibile e intangibile degli innalzati storici, fatti dagli Arbëreşë.

Il rapporto, tra scuole locali e beni culturali, sarà uno dei passi fondamentali per aprire un nuovo protocollo di tutela innovativo, che parte dal basso per impedire la deriva di abbandono sino ad oggi lasciata alle ire del tempo.

Allargare l’interesse partendo dal basso con le scuole locali, pronte alla formazione nuova e, poi terminare nei piani alti delle istituzioni sino ad oggi assenti, pur se formate, ma mancanti di leggi specifiche verso il vernacolare Arbëreşë

Le considerazioni che qui seguono e prima sono trattate, mirano ad illustrare quali prospettive potrebbero avere le esperienze pregresse del gruppo di lavoro, le stesse utilizzate e riversate per sensibilizzare le nuove generazioni, verso questi manufatti locali, nelle scuole dell’obbligo lì di fianco e, identificate come vernacolare identitario delle proprie famiglie.

È chiaro che prima di avviare questo percorso di tutela, bisogna giungere ai risultati preposti, con l’ausilio di alte indagini in argomento vernacolare e con la stessa sensibilità utilizzare l’analisi, materica, che possa garantire quali sono gli di edifici civili o eventualmente religiosi e, dopo i protocolli di rilievo, da allegare a memoria del progetto di recupero a farsi, onde evitare di incorrere a errori che ne possano smarrire per sempre l’essenza.

Questo lavoro di rilievo grafico, fotografico, e materico serve a identificare e catalogare, ogni cosa dell’edificato vernacolare della ricerca, previo la definizione di un protocollo con la individuazione di fonti archivistiche e bibliografiche dello stato del modulo, anche se inglobato in edifici di epoca più recente gli stessi che caratterizzano numerosi edificati rinascimentali, diffusamente presenti nelle provincie meridionali.

Lo studio e l’analisi ormai sviluppate e pronte ad essere applicate, potrebbero alimentare future attività di lavoro e recupero del patrimonio vernacolare, gli stessi non contemplato nella tutela dei beni culturali e in specie relativi o caratteristica inequivocabile del territorio minoritario Arbëreşë, anche perché, la legge di tutela 482/99 ad oggi, non è arricchita con le disposizioni dell’art. 9 della costituzione Italiana.

Già consapevoli, dalla corposa, ma lacunosa, documentazione custodita dalle istituzioni tutte, si è partiti con il verificare numerosi centri antichi e i relativi cunei agrari, avvalendosi dell’effettivo stato di conservazione dei manufatti in loco.

Il materiale in elaborazione è stato schedato facendo riferimento, quanto più possibile, alle reali condizioni delle strutture e il materiale che compongono i manufatti.

Il rilievo e le indicazioni grafiche fotografiche e di osservazione in presenza, daranno seguito alla composizione di schede sulla base del comparto di indagine specifico, con le quali si vogliono fissare e fermare lo stato delle cose di conservazione in atto.

Tutto questo per avere lo stato all’interno di ciascuna specifica Manxzana (Rione tipico di Iunctura Arbëreşë) dello stato a seguito di specifico sopralluogo, relazione tecnica, oltre a specifica nota descrittiva, contenente i riferimenti di osservazione materica degli elevati e gli orizzontamenti di piano e lamia di copertura, oltre la descrizione del continuo dei manufatti articolati nel corso degli anni, in tutto, lo stato finale del bene culturale vernacolare Arbëreşë.

L’indagine mira a catalogare sia edifici sul territorio preso in esame, sin anche quanti distrutti o resi ruderi dal tempo e dei quali restano frammenti di testimonianza in resti di fondazione ancora, presenti sotto le eventuali colture.

A breve saranno reso noti reperti non catalogati o addirittura noti, dei quali si ha memoria nei vari sopralluoghi effettuati.

Allo scopo e stimolare ulteriori studi da parte degli specialisti o dalle giovani leve che portano la notizia nei propri ambiti familiari come domanda per ricevere risposta scientifica in seguito.

Alla catalogazione seguirà un’ampia informativa storiografica, o aggiornamento sullo stato della ricerca, in ordine della storia locale, la toponomastica, riferita al comune preso in esame.

Per quanto riguarda i materiali, visto il tema di indagine, si mira a produrre o allestire un Prontuario o manuale che ne dia ampia illustrazione.

Saranno date alle stampe illustrazioni fotografiche e grafici di memoria, al fine di fermare lo stato di quanto sarà descritto, e di quanto scoperto, anche inedito.

Con la consapevolezza che indagini di questa caratura, voglio restituire un lavoro unico di questo genere, l’auspicio o l’augurio vuole che quanto a breve esposto, sia un utile strumento per gli specialisti di nuova generazione o studiosi delle cose di storia locale.

Tutto questo ad iniziare con il comparare quanto di vernacolare innalzato nei centri antichi e dell’agro, specie quanto riferibile in prima stipula degli atti di sottomissione degli Arbëreşë.

Gli esempi estratto dai numerosi o risalenti alle disposizioni delle celle monastiche di area bizantina; le vetrine di genio vernacolare primo, la stessa metrica indagata e riproposta in epoca moderna, dai più illustri architetti del razionalismo del secolo appena trascorso.

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Pietra angolare

GJITONIA SISTEMA ABITATIVO VERNACOLARE IN RADICE CONVIVIALE MEDITERRANEO

Posted on 30 agosto 2023 by admin

Pietra angolareNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel mentre ci si affannava per meglio risolvere la questione Albanese dall’inizio del XIX secolo, terminando con la discutibile legge 482/99, nel mondo dell’architettura si innalzavano i valori Vernacolari, con protagonista: il sud della penisola balcanica, il sud dell’Italia, il nord della Tunisia e Marocco e sino al sud della spagna, del portogallo e dell’isola di Ibiza.

E se i comuni legislatori avessero mirato verso esperienze di tal senso forse oggi quella legge non avrebbe tante lagnanze a suo sfavore.

Un dato rimane ed è inconfutabile, ovvero, non si possono setacciare millenni di avvenimenti, per poi ridurre tutto a minoranza o al lamento di una lingua altra o previlegiando la sua origine a Sud della penisola balcanica, per poi appellarla Arberia, regione storica a Nord di quella nostra terra madre.

È tempo di conversare utilizzando l’appellativo “Regione Storica Diffusa degli Arber”, al fine di identificare parallelismi sostenibili e concreti del bacino Mediterraneo.

Attualmente si riconosce il paesaggio come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione della popolazione, assumendo la funzione di bene non statico, ma dinamico.

I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo  sono la prova evidente e ancora viva nella memori di ogni individuo.

La rapida urbanizzazione e la crescita di grandi città, l’accelerato sviluppo tecnologico e scientifico e l’emergere di mezzi di comunicazione e di trasporto di massa hanno mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, con la produzione di nuovi edifici e strutture, forme e tipologie edilizie senza precedenti, con il ricorso materiali sperimentali.

L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno creato paesaggi massicciamente modificati nonostante fossero identità locale o memoria storica di particolari eventi di non poco conto.

Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi sia tumultuosi e sia dell’identità locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni tutelati per i loro valori come patrimonio culturale.

Per questo, troppi luoghi e siti del patrimonio sono a rischio e, quando prima termineranno d’essere memoria.

Sebbene l’apprezzamento dell’architettura modernista, della metà del secolo, stia crescendo in alcune regioni, l’insieme di edifici, strutture, paesaggi culturali e siti caratteristici prima rurali e poi industriali del sono pericolosamente esposti o minacciati da una generale mancanza di consapevolezza, riconoscimento di tutela.

Troppo spesso sono aggrediti da processi di riqualificazione, da modificazioni inappropriate o semplicemente dall’abbandono inseriti in processi di modernizzazione che non hanno nulla a che vedere con i valori distintivi per i quali furono elevati o allestiti all’uso comune o privato.

Qui voglio difendere tutto ciò, in particolar modo tutti gli elevati realizzate dall’uomo e dei quali oggi non si prevedono sanzioni, in quanto non codificati o ritenuti storicamente attendibili, e quindi indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, diffusamente ignara della storia di luogo.

Memoria di una infinità di figure senza nome, distintesi a vario titolo, perché operosi in area locale, divenendo estremi, assoluti, nelle opere dell’arte per rispondere a esigenze o ai bisogni, di uomini silenziosi, in tutto, opere prime senza clamore.

Ed è per questo che non hanno trovato ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali, con i quali se ti confronti, sono pronti a difendere tragedie e opere d’un autore, un monumento, una chiesa, la facciata di un palazzo, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è confermato.

Ma nessuno si rende conto del bisogno che hanno le identità di luogo, valore estremo anche se minimo per i residenti, più di ogni mastodontico monumento o della più raffinata arte pittorica.

A ragion veduta dovrebbe essere posta attenzione particolare per ogni anonimo locale, specie se privo di identificativo famoso, specie se fa parte del vernacolare del costruito dei nostri Katundë.

L’Architettura senza architetti tenta di spezzare il nostro limitato concetto di arte del costruire, introducendo il nome non familiare di architettura senza pedigree.

Essa è così poco nota che non abbiamo neppure un nome per lei o di un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla dialettale, anonima, spontanea, indigena, rurale, a seconda dei casi.

Naturalmente non entra nello scopo di questo breve fornire una storia concentrata dell’architettura senza pedigree, e neppure una sua tipologia sommaria.

Essa dovrebbe solamente aiutare a liberarci dal nostro ristretto mondo di architetture ufficiali e commerciali, certamente inquadrare l’architettura senza autori, consente di rielaborare il significato di alcuni termini quali architettura “spontanea”, “minore” e “anonima”, operazione utile a definire il contesto di riferimento di questa ricerca che dall’Inghilterra e partita questo agosto.

Il lessico ed una precisazione di significato appaiono obbligatori soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini simili, anche se lo scopo vuole riferirli in Arbër.

È necessario approfondire quei termini che nel tempo sono stati usati, con accezioni molteplici, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo”.

Nella storia dell’architettura tale aggettivo è stato più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, una serie di opere apparentemente povere, legate a contesti locali, costruite con materiali del luogo e tecniche tradizionali.

Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea come sinonimo di architettura povera è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze primarie che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore.

L’architettura vernacolare è definita come l’architettura tipica tradizionale di un determinato luogo, realizzata secondo le esigenze locale, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle e utilizzando prodotti e materie prime locali secondo quello che si ha a disposizione.

L’architettura vernacolare è quindi un modo di costruire attento all’ambiente in cui sorge e alle tradizioni locali, l’aggettivo è una parola latina e compare infatti solo a partire dal XVIII secolo.

Essa non è altro che la pratica del genio locale, che dispone le cose in funzione del territorio su cui si sviluppa e degli abitanti.

Un edificio ideato secondo le tendenze dell’architettura vernacolare segue tre criteri dello sviluppo locale sostenibile (sociale, economico, ambientale) e promuove le attività sociali e professionali all’interno di una identificata area.

Gli immobili sono costruiti servendosi delle risorse disponibili è il vantaggio mira al costruire per essere le più durevoli contro le avversità e le condizioni metereologiche della macroarea in questione.

L’architettura vernacolare partecipa largamente alla rivalorizzazione del patrimonio, iscrivendosi così in un contesto di rispetto dell’ambiente e il clima occupa un posto di rilievo se non il primo a cui mirare, nell’immaginario architettonico, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di riscaldamento, mentre il raffrescamento e affidato al sistema murario e dei varchi accesso e controllo delle vie articolate.

Un edificio costruito secondo i principi dell’architettura vernacolare come “un edificio appartenente ad un insieme di costruzioni nate da uno stesso movimento di costruzione o di ricostruzione”, ovvero un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato la realizzazione.

Fanno parte di questa categoria le Moticellje, le Kalive o Katochi Arbër, di tutta la Regione Storica meridionale, dalla loro origine estrattiva e poi via via sino alla fine del seicento divenute le note case a profferto, i trulli a quadrilatero e dalla copertura conica, costruiti con massi di calcare, provenienti dai campi limitrofi.

Le case della costiera amalfitana e di tutta la costiera campana del tirreno, le case dell’estrema dura spagnola e delle isole del mediterraneo centrale.

Ne capitolo successivo si darà ampio e seguito dettagliato all’argomento, che aprirà un più ampio stato di fatto, per il riconoscimento di alte istituzioni preposte alla tutela della Regione Storica Diffusa degli Arbër e della loro terra di origine, nella grande penisola balcanica del mediterraneo.

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TEMINI DI MEMORIA INTIMA CHE SI RIVERBERANO DAL 28 FEBBRAIO 1985

TEMINI DI MEMORIA INTIMA CHE SI RIVERBERANO DAL 28 FEBBRAIO 1985

Posted on 27 agosto 2023 by admin

Chiesa CodraNAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se hai capacità di sussurrare agli elevati della Regione Storica con garbo ed educazione, ti risponderanno in lingua Arbër, con racconti di genio locale, così precisi e profondi, sin dove le fondamento poggiano e reggono le cose del nostro Katundë.

A tal proposito va rilevato che l’architettura delle popolazioni rurali, non è stata progettata da architetti o alti designer professionisti, in quanto le comunità, dalle famiglie proprietari si adatta all’ambiente e segue le esigenze della popolazione e del territorio dove è collocata. Per rispondere al caldo dell’estate e il freddo dell’inverno.

In tutto una tipica tradizionale di un determinato luogo, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle, utilizzando prodotti e materie prime secondo quello che si ha a disposizione, diventando l’edificato, modo di costruire attento all’ambiente e alle tradizioni locali, che per questo restano preservate. 

Ragion per la quale, saperla udire ed avvertite standole non più lontano dal tuo cuore è il modo per conoscere il resto delle cose, e varcare la soglia dove vive la storia.

Potrai udire i riverberi di quanti li elevarono e vi abitarono, in tutto le verità che manca allo scriba di ogni epoca, o quanti, non avendo misura per ascoltare e, comprendere cosa sia realmente accaduto, lungo lo snodarsi delle rughe, dento gli abituri di porte gemellate a mezza aperta; proprio lì dove l’igiene era compito affidata al tetto quando pioveva, gocce che scandivano lo scorrere del tempo e davano ritmo al conversare antico.

Ed è solo così che potrai comprendere ogni cosa se conosci la lingua e tradurre in forma comprensibile ogni cosa, riferita in battiti di cuore.

Con “le verità di luogo” emergono sin anche le giornate dal 12 e culminate il 18 agosto del 1806, con l’eccidio del Vescovo, un continuo riverbero di trame oscure senza soluzione di continuità iniziato nel 1799, con protagonista primo Pasquale Baffi, tutti episodi di una storia violenza, contro la solida credenza, che nel corso dei secoli è rimata incancellabile nella memoria di tutti i cittadini e impressa nei selciati coperti da catrame e cemento di qui luoghi del centro antico.

Cosi come deve essere memoria ogni episodio che ha visto giovani figure tragicamente mancate agli affetti delle famiglie, da quello storico ‘99 ad oggi e, fuori dalle mura natie.

Di questi, ogni nome e ogni cognome lasciamolo al ricordo e il dolore intimo dei familiari che ricorderanno sempre, tuttavia e. siccome si tratta di ragazzi e ragazze, nel mentre si preparavano alle cose della vita come protagonisti primi, sono diventati memoria velata, per la comunità intera, che oggi preferisce ammirare la trama dei veli evidenziai dalla polvere.

Tuttavia e per cancellare dubbi sarebbe opportuno apporre una stele, con su scolpiti cognomi appuntati e nomi estesi, per la memoria storica del Katundë, quella che appartiene ai suoi abitanti, gli stessi in continuo vagare camminano privi della memoria, delle cose, degli uomini e dei luoghi, oggi sempre più calpestati perché, memoria non  opportunamente mantenuta con rispettosa lucidità, compresa il grafito primo, davanti alla prospettiva violata della bimba appena concepita Adelina,  e mai nata per l’egoismo locale ancora in vita.

Quando avrà termine, egregi e ignari signori il gioco napoletano detto, “delle tre carte”,  onnipresenti devoti, che in base alle poste in gioco ora fanno i buoni poi i cattivi e in fine buttano lacrime al fianco dei poveri malcapitati che credevano di vincere, ma il gioco perverso li vuole sempre perdenti.

Le cose della “nostra storia” sono così e nessuno, mai avrà alcun beneficio civile, religioso o politico, perché poi alla fine troverete sempre uno che sa delle vostre lacrime.

Per questo è inutile associare “arche di stelle colorate” senza misura” thë mesj Jonë!!!!!” il quadro che appare non è certo quello che ogni volta speriamo possa esser giusto, tanto voi non siete artisti, perché come la gretina, avete marinato tutte le fasi sella scolarizzazione.

Attività inopportune e, prive di ragione senso e garbo d’essere; voi così………..,…,…..infangate irripetibili momenti di storia del passato locale, senza mai, prendere atto, dello sbigottimento diffuso specie verso gli onnipresenti documentaristi ormai istituzione, che non approvano queste attività di luogo inopportuni.

Ormai non si allestiscono altro che manifestazioni che ritenere, più volte labili è un complimento, per questo, sarete ricordati come barche, in balia degli eventi, privi di orientamento culturale e ogni genere comune di buon senso o garbo.

Appartenere alla categoria che condisce con grasso che cola, dal genio prescelto, lo stesso che arde vivo per comando occulto, rievocate solamente la isterica Ngulia dell’esaltato Frappitta.

A tal proposito sappiate, che distruggere e umiliare anfratti inermi, storia e uomini è un peccato culturale che nessuna penitenza, potrà mai ripulire, dal male che provocate, sarà inutile poi rivoltarvi nei vostri sogni e chiedere perdono, il risveglio vi dara conferma che il male fatto è stata cosa vera e solo il tempo lungo potrà cancellare.

Le figure eccellenti non sono ingredienti per condire storia a vostro piacimento, anche se d’istituto orchestrato. Esse non sono spezie per condire il vostro soffritto che bolle in angoli storici, mentre il fumo e i vapori prodotti, deturpano memoria.

Non sarà utile integrarlo con il macinato naturale di Stango, millantato come frammento genuino del vostro sapere, perché a ragion veduta è solo fumo dei vostri occhi.

Ormai vi resta solo stendere a terra Miletë, Sutaninë, Sutanërasj, Zoghen, Gipuni, Kesë e Shiale di porpora, immaginando che l’esaltar donne moderne, fa notizia di genere ed esalta i luoghi.

Pretendere di sapere cosa voglia dire, nel gergo militare, stendere a terra gli emblemi identitari, già eseguito oltre oceano senza e ancora averne misura dopo cinque decenni della vergogna conferma lo stato della vostra cultura, immaginata in giogatura alta, a tal proposito sappiate che non appartiene a voi ma al popolo che avreste dovuto rappresentare.

Tuttavia, un merito vi appartiene distintivo, ovvero, quello di accogliere tutti  gli individui capaci di masticare e spargere odio, separare persone, al solo scopo di reprimere iniziative di cui non avrete mai capacità d’intenti privi di cattiveria seminata lungo le rughe davanti le porte degli sheshi, specie se sono luoghi ameni di memoria buona.

Questo vi rende l’esempio primo, della culturale ormai in fase terminale; tuttavia, la cosa ancor più grave sono le figure che vi illuminano, vi orientano e vi esaltano, le uniche delle quali vi fidate senza prendere atto che, quando si accoppiano con voi conservano aghi spacciati per fare ricamo o rammendo, in realtà attrezzi di magia per accecare l’occhio del cuore e della mente che spargerà gocce di sangue in pena.

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