NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Disquisire, palare o esprimere pareri relativi a una minoranze storica non deve essere finalizzato semplicemente nel difendere una lingua, un canto, un costume tradizionale o trascrivere inadatti abecedari, ma riaffermare il principio secondo cui l’identità culturale non si esaurisce nelle parole che pronunciamo o negli atti di semplice apparizione folcloristica, perché si radica in un modo di essere, in una visione del mondo, in una trama invisibile, fatta di valori, gesti, memoria di un been identificato luogo.
Essere parte di una minoranza, come quella presente da secoli, appellata Arbëreşë, non significa solo parlare un idioma diverso, tramandare melodie antiche, accompagnate dal suono di inadatti strumenti a mantice o corda.
Il che non giustifica adagiare nel presente una storia sensibile di un’etica e relazioni che resistono al tempo e si riverbera senza mai distorcersi, perché una minoranza è uno stile di vita che rispetta la terra abbandonata e, nel contempo valorizza quella parallela ritrovata, in tutto il principio antico, della parola data.
La stessa che diventa forma di pensiero che valorizza il legame tra le generazioni, il senso del limite, il valore delle donne e l’operato degli uomini, i due governi che fanno l’ospitalità più genuina del vecchio continente.
Difendere questa minoranza non è dunque un atto nostalgico, ma un gesto di giustizia culturale, e riconoscere che la vera ricchezza di una società non sta nell’omologazione, ma nella pluralità.
Dato che non esistono “culture piccole”, ma solo sguardi superficiali e, ogni cultura diviene universo, storia, o insegnamento che può essere radicata o aperta, ma fedele a sé stessi per dialogare.
In un tempo in cui tutto corre verso l’uniformità, riaffermare la dignità di una minoranza che resiste è un atto rivoluzionario, o messaggio, in quanto non sono solo ciò che producono o consumano, ma anche memoria e ricordo, di ciò che si sceglie di custodire.
E allora, oggi, non chiediamo solo protezione o riconoscimento, chiediamo ascolto, chiediamo che la nostra presenza sia considerata una risorsa, non un residuo della nostra differenza, in tutto una forma di valore, non una distanza da colmare.
Perché, in fondo, difendere una minoranza significa difendere il diritto di ogni essere umano a essere sé stesso, in modo pieno, libero, umano.
Vale per questo anche la vestizione tradizionale delle donne, che in molte culture e in particolare nelle comunità storiche come quella Arbëreşë, non è semplice modello estetico o folklorico.
Esso rappresenta un codice simbolico profondo, che racchiude valori familiari, religiosi e identitari, che non possono essere stilizzati nell’inadatto adempimento di mezza festa o mezzo lutto, come se questi appuntamenti non fossero un tutt’uno con il sole e la luna che fanno giorni solidi.
In ragione di ciò in questo scenario identitario ritrovato la tradizione commessa all’abito diventa una dichiarazione silenziosa di appartenenza, di rispetto e di sacralità.
La vestizione tradizionale femminile è spesso ispirata a un senso di pudore e di bellezza sobria che rimanda direttamente ai valori della chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa, ma come centro spirituale della comunità.
L’atto stesso di indossare certi capi in determinati momenti come: feste religiose, matrimoni, processioni è un rituale che unisce il quotidiano al trascendente.
Nel modo in cui una donna si veste per la festa, si legge il rispetto per ciò che è sacro, per il tempo lento, per il significato profondo delle cose.
La cura con cui si tramandano gli abiti cuciti, ricamati, aggiustati, conservati, parla di una cultura della casa come spazio di trasmissione dei valori.
Ogni dettaglio, ogni filo, ogni gesto di vestizione racconta una storia: di madri, figlie, nonne.
Ed è nella casa che si impara a portare quell’abito con rispetto, e a comprenderne il valore.
“L’abito non è solo indossato, ma deve essere anche saperlo vivere, tramandare, ereditato, perché esso rappresenta un modo di essere e fare famiglia.”
Nelle culture tradizionali, la donna è ponte tra la casa e la chiesa, tra il quotidiano e il sacro e, l’abito, rappresenta la sintesi visibile di questa alleanza.
Non è limitazione, ma espressione identitaria, consapevolezza di un ruolo che è custode, guida e presenza silenziosa solidamente connessa alla consuetudine della storica radice delle terre gli Arbëreşë furono costretti a migrare con dolore.
Nel silenzio dell’abito c’è una dichiarazione potente, in quanto con esso palesiamo ciò che onoriamo, e onoriamo ciò che amiamo.
Nella vestizione tradizionale delle donne di Arbëreşë non c’è solo tessuto, ma casa, fede e storia. Ogni abito portato con rispetto è un atto di memoria e di futuro, il gesto non vuole essere mero conservare un costume, ma di proteggere un codice etico, un modo di vivere che tiene insieme il sacro e l’intimo, la comunità e la persona e, oggi conoscere per difendere questi segni significa rimanere civiltà inarrivabile.
Che l’Arbëreşë non sia soltanto una lingua è dimostrato da una lunga e profonda tradizione culturale, religiosa e intellettuale che attraversa i secoli e le generazioni.
Parlare di arbëreshë significa parlare di un’identità viva, che ha saputo resistere e rinnovarsi, portando con sé non solo parole, ma anche valori, pensieri, simboli e gesti.
Lo dimostrano, in primo luogo, figure come Giuseppe Bugliari prelato, il cui pensiero lucido e coerente ha rappresentato un faro nella difesa della specificità culturale e spirituale del popolo arbëreshë. Con lui, Pasquale Baffi ha incarnato una forma di impegno civile e culturale che ha saputo unire la fedeltà alla tradizione con l’apertura al dialogo moderno, dimostrando come l’identità non sia una gabbia, ma una radice da cui crescere.
Non si può dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai vescovi Bugliari, custodi della fede bizantina e interpreti di un’autonomia religiosa che ha rappresentato, nei secoli, un baluardo contro l’assimilazione forzata e una forma alta di resistenza culturale.
Il genio di Luigi Giura, figura simbolica di creatività e pensiero, testimonia come il pensare e immaginare in Arbëreşë abbia saputo produrre visioni e opere capaci di parlare ben oltre i confini delle comunità diasporiche.
La giustizia secondo Rosario Giura, che non la misurava in favore dei regnati di turno, che volevano vendetta di ogni gesto che non erano mai reato.
La lealtà di Pasquale Scura, espressione concreta di un legame profondo con le proprie origini e con la propria gente, richiama il valore della memoria condivisa e della responsabilità collettiva.
Infine, l’opera editoriale di Vincenzo Torelli, attento e instancabile nel dare voce e visibilità a una cultura spesso marginalizzata, ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e alla valorizzazione dell’identità Arbëreşë che preferiva il canto alla musica nel panorama culturale italiano ed europeo.
Tutto questo dimostra che l’Arbëreşë non è solo un codice linguistico da preservare, ma un sistema complesso di saperi, pratiche e valori che continuano a vivere grazie al contributo di donne e uomini che, con passione e dedizione, hanno saputo trasformare la memoria in futuro.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-07-10