NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tra i vicoli silenziosi colmi di lamenti, dove le pietre parlano e ascoltano arbëreşë e, il tempo sembra essersi fermato, le passioni segrete sono transitate, sussurrate tra le ombre di tegole, finestre e balconi.
Amori ostacolati in codice d’onore, perché storie mai raccontate o trascritte, i cui frammenti restano impresse nella memoria collettiva, poche diffusamente accennate.
Questo breve diplomatica raccoglie frammenti certi di quegli amori impossibili, vissuti nel cuore di un mondo sospeso tra appartenenza e desiderio in Terre di Sofia.
A tal proposito è opportuni iniziare parlando del giovane Orlando che cresceva in silenzio tra i vicoli pietrosi e muri senza intonaci dove non si riverberava il parlato in due lingue, ma taceva le verità più intime delle amate in pena.
Osservando la zia Clementina, seduta davanti la porta di casa col fazzoletto nero annodato sul capo, mirando lo sguardo verso quel lavinaio in salita oltre la fontana, aspettando invano.
Non il ritorno di suo marito, morto da anni in guerra, ma del figlio, che da settimane non dava notizie dopo l’ultimo appuntamento chiarificatore con quella ragazza ‘nel pascolo di montagna’ lo stesso che mai nessuno da allora ha mai più nominato e ne visto un lieto ritorno.
L’amore, tra quelle mura antiche, era un lusso per pochi e, per gli altri, era una lotta contro il sangue, la lingua, e l’onore delle famiglie.
E Orlando, che ascoltava e imparava a comporre e cantare, intonando frasi segreta da far capire come si deve amare, in un paese che custodisce se stesso come si custodisce un segreto e, siccome cantava piano per la sua amata, tra i campi e le viuzze del Katundë, immaginava di essere un passerotto.
Un piccolo uccello leggero, capace di volare sul tetto della casa dove lei dormiva, figlia del fabbro, promessa a un altro e, da lassù guardarla senza essere visto.
Diceva che il tetto sarebbe stata l’unica frontiera tra i loro mondi, ma siccome lui era un passerotto, avrebbe potuto costruire lì il suo nido.
E restare per sempre con lei, vicino ma libero, piccolo ma tenace, mentre il resto del paese continuava a fingere di non sapere.
Un altro episodio, mai raccontato ad alta voce, ma rimasto impresso come una cicatrice sottile, era quello di Maria, la quale quando incontrava gennaro che sapeva e, sapeva tutto dell’accaduto, non lo salutava con le parole vuote di oggi, in forma di Mirë-ditë o Mirë-natë, ma con gesti rapidi e senza guardarlo, gli diceva:
«Vivo ancora con il cuore strappato come lo è stato per il cuore del mio amato, senza altro poi aggiungere.
Una frase che non era né un saluto né un addio, ma qualcosa a metà tra una preghiera e un lamento e, Bastava quello per rendere partecipe mio padre alla perdita di un suo fratello mancato.
Il dolore non ha mai avuto bisogno di essere spiegato nel vivere di questo Katundë, tra quelle case strette e quelle famiglie attente, l’amore proibito non si urlava, perché si portava in volto per lasciarlo intorno con i battiti del cuore e degli occhi e, nulla più.
C’era anche Adelcisa, che tutti chiamavano la zitella, ma che in verità aveva amato più profondamente di chiunque altro.
Il suo amore abitava a pochi metri da lei, prima vicino di casa, poi dirimpettaio, separato solo da una depressione torrentizia e da anni di silenzi imposti.
Per Adalcisa l’artista non fu mai il suo amore dirimpettaio, perché egli rivesti solo il ruolo di fumista, di una storia immaginata e, che non ebbe mai inizio nella realtà, in quanto il ruolo di regista venne rivestito da fratello, l’insensibile.
Non si erano mai toccati, ma promessi con le parole giuste e da allora null’altro poteva servire a quella promessa data.
Ma ogni giorno, con una fedeltà più tenace del tempo che scorreva, Adalcisa stendeva i suoi panni bianchi sul balcone: fazzoletti, lenzuola, camicie mai indossate.
Era il suo modo per dire «Ti ricordo», «Ti amo ancora», «Il mio amore è rimasto candido come queste stoffe».
Nessuno nel vicinato osava commentare, ma tutti capivano, quello che rappresentavano quei panni stesi al sole che tramonta e, c’era più verità che in mille parole.
E lui, dall’altra parte, apriva la finestra ogni volta per dare la risposta, anche quando non faceva caldo.
Lei, che per amore si era inchinata al volere dell’insensibile, non per debolezza, ma per scelta, con la forza di chi sa amare senza essere riamata come merita.
Aveva accettato tutto, anche di pulire le stalle di famiglia, chinandosi ogni mattina nel fango, senza mai sporcare il proprio cuore.
Non lo faceva per sottomissione, ma per un sogno tenace: che un giorno, la morale fraterna, quella legge non scritta che decide chi è degno e chi no, le concedesse di camminare, finalmente, al fianco di quell’amore negato, come una moglie, ma senza anello, come una regina, ma senza trono, come una donna, piena di dignità, che ha scelto di non fuggire.
Non da meno è la conseguenza denigratori ancora oggi in atto dopo, subita da chi non ho mai potuto approvare, né tacere, la sottrazione dell’amata Maria ad un fraterno amico, presa non per amore da un insensibile, ma per interesse e, per garantire una probabile solidità economica.
Eppure, il futuro, quello stesso futuro tanto calcolato, per lei fu disastroso e, colmo di dispiaceri, delusioni e pene come vivere nell’inferno per finire poi di essere attratta.
All’inizio tutto sembrava promettente, benedetto forse dal denaro o dalle apparenze, ma ben presto il tutto si rivelò peggio di un serpente, silenzioso ma pronto a mordere al cuore.
E quel serpente, ci fu chi lo disse, lo vide, lo riconobbe e, non sbagliava bersaglio.
La previsione fu precisa cosi come la ragione e, in certi patimenti di cuore, non perdona, specialmente quando svela quella le verità che tutti preferirono ignorare.
Atanasio Arch. Pizzi 2025-08-17