NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) -Uno schema irrigidito buio e dominante, sembra sovrastare la cultura letteraria arbëreşë, soffocando ogni slancio autentico e ogni tentativo di rinnovamento critico fatto di ascolto e parlato.
Infatti se si escludono le figure luminose di Pasquale Baffi del tempo passato e dell’Olivetano odierno, entrambi nati a Santa Sofia d’Epiro, il resto del letterario panorama appare come un’eco ripetitivo e privo di vitalità, intenta più a custodire frammenti identitari che a far evolvere un pensiero largo condiviso e vivo.
In questo contesto, ciò che si diffonde non è cultura, ma fatuo inquinante, che la conoscenza dell’uomo abbia mai certificato, riproduzione acritica, rituale oltre che sterile dell’eredità consuetudinaria, di pensiero e parlato, incapace di manifestarsi nell’ascolto moderno.
Le attività svolte dall’Olivetaro hanno prodotto risultati irripetibili, testimonianze vive di un impegno concreto e di un’intelligenza operativa capace di generare valore reale all’interno della comunità, aprendo temi sino a ieri ignorati e ritenuti inutili perché non tema alla portata dei rettangoli letterali.
Eppure, nonostante l’evidenza di tali esiti, si continua a preferire, per comodità, abitudine o convenienza, la teoria politica dell’Ischitano matto, figura grottesca che non smette di ripetere ossessivamente che si sta estinguendo.
E mentre le sue cose si disgregano, egli rimane imperterrito, a lamentarsi che la fine di questo luogo sia ferma sulla soglia di casa.
Una tragedia paradossale, dove la voce del delirio riesce a sovrastare quella dell’azione di una intera comunità, che tace e attende il nuovo messia, ignorando che non è ancora nato, mentre il vittimismo cronico ha più credito della lucidità epocale.
Se le attività svolte da Pasquale Baffi rappresentano un apice dimenticato della cultura arbëreşë, infatti egli, con rigore e lungimiranza, si dedicò allo studio e alla scrittura della lingua utilizzando caratteri che all’epoca non esistevano nel panorama tipografico italiano,
E il suo gesto di profonda consapevolezza filologica e visione linguistica non è ancora studiato dai prescelti moderni.
Tuttavia, durante le persecuzioni che lo portarono alla morte, i suoi manoscritti, furono sottratti e rieditati in stamperie partenopee, risultando, come da lui predetto, colme di errori grammaticali, disonestamente a firma altrui.
E oggi, gli ignari letterati, più inclini alla superficialità che allo studio, si fermano a osservare, con fredda miopia, che di suo non esisterebbe nulla di “sottoscritto”.
Inconsapevoli, e qui nasce la misura culturale di questi prescelti, che non conoscono il valore di una teoria, di un’intuizione storica, la quale non risiede nella presenza di una firma autografa, ma nella profondità dell’impronta lasciata sul pensiero, nella coerenza del metodo e nella forza della visione.
La ricerca storica, se onesta, non ha bisogno di firme, ma di occhi capaci di vedere e menti disposte a comprendere per tessere una tela solida.
Siamo ormai ben oltre i limiti del decoro culturale e, i confini dell’apparire hanno superato ogni soglia di decenza immaginabile.
Si parla di borghi, giardini, piazze vicoli, chiese e costumi “arbëreşë” come se bastasse un nome o un’insegna per dare corpo a un’identità.
Si moltiplicano progetti, iniziative e allestimenti “a tema” che, sotto la patina della valorizzazione, nascondono spesso una profonda inconsapevolezza o peggio, una forma di appropriazione priva di rispetto.
La cultura non si improvvisa, la memoria non si mette in scena, lo spazio non è solo circoscritto o volume, ma è storia, lingua, rito, parlato, a cui seguono ascolto e relazioni.
Comunque troppo spesso chi interviene lo fa senza avere il minimo barlume di consapevolezza, senza essersi prima educato all’ascolto, alla complessità, alla responsabilità.
Forse è giunto il momento di rimettere al centro una parola che sembra dimenticata: educazione. Educazione non come formalità, ma come capacità di stare in relazione con ciò che non ci appartiene, con ciò che ci precede, con ciò che si custodisce e non si sfrutta.
Perché non si può parlare di cultura senza cultura, non si può parlare di arbëreşë senza conoscere, almeno, il peso delle radici che si nominano.
Quelle che vediamo sono soltanto apparizioni estive: sagre, eventi, allestimenti temporanei che indossano solo l’etichetta dell’“arbëreşë” come un costume di scena, al fine di passare lasciare qualche foto o immagine e poi svanire.
Ma il vero problema è altrove, perché tutto viene retto da un sottobosco istituzionale, opaco e silenzioso, che preferisce non illuminare, ma continuare a produrre e spesso a diffondere contenuti, narrazioni e azioni prive di ragione, contesto o fondamento.
Nessuno ne rileva la portata, nessuno ha un metro per misurare il danno e, mentre tutto ciò accade, giorno dopo giorno, le comunità e le loro pertinenze, linguistiche, simboliche, territoriali, restano sempre più isolate, più marginali, più sole.
Non si tratta solo di disattenzione ma di un lento svuotamento, si parla di cultura senza vivere nella cultura; si nominano le tradizioni senza custodirne il senso.
In questa deriva, l’“apparire” vince sull’essere, e l’istituzione abdica al suo ruolo di guida, diventando essa stessa parte del problema.
Chi è nato ascoltando il parlare con saggezza, in famiglia, per strada e, nelle occasioni solenni, conosce ogni inflessione, ogni variazione di pronuncia, ogni sfumatura di significato che la lingua custodisce.
Sa distinguere non solo le parole, ma il modo in cui si dicono, perché questo parlato antico non è solo comunicazione, ma una memoria incarnata, nella relazione e la postura del pensiero.
Oggi, invece, basta ascoltare una canzone “tradizionale”, un racconto ricostruito, un rituale di vestizione per provare un senso profondo di spaesamento.
Non per nostalgia, ma per coscienza, perché in quelle forme che si vorrebbero rappresentative si avverte, troppo spesso, l’assenza di una formazione e, la mancanza di radici vere e, se a questo si aggiunge il vedere la leggerezza con cui si maneggia qualcosa che richiederebbe cura, studio, ascolto lungo si vorrebbe diventare, sordi muti e ciechi.
E allora viene meno anche la voglia di aprire un dibattito, perché parlare con chi non ha mai davvero imparato ad ascoltare, rischia di diventare un esercizio sterile.
Resta soltanto una filiera ristretta di “restanti”, sprovvista di strumenti e, priva della profondità necessaria a dare senso a ciò che fa o dice.
L’arbëreşë, come ogni cultura viva, ha bisogno di conoscenza, non di imitazione, non di spettacolo, ma di studio che deve venire dall’ascolto e non dai depositi scrittografici del potere indigeno.
Se escludiamo figure come i fratelli Giura e Vincenzo Torelli, ci troviamo di fronte a un vuoto reale, non solo di contenuti ma di coscienza.
Giura fu quel pensiero arbëreşë, capace di concepire il primo ponte a catenarie al mondo; oggi è l’orgoglio di chi sogna di unire il continente nella punta Reggina con l’isola di Messina.
Vincenzo Torelli, arbëreşë originario di Barile, è noto per aver fondato riviste come Indipendente e Omnibus all’inizio dell’Ottocento.
Ha svolto un ruolo nell’aprire lo spazio culturale, criticando alfabeti troppo elitari e promuovendo una scrittura più accessibile.
Il suo approccio si inseriva effettivamente in un’idea di fare cultura dal basso, rendendo accessibili testi, alfabeti, e riviste a comunità linguistiche e culturali meno rappresentate.
I suoi discendenti hanno introdotto diverse innovazioni editoriali, rubriche e ampliamento del numero di pagine, passando anche a edizioni domenicali più ricche.
Tuttavia, queste erano rubriche interne al giornale, non inserti staccabili o supplementi autonomi in stile mode.
Un modello difficile da raccontare perché è fatto proprio di assenza e trovare ad oggi le voci giuste per costruire pensiero, di generare visione, di dare forma all’arbëreşë, non solo come passato, ma come progetto condiviso tra parlanti che sanno ascoltare e comprendere quel pensiero di vicinato lasciatoci in eredità dalle nostre sagge madri.
E se proviamo a guardare oltre le apparenze, a cercare chi oggi davvero produce pensiero rigoroso, fondato, utile alla collettività, ci troviamo di fronte a una verità difficile da accettare.
La desertificazione non è solo linguistica, ma intellettuale, scientifica, sociale e, manca un pensiero articolato, mancano strumenti critici, manca un progetto di lungo respiro.
Mentre ciò che resta, sono frammenti di lingua, folclore riciclato, rappresentazioni spesso inconsistenti che si trasformano o sono intese come vaneggiamenti inutile, incomprensibile, sterili.
Raccontare tutto questo è difficile, scriverlo, ancora di più e la sensazione di parlare nel vuoto è quella che più si avverte.
Eppure, è proprio da qui che bisognerebbe ripartire, la consapevolezza di questo vuoto, per non continuare a riempirlo solo con rumore a parlato incomprensibile che nessuno sa ascoltare.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-08-19