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PROMUOVERE I “BORGHI” NEL MERIDIONE ITALIANO È COME ESALTARE I “TARI” FALSI (Harràssù na sërèsenë lljtirë e jò katundarë)

PROMUOVERE I “BORGHI” NEL MERIDIONE ITALIANO È COME ESALTARE I “TARI” FALSI (Harràssù na sërèsenë lljtirë e jò katundarë)

Posted on 02 agosto 2025 by admin

TerraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un tempo ogni discussione o confronto culturale diretto e condotto nei luoghi più comuni, si chiudevano e terminava con il rito dei “tarallucci e vino”.

Era il segno di un’epoca che, tra mille contraddizioni, sapeva ancora trovare un terreno comune, per definire le cose del futuro, in che forma e solidità, si lascia al lettore la più poetica conclusione.

Oggi invece, sembra che ogni questione debba inevitabilmente passare per “il borgo” e, tutto mira a un’idea idealizzata di comunità, tradizione, identità locale smarrita.

Ma dietro questa nuova retorica, resta il dubbio, ovvero, stiamo davvero riscoprendo le radici o solo è un moderno fare per svolgere lo stesso copione, prima citato?

A tal proposito è bene precisare che “il borgo” è un tipo di insediamento abitativo, tipico del medioevo, si sviluppa con perno un emblema costruito che ne domina via, vita e luogo.

Si tratta di centri, fortificati, che non raggiungono le dimensioni l’ideale di città, ma si distinguono dai Villaggi, Paesi, Contrade, Katundë, Hora, Civitas, Castrum, Porti e Vichi.

Le forme operose di insieme abitativo, pre e post medioevale di radice non germanofona, proprio per la struttura urbana, di sostanza sociale aperta e solare, senza mura e la comunità non organizzata in forma piramidale, ma diffusamente piana e aperta all’accoglienza diffusa.

Diversamente dai Borghi che sono storicamente sistemi chiusi, abitati dal potere e non svolgono attività con l’ambiente circostante, se non quella del comando.

Altra cosa sono gli agglomerati appellati latini, greci o italiano che indicano il luogo, un centro aperto in comune convivenza dell’agro che li avvolge e, attraverso il quale trovano le vie del confronto, dei cunei agrari della produzione degli abitanti che li valorizzano.

Infatti il termine “borgo” ha origini germaniche e deriva dal latino “burgus”, poi rotacismo germanico “burg”, che indicava un luogo fortificato.

Essi storicamente nascono nel Medioevo e, separando i nobili, da quanti erano costretti a vivere fuori dalle mura cittadine, in agglomerati di case attorno al castello, come centri di scambio, artigianato e vita comunitaria, spesso in zone strategiche dove i residenti erano appellati “bovari”.

Tuttavia negli ultimi anni, “borgo” è diventato una parola simbolo, usata comunemente in chiave politica, mediatica, pubblicitaria per evocare un meridione “da svelare”, fatta di tradizioni, buon cibo, relazioni umane genuine.

Terminando nel diffondere più un’idea idealizzata che una realtà vissuta infatti, in specie il meridione che ha avuto varie epoche di pena diffusa non è certo nel medioevo ha avuto un rilancio progressivo e in particolar modo la Calabria.

A tal fine va precisato che le comunità calabresi affondano le radici in un tempo anteriore e ancora più floride dopo il buio del Medioevo.

Non a caso la Calabria fu uno dei cuori pulsanti della Magna Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., i Greci fondarono città e villaggi lungo la costa e nell’entroterra dell’appennino calabrese, portando con sé un modello urbano aperto, partecipativo e agricolo, legato alla “polis” e alla vita comunitaria.

In questo senso, la vita di comunità nei centri collinari o di pianura calabresi ha origini greche, non certo germaniche.

I Greci valorizzavano il territorio, coltivavano le pianure e fondavano insediamenti dove si poteva vivere e commerciare in armonia con l’ambiente e tra cittadini liberi, rimanendo così sempre all’interno delle logiche solari dell’epoca, ovviamente.

Quando arrivarono le popolazioni germaniche, prima i Goti, poi i Longobardi e via via altri, portarono con sé una visione più chiusa e gerarchica della società, come castelli, feudi, strutture piramidali, controllo militare fortificato e, i “borghi” medievali nascono proprio in questo contesto, ma spesso in opposizione o in sovrapposizione ai nuclei già esistenti.

Quando oggi si parla di “borgo” calabrese attribuendo l’appellativo a specifici centri antichi come se fosse una miniatura medievale in stile nordico, creando così una realtà storica distorta e priva di identità vera.

I nuclei abitati calabresi sono piuttosto l’esito di una stratificazione greco-bizantina e poi arbëreşë, non certo del modello germanico-feudale, che non certo contemplava lavoro e sudore nei campi.

In Calabria “borghi” non nascono tra le nebbie gotiche o nei castelli longobardi, ma sulle colline dove i il sole che passava prima dalla Grecia dialogava con la terra, dove i Bizantini costruivano chiese rupestri, e dove gli Arbëreşë hanno conservato riti e lingue che raccontano storie ben più complesse della favola buie medievale.

I paesi della Calabria nascono perché il luogo era parte viva e pulsante della Magna Grecia, in tutto una sorta di terra parallela e diretta dalla madre Ateniese.

Qui i centri abitati si formano come polis, costruite attorno alla terra, ai riti, alla parola condivisa e, con l’arrivo dei Bizantini, quella radice si rafforza spiritualmente e nasce la cristiana credenza colma di riti, che si diffonde nei villaggi, tra le montagne e i santuari rupestri.

Questa cultura bizantina, minacciata dai Longobardi, sopravvive proprio grazie all’isolamento geografico e alla resistenza delle popolazioni locali.

Poi, nel cuore del Medioevo, giungono i monaci operosi e pragmatici francofoni, che introducono nuove tecniche agricole come le grance, per l’uso del territorio, e in parte contribuiscono a dare forma a un tessuto economico più stabile.

Ma la vera ricchezza della Calabria arriva con le minoranze, grecaniche, francofone giunti al seguito degli angioini e soprattutto gli arbëreşë, che con la loro lingua, i loro riti e l’orgoglio della diaspora, ridanno vita a territori marginalizzati.

Così si compone il vero mosaico calabrese, che non è un sistema di borghi chiusi, ma una rete di comunità aperte, stratificate, resistenti e multietniche.

E in fondo, va detto con chiarezza che furono proprio coloro che vivevano in strutture aperte e diversificate o meglio contrarie al teorema del “borgo” struttura non di potere locale, che non lo sviluppo della Calabria, chiudendola in logiche feudali, che qui era fissato nel culto del l’uguaglianza e tutti erano liberi di crescere.

Oggi che tutto si appella al “borgo”, serve ricordare che la Calabria ha sempre prodotto cultura, accoglienza e visione, non nei centri fortificati, ma nei margini, nelle minoranze, nelle resistenze e nella continua evoluzione culturale.

In molte zone del Sud, il modello “borgo” non attecchì, proprio perché le popolazioni locali (greche, romanizzate, bizantine) avevano modelli comunitari diversi, spesso più orizzontali e legati a una gestione collettiva della terra.

Oggi, quando si parla di “borgo” anche in Calabria, si rischia di appiattire un’identità molto più antica e ricca su un cliché medievaleggiante, utile per il turismo o il marketing, ma storicamente parziale.

La rinascita di molti paesi calabresi, oggi definiti “borghi”, non è figlia del Medioevo, ma spesso di una riscoperta moderna delle radici greche, bizantine e contadine operose, di un senso di comunità che precede o segue di secoli il modello germanico, che qui non ha mai trovato agio e prosperità alcuna.

La Calabria non ha mai goduto di una rete viaria estesa o ben articolata e per secoli ha avuto una sola grande via di comunicazione, spesso faticosa, precaria, soggetta alle frane e ai dislivelli.

Eppure, sono sorte oltre quattrocento comunità, disseminate tra colline, altopiani, vallate e coste, queste non si sono sviluppate “lungo una strada”, come nei modelli urbani classici, ma attorno a risorse locali, culture specifiche, equilibri sociali interni fatto da uomini credenza e natura.

Non era il commercio a tenere unite queste realtà, ma l’accoglienza, la custodia del sapere, la forza dell’identità locale le risorse agro alimentari.

E ognuna di queste comunità era, ed è ancora, un mondo a sé, che non è mai rimasto isolato, ma interconnesso nella diversità.

Più che da un’infrastruttura, la Calabria è stata tenuta insieme dalla memoria, dalla lingua, dalla spiritualità, dai riti grazie all’operosità dell’uomo sostenuto dalla natura.

Ecco perché parlare di “borgo”, nel senso moderno e uniforme del termine, non basta, giacché ogni paese calabrese non è solo un “centro antico minore”, ma una costellazione autonoma di storia e cultura, nata non da una strada, ma da un paesaggio condiviso e da una necessità di resistere.

Paradossalmente, proprio chi viveva di “borgo” traeva forza da sistemi chiusi, feudali, gerarchici e autoreferenziali, è stato spesso tra i principali antagonisti dello sviluppo calabrese.

Mentre la regione cercava faticosamente di costruire ponti, reti, identità collettive, i borghi intesi come microcosmi autosufficienti spesso hanno coltivato isolamento, rendita e conservazione del potere.

Non è il borgo in sé il problema, ma la sua idealizzazione fuorviante, oggi viene dipinte e innalzata come emblema di comunità e accoglienza, ma in verità è stato strumento di controllo sociale, di immobilismo, di chiusura al cambiamento.

E così, mentre si continua a parlare di “borghi da salvare”, si dimentica che la vera Calabria da valorizzare è quella che ha sempre guardato oltre la sua unica strada, oltre la collina, oltre il confine del proprio campanile.

Se l’individuazione dei centri antichi si basa su nomi attribuiti o mal interpretati come borgo, allora ciò che sappiamo di quei luoghi rischia di essere una costruzione arbitraria.

Il nome, spesso assunto come chiave d’accesso alla memoria del territorio, può diventare un filtro che distorce la prospettiva storica.

In tal caso, ogni studio puntiforme che pretenda di svelare l’identità profonda di un sito, si fonda su un presupposto fragile, in quanto se si sbaglia il nome, come possiamo fidarci di ciò che crediamo di sapere dell’anima intima o del passato di quel luogo?

P.S.

I tari erano monete d’oro e d’argento utilizzate nel Regno di Sicilia e poi nel Regno di Napoli, a partire dall’Alto Medioevo fino all’età moderna.

Il nome “tari” deriva dall’arabo “ṭarī” che significa “fresco”, “nuovo”, ed era il nome dato a una moneta d’oro araba molto diffusa, chiamata dinaro.

Durante la dominazione islamica della Sicilia (IX-XI secolo), le autorità musulmane coniarono monete simili a quelle arabe.

Quando poi i Normanni conquistarono la Sicilia (XI secolo), continuarono a coniare monete d’oro con caratteristiche simili, mantenendo il nome tari.

 

 Atanasio Arch. Pizzi                                                                                          NAPOLI 2024-07-30

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CRITERI PER FARE UN MUSEO DEL COSTUME ARBËREŞË Trutë satë bëmi ghe Zògnàrtë i vèshjuratë arbëreşë

CRITERI PER FARE UN MUSEO DEL COSTUME ARBËREŞË Trutë satë bëmi ghe Zògnàrtë i vèshjuratë arbëreşë

Posted on 02 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un museo del costume, per essere solido, rilevante e culturalmente significativo, dovrebbe poggiare su radici e fondamenti essenziali, suddivisi in sezioni culturali, scientifiche, museologiche e comunicative.

Avendo come mira prioritaria le fondamenta storico-culturale, attraverso la documentazione del costume di una macro area specifica nel tempo.

Il museo deve avere la forza di raccontare l’evoluzione del costume attraverso le epoche, evidenziando il contesto storico, sociale, politico e culturale in cui la vestizione era indossata in rappresentanza.

Sulla base del dato che i costumi sono espressione delle identità locali, di macro aree consolidate, il museo deve valorizzare le diversità culturali, comprese quelle legate a classi sociali, generi e comunità etniche.

In oltre deve contenere il fondamento scientifico e conservativo, secondo cui i manufatti devono essere originali rigidamente, per essere tutti i componenti, studiati prima di tutto dal punto di vista tessile, tecnico e stilistico e in aderenza con le consuetudini, per creare la sfera ideale dove contenere il messaggio completo, in esso contenuto, quando è indossato dentro la casa, fuori la soglia e sino alla chiesa.

Ragion per la quale ogni elemento che qui viene esposto deve prevedere una specifica conservazione preventiva.

I tessuti sono materiali delicati, per questo è necessario avere spazi climatizzati, tecniche di conservazione avanzate e un piano per la gestione del deterioramento, ma soprattutto, l’intero volume specie della parte espositiva, deve essere in pressione, con l’immissione di aria filtrata, un sistema di finestre e porte a tenuta stagna e di emergenza direzionata.

Il fine rende indispensabile separare dove ogni ambiente, controllato da telecamere e sensori di pressione o fuoco eventuale.

Il fine mira a rendere durevoli le cose esposte e, non sottoposte alle variazioni termiche, alla luce solare oltre alle polveri all’interno del volume, queste ultime non devono e non possono volatilizzarsi per depositarsi e fare danno.

In oltre ogni elemento deve essere catalogato con rigore e inventariato con dati precisi: datazione, provenienza, materiale, tecnica di realizzazione, stato di conservazione, ecc.

Va comunque applicato un protocollo di fondamento museologico, che segua criteri di esposizione in linea con un progetto curatoriale coerente, che può essere cronologico, tematico, geografico o stilistico.

L’accesso e l’inclusività deve dare agio ai contenuti resi essere accessibili a tutto il pubblico compresi anche i non specialisti, con strumenti idonei per persone con disabilità e materiali multilingua.

L’insieme deve prevedere Spazi funzionali: espositivi, laboratori, depositi adeguati, archivi, biblioteca, e magari una sezione didattica.

Il tutto per avere e promuovere un Fondamento educativo e comunicativo, perché il ruolo primario di un museo deve avere il fine di raccontare le storie dei costumi e delle persone che li indossavano.

Da qui si devono riverberare e delineare attività didattiche come laboratori per scuole, workshop di sartoria, conferenze su moda e società, eventi tematici tipicamente locali.

Oggi con l’Uso della tecnologia, la realtà cognitiva aumentata, ricostruzioni 3D, visite virtuali e supporti multimediali possono arricchire l’esperienza del visitatore.

Da ciò non da meno resta il fondamento etico e partecipativo, avendo come fine l’esporre con garbo e dedizione i costumi di popolazioni indigene, specie di minoranze, dove è importante evitare esotismi o stereotipi.

Attraverso il presidio che deva avere come primo obiettivo la sua inaugurazione e subito dopo il successivo riconoscimento documentale, creando e stabilendo una solida collaborazione con le comunità li presenti, seguendo un fine inclusivo, coinvolgere artisti, storici locali, portatori di memoria orale e sartorie tradizionali.

Onde evitare acquisizioni dubbie o non etiche, specialmente nel caso di costumi cerimoniali o sacri, la certificazione e il catalogo delle provenienze è d’obbligo e improrogabile.

Un Museo del Costume Arbëreşë, deve erigersi con il fine di tutelare, documentare e valorizzare la ricchissima tradizione della vestizione femminile da giovane ragazza sino alla vedovanza certa o incerta e fine vita.

Il museo per avere senso e dare valore ala vestizione si sviluppa o meglio si articola secondo un duplice percorso che non è mera esposizione ma anche secondo una forma didattica che intreccia arte tessile, identità culturale e memoria collettiva, di tutte le consuetudini che riferiscono del percorso che unisce, le attività domestiche della casa e l’altare della chiesa.

La collezione oltre al percorso permanente, deve includere abiti originali e, sin anche riproduzioni, queste ultime capaci di riferire della perdita del valore nel tempo, oltre gli allestiti in oggetti di rifinitura, accessori e oggetti tessili e orafi.

L’insieme dele cose usate nelle varie fasi della vita della donna, dalla giovane età al matrimonio, fino alla maturità e la sua estinzione.

Le sezioni di Adolescente, Donna, Sposa, Madre, Regina della Casa, Vedova Incerta e Vedova, in cui ogni sezione sarà accompagnata da schede esplicative, fotografie d’epoca, videointerviste alle donne delle comunità e postazioni interattive per la comprensione del significato simbolico della vestizione e del loro uso.

Ogni costume deve essere indossato dalla categoria di vita femminile, e per tutte vale la regola fortemente vietata, di travestire per chi è minorenne e, se proprio la misura serve per avere una visione minuta da intercettare meglio è di obbligo allestire bambole o manichini di modeste dimensioni.

Il museo inoltre dovrà prevedere una sezione di ricerca, aperto alla collaborazione con studiosi, etnografi e stilisti, e ospiterà laboratori didattici rivolti a scuole e visitatori per tramandare saperi artigianali come il ricamo, la tessitura e la composizione dell’abito tradizionale.

Un luogo vivo dove l’identità arbëreşë potrà avere continua e raccontarsi attraverso i fili, i colori e le forme di una cultura antica ma ancora viva.

Il Percorso museale, inizia con la vestizione di ragazza come simbolo potenziale e, ancora libera, di una comunità che la forma attraverso usi, consuetudini e credenza.

Questa sezione si articola con l’esposizione di abiti più semplici, ma curati, secondo uno specifico disciplinare di bianco candore.

In questa sezione saranno contenuti ed esposti anche i gioielli della giovinezza, come anche oggetti educativi e domestici e, documenti dove sono annotati frammenti di canti e poesie e atti di comportamento sino all’età in cui si diventa donna genitrice.

Poi segue la sezione di spasa con l’abito del matrimonio, celebrazione e sacrificio, a cui si affianca l’essenziale e fondamentale componimento di ori e ricami, simbolo dell’ingresso in un nuovo ruolo.

La donna pilastro della famiglia diventa così anche la regina del focolare domestico, il cuore della casa.

A lei appartiene il focolare, la trasmissione della lingua, la conservazione delle ricette, dei gesti, della memoria.

Secondo cui Abiti del quotidiano dignitosi, oggetti fondamentali per cucinare, telai, cesti, rosari e tradizione del parlato orali, per mantenere vivo e riprodurre identicamente e costantemente il “fuoco domestico” come spazio sacro.

Altro emblema caratteristico sono le vesti che ufficializzano la perdita del marito, la donna entra in uno stato rituale e sociale dove il lutto è visibile, e porta con sé una nuova autorevolezza.

E nel caso del marito scomparso di cui non si ha traccia rientra nel protocollo della Vedova incerta, in perenne attesa senza risposta

Questa figura nasce nel tempo delle guerre, quando molti uomini partivano senza tornare, e le donne rimanevano in un limbo: né mogli, né vedove ufficiali, una condizione esistenziale dolorosa e sospesa, di silenzio e di speranza interrotta.

Il percorso si può concludere con una riflessione, dove ad emergere è la forza delle donne arbëreşë che non è solo racchiuso nella vestizione, ma nella loro resilienza di fronte a ruoli imposti, eventi tragici e silenzi lunghi che durano e vanno oltre il tempo di una vita.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-02

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