NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – il Modulor è un sistema di proporzioni armoniche basato sull’altezza media del genere umano in forma aurea, ideato negli anni quaranta del secolo orso, in radice del Partenone, La Gioconda, e in epoca più moderna spunto delle architetture razionali.
Esso si sviluppa e nasce con lo scopo di creare uno standard universale per progettare spazi architettonici che fossero misura, funzionali ed estetica di equilibrio.
Il tutto mira a combinare matematica, antropometria e arte, al fine di guidare il progetto con proporzioni “naturali” e armoniche.
Utilizzato in molte opere di architettura razionale, il Modulor, parte dalle proporzioni del corpo (altezza, proporzioni, movimenti) come base per organizzare lo spazio di vita in modo armonico.
E siccome la lingua arbëreşë, secondo dati storici linguistici estetici e antropologici, usa nomi e radici che derivano da parti del corpo o azioni umane fondamentali per costruire significato formale (Leggi i Fratelli Grimm e le loro favole).
Così anche il Modulor usa creare una scala di proporzioni universali, che poi sono la radice della lingua albanese, dove si utilizzano concetti come “dorë” (mano) “sy” (occhio) “veshë” (orecchio) o “ghjughë” (lingua) come base metaforica o etimologica per costruire altri significati, dando al corpo umano un ruolo strutturale, come il Modulor, lo dà all’architettura razionale.
La visione abbraccia una concezione antropocentrica, dove l’essere umano si ritiene sia il concetto fondamentale e misura della realtà, sia nella costruzione dello spazio architettonico, nella costruzione del linguaggio e le cose di vestizione arbëreşë.
È lecito chiedersi perché, pur avendo una lingua come l’arbëreşë con radici profondamente legate al corpo umano e, quindi a un sistema universale, non si sia sfruttato questo legame per consolidare una lingua che storicamente nasce come un codice essenziale e coeso.
Nonostante questa base antropocentrica potesse offrire un fondamento comune e naturale, l’arbëreşë si è frammentato nel tempo in numerosi dialetti locali, come il riferito degli esperti che la legano alle tipiche parlate di oltre cento Katundë, allo stato delle cose palesate oggi, in competizione tra loro.
Le cause sono storiche e politiche e, l’assenza di una istituzione solida e unitaria mancata a tutt’oggi e per secoli, ha consentito, mentre gli intellettuali si ostinavano a scriverla, la dominazione o le infiltrazioni straniere, hanno sortito alle divisioni geografiche che impediscono lo sviluppo di una norma linguistica unificante basata su principi “organici” come quelli che il corpo umano, con il Modulor, rappresentano.
Tutto questo avviene nonostante l’arbëreşë avesse in sé tutte le forze del luogo natio e di quello parallelo ritrovato per dare linfa buona a una lingua unitaria fondata sul corpo umano, quindi sul comune denominatore dell’esperienza o del bisogno di fratellanza che conferma il valore di appartenenza, concetto che non ha trovato è colto l’occasione di usarli come strumento di standardizzazione.
Il risultato è una lingua ricca, ma ancora segnata da profonde fratture dialettali almeno a detta dei poco attenti e che non hanno una base colturale come quella dell’architetto che in maniera razionale e precisa, garantisce case a misura per il bisogno locativo.
Se si parte dal teorema secondo cui l’arbëreşë rappresenta la radice storica e linguistica del moderno albanese, come il latino e il greco lo sono per l’italiano, allora è legittimo interrogarsi sul perché molti teoretici albanesi sembrano negare o sminuire questo legame.
Nonostante gli arbëreşë conservino tratti linguistici, arcaici puri, anteriori alle trasformazioni sociopolitiche avvenute nei Balcani, di sovente vengono relegati a una posizione marginale nel discorso ufficiale sull’identità linguistica albanese.
Questo può derivare da un approccio ideologico, costruire una lingua standard “nazionale” finalizzata a privilegiare forme moderne, più legate al sud di quelle terre oltre adriatico, considerate le più nobili dal punto divista linguistico alle esigenze moderno dello Stato Albanese, piuttosto che riconoscere la continuità storica, custodita nella diaspora arbëreşë.
In breve, se l’arbëreşë è l’antico tronco da cui si è evoluto l’albanese moderno, allora l’attuale negazione accademica di questo legame, si potrebbe paragonare ad ignorare il latino nella storia dell’italiano e, il tutto si trasforma in una rimozione culturale, più che una scelta scientifica.
Il Congresso di Monastir, tenutosi nel novembre 1908, fu un momento cruciale per la definizione dell’alfabeto unificato della lingua albanese, e più in generale per l’identità linguistica e culturale della futura nazione.
Tuttavia, un dato spesso trascurato è racchiuso nel dato che nessuna figura intellettuale arbëreşë, venne invitata, coinvolta o ben accolta nei lavori del congresso, nonostante gli arbëreşë avessero avuto per secoli un ruolo fondamentale nella conservazione e nella trasmissione della lingua, della cultura e dell’identità fuori dai Balcani.
Gli intellettuali arbëreshë dell’Ottocento, dai tempi di Giuseppe Schirò a quelli più fondamentali e di confronto di Pasquale Baffi, tra i primi intellettuali con specifica formazione in grado di studiare, scrivere e codificare l’arbëreşë, molto prima della rinascita nazionale nei territori dell’attuale Albania.
Eppure, al momento di decidere l’orientamento linguistico ufficiale, la loro esperienza fu ignorata escludendo in toto la parlata storica, forse per ragioni politiche e ideologiche, che miravano a costruire una lingua che riflettesse le esigenze immediate di uno Stato moderno nei Balcani, lasciando ai margini la fondamentale diaspora storica, considerata troppo distante o legata a forme linguistiche “antiquate” e, cosi sfuggendo al principio della radice linguistica, che è alla base di ogni parlato solido.
In sintesi, l’assenza di intellettuali arbëreşë o la lettura dei loro postulati al Congresso di Monastir non fu una semplice dimenticanza, ma una scelta storica e politica, che mirava a fondare la lingua moderna senza riconoscere chi e cosa, per secoli l’aveva tenuta viva lontano dalla compromessa e dominata terra dalle altrui patrie.
Esistono poi anche Spazi domestici e specifico femminile, che seguono le tracce di “Zognë i Modulor”, rivolto e messo a punto dal governo delle donne in relazione a come vive lo spazio domestico della propria abitazione del vestire.
Questo si traduce in uno strumento per adeguare lo spazio e le cose di un progetto in relazione alle dimensioni delle esigenze tradotte e sostenute al femminile.
Sebbene concepito come riferimenti più a misura, questo schema si potrebbe ipotizzare che trae le sue radici e, influenza anche la moda o la vestizione delle donne arbëreşë.
Qui, le sue proporzioni diventano un codice silenzioso, un protocollo non scritto ma rappresentato, che guida il modo di cucire e allestire abito e vestizione della donna, negli intervalli della vita, con proporzione rispettosa delle consuetudini che fanno il genere femminile, adolescente, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta, con i giusti colori, per ogni luogo e stagione.
Infatti, ogni parte del corpo coperto tende ad armonizzarsi e rendersi silenziose proporzioni di quella figura disegnata dalla natura con discepolo l’uomo, come se il corpo stesso cercasse una corrispondenza ideale tra misura, colori e bellezza.
In tutto proporzioni del corpo umano che fanno la vestizione regale delle donne senza produrre valenze predominanti, ma atto in cui il corpo umano diventa rappresentanza e orgoglio di appartenenza incontaminata.
Per questo esso diventa non più solo misura dell’uomo, ma misura del mondo attraverso il corpo della donna.
Il Modulor al femminile non riduce, non impone, ma ascolta la curva, l’asimmetria, la vita e, proporzione che accoglie, ritmo che si fa pelle, geometria che non comanda ma danza con garbo regale.
Nel corpo femminile, la verticalità si piega in carezza, la sezione aurea si apre come fiore, e la misura diventa linguaggio d’appartenenza e non dominio.
Non è gerarchia, standard, ma simbolo di vestizione, che non costringe, ma riconosce, definisce, con il Modulor al femminile, il corpo sovrano, non come potere, ma come presenza materna.
Esso diventa orgoglio di forma intatta, rappresentanza di un’essenza libera, incontaminata dal calcolo che esclude, perché ogni spazio generato da questo sguardo non sarà mai solo costruito, ma nato per essere abbraccio dalla sua matrice.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-07-22