NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Viviamo un’epoca in cui è più comodo condividere pensieri, opinioni e giudizi, senza interrogarsi sulla loro origine o sul loro reale valore verso gli studiosi a cui sono indirizzati.
Ma cosa succede quando rinunciamo a pensare con la nostra testa, senza dover attingere o promuovere pensieri altrui.
Vera resta la forma sottile di rinuncia di sé stessi e, il che, si traduce nel lasciarsi vivere, piuttosto che vivere.
Significa adottare verità preconfezionate, senza fatica, senza dubbio, senza ricerca, un modo comodo, ma facile ad uso e consumo delle idee altrui, un modo sterile di vivere che non incrocerà mai nessuno perché lasciandosi trascinare nell’incertezza più dannosa.
È invece necessario guardare il tempo con occhi propri, sviluppare uno sguardo critico e, personale, non per vanità ma per verità.
Giacché qui si tratta di mettersi in gioco, interrogare ciò che ci è stato detto, e soprattutto ciò che ci è stato insegnato a pensare ne definire, determinate e valutare, persone, epoche, idee.
Troppo spesso le figure che passano nella storia o nella cultura vengono criticate solo perché così “si dice”, ma dietro ogni nome c’è una complessità che sfugge al giudizio superficiale e, serve il coraggio, la formazione culturale per sospendere il pregiudizio e di chiedersi: “Questa opinione è davvero mia? ;Oppure sto solo ripetendo quella degli altri qui accanto a me, che elemosinano cultura?”
Costruire una visione propria è un lavoro silenzioso, paziente, e a volte solitario, ma è anche l’unica via verso una forma di libertà interiore.
Il che significa e costa prendersi la responsabilità di ciò che si pensa, di ciò che si dice e di ciò che si sceglie di trasmettere.
In un mondo che ci vuole replicanti, essere autentici è un atto rivoluzionario e, questo fenomeno non è nuovo.
Lo vediamo oggi, lo vediamo ieri, esso si ripete ogni volta che una voce prova a sollevarsi dal coro.
Chi propone una visione diversa, chi tenta di interrogare il presente con strumenti profondi, chi osa pensare per gli altri, spesso viene ridotto al silenzio, ignorato o, peggio, perseguitato.
Accade oggi, ad esempio, a chi si rifà al pensiero olivetano, con la sua tensione spirituale e culturale verso un’elevazione personale e collettiva.
Un pensiero silenzioso, sobrio, ma potentemente alternativo all’omologazione del presente e, chi ne custodisce l’essenza viene visto con sospetto, giudicato come “fuori contesto”, mentre tutto intorno si celebra la superficie, si emulano “le farfalle”, tutto questo impegno, tutta questa ricerca di verità e di giustizia morale, sembra spesso ostinarsi a piantare semi di bambù nel deserto.
Un gesto di fede e di pazienza, ma che il terreno non vuole accogliere, un gesto che appare inutile agli occhi di chi guarda solo il risultato immediato, e non sa attendere la crescita silenziosa e potente.
Ma chi è olivetano, chi ha conosciuto la pena infinita e il maleficio della storia, sa che il deserto non è immobile per sempre.
Sa che quei semi, anche se invisibili per lungo tempo, possono un giorno trasformare la terra arida in una foresta rigogliosa.
Allora, non resta che continuare a piantare, nonostante il deserto, nonostante lo sguardo distratto o ostile.
Perché la vera cultura, la vera visione, nasce sempre da quella fatica e, da quel coraggio intellettuale, caduto vittima non di errori suoi, ma dell’incapacità collettiva di tollerare la lucidità.
Perseguitato, calunniato, dimenticato, eppure, oggi si parla di cultura, si rivendica il bisogno di “unità locale”, di riscoperta delle radici.
Ma come può esserci unità se si rifiuta la complessità della propria stessa storia? Se si ripetono, con nuovi abiti, ma con lo stesso spirito, le medesime esclusioni?
Il problema non è la memoria corta, ma la volontà di dimenticare e, serve al potere per ripetere, indisturbato, gli stessi schemi.
Per fingere che il nuovo sia tale, mentre è solo il vecchio travestito da modernità e far apparire innovazione ciò che è solo intrattenimento.
Chi rifiuta questa illusione e cerca di coltivare un pensiero personale, ancorato alla verità e alla storia, spesso viene messo ai margini.
Ma è proprio lì, ai margini, che la visione comincia a liberarsi, non dove tutti guardano, ma dove pochi vedono.
Dalle profonde crepe della terra, gridate aiuto. Chiedete lumi, chiedete modelli, invocate sapienza.
Volete libri, parole alte, opere da tramandare.
Ma poi, quando finalmente riemergente dal solco del vostro stesso fango, non redenti, ma solo asciugati dal sole dell’occasione, voltate subito le spalle a quelle figure alte che poco prima veneravate.
Le disprezzate perché non vi somigliano, le ridicolizzate perché non vi rassicurano, le temete perché vi ricordano ciò che non avete il coraggio di essere.
Vorreste essere loro, ma non volete diventarlo davvero, perché diventarlo richiede sforzo, silenzio, studio, rinuncia al plauso facile.
E allora li respingete, come Baffi e, l’Olivetano, chiunque vi parli con voce pulita, voi lo preferite al fango, dove ogni verità è coperta da una risata comoda o un luogo comune.
Così il ciclo si ripete, si invoca cultura, ma si premia l’apparenza, si chiede unità, ma si agisce per esclusione, si teme il vuoto, ma si scaccia chi prova a riempirlo di senso.
Eppure, chi resta fedele a sé stesso, pur nel disprezzo, nella dimenticanza o nella solitudine, continua a testimoniare, non per farsi notare, ma per non tradire ciò che ha visto e, chi studia davvero, e lo fa da olivetano, conosce il prezzo di quella fedeltà.
Sa che questa è la vostra pena infinita, una condanna silenziosa, innestata in voi non da errore, ma da quel malefico storico che, decenni addietro, cominciò l’opera della grande deformazione.
Lo stesso storico, o la sua stirpe, che impedì la nascita di Adelina, figura sacra e possibile, per quattro immagini d’archivio non autorizzate, come se l’anima potesse essere cancellata da un permesso negato.
Ma questa è un’altra storia, ed è proprio da quell’altra storia che comincia questa, in tutto un punto e a capo in quel silenzio, in quella rinuncia imposta, che si prepara la prima apparizione moderna dell’Olivetano. Non come ritorno del passato, ma come giustizia morale, viva, presente, finalmente pronunciabile, perché l’Olivetano appare non per essere creduto, ma per essere compreso.
E con lui si apre un cancello, quello della cultura vera, non la cultura delle vetrine e delle premiazioni,
ma quella che libera e giudica, che consola, interroga e dice tutte le verità che mancano all’itinerario locale della storia.
Da qui si comincia, non per nostalgia, ma per memoria attiva, non per costruire un monumento, ma per ricordare ciò che deve ancora nascere.
Raccontare la storia in modo vero e completo significa includere tutte le prospettive, anche quelle che a volte vengono ignorate o marginalizzate.
Spesso, quando si affrontano alcune tematiche, c’è il rischio che alcuni si sentano confusi o addirittura in disagio, specialmente se sono abituate a vedere il mondo in modi più tradizionali.
Ma è proprio includendo tutti gli aspetti, anche quelli meno “certi” o definiti, che si può costruire una storia più ricca, umana a misura del luogo di osservazione dove ancora oggi si attende l’arrivo dello storico Trimaxso che non esiste.
Non si può risalire alle proprie origini restando fermi sempre nello stesso angolo di finestra per spiare chi passa e va, perché per conoscere davvero da dove veniamo, bisogna muoversi, cambiare prospettiva e guardare il mondo da nuovi punti di vista.
Non basta accumulare vestiti per comprendere il senso del matrimonio, né ammassare libri che nessuno leggerà mai; e anche se qualcuno lo facesse, spesso sono scritti male e diffondono solo confusione e dolore sotto forma di sapere.
Se poi siete convinti del contrario, sediamoci in uno scenario pubblico e mettiamo sul tavolo idee, progetti e fatti della storia, o forse temete di sprofondare pubblicamente nel fango che vi sostiene.
Atanasio arch. Pizzi Napoli 2024-08-27