Për gnë mikë i tates…….. puru ai, si u, nëngh path përh shumë mot vleserë
Gli arbëreshë, per lungo tempo hanno affidato il loro sostentamento primario alla pastorizia, ritenendo a ragione, che fosse il modo più sicuro per mirare a modelli di vita migliore supportati dalla donna che avesse condiviso con loro la stessa scelta di vita.
Questa che vi racconto è la storia di due di loro Gennaro e Cosimo, giovani pastori arbëreshë, che nelle lunghe giornate trascorsi nei pascoli con i loro greggi, sognavano futuri solari, assieme alle proprie amate che erano le due più belle ragazze del paese.
Due giovani, che oggi si descriverebbero, di bella presenza, forti, robusti e fisicamente perfetti, chi non li conosceva, li avrebbero scambiati per fratelli e tali loro stessi si sentivano, anche perché le vicende della vita, a entrambi gli avevano sottratto gli affetti fraterni.
Era consuetudine dei due pastori, pur essendo vicini di casa, concordarsi appuntamento con i propri greggi, nei pressi della Cona di San Francesco per poi scendere verso la Contrada Kazamitë, attraversare il torrente detto Votetë e giungere in località Tumbarino luogo ideale per pascolare e abbeverare le pecore in tutta tranquillità.
Risiedevano in paese in quello che era detto Scesci zì Francisches, mentre le loro gregge erano ricoverate in due zone distinte del paese, quello di Cosimo nella parte più alta, non distante dall’abitazione della giovane e bella Nina, la sua amata, questa come di consuetudine ogni mattina dall’uscio di casa lo salutava con un sorriso, attenta a non farsi scoprire da suo padre e i suoi fratelli, persone poco socievoli e di dubbia moralità.
Il gregge di Gennaro era ricoverato invece nella zona a est del paese, ma lui non aveva bisogno di ricorrere al gregge per vedere la sua amata Lina, poiché essa abitava non lontano da casa sua; ella era figlia unica del signor Antonio, persona mite, laboriosa e ricca di principi morali.
Ogni mattina recuperate le pecore dai loro ricoveri, i due pastori percorrevano via Morea e passavano innanzi al piantone a guardia della caserma dei Carabinieri; il piantone si divertiva a mettere i due giovani pastori in competizione, segnalando loro, chi fosse passato per primo col proprio gregge dalla sua postazione, ma dei due Gennaro, per quanto fosse rapido, ogni mattina si sentiva dire: Jana je i diti.
Gli anni passavano e le intenzioni tra Gennaro e Lina, Cosimo e Nina diventavano sempre più serie, quindi come succede nei piccoli centri, anche sulla bocca di tutti e di conseguenza anche nelle orecchie dei familiari di Nina, i quali non trovando idoneo, vista la posizione sociale di Cosimo, ad ambire alla mano della ragazza.
Le stagioni si susseguivano l’una all’altra e Gennaro con un fastidioso sarcasmo si sentiva ripetere dal piantone di turno, quell’odiata frase che ormai per lui era diventata un incubo: Jana je i diti e lo stesso Cosimo faceva di tutto, per non farsi superare in quella divertente e innocente competizione.
Le conversazioni che riempivano di sogni le giornate dei due pastori nei pascoli, erano sempre dedicate a racconti, immaginando futuri assieme alle loro rispettive amate, ma, da un po’di tempo Cosimo tendeva a parlare meno e spesso restava taciturno, nonostante Gennaro lo esortasse ad esternare il motivo di tale atteggiamento, pur conoscendone gli ovvi motivi.
Gennaro era convinto che alla fine le cose si sarebbero sistemate per il meglio, sicuro che l’amore avrebbe prevalso su ogni cosa, rassicurandolo l’amico che comunque avrebbe potuto sempre contare del suo appoggio e se ce ne fosse stato bisogno, contare della sua riconosciuta forza.
Era il due di Aprile, la festa di San Francesco le luminarie, il mercato, la giostra, era l’occasione nella quale tutti gli innamorati potevano fare qualche passo assieme alle proprie amate e scambiarsi poche parole, fu così anche per Cosimo e Nina, infatti e nel corso della processione essi poterono scambiare poche parole.
Ciò aveva fatto tornare Cosimo quello di prima, sicuro di se, sognava futuri radiosi assieme alla sua amata, come sarebbe stata la sua casa, i loro figli e tutto quello che sarebbero stati in grado di dare a loro; ma Gennaro pur intuendo i motivi, chiese spiegazioni a Cosimo il quale riferì che i fratelli di Nina avrebbero consentito alla loro unione, previo un appuntamento chiarificatore, fuori dalla portata di orecchie indiscrete, che potevano mettere in dubbio l’onorabilità di Nina, precisamente nei pressi della grossa quercia a caposaldo del confine della loro proprietà.
Il giovane Gennaro che conosceva bene le vicissitudini del paese e quindi anche la famiglia in questione, esternò tutte le sue perplessità offrendosi di accompagnare il suo amico fraterno, ma questi ebbe ragione ad andare da solo, rassicurando il suo amico, che comunque con la sua prestanza andava ben oltre le possibilità fisiche dei fratelli di Anna e comunque la richiesta dell’incontro, a suo dire era partita da un’idea dalla stessa amata.
Arrivo il giorno dell’incontro e al ritorno dai pascoli di Tumbarino, a Cosimo la giornata era sembrato più lunga della sua stessa vita; si salutarono, era ormai l’imbrunire e fissarono l’appuntamento come solito alla Cona di San Francesco la mattina seguente, dopo di ciò, Gennaro si diresse verso casa sua a cenare, impaziente delle novità che avrebbe portato il giorno dopo, quel caro e fraterno amico; mentre Cosimo si diresse verso il luogo del fatidico appuntamento, che gli avrebbe permesso di legarsi per sempre alla sua amata.
Era mattina, il sole sorgeva di un rosso intenso, spezzava in due l’orizzonte, il cielo era di un azzurro intenso, quale presupposto migliore per quella giornata che avrebbe segnato per sempre la vita dei due amici.
Gennaro come sempre pronto con il suo gregge, è già nei pressi di via Morea, pronto a ricevere la solita frase idiota dal militare ma oggi non gli importava, c’era in gioco la felicità del suo amico e niente lo poteva colpire, tanto meno quella frase.
Quando gli si presenta innanzi, su via Morea un drappello di Carabinieri, il Maresciallo, accompagnato da due militari armati di tutto punto, banderuola di servizio fucile in spalla, e il scenografico cappello con pennacchio; quando i due militari furono prossimi al giovane pastore, quello di sinistra, fece un cenno con la testa in modo che egli gli passasse accanto, lui lo fece, sicuro di ricevere la solita e tanto odiata frase; invece si senti bisbigliare: Janà sot e për sempre je ti i pari.
NAPOLI – (di Atanasio Pizzi)