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ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

Posted on 12 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il vernacolare del costruito, la toponomastica e i soprannomi all’interno delle pertinenze territoriali e del costruito di un Katundë Arbëreşë sono gli uffici, stesi alla luce del sole in forma sociale e condivisa, che fanno archivio e anagrafe di questi luoghi colmi di storici confronti di operosità.

Per questo l’insegnamento della scrittura di una lingua storicamente parlata può risultare inopportuno, quando non si tiene conto del suo contesto sociolinguistico e culturale.

Le lingue orali, spesso sono legate a tradizioni popolari, di comunità locali o minoranze, che sviluppano nel tempo forme espressive, non sempre adattabili ai modelli dello scritto standard.

Per questo imporre una codificazione scritta può snaturare la ricchezza della lingua, ridurne la spontaneità ed escludere coloro che non si riconoscono in una norma obbligatoria, senza un reale consenso o coinvolgimento della comunità parlante, innescando così processi di trasformare di un patrimonio vivo innestando artifici scolastici, ben distanti dall’uso autentico e quotidiano.

Codificare una lingua parlata spesso significa selezionare una varietà prestigiosa o centrale a scapito delle altre periferiche o di confine non parallelo.

Questo può portare all’emarginazione delle varianti, che sono la parte integrante dell’identità culturale di una comunità.

La standardizzazione scritta tende a sopprimere la ricchezza interna del parlato, privilegiando le lingue più diffuse e comunque altre, innescando la conseguente omologazione che conduce alla perdita di biodiversità linguistica di uno specifico intorno storico.

Quando una lingua parlata diventa oggetto di insegnamento scritto, può assumere tratti formali, normativi e comunque non in linea con la realtà d’uso.

Questo può scoraggiare l’uso spontaneo della lingua, specialmente tra i parlanti nativi, che si trovano oltremodo disorientati dalla nascita.

L’insegnamento scolastico della lingua scritta non deve mirare a trasformare il mezzo di comunicazione naturale in ogni ambito di studio rigido, allontanando i giovani dalla sua pratica quotidiana.

Specie oggi dove ogni settore di studio si espande verso la conoscenza del parlato più diffuso, a scapito delle minori che rimangono nicchia da sottomettere, come lo fu per gli Arbëreşë sei secoli orsono.

Allo stato delle cose odierne è possibile valorizzare una lingua orale senza forzarne la scrittura, facendo uso della documentazione audio e video, l’insegnamento orale, la promozione culturale attraverso canzoni, e narrazioni, come lo fu per i germanofoni nel 1871.

La trasmissione orale, se sostenuta da strumenti moderni e digitali, può garantire vitalità e trasmissione intergenerazionale della lingua senza bisogno di forzarla in una forma scritta.

Una lingua è patrimonio di chi la parla e, qualsiasi iniziativa di normazione o insegnamento dovrebbe partire da un processo partecipativo e condiviso, non da decisioni calate dall’alto.

È fondamentale la comunità coinvolta sia protagonista del processo e, ogni forma di standardizzazione deve nascere da un consenso collettivo, non da esigenze accademiche o istituzionali di parallelismi territoriali ormai omologate ad altri dinamismi.

Tra queste valga di esempio la comunità arbëreşë, che rappresenta un prezioso mosaico culturale, dove si tessono e si intreccia storia, lingua, religione, canto, gastronomia e sapere di radice esclusivamente consuetudinaria.

Tuttavia, spesso la tutela delle minoranze si è concentrata quasi esclusivamente sulla salvaguardia del parlato promosso e diretto in forma ostinatamente scritta, rischiando di ridurre la complessità di queste identità a un solo elemento, scollegato dal vissuto quotidiano.

Misura ne sono le attività dipartimentali orientate in tal senso, lasciando solo piccoli episodi senza ascolto per chi si dirige o previlegia altre strutture, in grado di sostenere questi miracoli di resilienza culturale.

Da questa premessa e per evitare che la minoranza arbëreşë venga percepita come “folclore statico” o come un’eredità “fuori tempo”, è necessario adottare un approccio integrato che valorizzi non solo la lingua, ma l’intero ecosistema culturale e sociale.

Ciò significa sostenere pratiche vive, come l’artigianato, i cunei agrari e della trasformazione, le tradizioni religiose, il sistema vernacola che fa iunctura, la cucina tipica, il canto e le narrazioni orali, il tutto secondo un dialogo aperto con la contemporaneità e con le nuove generazioni.

Valorizzare una minoranza oggi non significa conservarla in una teca, ma attivarne il potenziale culturale, educativo ed economico, rendendola parte dinamica del tessuto sociale.

Solo così la cultura arbëreşë potrà continuare ad essere, non solo memoria del passato, ma risorsa viva in grado di riverberarsi con forza nel futuro.

Nel paesaggio delle macro aree arbëreşë, se si osserva l’architettura vernacolare si ha la misura che essa non è solo estetica, ma tradizione materiale di un sapere antico, nato dal bisogno e affinato dalla convivenza con l’ambiente naturali e la forza dell’uomo che cambia con lo scorrere del tempo.

Case in pietra locale, cortili interni, forni comuni, strade strette e piazze raccolte, raccontano una storia fatta di adattamento, resilienza e senso della comunità.

Questi spazi, spesso trascurati o minacciati dall’abbandono, non sono solo testimonianze del passato, ma strumenti attivi di continuità culturale.

Essi parlano una lingua silenziosa ma potente, quella dell’abitare collettivo, della sostenibilità spontanea, dell’uso sapiente delle risorse.

Da ciò si dedurre che rappresentano il punto d’incontro tra identità e territorio, tra cultura materiale e visione del mondo che segna il suo progredire.

Valorizzare l’architettura vernacolare arbëreşë, quindi, non è un’operazione nostalgica, ma un atto di rinnovata consapevolezza e il dato restituisce dignità a forme di sapere legate al costruire con intelligenza, al vivere con misura e abitare con senso, ma soprattutto riconoscere che la cultura non si conserva o si scrive, ma si abita confrontandosi e parlando.

L’architettura posta in essere dagli Arbëreşë, le comunità insediate in sedici macro aree del meridione Italiano a partire dal XV secolo, rappresentano un esempio significativo di adattamento culturale e ambientale.

Essa si sviluppa su più livelli, rispecchiando le esigenze sociali, economiche e simboliche delle diverse epoche.

La base del paesaggio costruito arbëreshë è l’architettura vernacolare, realizzata con materiali locali come pietra, legno e laterizi crudi.

Le abitazioni tradizionali erano semplici case a uno livello, spesso con tetti a falde ricoperti di coppi, disposte lungo tracciati irregolari che seguivano la morfologia del terreno.

Le stanze erano distribuite in maniera funzionale, e solo in tempi di stabilità abitativa organizzate con stalle o magazzini al piano terra e l’abitazione vera e propria al piano superiore.

Gli spazi domestici fuori l’uscio della porta, erano condivisi tra più nuclei familiari, a testimonianza di una cultura fortemente comunitaria o meglio di iunctura familiare.

Con l’evolversi degli insediamenti e l’incremento dei rapporti l’agro che diventava piò solido e generando fioriture di certezza, l’architettura arbëreshë iniziò ad assumere un carattere più urbano.

Si svilupparono così tipologie edilizie “a profferlo”, ovvero costruzioni addossate lungo le strade principali, con affacci direttamente sullo spazio pubblico.

Queste case, più compatte e articolate, presentavano spesso piccoli balconi, ingressi monumentali e talvolta decorazioni modeste, segnando un passaggio verso una maggiore rappresentatività sociale, pur mantenendo una forte coerenza con l’ambiente e le tecniche tradizionali.

A partire dal XVIII secolo, con la nascita di una piccola élite locale e l’integrazione nel tessuto politico e amministrativo del Regno di Napoli, emersero anche edifici di rango superiore, ovvero i palazzotti nobiliari. Questi edifici, spesso ubicati nei punti più visibili o centrali del centro antico, si distinguevano per la monumentalità della facciata, l’uso di portali in pietra scolpita, lo stemma familiare e la presenza di corti interne o loggiati.

Pur riprendendo modelli architettonici del barocco meridionale, molti di questi palazzi conservano elementi legati alla cultura mediterranea tipica delle coline degli appennini, talvolta visibili nei simboli, nelle iscrizioni o nella disposizione degli spazi interni.

Altro aspetto fondamentale è la toponomastica storica, infatti essa rappresenta un archivio invisibile ma essenziale steso al sole e, i nomi di luoghi, strade, fonti, campi, boschi, alture e distese si custodisce la memoria profonda di una comunità.

Per gli arbëreşë, la sopravvivenza di antichi toponimi, purtroppo molto spesso alterati e incompresi, anche se a volte sorprendentemente intatti, testimoniano o meglio tracciano una geografia emotiva e culturale che resiste al tempo.

Questi nomi raccontano origini, migrazioni, legami con la terra e con il sacro e, non devono essere recepite come sterili etichette, ma frammenti di una narrazione collettiva, radicata nel paesaggio e tramandata oralmente.

Salvaguardare la toponomastica storica significa quindi proteggere una mappa identitaria, capace di rivelare molto più di quanto un semplice cartello possa dire.

Recuperarla, studiarla e restituirla alla comunità e, magari integrandola nei percorsi turistici o nei sistemi di segnaletica, vuol dire dare voce a un territorio che ha ancora molto da raccontare.

Nei paesaggi rurali, la toponomastica dei cunei agrari (frazioni di terre coltivate, appezzamenti, coltivi, confini) rappresenta molto più che indicazioni catastali, in quanto essa è storica, funzionale e culturale. Questi cunei agrari e della trasformazione prendono spesso nomi descrittivi, legati alla forma del terreno, alla qualità del suolo, alla presenza di acqua, all’esposizione o al coltivo praticato, all’uso o il confine sociale che rappresentarono e costituiscono un’autentica “mappa orale” della quotidianità contadina.

Ad esempio, toponimi come “pratj”, “lljmë lljtir”, o “mallj” descrivono rispettivamente pendii ampi, declivi o limiti di utilizzo, mentre nomi come “Kotà”, “kjusà” o “rashi” indicano caratteristiche specifiche di terreno o posizione topografica, in tutto il Catasto ambulante e, gli agricoltori o contadini conoscevano perfettamente la toponomastica dei cunei, identificando i confini e la destinazione dei terreni senza strumenti cartografici o documenti ufficiali.

Il paesaggio per questo, narra e i nomi raccontano non solo aspetti fisici, come pendenza e suolo, ma riflettono anche pratiche agricole, come le coltivazioni prevalenti o l’uso del suolo.

Per questo, individuare il sapere locale, quasi sempre trasmessi oralmente, testimonia un patrimonio di conoscenze geografiche, agrarie e sociali, radicato nella memoria collettiva.

Il tutto poi diventa identità territoriale che serve ad integrare la toponomastica rurale nei progetti culturali e turistici, contribuendo così a costruire una mappa identitaria che parla di come si lavora e si viveva la terra parallela ritrovata dagli Arbëreşë.

A tal fine servirebbe allestire forme in didattica territoriale o laboratori sul campo, cartellonistica naturalistica o app geolocalizzate che possano divulgare agli studenti e ai visitatori i nomi originari e le storie legate ai campi.

Il fine mira a conservare la memoria digitalizzando sia il mappare segnala i luoghi dei cunei agrari con i loro toponimi significa preservandone la visioni del paesaggio altrimenti destinate a scomparire.

La toponomastica dei cunei agrari è una memoria attiva del territorio, un patrimonio simbolico e pratico di relazioni, saperi e lavoro.

Inserirla in un progetto di valorizzazione significa rendere visibile la cultura contadina e, dunque l’identità non solo nelle piazze o nelle chiese, ma anche e soprattutto nei campi, nei muretti a secco e nelle pietre di confine.

In una comunità parlante priva di forma scritta, fanno parte di questo patrimonio di memoria anche i soprannomi non sono semplici etichette: sono parte viva della memoria collettiva. Spesso custodiscono storie, legami familiari, tratti distintivi o episodi che hanno segnato l’identità di una persona. In assenza di documenti ufficiali, un soprannome può diventare l’unico segno duraturo del passaggio di un individuo nella storia della comunità.

Per questo, è fondamentale tutelarli: conservare i soprannomi significa proteggere la lingua orale, le relazioni sociali e la cultura locale nella sua forma più autentica.

I soprannomi sono spesso espressione di creatività linguistica e ironia popolare, possono rivelare dinamiche sociali, gerarchie implicite, ruoli nella comunità o tratti del territorio.

Studiarli e conservarli aiuta a comprendere l’identità collettiva e i meccanismi con cui una comunità si racconta nel tempo e nella storia.

In comunità senza scrittura, i soprannomi aiutano a distinguere tra individui con nomi simili o identici innescando certezze senza sovrapposizioni o margini di errore.

Sono strumenti di memoria viva, tramandati oralmente, che contribuiscono alla trasmissione delle storie locali.
Con il declino della lingua orale, della trasmissione intergenerazionale e con l’omologazione culturale, molti soprannomi rischiano di scomparire e, diviene fondamentale tutelarli, perché oggi significa proteggere un patrimonio che domani potrebbe non esistere più.

Il soprannome crea appartenenza, anche se in forma palesemente scherzosa o ironica, tuttavia rafforza i legami tra le persone e spesso identifica il ruolo di ciascuno gruppo nel tessuto comunitario.

Anche in assenza di scrittura formale, i soprannomi possono essere raccolti e trascritti oralmente, in registrazioni o archivi sonori, valorizzandoli come parte del patrimonio immateriale, a tal fine il consiglio di un “passionato”: cosa aspettate ad iniziare ad archiviare anagrafare e registrare il vernacolare, la toponomastica e i soprannomi?

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025 – 07 – 12

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PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

Posted on 11 luglio 2025 by admin


NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era l’11 Luglio di 276 anni fa che a Santa Sofia d’Epiro, tra le colline della Calabria citeriore presilana, nasceva da Giovanni Andrea e Serafina Baffa, il loro figliuolo “Pasquale”.

In quell’anno Serafina, non  poté provvedere a imbiancare la sua Kalljva, dalla fumigine dell’inverno appena trascorso come aveva fatto di consuetudine  altri anni.

Perché in quella Gjitonia, del “Rione dei Baffa di Sotto”, dovettero tutte le vicine provvedere alla nascita del piccolo Pasquale e, come spesso avveniva l’imbiancare i muri era secondario alla nascita e il battesimo di un nascituro.

Le prime conoscenze linguistiche e di ascolto il Baffa le acquisì in questo luogo, che poi diverrà il palcoscenico di interessi privati, storia di tradimenti, sparse per lavoro di altre figure senza agio culturale, oggi divenuti gli interessi ancora da vantare per numerose figure che in paese non portarono mai avere, un valore come lo fu per Pasquale.

Lo dimostra la poca attenzione con cui sono stati allestiti, poco tempo addietro in questo luogo, additandolo di memoria storica, da quanti per la poca formazione non sanno cosa rappresenta questa Gjitonia.

Allo stato valgono due emblemi di vergogna storica che beffeggiano e deridono questo luogo di onore e dedizione per la crescita del Katundë.

Nel suo diario Münter scrisse: «Non è un napoletano, non è un calabrese, è un albanese, membro di quella colonia che più di trecento anni fa si stanziò nel Regno, e il suo spirito è nutrito in tutto dallo spirito degli antichi e in modo particolare da quello dei Greci.

È un uomo onesto e nobile, incapace di qualsiasi atto che lo possa svilire e, il suo sguardo sfiora dall’alto la plebaglia cortigiana, che ovunque gli frappone degli ostacoli.

L’opinione dei contemporanei era unanime, infatti non solo Baffi era giudicato un famoso filologo, un “Bibliotecario Dottissimo”, un paleografo espertissimo, ma e soprattutto, egli era dovunque ammirato per la «profondità del pensiero», «l’indole mite», il suo «carattere aureo», la sua «dolcezza incredibile» e la sua «infinita modestia, incapace di ambizione veruna».

Ma quella stessa modestia è anche stata la causa del fatto che molti dei suoi scritti non furono mai pubblicati e che oggi questo martire della libertà è pressoché sconosciuto.

Nella brevissima descrizione del suo paese nativo, la «Guida d’Italia» del TCI non fa cenno a Baffi, l’enciclopedia UTET non lo menziona, nel capoluogo Cosenza non vi è una strada che lo ricorda, ed addirittura molti dei suoi «connazionali» Arbëreşë della Calabria non hanno mai sentito parlare di lui.

Poco conosciuta anche l’eccellente biografia,  apparsa sull’Almanacco Calabrese del 1959, dove l’autore, si lamenta della scarsità delle fonti, e si è largamente servito delle «carte Baffi», conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

A nostro turno faremo uso di quella biografia, inserendovi vari dati che ovviamente non potevano essere a conoscenza di un qualsiasi studioso moderno, che si dovesse cimentare nella definizione di questo pilastro della cultura arbëreşë e italiana.

La Gjitonia di crescita per P. B. non durò più di dieci anni, infatti rimasto orfano venne affidato alla famiglia dei Bugliari di sopra, loro parenti e, qui inizia il suo percorso formativo colmo di valori di conoscenza e credenza sociale, oltre che religiosa.

 A cui segui la breve parentesi del collegio Corsini di San Benedetto Ullano dove, già da studente Pasquale scalpitava per salire in cattedra, perché già all’epoca era un elevato conoscenza del latino e del greco, sin anche in ogni forma dialettale e, per il suo elevato valore, il maestro dalla cattedra senza onore, lo fece espellere dal secondario istituto, perché pasquale lo corteggiava di tutte ilarità che il cattedratico diffondeva.

Nonostante ciò il giovane Pasquale, sicuro dello spessore culturale, non si perse d’animo e continuò i suoi studi nella storica università di Salerno, dove ebbe modo di essere conosciuto sin anche tra le mura ecclesiastiche di Cava dei Tirreni, dove sorgeva un importante monastero benedettino, nota come “Abbazia territoriale della Santissima Trinità”, fondata nel 1011 da San Alferio e attiva da secoli come centro spirituale – culturale.

A Salerno si laurea con lode per il suo alto valore e quando i gesuiti furono allontanati dal regno, il Baffa fu chiamato a insegnare il greco nelle scuole pubbliche Universitarie di Salerno e di Avellino.

Nel 1773, con l’autorità del suo nome a ottenere il posto d’insegnante a Portici nella nascente Guardia Marina del Regno; altre vicende lo vedono protagonista sino all’11 novembre del 1799 alle ore 17.30, come quella di essere stato il primo arbëreşë a fare un testo di comparazione linguistica del nostro parlato nel 1776, ma questa e altre vicende sono di competenza degli intellettuali , i preposti accademici che avrebbero dovuto farlo brillare, a tal fine, perché qui dovrei renderle note infondo chi scrive è solo un architetto che segue lo stesso percorso culturale del Baffi e quindi non regala ma fa solo memoria.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-11

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L'ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

L’ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

Posted on 10 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Disquisire, palare o esprimere pareri relativi a una minoranze storica non deve essere finalizzato semplicemente nel difendere una lingua, un canto, un costume tradizionale o trascrivere inadatti abecedari, ma riaffermare il principio secondo cui l’identità culturale non si esaurisce nelle parole che pronunciamo o negli atti di semplice apparizione folcloristica, perché si radica in un modo di essere, in una visione del mondo, in una trama invisibile, fatta di valori, gesti, memoria di un been identificato luogo.

Essere parte di una minoranza, come quella presente da secoli, appellata Arbëreşë, non significa solo parlare un idioma diverso, tramandare melodie antiche, accompagnate dal suono di inadatti strumenti a mantice o corda.

Il che non giustifica adagiare nel presente una storia sensibile di un’etica e relazioni che resistono al tempo e si riverbera senza mai distorcersi, perché una minoranza è uno stile di vita che rispetta la terra abbandonata e, nel contempo valorizza quella parallela ritrovata, in tutto il principio antico, della parola data.

La stessa che diventa forma di pensiero che valorizza il legame tra le generazioni, il senso del limite, il valore delle donne e l’operato degli uomini, i due governi che fanno l’ospitalità più genuina del vecchio continente.

Difendere questa minoranza non è dunque un atto nostalgico, ma un gesto di giustizia culturale, e riconoscere che la vera ricchezza di una società non sta nell’omologazione, ma nella pluralità.

Dato che non esistono “culture piccole”, ma solo sguardi superficiali e, ogni cultura diviene universo, storia, o insegnamento che può essere radicata o aperta, ma fedele a sé stessi per dialogare.

In un tempo in cui tutto corre verso l’uniformità, riaffermare la dignità di una minoranza che resiste è un atto rivoluzionario, o messaggio, in quanto non sono solo ciò che producono o consumano, ma anche memoria e ricordo, di ciò che si sceglie di custodire.

E allora, oggi, non chiediamo solo protezione o riconoscimento, chiediamo ascolto, chiediamo che la nostra presenza sia considerata una risorsa, non un residuo della nostra differenza, in tutto una forma di valore, non una distanza da colmare.

Perché, in fondo, difendere una minoranza significa difendere il diritto di ogni essere umano a essere sé stesso, in modo pieno, libero, umano.

Vale per questo anche la vestizione tradizionale delle donne, che in molte culture e in particolare nelle comunità storiche come quella Arbëreşë, non è semplice modello estetico o folklorico.

Esso rappresenta un codice simbolico profondo, che racchiude valori familiari, religiosi e identitari, che non possono essere stilizzati nell’inadatto adempimento di mezza festa o mezzo lutto, come se questi appuntamenti non fossero un tutt’uno con il sole e la luna che fanno giorni solidi.

In ragione di ciò in questo scenario identitario ritrovato la tradizione commessa all’abito diventa una dichiarazione silenziosa di appartenenza, di rispetto e di sacralità.

La vestizione tradizionale femminile è spesso ispirata a un senso di pudore e di bellezza sobria che rimanda direttamente ai valori della chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa, ma come centro spirituale della comunità.

L’atto stesso di indossare certi capi in determinati momenti come: feste religiose, matrimoni, processioni è un rituale che unisce il quotidiano al trascendente.

Nel modo in cui una donna si veste per la festa, si legge il rispetto per ciò che è sacro, per il tempo lento, per il significato profondo delle cose.

La cura con cui si tramandano gli abiti cuciti, ricamati, aggiustati, conservati, parla di una cultura della casa come spazio di trasmissione dei valori.

Ogni dettaglio, ogni filo, ogni gesto di vestizione racconta una storia: di madri, figlie, nonne.

Ed è nella casa che si impara a portare quell’abito con rispetto, e a comprenderne il valore.

“L’abito non è solo indossato, ma deve essere anche saperlo vivere, tramandare, ereditato, perché esso rappresenta un modo di essere e fare famiglia.”

Nelle culture tradizionali, la donna è ponte tra la casa e la chiesa, tra il quotidiano e il sacro e, l’abito, rappresenta la sintesi visibile di questa alleanza.

Non è limitazione, ma espressione identitaria, consapevolezza di un ruolo che è custode, guida e presenza silenziosa solidamente connessa alla consuetudine della storica radice delle terre gli Arbëreşë furono costretti a migrare con dolore.

Nel silenzio dell’abito c’è una dichiarazione potente, in quanto con esso palesiamo ciò che onoriamo, e onoriamo ciò che amiamo.

Nella vestizione tradizionale delle donne di Arbëreşë non c’è solo tessuto, ma casa, fede e storia. Ogni abito portato con rispetto è un atto di memoria e di futuro, il gesto non vuole essere mero conservare un costume, ma di proteggere un codice etico, un modo di vivere che tiene insieme il sacro e l’intimo, la comunità e la persona e, oggi conoscere per difendere questi segni significa rimanere civiltà inarrivabile.

Che l’Arbëreşë non sia soltanto una lingua è dimostrato da una lunga e profonda tradizione culturale, religiosa e intellettuale che attraversa i secoli e le generazioni.

Parlare di arbëreshë significa parlare di un’identità viva, che ha saputo resistere e rinnovarsi, portando con sé non solo parole, ma anche valori, pensieri, simboli e gesti.

Lo dimostrano, in primo luogo, figure come Giuseppe Bugliari prelato, il cui pensiero lucido e coerente ha rappresentato un faro nella difesa della specificità culturale e spirituale del popolo arbëreshë. Con lui, Pasquale Baffi ha incarnato una forma di impegno civile e culturale che ha saputo unire la fedeltà alla tradizione con l’apertura al dialogo moderno, dimostrando come l’identità non sia una gabbia, ma una radice da cui crescere.

Non si può dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai vescovi Bugliari, custodi della fede bizantina e interpreti di un’autonomia religiosa che ha rappresentato, nei secoli, un baluardo contro l’assimilazione forzata e una forma alta di resistenza culturale.

Il genio di Luigi Giura, figura simbolica di creatività e pensiero, testimonia come il pensare e immaginare in Arbëreşë abbia saputo produrre visioni e opere capaci di parlare ben oltre i confini delle comunità diasporiche.

La giustizia secondo Rosario Giura, che non la misurava in favore dei regnati di turno, che volevano vendetta di ogni gesto che non erano mai reato.

La lealtà di Pasquale Scura, espressione concreta di un legame profondo con le proprie origini e con la propria gente, richiama il valore della memoria condivisa e della responsabilità collettiva.

Infine, l’opera editoriale di Vincenzo Torelli, attento e instancabile nel dare voce e visibilità a una cultura spesso marginalizzata, ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e alla valorizzazione dell’identità Arbëreşë che preferiva il canto alla musica nel panorama culturale italiano ed europeo.

Tutto questo dimostra che l’Arbëreşë non è solo un codice linguistico da preservare, ma un sistema complesso di saperi, pratiche e valori che continuano a vivere grazie al contributo di donne e uomini che, con passione e dedizione, hanno saputo trasformare la memoria in futuro.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                             Napoli 2025-07-10

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LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI'

Protetto: LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI’

Posted on 04 luglio 2025 by admin

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NEI CENTRI ANTICHI GERMOGLIA LA MALARIA CHE RIPUDIA CHI PARTE E RICORDA  (llirenj thë rjerë Shanasjnë; ghë mosë nhëngh e frnon më)

Protetto: NEI CENTRI ANTICHI GERMOGLIA LA MALARIA CHE RIPUDIA CHI PARTE E RICORDA (llirenj thë rjerë Shanasjnë; ghë mosë nhëngh e frnon më)

Posted on 30 giugno 2025 by admin

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la storia del costume

GIJTONIA: IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË (Ghëratë thë sheşethë ndë katundë bëghenë Gjitonjitë)

Posted on 30 giugno 2025 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per chi conosce la storia e associa i processi sociali per la formazione e crescita dei generi, studiando oltremodo i percorsi che valorizzano i luoghi da questi vissuti – senza alcuna preferenza o pregiudizio – tutto tende a cercare una misura con cui confrontarsi, per non perdere la retta via indicata dal sole e dalla luna, che illuminano Casa, Generi, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno, spesso, hanno orientato le proprie ricerche lungo sentieri tesi ad allargare i confini della storiografia, raccogliendo tracce che confermassero la presenza di uomini e donne all’interno di percorsi sociali in grado di rispondere verosimilmente ai bisogni nati dal luogo, fatto di generi, ambiente naturale e tempo.

Idee, mentalità, immagini, parlato e ascolto diventano così simboli di solidità, strumenti per intercettare la linea generale su cui si definisce il luogo dove tutto si materializza: lo spazio dello studio e dell’analisi, da trascrivere o fissare attraverso parole e immagini.

Tuttavia, come è accaduto spesso in passato, ci si è trovati ad avere come compagni di viaggio traduttori occasionali: sconosciuti di turno e, raramente osservatori lucidi, piuttosto ignari viandanti, privi di arte, memoria e rispetto dei luoghi che avrebbero o devono indagare.

E se l’argomento riguarda gli arbëreshë, diventa ancor più indispensabile il ricorso agli strumenti che fanno una diplomatica, per poter offrire una ridefinizione della storia che sia adeguata, fondata e rispettosa della complessità di questi luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbëreşë.

Vero restano i grandi intellettuali o viaggiatori del passato, come Giuseppe Maria Galanti e poi Norman Douglas, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare e avere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, al napoletano storico, politico e accademico di grande rilievo, come Giuseppe Galasso, le cui indicazioni verbalmente acquisite in vari incontri, all’Istituto Italiano di Studi Filosofici a Napoli, dove mi sottolineava che la lena dei suoi discepoli, aveva reso il germoglio del postulato a titolo, in mera forma condominiale del razionalismo moderno.

Tuttavia a rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di casa, furono le attività poste in essere nel palcoscenico “Gjitonia” che non è mero prodotto post industriale di scambio o di prestito di comodo di breve periodo.

Perché, la trasformazione subita dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa, caratterizzata dal XIX e gran parte del XX secolo, include fatti e cose fuori dall’intervallo di Studio e, molto più precedente perché funzione di cose ancora non predisposte del sociale che annaspava economia.

A tal fine e per analizzare il processo sociale diretto e condotto dal governo delle donne e, sostenuto dal sento degli uomini, diventa indispensabile iniziare, con il citare le vicende storiche di epoche più pregresse, se non addirittura remote.

Ad iniziare dalle vicende che videro emerge la figura femminile di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei restava fedele tessendo e disfacendo il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (madre) è anche protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga e custode del figlio Telemaco che cresceva con dedizione secondo le regole del patto matrimoniale.

Infatti, essa attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e, dato per disperso, lei da vedova incerta, cresceva, da sola il piccolo Telemaco, evitando perennemente e con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti, ma grazie al famoso e ripetuto stratagemma, secondo cui di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, rimase sempre fedele alla promessa familiare data.

Mantenne così, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Ma alla fine, Ulisse tornò, dissuase i provocatori o meglio attentatori della moglie e si ricongiunse con lei.

Tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, come le tempistiche giornaliere che vissero le mogli arbëreşë, nelle innumerevoli Gjitonie, caratterizzano nell’antichità i Katundë, della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera al tramonto, il marito partiva per i campi e rincasava dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici, preparando corredi ed elementi tessili con i telai intrecciando seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, assumendo anche il ruolo di educande di tutte le nuove generazioni in crescita nella Gjitonia.

Le stesse che senza mai distrarsi allevavano i propri figli e delle compagne di luogo idealmente circoscritto, il tutto per il fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale di iunctura familiare.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di ogni genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, nel rispetto e la conoscenza dei cinque sensi, che qui si vivevano e respiravano, ad oltranza, in egual misura tutte le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una robusta tessitura di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kalljve vernacolari, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, il tutto utile e indispensabile a innescare una percorrenza lenta, regolata dall’articolato andamento viario a misura e, colmo di accessi di controllo dalle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli indispensabili Orti Botanici di pertinenza familiare nota, in tutto “dedalo di percorsi angusti”, dove scalinate apparentemente disomogenee, rendevano non facile la percorrenza, rallentando il passo di che vi transitava nel bene o nel male della comunità qui organizzata a propria misura.

Strade che mirano a rallentare i comuni viandanti, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta e valore sociale.

Sono gli stessi spazio urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio ai vicoli orientati in direzione nord-sud, generando per questo l’interazione sociale paritaria progettato dalle donne e realizzato dagli uomini.

Una tessitura di centro antico che conserva gli storici rioni di espansione delle varie epoche, noti come: Chiesa, Primo insediamento, Promontorio, Loco di arrivo, Loco di accoglienza, Loco di Incontro, di Credenza e del Nubilato Epirota.

Sette Rioni entro cui a misura di necessità, erano predisposte secondo il bisogno dei cinque sensi, le indispensabili Gjitonie del governo al femminile.

Per questo, Gjitonia mantiene viva la continuità e il confronto in ogni forma o sfaccettatura sociale, diretta o indiretta, in quanto articolata da spazi privati e pubblici in sana condivisione, dove erano regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche in grado di rendere agevole l’operato delle donne, fatto di: Case, Vichi, Archi, Strade cieche e Orti Botanici.

Il sistema così composto divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat di famiglie ben identificate e riferibili, fatto di “madri tessitrici e speciali maestre di vita”, immerse in un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Ed è qui che diverse donne che parteciparono al Grand Tour, in forma di viaggio esplorativo e culturale, tra il XVII e il XIX secolo iniziarono a considerare la Calabria e i luoghi di pari formazione nei loro itinerari di esperienza conoscitiva e studio.

Questo accadde più tardi rispetto ad altre regioni del meridione italiano, per la difficile accessibilità, dovuta alla povertà dell’infrastruttura stradale e della reputazione di pericolosità del sud Italia in generale e la Calabria in particolare.

Le donne viaggiatrici arrivarono in Calabria, nel periodo su citato e tra queste si contano Inglesi, Francesi e Tedesche, che iniziarono a spingersi oltre le mete classiche del Grand Tour, esplorando ambiti ritenuti inaffidabili, come la Calabria Citeriore.

Tra le principali viaggiatrici del Grand Tour che attraversarono le zone arbëreshë della Calabria Citeriore, è da ricordare Emily Lowe.

Una Viaggiatrice britannica, coadiuvata da sua madre, che si reca prima in Sicilia e a seguire in Calabria, inclusa la zona della Calabria Citeriore, intorno al 1859.

Descrive le fragilità e i “pericoli romanzeschi” di quella “terra” lontana e poco esplorata perché nota come area che dissuadeva i turisti proprio per i suoi disagi e la sua ruvidità sociale e territoriale.

Poi venne Caterina Pigorini una Viaggiatrice italiana, che fu tra le protagoniste dello scritto “Viaggiatrici italiane alla scoperta dell’Italia meridionale”.

Essa compila un reportage sulla Calabria, indirizzato all’amica Alba Ricco‑Nicotera e, alla storica comunità arbëreshë, sebbene non vi siano date precise, il percorso sembra compiuto in estate, dieci anni prima della pubblicazione dell’edito nel 1880.

Il motivo che le spingeva queste nobili osservatrici, era contenuto nell’interesse crescente per l’archeologia e, l’interesse che oggi L. Iacobelli dedica a questi personaggi, transitate in questi paesaggi pittoreschi, per cogliere le tradizioni, natura incontaminata del meridione italiano più estremo e isolato, che a ben vedere, seminava interesse verso le donne viaggiatrici, le stesse animate da curiosità scientifica, romantica o etnografica di verificare come il genere femminile si distinguesse in questi ambiti isolati dalle società in evoluzione.

Furono diverse le figure nobili o meglio femminili che seguirono e qui transitarono dal Gran Tour, non era solo esperimento conoscitivo ad opra degli uomini ma specie più profonda per le donne, che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano Paestum, venivano attratte da questa apparizione al femminile, nei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne arbëreşë.

E quando il meridione peninsulare più estremo, divenne anche la meta di nobili donne maritate e non, la  Gjitonia, divenne un fulcro pulsante di scambi dell’operare al femminile, e le giovani e nobili apprezzavano con interesse, sia gli espedienti consuetudinari e sociali senza disprezzare i manicaretti, le pietanze o i prodotti casalinghi, preparati per la prole, il marito e gli ospiti, tutti fatti e compilati con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa, si recava in questi luoghi per comprendere costumi, colori e avere misura di un modo, non certo in linea con le vistose regole di protocolli di corte, con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

E chissà quante di loro ebbero modo di rilevare che la radice di quell’agio aveva alla base sempre una prospettiva al femminile che formava genere e progettava spazi per le case del futuro.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato o accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita e, da oggi in poi, “intellettuali”, “ricercatori”, “psicologi” e ogni “sorta di letterato”, avranno da sudare non poco, nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e valore di Gjitonia, che non è stato “Mero Vicinato Indigeno”, ma luogo della tessitura progettata delle donne Arbëreşë, senza alfabetari di sorta per compilare editi in arbëreşë.

Nel caloroso abbraccio dei Katundë, tra pietre antiche, porte, finestre gemellate, sempre aperte di giorno sulla snodata rrughà, sino a poco tempo addietro aleggiava un ordine invisibile e solido: Gjitonia il regno delle donne, o luogo dove si allevavano i cinque sensi.

Nessuna legge scritta, nessuna gerarchia ufficiale ma, tutto si reggeva funzionale al modello femminile, lo stesso che vede, ascolta, tocca, odora e gusta con sapienza, perché custode del tempo in sintonia con i domani fraterni.

Sono loro a governare ciò che si muove tra le case, dove non serve un titolo, non servono proclami, ma solo l’autorità delle madri, fatta di gesti quotidiani, di sguardi attenti, di presenze continue, per sostenere vivo e sempre accesa la vita tra una soglia e l’altra.

Sono sempre loro, le donne a conoscere ogni passo, che interrompe il silenzio, ogni pianto trattenuto, ogni sorriso nascosto, perché nulla sfugge al loro ascolto in discreta e intima visione.

Gjitonia, è dove la finestra è un osservatorio, la porta resta sempre aperta per accogliere e, il mormorio e le movenze di lingua madre, sono sempre interpretate in modo sano.

I sensi sono le armi che qui si utilizzano, il corpo è memoria, l’olfatto racconta l’ora del pane appena sfornato, i decotti condivisi, ricordano le erbe stese a seccare come si fa in preghiera.

Il gusto conserva le radici delle ricette tramandate senza misura, i dolci delle feste, il brodo che sa di ritorno e il bollore dei taralli segna il tempo del forno che attende in calore.

L’udito cattura tutto, sin anche una parola sussurrata, una voce nuova, una finestra che si apre e come una porta che allarga fratellanza.

Il tatto rasserena gli animi, ad iniziare da una carezza che consola, una stretta di mano conferma un patto, unito da un filo sottile di lana che solidarizza generazioni.

La vista guida, protegge, giudica senza parlare, ed è così che nella Gjitonia, non esiste il vuoto, giacche le donne riempiono ogni spazio con la loro presenza leggera discreta e irrinunciabile.

Esse non comandano, ma reggono ogni cosa, non redarguiscono giacche preferiscono consigliare, non impongono, perché trasmettono regole di via privi di rimpianto futuro.

Il loro governo è quello del fare, cucire, accogliere, consolare, consigliare, tramandare, in tutto una politica dell’anima, che non ha bisogno di essere detta ma solo indicata come fa il sole che indica la via maestra.

E mentre gli uomini si radunano nel loro “senato”, discutono di confini, decisioni, terre, onori, qui, tra le pietre delle Gjitonie, si decide il vero andamento della comunità che genera un Katundë.

È qui che si percepisce chi ha bisogno, chi è pronto a partire, chi deve essere protetto, chi è rimasto indietro e, sempre qui che si costruisce la pace, si distendono gli animi ogni giorno, con gli strumenti più semplici e più antichi.

La Gjitonia non è solo un banale vicinato, ma una rete viva di relazioni, una democrazia sensibile fatta di memoria, di consuetudini presenza, ascolto e cura dell’oggi per i domani migliori.

È il luogo dove la donna non è esclusa né depositata ai margini, ma architetto che progetta le case le cose del bisogno e, poi passa i compiti agli uomini, che assumono il ruolo di forza lavorativa e produttiva.

Un luogo governato o meglio regolato dalle mani che impastano, dagli occhi che ricordano, dalle bocche che cantano e, non si tratta di nostalgia, ma di forza sociale, la stessa che oggi la società moderna non sa come e da cosa iniziare.

Non si tratta di folklore, ma di sapere antico e ancora intramontabile, perché dove le donne guidano con i sensi, anche il mondo intorno trova il suo equilibrio, per accogliere tutti e fare fratellanza.

Non a caso gli arbëreşë sono noti come: “il modello di integrazione più solido e duraturo di tutta la storia del mediterraneo”,

 

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                  Napoli 2025-02-09

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PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

Posted on 23 giugno 2025 by admin

senza regNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.

Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificare i fenomeni, secondo  le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.

Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.

Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un nel determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.

Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificando i fenomeni, secondo sono state predisposte le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.

Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.

Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di Iunctura urbana, dove trovare risorse naturali e di conseguenza germogliare fenomeni sociale in evoluzione o di ristagno, nel corso del tempo.

Avendo per questo di intrecciare culture e società, in continuo progredire, nel pieno rispetto della memoria, della integrazione tra generi e popoli.

Questi luoghi ameni sono il miraggio della fuga sull’isola deserta, o la favola sulla spiaggia per vivere di sole e darsi alla macchia per riconciliarsi con sé stessi e con il mondo.

Perché sono la piattaforma che a tutte le latitudini offre soluzioni catartiche e sono la frontiera dell’evasione, per una pausa temporanea o permanente dal trambusto metropolitano.

È in tutti questi sistemi urbani che spicca il panorama dell’architettura vernacolare con la dimensione antica dove rigenerare i cinque sensi, all’interno di quella culla depositata nel meridione italiano, che ti avvolgono con il candore di queste forme fiabesche, immersi tra le rive e le colline, verde di boschi uliveti, vigneti e il lagrimoso ondeggiare di fiumi e terra e mare. 

Portati sotto i riflettori del pensiero architettonico globale come esempi illustri di architettura spontanea, oggi i questi esempi di vivere comune non necessariamente classificati Patrimonio Unesco e sono sempre più una meta ambita per chi rielabora, la dimensione più autentica della vita e il contatto con la natura.

Capita spesso, specie attraverso il comune parlare in italiano o della diffusione dei mas media che i Borghi plurale di “Borgo”, che indica un piccolo centro abitato, di radice medievale, più grande di un villaggio ma più piccolo di una città, con il quale comunemente viene appellato ogni, Contrada, Paese, Villaggio e comunque agglomerato urbano che non sia una città.

Diversamente si fa con la, Polis, del greco antico, che indica una “città-stato”, tradotto semplicemente come “città”, ma con un’accezione storica legata alla Grecia antica che identificava una serie di rioni, allocati in forma piramidale distinguente cosi la popolazione più estromessa e povera posta alla base dai più distinti sino al vertice della famiglia singola.

Katundë dall’arbëreşë assume il senso di ” un insieme abitativo” o “insieme fraterno di rioni” “o luogo di confronto e movimento produttivo”, quest’ultimo letteralmente tradotto in lingua italiana dall’ arbëreşë.

Geograficamente utilizzato è di origine greca accolto in alcune macro aree Arbëreşë, Hora si può tradurre come insieme abitato e di agro secondo una tradizionale forma produttiva e di controllo de centro abitato”, quindi di connotazione rurale e abitativa cosi anche come la stessa Atene.

Pe concludere la trama di scopo e utile indicare per grandi linnee il Porto, o centro antico che riferisce a una località marittima attrezzate per l’attracco di imbarcazioni e quindi, in continua agire di scontri e confronti tra dinastie e popolazioni, qui approdate.

Tutto ciò premesso, serve a dare valore identitario sia a un abitato di mare e sia ad un insediamento di collina, entrambi di radice in bisogno vernacolare, legato alle abitudini locali, con evidenti elementi di luogo specifico che li caratterizzano, li evidenziano oli velano a secondo del luogo dove venne scelto di elevarli.

In quanto mentre il Paesi di mare è influenzato da contatti con popoli stranieri, come mercanti, marinai, invasori o fuggitivi, grazie ai quali si costruisce e si evolve il dialetto locale che includere termini di origine variegata

Come avviene nelle coste di tutta la penisola Italica, che associano al parlato comune anche rotacismi di ignota favella.

Nei centri abitati di collina, il parlato locale è più conservativo e, meno esposti a influenze esterne, in tutto una struttura linguistica più arcaica, derivante dalla popolazione qui insediatesi e, integrata una sola volta, in fraterno conviviale nel corso della storia, senza aggiunte di sorta alcuna, perché isole di terra.

A tal proposito valgono anche gli abbigliamenti tradizionali, che nelle zone di mare include tessuti leggeri, colori chiari, capi pratici per il lavoro in ambiente salmastro e copricapi, pantaloni, ampi e gilet.

Diversamente da chi vive la collina che indossa abiti più pesanti, spesso raso o panno, in colori di tessitura più finalizzati al calore del tempo che passa tra casa chiesa e agro produttivo.

Poi viene l’aspetto del bisogno o della necessità di luogo che utilizza elementi strettamente locali e realizzare l’Architettura vernacolare, che nel caso dei luoghi di costa o di mare si espone utilizzando case costruite con materiali resistenti alla salsedine, tetti piani o terrazze per asciugare reti o pesci, pareti degli elevati rifinite in coloritura indispensabili per i navigati per essere un riferimento quando rientrano la percorso di mare, il tutto per essere un faro di colore specifico del barcaiolo che riconosce la sua casa.

Diversamente da come avviene per le abitazioni di collina, le quali sono inserite nelle prospettive naturali dei boschi che li accolgono come parte sostenibile al punto tale che di giorno sono difficili da intercettare e di notte il luccichio e il fumo dei camini sa orientare gli uomini da duro lavoro eseguito nell’agro circostante, case in pietra, tetti spioventi per la pioggia e, muri spessi isolanti contro il freddo della stagione corta.

Tutto questo si può sintetizzare negli aspetti Culturali e nelle mentalità che per questo diventano consuetudine storica, in cui gli agglomerati prossimi o sulle rive del mare diventano luoghi aperti Società più aperta dove il principio commerciale, apre a contati esterni, seguendo calendari legati alla pesca, al mare, ai venti.

Diversamente dai nuclei urbani di collina Comunità più chiusa, autosufficienti, che si alimentano di ritmi scanditi dall’agricoltura e dalle stagioni e, legati con la terra, riti agricoli, transumanza.

Un paese di mare vive di processioni con statue di santi portate a mare, feste del pescatore, sagre di pesce.

Un Katundë organizza fiere, sagre, e feste del vino, rievocando le storiche tappe di accomodamento locale in solitudine e porosità lagrimosa.

Ma questo è un aspetto molto intimo e forse poche figure ad oggi potrebbero coglierne agio per migliorarsi, lasciamo il tempo che scorre ad opera di quanti dopo aver perso la strada si accontenta delle cose mediocri che un tempo si davano ai cani, e non da meno di questi ultimi sono quanti e quante si recano davanti la casa di Clementina per ironizzare, del suo figliolo che ancora non torna.

Tuttavia chi volesse ancor dipiù approfondire cosa oggi resta di questi storici episodi della storia dell’umo si possono riassumere nella figura a coronamento di questo edito, chi conosce capirà gli altri si ostineranno a non comprendere il nulla che rimane.

Fare balli inopportuni nei luoghi della memoria può essere definito come Profanazione Simbolica, questo termine forte ma appropriato quando si viola il rispetto dovuto a un luogo carico di valore storico, culturale e, il gesto può risultare offensivo, tuttavia l’approcci sottolinea la superficialità o l’ignoranza culturale di chi compie tali gesti, comunque inappropriate, specie per chi serve gli ambiti educativi, di nuovo germogli generazionali, che palesemente non sa fare il mestiere servile.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-06-23 

 

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TERRA DI SOFIA MERITA RISPETTO DEL SUO STORICO TRASCORSO NON ARCHI COLORATI Mosë bënj pishialljoka kijò hësthë mendja jonë

TERRA DI SOFIA MERITA RISPETTO DEL SUO STORICO TRASCORSO NON ARCHI COLORATI Mosë bënj pishialljoka kijò hësthë mendja jonë

Posted on 15 giugno 2025 by admin

Terra di SofiaNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Terra di Sofia non è un Paese Hora e tantomeno un Borgo, ma Katundë della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, tra i più solidi, significativi centri antichi di tradizioni, in linea con i canoni finalizzati ad attuare e sostenere integrazione.

Vicoli, chiesa, icone, archi, orti botanici e piazza senza uscita, conservano gli echi della storia di un popolo fiero e, sapientemente conservatore della propria lingua, la fede, i costumi, la memoria delle proprie origini e gli ideali di uguaglianza.

Per questo non è saggio proporre e allestire le prospettive degli spazi pubblici, imbrattandoli con lacunosi episodi privi di senso comune, spesso realizzati senza alcun senso di condivisione civica nel rispetto storico di quel luogo ameno.

Non si tratta di arte urbana o di espressione culturale, ma di atti impuri che offendono la bellezza e la dignità della Terra di nostra patrona Sofia.

La memoria di un popolo si conserva prima di ogni altro adempimento, nel decoro dei luoghi e, il prodigarsi in attività di riguardo della storia.

Il tutto finalizzato a tutelare e proteggere il patrimonio culturale unico di uno specifico luogo, specie se poi largamente divulgato e noto a tutti i generi, fatto non solo di edifici vernacolari e tradizioni, ma anche delle prospettive innovative qui pensate, immaginate e vissute, lasciando episodi di storia in sacrificio da tramandare per essere esempio della società moderna.

Chiediamo a tutti i cittadini, giovani, anziani e visitatori della breve e lunga sosta, che qui giungono per conoscere storia, di avere a cuore questo luogo e i suoi luoghi ameni, e quanti amano o dicono di adulare la Terra della Patrona Sofia, non devono violarla in alcun modo ma si devono adoperare per valorizzarla e, dare solida certezza per il futuro.

Qui sono stati depostati numerosi cuori pulsanti arbëreşë di Calabria, questo è un luogo che custodisce storia ricca di tradizioni, fede e cultura.

Tuttavia, è anche teatro di atti che ne minano decoro e rispetto del collettivo patrimonio e, “archi privi di colori significato e rispetto locale” appaiono senza attinenza, su muri, porte e portoni, contaminando le antiche prospettive della storia, deturpando il pubblico luogo che racconta e ancora oggi sostiene integrazione.

In questo contesto, è fondamentale ricordare le figure che hanno contribuito a plasmare l’identità culturale e civile del Katundë come il fervido e libero pensatore dell’Italia preunitaria.

Professore di latino e greco, preferito nella capitale del regno perché le sue idee erano parallele identitarie agli ideologi del 1799 e, divennero emblema sociale, intellettuale e civile della comunità arbëreşë senza esclusione alcuna, se non i malpensanti.

Accanto a lui, va sicuramente ricordato Mons. F. Bugliari, che ha ricoperto ruoli significativi nella Chiesa calabrese, diventando vescovo e, distinguendosi per il suo impegno nell’educazione del clero e nella promozione della cultura, e le tradizioni arbëreşë.

Diventa quindi dovere di noi tutti come comunità, proteggere e rispettare i luoghi che raccontano la storia e, fermare gli atti di vandalismo, che non solo deturpano l’ambiente, ma offuscano anche la memoria di chi ha contribuito a costruire l’identità di questo Katundë, diventata fulcro culturale della regione storica degli arbëreşë.

A tal fine difendere il nostro patrimonio significa onorare il passato e trasmettere alle future generazioni un’eredità di cui essere orgogliosi, ma senza aggiunte inopportune che per come vengono realizzate sono di elementare estrazione popolare che sfugge sin anche ai “percorsi lavinai del turismo di massa” o mercatali dirsi voglia, che non certo approda in questi luoghi per vedere tutta questa inutile pena senza vergogna.

Questo Katundë, non è il semplice borgo come raccontato dai meno saggi o multimediali appariscenti, ma un centro antico culturalmente vivo della regione storica arbëreşë, in tutto una culla di storia, di fede bizantina e memoria collettiva del meridione italiana che corre parallelo al fiume adriatico sino allo Jonio.

Tuttavia non sfuggono a noi tutti, muri imbrattati senza significato e senza memoria storica di quei ben identificati luoghi, tutti che offendono la dignità di prospettiva e di chi l’ha costruito nei secoli.

Un insieme di elevati organizzati secondo metriche del bisogno e della necessità e, il solo lasciarle apparire come vennero assemblate, restituisce valori materiali e immateriali, che la semplice pigmentazione a tema moderno non può mai raggiungere, comprendere, perché vela ignota che adombra la storia.

Questo paese è terra del prete, scelto da Carlo III, qui a discapito di tutto il regno, poi di vescovi e pensatori, patria di figure straordinarie, tra i più fervidi liberi pensatori dell’Italia preunitaria.

Intelletti civili e religiosi di raffinata radice, greca posto alla guida della Real Biblioteca Borbonica, poi coinvolto nei moti giacobini del 1799, tutti illusti che per il loro pensiero liberale e coerenza morale, furono chi arrestato, torturato e infine ucciso a Napoli e chi vilmente trucidato nel suo parse natio, perché sapeva.

Una ferita storica ancora aperta e che il 18 agosto 2022, una lapide depositata per ricordare chi tradì, per coprire quella vergogna e poi fece assassinare l’unico testimone scomodo, colpevole solo di conoscere la verità.

Poi venne il figlio di Anna Maria Pizzi, anche lui vescovo e figura di rilievo nella storia della Chiesa italo-albanese di Calabria.

La sua nomina rappresentò un tentativo di ripristinare l’ordine e la funzionalità del solido istituto ormai allo sbando lopeziano e, che attraversava periodi di crisi e disorganizzazione.

Il Collegio, fondato per la formazione del clero delle comunità di rito bizantino, aveva subito numerosi cambiamenti e difficoltà, con la restaurazione borbonica, la situazione non migliorò significativamente, e il Collegio rimase in uno stato di disorganizzazione.

Tuttavia il geniale figlio di Anna Maria Pizzi, sebbene non avesse frequentato da giovane questa storica istituzione, fu scelto per la sua preparazione teologica, la sua integrità morale e la sua esperienza nell’insegnamento.

La sua nomina mirava a ridare slancio all’istituto, riorganizzando la didattica, migliorando la gestione economica e restituendo prestigio dell’istituto e, nonostante le difficoltà iniziali e le resistenze interne, il suo impegno portò a una parziale riorganizzazione di quel presidio di cultura.

Tuttavia, la sua presidenza non fu priva di controversie e, alcuni membri della comunità locale e del clero ritenevano che la sua nomina fosse stata una decisione imposta dall’alto, senza una consultazione adeguata delle realtà locali. Queste tensioni portarono, nel corso degli anni, a discussioni sulla gestione della scuola ormai anche senza forchette nella mensa scolastica e sulla necessità di una sua possibile scissione in tre entità separate, al fine di migliorare l’efficienza e l’aderenza alle esigenze delle diverse comunità arbëreşë.

Il figlio di Maria, continuò a svolgere il suo ruolo fino alla sua morte e, la sua figura rimane significativa nella storia della Chiesa arbëreşë di Calabria, simbolo di un periodo di transizione e di tentativi di rinnovamento in un contesto di sfide politiche e sociali.

Questi eventi ci parlano ancora oggi e ricordano il valore della coscienza, della cultura, della verità, per questo grafitare i muri di terre di Sofia che non sono meri elevati per essere velati di incoerenza che diviene insulto, diretto e centrato, alla storia arbëreşë, indirizzata verso il cuore dei nostri padri.

Ragion per la quale, rispettiamo le Terre di Sofia e, quanti amano davvero questo Katundë, non lo devono attingere con pennelli roventi, perché hanno avuto il mandato/dovere di sostenerlo candido e pulito, in quanto eco o riverbero di pensiero nobile che qui si annida da scoli e sostiene le ragioni del vivere civile in forma candida

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                              Napoli2025-06-15

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GERMOGLI INNATURALI ARBËREŞË FIORITI PER RESTANZA IN TERRA E AGRO LAGRIMOSO (nà jèmì fàrë arbëreşë pà bègàrë skipë)

GERMOGLI INNATURALI ARBËREŞË FIORITI PER RESTANZA IN TERRA E AGRO LAGRIMOSO (nà jèmì fàrë arbëreşë pà bègàrë skipë)

Posted on 11 giugno 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I luoghi della memoria all’interno dei Katundë, le pertinenze dei cunei agrari di produzione, trasformazione e conservazione, non sono idoneamente tutelati a memoria di garbo e compiutezza storica, per il continuo violarne o velarne, il senso ad opera di ricercatori non titolati.

Tuttavia una deriva così imponente come oggi in atto, non aveva mai adombrato cosi tanto questi luoghi ameni e, mai capitato di vedere tanta continuità lagrimosa di luoghi e di cose Arbëreşë.

A tal propositi si vogliono citare gli esempi più eclatanti come l’aver perso il lume di credenza di Atanasio Patriarca con quelli di Attanasio Vescovo degli Ebdomadari, affidando sin anche il secondo a vili indigeni, per fare penitenza e devozione; o usare fonti storiche per generare recinti sociali di fratrie sostenibili, terminando di compromettere i parametri storici di Iunctura, scambiati per icone o tele per grafitare storia alloctona; senza dimenticarsi del luogo simbolo della pena locale esaltato in favore del Caino Arbëreşë, in elevato alto di fanfara, allestito come manifesto per ricordare che esiste il male assoluto; o utilizzare la piazza come purgatorio del popolo, con toponimo utile a riecheggiare lamenti della sposa ancora di candido biancore di gravidanza.

Questa è oggi quello che un tempo fu “Katundë” e, doveva essere, per le scelte fatte dai preposti praticanti politici: un gioiello; e chi ha creduto che era meglio preferire chi assembla cattedra, senza allertarlo quando avrebbe ricevuto  il “pacco”, come facevano e dicevano quanti conoscono le dinamiche della nostra società Furcillense, diversamente da quanti fanno bottega isolandosi dal mondo e dai lavinai che scorrono di fianco, escludendo quanti hanno vissuto e conoscono cose, i quali siccome lasciati fuori o esclusi con cattiveria, non hanno avuto modo o spazio per avvertire ed evitare le malefatte.

Sono un ricercatore delle cose materiali ed immateriali attribuite alla minoranza Arbëreşë, animalizzo, studio, annoto e scrivo da oltre quattro decenni, i risultati di ricerche storiche, confrontando dati e, accertarne memoria storica, in questi luoghi vernacolari di cui sono unico e solo Olivetano.

Nel mio “storico laboratorio, oggi di fronte l’antica fratria partenopea” sono depositate, opere editoriali di ogni genere e categoria, da me condotte e regolate, non perché sia una figura egocentrica, ma operoso di un pensiero antico compilate nelle forme che sento immagino e penso in lingua madre, secondo la forma di parlato arcaico, più antica del vecchio continente.

Lo stesso che ancora oggi è possibile esternare, ma solo da quanti sentono e sanno parlare in “Arbëreşë Assoluto”, appreso, allevato e conservato nella mia mente in luogo di frontiera di terra, oggi denominato secondo la toponomastica riversa non: llëmë lljtirë.

Le istituzioni ad oggi, perché poco preparate e, maliziosamente tacciono i propri adombrati principi, per dare la scena a mendaci ed ingrate osservazioni, affinate dalla  inconsapevole platea di stranieri che, fuggendo le nebbie, le miserie e, le turbolenze delle loro contrade, non han potuto altrove trovare agio, sanità e, quiete, come sotto il nostro amenissimo clima, che sostiene e protegge le nostre dualistiche leggi morali in forma di anomala restanza, palesata fra le migliori mendaci ad assistere il distratto viandante della breve sosta che non torna più indietro a recriminare la pena inflitta.

E non certo affidare il sostegno della credenza a estranei crescisti all’ombra di minareti, che hanno potuto godere dei benefici della negazione della propria radice, perché convenevolmente estirpano danari, e fare percorsi di devozione e credenza per apparire convertiti.

A rivendicare, dunque, il decoro dei nostro ingiustamente malmenati luoghi di studio e di formazione, rendesi necessario un manuale che metta con chiara parsimonia, ogni veduta dello stato fisico e morale, in modo che, anche uno svagato lettore, che voglia solo deliziarsi di materia e curiosità, sia quasi costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi nello stesso tempo quelle notizie che in un centro antico, rendono facile l’acquisire tutte le comodità che fan la vita dilettevole e degne di essere vissute, perché colme di accoglienza di abbracci materni.

Ogni cittadino si suppone sia sufficiente istruito nelle istituzioni e di tutte le cose notevoli del paese. Tuttavia per accreditare, si fatta supposizione serva e gli si offra un mezzo indispensabile per ricordare, veramente e riconosce le cose notevoli per apparare, se mai, le tante ignorate. E per coloro che, nati nelle province senza abbracci geografici, che non abbiano potuto ancora visitare la capitale del regno, riuscir dovrà certamente piacevole il leggere la descrizione dei monumenti e delle singolari prospettive che vi si ammirano, ed essere o meglio diventare una guida per quando si recheranno e, se tale scopo giunge col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che potrà vivere di agio e conoscenza futura.

Come si può ben vedere la citazione di F.S. B, del 1854 relativa al centro storico di Napoli, calza isoneamente ad ogni luogo di studio.

Se in una comunità arbëreşë, si perde il senso della credenza al punto tale di confondere e miscelare cose civili e di credenza; in tutto i lasciti di memoria storica racchiusi nella piazza, il cuneo votivi e la chiese, deve essere con urgenza rivista l’ostinazione della vendetta portata costantemente in processione dal 28 febbraio del 1985 e, abbisogna far rientrare con devozione, in questo luogo di peccato o inferno dirsi voglia, il solo, unico e indivisibile protagonista in grado di recuperare il senso cristiano, ormai compromessa e portato allo stremo dalle Jannare e dai figli nati, allattati, cresciuti e vissuti tara i quattro calli ascensionali e il noce adombrato.

Il tema a titolo, apre una prospettiva molto chiara dello scenario e, gli attori, che da tempo stanno sminuendo il valore storico del modello di integrazione più solido e duraturo del mediterraneo, devono esser riportati nelle disponibilità  dell’originario senato delle donne nelle Gjitonie, sostenuto dal governo degli uomini, da qui sino all’agro più recondito dove sudore e forza di animo saranno in grado di seminare, far germogliare qui frutti antiche che erano il trittico dell’integrazione fatta in casa dagli arbëreşë.

Solo così si potrà rispondere con adeguate scelte di sistema all’interno dei centri antichi arbëreşë, onde evitare il paradosso verso il patrimonio edilizio e culturale, che rappresenta un’identità secolare unica in tutto il mediterraneo.

Tuttavia gli interventi urbanistici o edilizi se non coordinati o, realizzati senza un piano integrato con specifica mira di valorizzazione che tenga conto delle caratteristiche storiche e culturali di ogni ambito specifico.

Ciò avviene sin anche quando sono disponibili risorse adeguate, le quali, non sempre vengono usate efficacemente, in quanto manchevoli di competenze tecniche o progettuali specifiche nëdë Katundë.

E gli abitanti spesso non percepiscono il valore storico delle architetture tradizionali vernacolari e delle epoche successive, preferite al “nuovo” o il “funzionale”, sacrificando l’esigenza della memoria storica.

Va in oltre rilevato che il calo demografico in molte aree porta a un abbandono del centro storico e alla costruzione in periferia, producendo degrado, ruderi e perdita d’identità.

Molti comuni non hanno strumenti uomini e risorse di genio per pianificare lo specifico, non coinvolge cittadini, architetti, storici e giovani del posto, che dovrebbero essere memoria e manualità.

Tuttavia va ribadito che l’identità arbëreşë non è un marchio culturale e turistico e, i centri storici non devono esse esclusivo per la mira ad esser poli attrattivi per il turismo del viandante ma biblioteche e musei a cielo aperto dove la culturale e la residenzialità lenta, possa mostrare le prospettive e il valore del patrimonio edilizio da condividere con buone pratiche e fare massa critica nell’accesso ai fondi pubblici.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-06-11

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L’ARCHITETTURA DEL BISOGNO DELLA DONNA E IL COSTRUITO DELL’ UOMO IN ABBONDANZA  (Jëmë e jatràtë satë bëgnenë thë ngruituratë tònà)

L’ARCHITETTURA DEL BISOGNO DELLA DONNA E IL COSTRUITO DELL’ UOMO IN ABBONDANZA (Jëmë e jatràtë satë bëgnenë thë ngruituratë tònà)

Posted on 01 giugno 2025 by admin

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NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il confronto quotidiano tra generi e, vissuto negli ambiti della regione storica diffusa in Italia degli Arbëreşë si sosteneva seguendo le linee consuetudinarie con finalità del progredire dei generi e, il ruolo delle donne aveva spazio in autonomia dal focolare della casa sino allo spazio ideale denominato Gjitonia, con ruolo di regina del fuoco e della casa.

Mentre l’uomo aveva spazio di competenza e reggenza, dal confine ideale Gjitonia, dove erano le botteghe artigiane, oltre le terre dell’agro, avendo competenza specifica dei cunei agrari di produzione e trasformazione dove erano i limiti più estremi del territorio comunale.

 Questi due sistemi paralleli di genere donna e uomo, assumeva e svolgeva, ruoli specifici in forma di radice e di fioritura sostenibile, per il modello di Iunctura familiare, della minoranza arbëreşë.

Due sistemi paralleli e coesi, in cui le due parti raffiguranti il matriarcato e il patriarcato, assumevano ruoli specifici, senza mai sovrapporsi o creare attriti, rimanendo per questo efficienti senza soluzione di continuità per secoli, in tutto lo stesso modello che oggi la società moderna cerca di imitare, ma purtroppo senza alcun successo per la sovrapposizione incontrollata dei due generi.

Casa e Gjitonia era il luogo dove la donna progettava e architettava ogni cosa, per poi affidare all’impresa degli uomini l’eseguire e materializzarle il richiesto, diversamente negli ambiti estremi della Gjitonia sino ai confini comunali, di pertinenza de Patriarcato preposto ad architettare, sotto la consulenza e la rifinitura collaborativa con protagoniste il Matriarcato.

Quando oggi si cerca di esporre o presentare un elemento di architettura si usa riferirlo a epoche illuminate al genio del proprio momento a cui fa più comodo riferire, di un solo ed esclusivo genere.

Tuttavia esiste un tempo in cui il bisogno degli uomini compilava edificati vernacolari, in funzione del bisogno progettato dalle donne, non certo per forme di abbondanza, ma esigenza allo stato puro.

Questi due modi distinti di edificare hanno alla base l’assenza e la presenza della figura che oggi valorizza o demolisce una struttura di rilievo, ovvero l’architetto.

Analizzare le due modalità opposte per concepire, progettare e innalzare manufatti per vivere i sistemi del bisogno o economici, sociali e culturali, pone l’esigenza, di sottolineare e distinguere in chiaro, i momenti di donne e uomini che fanno architettura.

Se gli Arbëreshë vivono Katundë sostenuti da valori condivisi dalla donna e dall’uomo, secondo una prospettiva di vita familiare, in regola comune, che prende forma ideale nella Gjitonia, perché capace di razionalizzare valori materiali ed immateriali, alla pari dei complessi monastici dove vigeva il principio della Llighjia.

A tal proposito si potrebbe ipotizzare che la nascita del razionalismo architettonico, si ispira al governo delle donne sostenuto dal senato degli uomini.

E se San Leucio in Campania come altri complessi in Francia e Inghilterra nascevano su principi di uguaglianza sociale, lavoro collettivo e progresso civile, senza tralasciare o sminuire gli esempi più recenti come i Sassi di Matera e il complesso di Le Mortelle, dove il razionalismo moderno non ricevette l’approvazione del governo delle donne, che minacciava di ritornare a vivere nelle grotte, cosi come in tutti gli esempi di edilizia popolare progettati dagli uomini e, nel corso del vissuto delle donne, subirono modifiche e cambiamenti distributivi in forma di superfetazione migliorativa.

Erano i primi anni degli anni sessanta e in un Katundë Arbëreshë della Presila greca, venivano assegnate quattro unità abitative ad opera dell’Ina Casa e, Carmela accompagnata dal figlio, orgoglioso della nuova casa assegnatagli, si senti spegnere l’entusiasmo dalla madre, con la frase: chi ha potuto concepire e realizzare una casa priva di un camino per fare focolare? 

Considerando che l’Architettura del bisogno o vernacolare, si fonda su scarsità, necessità, funzionalità essenziale, guidata dal principio del “quanto essenziale”, spiega anche il perché ogni rione quartiere nato per sodisfare un bisogno sociale non viene considerato alla pari delle architetture dette maggiori.

A tal fine va rilevato che ogni elemento ha una funzione chiara e indispensabile, seguendo il principio di minimizzare gli sprechi e, avendo cura dell’uso oculato delle poche cose poste in essere.

Il tutto come avveniva nelle case dove le risorse e i materiali diventavano fondamento del vivere dignitoso e ogni cosa era incline alla durabilità e alla manutenzione ordinaria.

Essa nasce spesso in contesti di emergenza, crisi, o marginalità e, l’estetica diventa subordine della funzione.

Diversamente avviene con l’Architettura dell’Abbondanza, la quale si basa su opulenza, esuberanza, disponibilità di risorse, le cui finalità sono di natura rappresentativa o simbolica.

E per questo le caratteristiche formali estetiche e dell’uso risultano essere ridondanza e decorazione più del necessario, con finalità estetiche o simboliche finalizzate all’apparire.

Poi se a questo associamo l’uso di materiali pregiati in ampio e largo uso, così come sono esose le risorse e le lavorazioni complesse degli elementi formali ed estetici.

Da ciò, l’architettura dell’abbondanza, nasce quasi sempre sulla base di progetti che hanno il fine di stupire o celebrare, affidandosi all’uso di tecnologie avanzate o sperimentali, generalmente mirano a valorizzare le prospettive dei contesti di benessere, potere, o consumo.

Il principio su cui si basano i progetti hanno finalità che preferiscono l’estetica, la forma che poi diventano predominante sulla funzione e, rendere il manufatto espressione inconsulta del mondo che dispone le cose secondo una visione verticale, ruotando sin anche la tipologia di bosco naturale di collina.

Le espressioni “architettura del bisogno” e “architettura dell’abbondanza” sono di solito utilizzate in modo concettuale per descrivere due approcci opposti nella progettazione architettonica e urbanistica, riferendoli in sostanza al contesto socioeconomico, culturale e ambientale.

Con una certa tradizione nella critica culturale di genere, la quale mira a sottovalutare con finezza i due paralleli di genere, anche se la storia non contraddice il teorema secondo cui “l’architettura del bisogno” è delle donne e quella dell’abbondanza è degli uomini.

Giacche si evidenzia una metafora politica e sociale, che qui si vuole esporre con cautela storica, per evidenziare la regola assoluta dal dualismo di genere, politico e di credenza vissuto.

A tal scopo va rilevato che storicamente, le donne sono associate alla cura, alla casa, al quotidiano e, alla gestione del necessario.

E per questo il progetto che parte “dal basso”, finalizza e sodisfa bisogni indispensabili, relazionali e comunitari, che avvicina a un modo di pensare più relazionale e meno egocentrico, lo stesso riconosciuto da alcune teorie delle prospettive femminili.

Altra forma assume l’architettura dell’abbondanza, quasi sempre espressa attraverso gestualità o espressioni grandiose, monumentali, autoriali, se non talvolta narcisiste, legate a logiche di potere, in visibilità e dominio dello spazio storicamente associati ai modelli patriarcali.

Da ciò si può sintetizzare che mentre l’architettura del bisogno diventa essenziale e rispettosa delle cose naturali che accoglie dispone il necessario che diventa tema prioritario.

L’architettura dell’abbondanza diventa un riassunto che accavalla e richiede sempre un compromesso naturale o effetti collaterali necessari.

Tuttavia bisogna rimanere cauti ed attenti, perché non si tratta di una distinzione biologica, né tantomeno essenziale o generica, perché non tutte le donne progettano nel primo modo, né tutti gli uomini nel secondo.

In quanto il teorema è una distinzione culturale e simbolica, che riflette le asimmetrie di potere nella storia dell’architettura di cui la società è intrisa di entusiasmo.

Ci sono architetti uomini che progettano con un’etica del bisogno e donne archistar che fanno architettura spettacolare, sin anche seminando dissuasori nello sviluppo planimetrico delle piazze, immaginando che possa essere anche strada.

Resta un dato fondamentale ovvero, la storia dell’architettura è stata scritta quasi esclusivamente dagli uomini, per uomini, e secondo logiche di potere maschile, ma chi segue e indaga ogni momento della storia sa che l’origine del costruito era una volontà femminile.

Per secoli, le donne erano escluse dalle scuole della ricerca di architettura e dai grandi cantieri dove, le figure dominanti nella disciplina sono state (e in gran parte sono ancora sono) uomini.

L’architettura celebrata, finanziata, pubblicata e premiata tende ad essere spettacolare, firmata e, visibile con caratteristiche legate a un approccio dominante maschile.

Le poche donne archistar hanno dovuto operare dentro logiche maschili per essere accettate, anche se non si escludono casi di spazi pubblici compromessi perché intesi simili al percorso da casa a chiesa.

Tuttavia un dato è incontrovertibile che, l’architettura dell’abbondanza nasce e si afferma in un sistema di valori patriarcale.

E l’architettura e sin anche l’urbanistica del bisogno, e riferisco di quella meno nota, che poi è fatta di concetti scaturita dalla collaborazione finalizzato e attento al quotidiano come storicamente delle donne, è più vicina a un approccio, almeno culturalmente di pratica femminile.

In quanto le donne hanno avuto maggiore spazio in pratiche marginali e, questo dato, evidenzia una disuguaglianza strutturale nella cultura del progetto specie quando diventa pubblico, dove il potere di decidere è stato a lungo in mano a una parte sola della società.

La stessa che ha modellato le città e gli spazi abitati secondo valori spesso non inclusivi, infatti analizzare un progetto o una città da questa prospettiva di genere.

Come parlare delle figure femminili “rimosse” o invisibili nella storia dell’architettura, riflettere su come cambierebbe l’architettura se fosse guidata da altre logiche (di genere, ma anche di classe, etnia, ecc.).

Cosi come la storia del Grand Tour che nasce intorno alla metà del XVII secolo (1600) e rimase in voga fino all’inizio del XIX secolo (1800), particolarmente popolare tra i giovani aristocratici inglesi, ma anche francesi, tedeschi e nordici.

Il valore del Grand Tour per gli uomini, serviva a completare la formazione con lo Studiare arte, storia e cultura classica (soprattutto in Italia e in Grecia), alla ricerca di relazioni utili per la carriera politica, militare e sociale.

Per terminare questo breve, con cognizione di causa va aggiunto il valore del Grand Tour degli uomini di cui l’Italia intera venne interessata, diventando un museo o biblioteca a cielo aperto per la formazione in valori artistici, letterari e sociali per comprendere e apprezzare meglio la vita mondana.

Diversamente è stato il tour delle donne le quali pur avendo mira di accedere a circoli intellettuali europei, esse, usavano confrontarsi in maniera costruttiva con le donne dei Katundë montani e, nelle borgate dei gradi entri antichi, con le pari di sesso, annotando o vivendo momenti molto costruttivi, affinando il ruolo di madri o future madri che avrebbero rinnovato o rivestito al loro ritorno.

Quindi anche in questo caso se per gli uomini, il Grand Tour era educazione, status e preparazione alla vita pubblica.

Per le donne, era pur essendo una esperienza più rara, comunque diventava un’opportunità di emancipazione culturale e personale, di confronto con luoghi che erano palcoscenico di una dimensione ricca di umanità e ideali e non di lumi dorati ottenuto con le pene di quelle realtà di viaggio.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                       Napoli 2025-06-01

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