Posted on 30 giugno 2025 by admin
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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per chi conosce la storia e associa i processi sociali per la formazione e crescita dei generi, studiando oltremodo i percorsi che valorizzano i luoghi da questi vissuti – senza alcuna preferenza o pregiudizio – tutto tende a cercare una misura con cui confrontarsi, per non perdere la retta via indicata dal sole e dalla luna, che illuminano Casa, Generi, Famiglia e Gjitonia.
Gli studiosi del Mezzogiorno, spesso, hanno orientato le proprie ricerche lungo sentieri tesi ad allargare i confini della storiografia, raccogliendo tracce che confermassero la presenza di uomini e donne all’interno di percorsi sociali in grado di rispondere verosimilmente ai bisogni nati dal luogo, fatto di generi, ambiente naturale e tempo.
Idee, mentalità, immagini, parlato e ascolto diventano così simboli di solidità, strumenti per intercettare la linea generale su cui si definisce il luogo dove tutto si materializza: lo spazio dello studio e dell’analisi, da trascrivere o fissare attraverso parole e immagini.
Tuttavia, come è accaduto spesso in passato, ci si è trovati ad avere come compagni di viaggio traduttori occasionali: sconosciuti di turno e, raramente osservatori lucidi, piuttosto ignari viandanti, privi di arte, memoria e rispetto dei luoghi che avrebbero o devono indagare.
E se l’argomento riguarda gli arbëreshë, diventa ancor più indispensabile il ricorso agli strumenti che fanno una diplomatica, per poter offrire una ridefinizione della storia che sia adeguata, fondata e rispettosa della complessità di questi luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbëreşë.
Vero restano i grandi intellettuali o viaggiatori del passato, come Giuseppe Maria Galanti e poi Norman Douglas, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare e avere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.
Penso, fra gli altri, al napoletano storico, politico e accademico di grande rilievo, come Giuseppe Galasso, le cui indicazioni verbalmente acquisite in vari incontri, all’Istituto Italiano di Studi Filosofici a Napoli, dove mi sottolineava che la lena dei suoi discepoli, aveva reso il germoglio del postulato a titolo, in mera forma condominiale del razionalismo moderno.
Tuttavia a rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di casa, furono le attività poste in essere nel palcoscenico “Gjitonia” che non è mero prodotto post industriale di scambio o di prestito di comodo di breve periodo.
Perché, la trasformazione subita dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa, caratterizzata dal XIX e gran parte del XX secolo, include fatti e cose fuori dall’intervallo di Studio e, molto più precedente perché funzione di cose ancora non predisposte del sociale che annaspava economia.
A tal fine e per analizzare il processo sociale diretto e condotto dal governo delle donne e, sostenuto dal sento degli uomini, diventa indispensabile iniziare, con il citare le vicende storiche di epoche più pregresse, se non addirittura remote.
Ad iniziare dalle vicende che videro emerge la figura femminile di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei restava fedele tessendo e disfacendo il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.
Penelope (madre) è anche protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga e custode del figlio Telemaco che cresceva con dedizione secondo le regole del patto matrimoniale.
Infatti, essa attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e, dato per disperso, lei da vedova incerta, cresceva, da sola il piccolo Telemaco, evitando perennemente e con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti, ma grazie al famoso e ripetuto stratagemma, secondo cui di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, rimase sempre fedele alla promessa familiare data.
Mantenne così, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.
Ma alla fine, Ulisse tornò, dissuase i provocatori o meglio attentatori della moglie e si ricongiunse con lei.
Tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, come le tempistiche giornaliere che vissero le mogli arbëreşë, nelle innumerevoli Gjitonie, caratterizzano nell’antichità i Katundë, della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.
Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera al tramonto, il marito partiva per i campi e rincasava dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici, preparando corredi ed elementi tessili con i telai intrecciando seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, assumendo anche il ruolo di educande di tutte le nuove generazioni in crescita nella Gjitonia.
Le stesse che senza mai distrarsi allevavano i propri figli e delle compagne di luogo idealmente circoscritto, il tutto per il fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale di iunctura familiare.
Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di ogni genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, nel rispetto e la conoscenza dei cinque sensi, che qui si vivevano e respiravano, ad oltranza, in egual misura tutte le nuove generazioni.
Gjitonia era anche una robusta tessitura di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kalljve vernacolari, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, il tutto utile e indispensabile a innescare una percorrenza lenta, regolata dall’articolato andamento viario a misura e, colmo di accessi di controllo dalle piccole case del bisogno.
Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli indispensabili Orti Botanici di pertinenza familiare nota, in tutto “dedalo di percorsi angusti”, dove scalinate apparentemente disomogenee, rendevano non facile la percorrenza, rallentando il passo di che vi transitava nel bene o nel male della comunità qui organizzata a propria misura.
Strade che mirano a rallentare i comuni viandanti, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta e valore sociale.
Sono gli stessi spazio urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio ai vicoli orientati in direzione nord-sud, generando per questo l’interazione sociale paritaria progettato dalle donne e realizzato dagli uomini.
Una tessitura di centro antico che conserva gli storici rioni di espansione delle varie epoche, noti come: Chiesa, Primo insediamento, Promontorio, Loco di arrivo, Loco di accoglienza, Loco di Incontro, di Credenza e del Nubilato Epirota.
Sette Rioni entro cui a misura di necessità, erano predisposte secondo il bisogno dei cinque sensi, le indispensabili Gjitonie del governo al femminile.
Per questo, Gjitonia mantiene viva la continuità e il confronto in ogni forma o sfaccettatura sociale, diretta o indiretta, in quanto articolata da spazi privati e pubblici in sana condivisione, dove erano regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche in grado di rendere agevole l’operato delle donne, fatto di: Case, Vichi, Archi, Strade cieche e Orti Botanici.
Il sistema così composto divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat di famiglie ben identificate e riferibili, fatto di “madri tessitrici e speciali maestre di vita”, immerse in un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.
Ed è qui che diverse donne che parteciparono al Grand Tour, in forma di viaggio esplorativo e culturale, tra il XVII e il XIX secolo iniziarono a considerare la Calabria e i luoghi di pari formazione nei loro itinerari di esperienza conoscitiva e studio.
Questo accadde più tardi rispetto ad altre regioni del meridione italiano, per la difficile accessibilità, dovuta alla povertà dell’infrastruttura stradale e della reputazione di pericolosità del sud Italia in generale e la Calabria in particolare.
Le donne viaggiatrici arrivarono in Calabria, nel periodo su citato e tra queste si contano Inglesi, Francesi e Tedesche, che iniziarono a spingersi oltre le mete classiche del Grand Tour, esplorando ambiti ritenuti inaffidabili, come la Calabria Citeriore.
Tra le principali viaggiatrici del Grand Tour che attraversarono le zone arbëreshë della Calabria Citeriore, è da ricordare Emily Lowe.
Una Viaggiatrice britannica, coadiuvata da sua madre, che si reca prima in Sicilia e a seguire in Calabria, inclusa la zona della Calabria Citeriore, intorno al 1859.
Descrive le fragilità e i “pericoli romanzeschi” di quella “terra” lontana e poco esplorata perché nota come area che dissuadeva i turisti proprio per i suoi disagi e la sua ruvidità sociale e territoriale.
Poi venne Caterina Pigorini una Viaggiatrice italiana, che fu tra le protagoniste dello scritto “Viaggiatrici italiane alla scoperta dell’Italia meridionale”.
Essa compila un reportage sulla Calabria, indirizzato all’amica Alba Ricco‑Nicotera e, alla storica comunità arbëreshë, sebbene non vi siano date precise, il percorso sembra compiuto in estate, dieci anni prima della pubblicazione dell’edito nel 1880.
Il motivo che le spingeva queste nobili osservatrici, era contenuto nell’interesse crescente per l’archeologia e, l’interesse che oggi L. Iacobelli dedica a questi personaggi, transitate in questi paesaggi pittoreschi, per cogliere le tradizioni, natura incontaminata del meridione italiano più estremo e isolato, che a ben vedere, seminava interesse verso le donne viaggiatrici, le stesse animate da curiosità scientifica, romantica o etnografica di verificare come il genere femminile si distinguesse in questi ambiti isolati dalle società in evoluzione.
Furono diverse le figure nobili o meglio femminili che seguirono e qui transitarono dal Gran Tour, non era solo esperimento conoscitivo ad opra degli uomini ma specie più profonda per le donne, che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano Paestum, venivano attratte da questa apparizione al femminile, nei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne arbëreşë.
E quando il meridione peninsulare più estremo, divenne anche la meta di nobili donne maritate e non, la Gjitonia, divenne un fulcro pulsante di scambi dell’operare al femminile, e le giovani e nobili apprezzavano con interesse, sia gli espedienti consuetudinari e sociali senza disprezzare i manicaretti, le pietanze o i prodotti casalinghi, preparati per la prole, il marito e gli ospiti, tutti fatti e compilati con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.
Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa, si recava in questi luoghi per comprendere costumi, colori e avere misura di un modo, non certo in linea con le vistose regole di protocolli di corte, con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.
E chissà quante di loro ebbero modo di rilevare che la radice di quell’agio aveva alla base sempre una prospettiva al femminile che formava genere e progettava spazi per le case del futuro.
La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.
Quanto adesso trattato o accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita e, da oggi in poi, “intellettuali”, “ricercatori”, “psicologi” e ogni “sorta di letterato”, avranno da sudare non poco, nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e valore di Gjitonia, che non è stato “Mero Vicinato Indigeno”, ma luogo della tessitura progettata delle donne Arbëreşë, senza alfabetari di sorta per compilare editi in arbëreşë.
Nel caloroso abbraccio dei Katundë, tra pietre antiche, porte, finestre gemellate, sempre aperte di giorno sulla snodata rrughà, sino a poco tempo addietro aleggiava un ordine invisibile e solido: Gjitonia il regno delle donne, o luogo dove si allevavano i cinque sensi.
Nessuna legge scritta, nessuna gerarchia ufficiale ma, tutto si reggeva funzionale al modello femminile, lo stesso che vede, ascolta, tocca, odora e gusta con sapienza, perché custode del tempo in sintonia con i domani fraterni.
Sono loro a governare ciò che si muove tra le case, dove non serve un titolo, non servono proclami, ma solo l’autorità delle madri, fatta di gesti quotidiani, di sguardi attenti, di presenze continue, per sostenere vivo e sempre accesa la vita tra una soglia e l’altra.
Sono sempre loro, le donne a conoscere ogni passo, che interrompe il silenzio, ogni pianto trattenuto, ogni sorriso nascosto, perché nulla sfugge al loro ascolto in discreta e intima visione.
Gjitonia, è dove la finestra è un osservatorio, la porta resta sempre aperta per accogliere e, il mormorio e le movenze di lingua madre, sono sempre interpretate in modo sano.
I sensi sono le armi che qui si utilizzano, il corpo è memoria, l’olfatto racconta l’ora del pane appena sfornato, i decotti condivisi, ricordano le erbe stese a seccare come si fa in preghiera.
Il gusto conserva le radici delle ricette tramandate senza misura, i dolci delle feste, il brodo che sa di ritorno e il bollore dei taralli segna il tempo del forno che attende in calore.
L’udito cattura tutto, sin anche una parola sussurrata, una voce nuova, una finestra che si apre e come una porta che allarga fratellanza.
Il tatto rasserena gli animi, ad iniziare da una carezza che consola, una stretta di mano conferma un patto, unito da un filo sottile di lana che solidarizza generazioni.
La vista guida, protegge, giudica senza parlare, ed è così che nella Gjitonia, non esiste il vuoto, giacche le donne riempiono ogni spazio con la loro presenza leggera discreta e irrinunciabile.
Esse non comandano, ma reggono ogni cosa, non redarguiscono giacche preferiscono consigliare, non impongono, perché trasmettono regole di via privi di rimpianto futuro.
Il loro governo è quello del fare, cucire, accogliere, consolare, consigliare, tramandare, in tutto una politica dell’anima, che non ha bisogno di essere detta ma solo indicata come fa il sole che indica la via maestra.
E mentre gli uomini si radunano nel loro “senato”, discutono di confini, decisioni, terre, onori, qui, tra le pietre delle Gjitonie, si decide il vero andamento della comunità che genera un Katundë.
È qui che si percepisce chi ha bisogno, chi è pronto a partire, chi deve essere protetto, chi è rimasto indietro e, sempre qui che si costruisce la pace, si distendono gli animi ogni giorno, con gli strumenti più semplici e più antichi.
La Gjitonia non è solo un banale vicinato, ma una rete viva di relazioni, una democrazia sensibile fatta di memoria, di consuetudini presenza, ascolto e cura dell’oggi per i domani migliori.
È il luogo dove la donna non è esclusa né depositata ai margini, ma architetto che progetta le case le cose del bisogno e, poi passa i compiti agli uomini, che assumono il ruolo di forza lavorativa e produttiva.
Un luogo governato o meglio regolato dalle mani che impastano, dagli occhi che ricordano, dalle bocche che cantano e, non si tratta di nostalgia, ma di forza sociale, la stessa che oggi la società moderna non sa come e da cosa iniziare.
Non si tratta di folklore, ma di sapere antico e ancora intramontabile, perché dove le donne guidano con i sensi, anche il mondo intorno trova il suo equilibrio, per accogliere tutti e fare fratellanza.
Non a caso gli arbëreşë sono noti come: “il modello di integrazione più solido e duraturo di tutta la storia del mediterraneo”,
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-02-09
Posted on 23 giugno 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.
Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificare i fenomeni, secondo le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.
Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.
Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un nel determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.
Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificando i fenomeni, secondo sono state predisposte le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.
Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.
Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di Iunctura urbana, dove trovare risorse naturali e di conseguenza germogliare fenomeni sociale in evoluzione o di ristagno, nel corso del tempo.
Avendo per questo di intrecciare culture e società, in continuo progredire, nel pieno rispetto della memoria, della integrazione tra generi e popoli.
Questi luoghi ameni sono il miraggio della fuga sull’isola deserta, o la favola sulla spiaggia per vivere di sole e darsi alla macchia per riconciliarsi con sé stessi e con il mondo.
Perché sono la piattaforma che a tutte le latitudini offre soluzioni catartiche e sono la frontiera dell’evasione, per una pausa temporanea o permanente dal trambusto metropolitano.
È in tutti questi sistemi urbani che spicca il panorama dell’architettura vernacolare con la dimensione antica dove rigenerare i cinque sensi, all’interno di quella culla depositata nel meridione italiano, che ti avvolgono con il candore di queste forme fiabesche, immersi tra le rive e le colline, verde di boschi uliveti, vigneti e il lagrimoso ondeggiare di fiumi e terra e mare.
Portati sotto i riflettori del pensiero architettonico globale come esempi illustri di architettura spontanea, oggi i questi esempi di vivere comune non necessariamente classificati Patrimonio Unesco e sono sempre più una meta ambita per chi rielabora, la dimensione più autentica della vita e il contatto con la natura.
Capita spesso, specie attraverso il comune parlare in italiano o della diffusione dei mas media che i Borghi plurale di “Borgo”, che indica un piccolo centro abitato, di radice medievale, più grande di un villaggio ma più piccolo di una città, con il quale comunemente viene appellato ogni, Contrada, Paese, Villaggio e comunque agglomerato urbano che non sia una città.
Diversamente si fa con la, Polis, del greco antico, che indica una “città-stato”, tradotto semplicemente come “città”, ma con un’accezione storica legata alla Grecia antica che identificava una serie di rioni, allocati in forma piramidale distinguente cosi la popolazione più estromessa e povera posta alla base dai più distinti sino al vertice della famiglia singola.
Katundë dall’arbëreşë assume il senso di ” un insieme abitativo” o “insieme fraterno di rioni” “o luogo di confronto e movimento produttivo”, quest’ultimo letteralmente tradotto in lingua italiana dall’ arbëreşë.
Geograficamente utilizzato è di origine greca accolto in alcune macro aree Arbëreşë, Hora si può tradurre come insieme abitato e di agro secondo una tradizionale forma produttiva e di controllo de centro abitato”, quindi di connotazione rurale e abitativa cosi anche come la stessa Atene.
Pe concludere la trama di scopo e utile indicare per grandi linnee il Porto, o centro antico che riferisce a una località marittima attrezzate per l’attracco di imbarcazioni e quindi, in continua agire di scontri e confronti tra dinastie e popolazioni, qui approdate.
Tutto ciò premesso, serve a dare valore identitario sia a un abitato di mare e sia ad un insediamento di collina, entrambi di radice in bisogno vernacolare, legato alle abitudini locali, con evidenti elementi di luogo specifico che li caratterizzano, li evidenziano oli velano a secondo del luogo dove venne scelto di elevarli.
In quanto mentre il Paesi di mare è influenzato da contatti con popoli stranieri, come mercanti, marinai, invasori o fuggitivi, grazie ai quali si costruisce e si evolve il dialetto locale che includere termini di origine variegata
Come avviene nelle coste di tutta la penisola Italica, che associano al parlato comune anche rotacismi di ignota favella.
Nei centri abitati di collina, il parlato locale è più conservativo e, meno esposti a influenze esterne, in tutto una struttura linguistica più arcaica, derivante dalla popolazione qui insediatesi e, integrata una sola volta, in fraterno conviviale nel corso della storia, senza aggiunte di sorta alcuna, perché isole di terra.
A tal proposito valgono anche gli abbigliamenti tradizionali, che nelle zone di mare include tessuti leggeri, colori chiari, capi pratici per il lavoro in ambiente salmastro e copricapi, pantaloni, ampi e gilet.
Diversamente da chi vive la collina che indossa abiti più pesanti, spesso raso o panno, in colori di tessitura più finalizzati al calore del tempo che passa tra casa chiesa e agro produttivo.
Poi viene l’aspetto del bisogno o della necessità di luogo che utilizza elementi strettamente locali e realizzare l’Architettura vernacolare, che nel caso dei luoghi di costa o di mare si espone utilizzando case costruite con materiali resistenti alla salsedine, tetti piani o terrazze per asciugare reti o pesci, pareti degli elevati rifinite in coloritura indispensabili per i navigati per essere un riferimento quando rientrano la percorso di mare, il tutto per essere un faro di colore specifico del barcaiolo che riconosce la sua casa.
Diversamente da come avviene per le abitazioni di collina, le quali sono inserite nelle prospettive naturali dei boschi che li accolgono come parte sostenibile al punto tale che di giorno sono difficili da intercettare e di notte il luccichio e il fumo dei camini sa orientare gli uomini da duro lavoro eseguito nell’agro circostante, case in pietra, tetti spioventi per la pioggia e, muri spessi isolanti contro il freddo della stagione corta.
Tutto questo si può sintetizzare negli aspetti Culturali e nelle mentalità che per questo diventano consuetudine storica, in cui gli agglomerati prossimi o sulle rive del mare diventano luoghi aperti Società più aperta dove il principio commerciale, apre a contati esterni, seguendo calendari legati alla pesca, al mare, ai venti.
Diversamente dai nuclei urbani di collina Comunità più chiusa, autosufficienti, che si alimentano di ritmi scanditi dall’agricoltura e dalle stagioni e, legati con la terra, riti agricoli, transumanza.
Un paese di mare vive di processioni con statue di santi portate a mare, feste del pescatore, sagre di pesce.
Un Katundë organizza fiere, sagre, e feste del vino, rievocando le storiche tappe di accomodamento locale in solitudine e porosità lagrimosa.
Ma questo è un aspetto molto intimo e forse poche figure ad oggi potrebbero coglierne agio per migliorarsi, lasciamo il tempo che scorre ad opera di quanti dopo aver perso la strada si accontenta delle cose mediocri che un tempo si davano ai cani, e non da meno di questi ultimi sono quanti e quante si recano davanti la casa di Clementina per ironizzare, del suo figliolo che ancora non torna.
Tuttavia chi volesse ancor dipiù approfondire cosa oggi resta di questi storici episodi della storia dell’umo si possono riassumere nella figura a coronamento di questo edito, chi conosce capirà gli altri si ostineranno a non comprendere il nulla che rimane.
Fare balli inopportuni nei luoghi della memoria può essere definito come Profanazione Simbolica, questo termine forte ma appropriato quando si viola il rispetto dovuto a un luogo carico di valore storico, culturale e, il gesto può risultare offensivo, tuttavia l’approcci sottolinea la superficialità o l’ignoranza culturale di chi compie tali gesti, comunque inappropriate, specie per chi serve gli ambiti educativi, di nuovo germogli generazionali, che palesemente non sa fare il mestiere servile.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-06-23
Posted on 15 giugno 2025 by admin
NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Terra di Sofia non è un Paese Hora e tantomeno un Borgo, ma Katundë della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, tra i più solidi, significativi centri antichi di tradizioni, in linea con i canoni finalizzati ad attuare e sostenere integrazione.
Vicoli, chiesa, icone, archi, orti botanici e piazza senza uscita, conservano gli echi della storia di un popolo fiero e, sapientemente conservatore della propria lingua, la fede, i costumi, la memoria delle proprie origini e gli ideali di uguaglianza.
Per questo non è saggio proporre e allestire le prospettive degli spazi pubblici, imbrattandoli con lacunosi episodi privi di senso comune, spesso realizzati senza alcun senso di condivisione civica nel rispetto storico di quel luogo ameno.
Non si tratta di arte urbana o di espressione culturale, ma di atti impuri che offendono la bellezza e la dignità della Terra di nostra patrona Sofia.
La memoria di un popolo si conserva prima di ogni altro adempimento, nel decoro dei luoghi e, il prodigarsi in attività di riguardo della storia.
Il tutto finalizzato a tutelare e proteggere il patrimonio culturale unico di uno specifico luogo, specie se poi largamente divulgato e noto a tutti i generi, fatto non solo di edifici vernacolari e tradizioni, ma anche delle prospettive innovative qui pensate, immaginate e vissute, lasciando episodi di storia in sacrificio da tramandare per essere esempio della società moderna.
Chiediamo a tutti i cittadini, giovani, anziani e visitatori della breve e lunga sosta, che qui giungono per conoscere storia, di avere a cuore questo luogo e i suoi luoghi ameni, e quanti amano o dicono di adulare la Terra della Patrona Sofia, non devono violarla in alcun modo ma si devono adoperare per valorizzarla e, dare solida certezza per il futuro.
Qui sono stati depostati numerosi cuori pulsanti arbëreşë di Calabria, questo è un luogo che custodisce storia ricca di tradizioni, fede e cultura.
Tuttavia, è anche teatro di atti che ne minano decoro e rispetto del collettivo patrimonio e, “archi privi di colori significato e rispetto locale” appaiono senza attinenza, su muri, porte e portoni, contaminando le antiche prospettive della storia, deturpando il pubblico luogo che racconta e ancora oggi sostiene integrazione.
In questo contesto, è fondamentale ricordare le figure che hanno contribuito a plasmare l’identità culturale e civile del Katundë come il fervido e libero pensatore dell’Italia preunitaria.
Professore di latino e greco, preferito nella capitale del regno perché le sue idee erano parallele identitarie agli ideologi del 1799 e, divennero emblema sociale, intellettuale e civile della comunità arbëreşë senza esclusione alcuna, se non i malpensanti.
Accanto a lui, va sicuramente ricordato Mons. F. Bugliari, che ha ricoperto ruoli significativi nella Chiesa calabrese, diventando vescovo e, distinguendosi per il suo impegno nell’educazione del clero e nella promozione della cultura, e le tradizioni arbëreşë.
Diventa quindi dovere di noi tutti come comunità, proteggere e rispettare i luoghi che raccontano la storia e, fermare gli atti di vandalismo, che non solo deturpano l’ambiente, ma offuscano anche la memoria di chi ha contribuito a costruire l’identità di questo Katundë, diventata fulcro culturale della regione storica degli arbëreşë.
A tal fine difendere il nostro patrimonio significa onorare il passato e trasmettere alle future generazioni un’eredità di cui essere orgogliosi, ma senza aggiunte inopportune che per come vengono realizzate sono di elementare estrazione popolare che sfugge sin anche ai “percorsi lavinai del turismo di massa” o mercatali dirsi voglia, che non certo approda in questi luoghi per vedere tutta questa inutile pena senza vergogna.
Questo Katundë, non è il semplice borgo come raccontato dai meno saggi o multimediali appariscenti, ma un centro antico culturalmente vivo della regione storica arbëreşë, in tutto una culla di storia, di fede bizantina e memoria collettiva del meridione italiana che corre parallelo al fiume adriatico sino allo Jonio.
Tuttavia non sfuggono a noi tutti, muri imbrattati senza significato e senza memoria storica di quei ben identificati luoghi, tutti che offendono la dignità di prospettiva e di chi l’ha costruito nei secoli.
Un insieme di elevati organizzati secondo metriche del bisogno e della necessità e, il solo lasciarle apparire come vennero assemblate, restituisce valori materiali e immateriali, che la semplice pigmentazione a tema moderno non può mai raggiungere, comprendere, perché vela ignota che adombra la storia.
Questo paese è terra del prete, scelto da Carlo III, qui a discapito di tutto il regno, poi di vescovi e pensatori, patria di figure straordinarie, tra i più fervidi liberi pensatori dell’Italia preunitaria.
Intelletti civili e religiosi di raffinata radice, greca posto alla guida della Real Biblioteca Borbonica, poi coinvolto nei moti giacobini del 1799, tutti illusti che per il loro pensiero liberale e coerenza morale, furono chi arrestato, torturato e infine ucciso a Napoli e chi vilmente trucidato nel suo parse natio, perché sapeva.
Una ferita storica ancora aperta e che il 18 agosto 2022, una lapide depositata per ricordare chi tradì, per coprire quella vergogna e poi fece assassinare l’unico testimone scomodo, colpevole solo di conoscere la verità.
Poi venne il figlio di Anna Maria Pizzi, anche lui vescovo e figura di rilievo nella storia della Chiesa italo-albanese di Calabria.
La sua nomina rappresentò un tentativo di ripristinare l’ordine e la funzionalità del solido istituto ormai allo sbando lopeziano e, che attraversava periodi di crisi e disorganizzazione.
Il Collegio, fondato per la formazione del clero delle comunità di rito bizantino, aveva subito numerosi cambiamenti e difficoltà, con la restaurazione borbonica, la situazione non migliorò significativamente, e il Collegio rimase in uno stato di disorganizzazione.
Tuttavia il geniale figlio di Anna Maria Pizzi, sebbene non avesse frequentato da giovane questa storica istituzione, fu scelto per la sua preparazione teologica, la sua integrità morale e la sua esperienza nell’insegnamento.
La sua nomina mirava a ridare slancio all’istituto, riorganizzando la didattica, migliorando la gestione economica e restituendo prestigio dell’istituto e, nonostante le difficoltà iniziali e le resistenze interne, il suo impegno portò a una parziale riorganizzazione di quel presidio di cultura.
Tuttavia, la sua presidenza non fu priva di controversie e, alcuni membri della comunità locale e del clero ritenevano che la sua nomina fosse stata una decisione imposta dall’alto, senza una consultazione adeguata delle realtà locali. Queste tensioni portarono, nel corso degli anni, a discussioni sulla gestione della scuola ormai anche senza forchette nella mensa scolastica e sulla necessità di una sua possibile scissione in tre entità separate, al fine di migliorare l’efficienza e l’aderenza alle esigenze delle diverse comunità arbëreşë.
Il figlio di Maria, continuò a svolgere il suo ruolo fino alla sua morte e, la sua figura rimane significativa nella storia della Chiesa arbëreşë di Calabria, simbolo di un periodo di transizione e di tentativi di rinnovamento in un contesto di sfide politiche e sociali.
Questi eventi ci parlano ancora oggi e ricordano il valore della coscienza, della cultura, della verità, per questo grafitare i muri di terre di Sofia che non sono meri elevati per essere velati di incoerenza che diviene insulto, diretto e centrato, alla storia arbëreşë, indirizzata verso il cuore dei nostri padri.
Ragion per la quale, rispettiamo le Terre di Sofia e, quanti amano davvero questo Katundë, non lo devono attingere con pennelli roventi, perché hanno avuto il mandato/dovere di sostenerlo candido e pulito, in quanto eco o riverbero di pensiero nobile che qui si annida da scoli e sostiene le ragioni del vivere civile in forma candida
Atanasio Arch. Pizzi Napoli2025-06-15
Posted on 11 giugno 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I luoghi della memoria all’interno dei Katundë, le pertinenze dei cunei agrari di produzione, trasformazione e conservazione, non sono idoneamente tutelati a memoria di garbo e compiutezza storica, per il continuo violarne o velarne, il senso ad opera di ricercatori non titolati.
Tuttavia una deriva così imponente come oggi in atto, non aveva mai adombrato cosi tanto questi luoghi ameni e, mai capitato di vedere tanta continuità lagrimosa di luoghi e di cose Arbëreşë.
A tal propositi si vogliono citare gli esempi più eclatanti come l’aver perso il lume di credenza di Atanasio Patriarca con quelli di Attanasio Vescovo degli Ebdomadari, affidando sin anche il secondo a vili indigeni, per fare penitenza e devozione; o usare fonti storiche per generare recinti sociali di fratrie sostenibili, terminando di compromettere i parametri storici di Iunctura, scambiati per icone o tele per grafitare storia alloctona; senza dimenticarsi del luogo simbolo della pena locale esaltato in favore del Caino Arbëreşë, in elevato alto di fanfara, allestito come manifesto per ricordare che esiste il male assoluto; o utilizzare la piazza come purgatorio del popolo, con toponimo utile a riecheggiare lamenti della sposa ancora di candido biancore di gravidanza.
Questa è oggi quello che un tempo fu “Katundë” e, doveva essere, per le scelte fatte dai preposti praticanti politici: un gioiello; e chi ha creduto che era meglio preferire chi assembla cattedra, senza allertarlo quando avrebbe ricevuto il “pacco”, come facevano e dicevano quanti conoscono le dinamiche della nostra società Furcillense, diversamente da quanti fanno bottega isolandosi dal mondo e dai lavinai che scorrono di fianco, escludendo quanti hanno vissuto e conoscono cose, i quali siccome lasciati fuori o esclusi con cattiveria, non hanno avuto modo o spazio per avvertire ed evitare le malefatte.
Sono un ricercatore delle cose materiali ed immateriali attribuite alla minoranza Arbëreşë, animalizzo, studio, annoto e scrivo da oltre quattro decenni, i risultati di ricerche storiche, confrontando dati e, accertarne memoria storica, in questi luoghi vernacolari di cui sono unico e solo Olivetano.
Nel mio “storico laboratorio, oggi di fronte l’antica fratria partenopea” sono depositate, opere editoriali di ogni genere e categoria, da me condotte e regolate, non perché sia una figura egocentrica, ma operoso di un pensiero antico compilate nelle forme che sento immagino e penso in lingua madre, secondo la forma di parlato arcaico, più antica del vecchio continente.
Lo stesso che ancora oggi è possibile esternare, ma solo da quanti sentono e sanno parlare in “Arbëreşë Assoluto”, appreso, allevato e conservato nella mia mente in luogo di frontiera di terra, oggi denominato secondo la toponomastica riversa non: llëmë lljtirë.
Le istituzioni ad oggi, perché poco preparate e, maliziosamente tacciono i propri adombrati principi, per dare la scena a mendaci ed ingrate osservazioni, affinate dalla inconsapevole platea di stranieri che, fuggendo le nebbie, le miserie e, le turbolenze delle loro contrade, non han potuto altrove trovare agio, sanità e, quiete, come sotto il nostro amenissimo clima, che sostiene e protegge le nostre dualistiche leggi morali in forma di anomala restanza, palesata fra le migliori mendaci ad assistere il distratto viandante della breve sosta che non torna più indietro a recriminare la pena inflitta.
E non certo affidare il sostegno della credenza a estranei crescisti all’ombra di minareti, che hanno potuto godere dei benefici della negazione della propria radice, perché convenevolmente estirpano danari, e fare percorsi di devozione e credenza per apparire convertiti.
A rivendicare, dunque, il decoro dei nostro ingiustamente malmenati luoghi di studio e di formazione, rendesi necessario un manuale che metta con chiara parsimonia, ogni veduta dello stato fisico e morale, in modo che, anche uno svagato lettore, che voglia solo deliziarsi di materia e curiosità, sia quasi costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi nello stesso tempo quelle notizie che in un centro antico, rendono facile l’acquisire tutte le comodità che fan la vita dilettevole e degne di essere vissute, perché colme di accoglienza di abbracci materni.
Ogni cittadino si suppone sia sufficiente istruito nelle istituzioni e di tutte le cose notevoli del paese. Tuttavia per accreditare, si fatta supposizione serva e gli si offra un mezzo indispensabile per ricordare, veramente e riconosce le cose notevoli per apparare, se mai, le tante ignorate. E per coloro che, nati nelle province senza abbracci geografici, che non abbiano potuto ancora visitare la capitale del regno, riuscir dovrà certamente piacevole il leggere la descrizione dei monumenti e delle singolari prospettive che vi si ammirano, ed essere o meglio diventare una guida per quando si recheranno e, se tale scopo giunge col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che potrà vivere di agio e conoscenza futura.
Come si può ben vedere la citazione di F.S. B, del 1854 relativa al centro storico di Napoli, calza isoneamente ad ogni luogo di studio.
Se in una comunità arbëreşë, si perde il senso della credenza al punto tale di confondere e miscelare cose civili e di credenza; in tutto i lasciti di memoria storica racchiusi nella piazza, il cuneo votivi e la chiese, deve essere con urgenza rivista l’ostinazione della vendetta portata costantemente in processione dal 28 febbraio del 1985 e, abbisogna far rientrare con devozione, in questo luogo di peccato o inferno dirsi voglia, il solo, unico e indivisibile protagonista in grado di recuperare il senso cristiano, ormai compromessa e portato allo stremo dalle Jannare e dai figli nati, allattati, cresciuti e vissuti tara i quattro calli ascensionali e il noce adombrato.
Il tema a titolo, apre una prospettiva molto chiara dello scenario e, gli attori, che da tempo stanno sminuendo il valore storico del modello di integrazione più solido e duraturo del mediterraneo, devono esser riportati nelle disponibilità dell’originario senato delle donne nelle Gjitonie, sostenuto dal governo degli uomini, da qui sino all’agro più recondito dove sudore e forza di animo saranno in grado di seminare, far germogliare qui frutti antiche che erano il trittico dell’integrazione fatta in casa dagli arbëreşë.
Solo così si potrà rispondere con adeguate scelte di sistema all’interno dei centri antichi arbëreşë, onde evitare il paradosso verso il patrimonio edilizio e culturale, che rappresenta un’identità secolare unica in tutto il mediterraneo.
Tuttavia gli interventi urbanistici o edilizi se non coordinati o, realizzati senza un piano integrato con specifica mira di valorizzazione che tenga conto delle caratteristiche storiche e culturali di ogni ambito specifico.
Ciò avviene sin anche quando sono disponibili risorse adeguate, le quali, non sempre vengono usate efficacemente, in quanto manchevoli di competenze tecniche o progettuali specifiche nëdë Katundë.
E gli abitanti spesso non percepiscono il valore storico delle architetture tradizionali vernacolari e delle epoche successive, preferite al “nuovo” o il “funzionale”, sacrificando l’esigenza della memoria storica.
Va in oltre rilevato che il calo demografico in molte aree porta a un abbandono del centro storico e alla costruzione in periferia, producendo degrado, ruderi e perdita d’identità.
Molti comuni non hanno strumenti uomini e risorse di genio per pianificare lo specifico, non coinvolge cittadini, architetti, storici e giovani del posto, che dovrebbero essere memoria e manualità.
Tuttavia va ribadito che l’identità arbëreşë non è un marchio culturale e turistico e, i centri storici non devono esse esclusivo per la mira ad esser poli attrattivi per il turismo del viandante ma biblioteche e musei a cielo aperto dove la culturale e la residenzialità lenta, possa mostrare le prospettive e il valore del patrimonio edilizio da condividere con buone pratiche e fare massa critica nell’accesso ai fondi pubblici.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-06-11
Posted on 01 giugno 2025 by admin
NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il confronto quotidiano tra generi e, vissuto negli ambiti della regione storica diffusa in Italia degli Arbëreşë si sosteneva seguendo le linee consuetudinarie con finalità del progredire dei generi e, il ruolo delle donne aveva spazio in autonomia dal focolare della casa sino allo spazio ideale denominato Gjitonia, con ruolo di regina del fuoco e della casa.
Mentre l’uomo aveva spazio di competenza e reggenza, dal confine ideale Gjitonia, dove erano le botteghe artigiane, oltre le terre dell’agro, avendo competenza specifica dei cunei agrari di produzione e trasformazione dove erano i limiti più estremi del territorio comunale.
Questi due sistemi paralleli di genere donna e uomo, assumeva e svolgeva, ruoli specifici in forma di radice e di fioritura sostenibile, per il modello di Iunctura familiare, della minoranza arbëreşë.
Due sistemi paralleli e coesi, in cui le due parti raffiguranti il matriarcato e il patriarcato, assumevano ruoli specifici, senza mai sovrapporsi o creare attriti, rimanendo per questo efficienti senza soluzione di continuità per secoli, in tutto lo stesso modello che oggi la società moderna cerca di imitare, ma purtroppo senza alcun successo per la sovrapposizione incontrollata dei due generi.
Casa e Gjitonia era il luogo dove la donna progettava e architettava ogni cosa, per poi affidare all’impresa degli uomini l’eseguire e materializzarle il richiesto, diversamente negli ambiti estremi della Gjitonia sino ai confini comunali, di pertinenza de Patriarcato preposto ad architettare, sotto la consulenza e la rifinitura collaborativa con protagoniste il Matriarcato.
Quando oggi si cerca di esporre o presentare un elemento di architettura si usa riferirlo a epoche illuminate al genio del proprio momento a cui fa più comodo riferire, di un solo ed esclusivo genere.
Tuttavia esiste un tempo in cui il bisogno degli uomini compilava edificati vernacolari, in funzione del bisogno progettato dalle donne, non certo per forme di abbondanza, ma esigenza allo stato puro.
Questi due modi distinti di edificare hanno alla base l’assenza e la presenza della figura che oggi valorizza o demolisce una struttura di rilievo, ovvero l’architetto.
Analizzare le due modalità opposte per concepire, progettare e innalzare manufatti per vivere i sistemi del bisogno o economici, sociali e culturali, pone l’esigenza, di sottolineare e distinguere in chiaro, i momenti di donne e uomini che fanno architettura.
Se gli Arbëreshë vivono Katundë sostenuti da valori condivisi dalla donna e dall’uomo, secondo una prospettiva di vita familiare, in regola comune, che prende forma ideale nella Gjitonia, perché capace di razionalizzare valori materiali ed immateriali, alla pari dei complessi monastici dove vigeva il principio della Llighjia.
A tal proposito si potrebbe ipotizzare che la nascita del razionalismo architettonico, si ispira al governo delle donne sostenuto dal senato degli uomini.
E se San Leucio in Campania come altri complessi in Francia e Inghilterra nascevano su principi di uguaglianza sociale, lavoro collettivo e progresso civile, senza tralasciare o sminuire gli esempi più recenti come i Sassi di Matera e il complesso di Le Mortelle, dove il razionalismo moderno non ricevette l’approvazione del governo delle donne, che minacciava di ritornare a vivere nelle grotte, cosi come in tutti gli esempi di edilizia popolare progettati dagli uomini e, nel corso del vissuto delle donne, subirono modifiche e cambiamenti distributivi in forma di superfetazione migliorativa.
Erano i primi anni degli anni sessanta e in un Katundë Arbëreshë della Presila greca, venivano assegnate quattro unità abitative ad opera dell’Ina Casa e, Carmela accompagnata dal figlio, orgoglioso della nuova casa assegnatagli, si senti spegnere l’entusiasmo dalla madre, con la frase: chi ha potuto concepire e realizzare una casa priva di un camino per fare focolare?
Considerando che l’Architettura del bisogno o vernacolare, si fonda su scarsità, necessità, funzionalità essenziale, guidata dal principio del “quanto essenziale”, spiega anche il perché ogni rione quartiere nato per sodisfare un bisogno sociale non viene considerato alla pari delle architetture dette maggiori.
A tal fine va rilevato che ogni elemento ha una funzione chiara e indispensabile, seguendo il principio di minimizzare gli sprechi e, avendo cura dell’uso oculato delle poche cose poste in essere.
Il tutto come avveniva nelle case dove le risorse e i materiali diventavano fondamento del vivere dignitoso e ogni cosa era incline alla durabilità e alla manutenzione ordinaria.
Essa nasce spesso in contesti di emergenza, crisi, o marginalità e, l’estetica diventa subordine della funzione.
Diversamente avviene con l’Architettura dell’Abbondanza, la quale si basa su opulenza, esuberanza, disponibilità di risorse, le cui finalità sono di natura rappresentativa o simbolica.
E per questo le caratteristiche formali estetiche e dell’uso risultano essere ridondanza e decorazione più del necessario, con finalità estetiche o simboliche finalizzate all’apparire.
Poi se a questo associamo l’uso di materiali pregiati in ampio e largo uso, così come sono esose le risorse e le lavorazioni complesse degli elementi formali ed estetici.
Da ciò, l’architettura dell’abbondanza, nasce quasi sempre sulla base di progetti che hanno il fine di stupire o celebrare, affidandosi all’uso di tecnologie avanzate o sperimentali, generalmente mirano a valorizzare le prospettive dei contesti di benessere, potere, o consumo.
Il principio su cui si basano i progetti hanno finalità che preferiscono l’estetica, la forma che poi diventano predominante sulla funzione e, rendere il manufatto espressione inconsulta del mondo che dispone le cose secondo una visione verticale, ruotando sin anche la tipologia di bosco naturale di collina.
Le espressioni “architettura del bisogno” e “architettura dell’abbondanza” sono di solito utilizzate in modo concettuale per descrivere due approcci opposti nella progettazione architettonica e urbanistica, riferendoli in sostanza al contesto socioeconomico, culturale e ambientale.
Con una certa tradizione nella critica culturale di genere, la quale mira a sottovalutare con finezza i due paralleli di genere, anche se la storia non contraddice il teorema secondo cui “l’architettura del bisogno” è delle donne e quella dell’abbondanza è degli uomini.
Giacche si evidenzia una metafora politica e sociale, che qui si vuole esporre con cautela storica, per evidenziare la regola assoluta dal dualismo di genere, politico e di credenza vissuto.
A tal scopo va rilevato che storicamente, le donne sono associate alla cura, alla casa, al quotidiano e, alla gestione del necessario.
E per questo il progetto che parte “dal basso”, finalizza e sodisfa bisogni indispensabili, relazionali e comunitari, che avvicina a un modo di pensare più relazionale e meno egocentrico, lo stesso riconosciuto da alcune teorie delle prospettive femminili.
Altra forma assume l’architettura dell’abbondanza, quasi sempre espressa attraverso gestualità o espressioni grandiose, monumentali, autoriali, se non talvolta narcisiste, legate a logiche di potere, in visibilità e dominio dello spazio storicamente associati ai modelli patriarcali.
Da ciò si può sintetizzare che mentre l’architettura del bisogno diventa essenziale e rispettosa delle cose naturali che accoglie dispone il necessario che diventa tema prioritario.
L’architettura dell’abbondanza diventa un riassunto che accavalla e richiede sempre un compromesso naturale o effetti collaterali necessari.
Tuttavia bisogna rimanere cauti ed attenti, perché non si tratta di una distinzione biologica, né tantomeno essenziale o generica, perché non tutte le donne progettano nel primo modo, né tutti gli uomini nel secondo.
In quanto il teorema è una distinzione culturale e simbolica, che riflette le asimmetrie di potere nella storia dell’architettura di cui la società è intrisa di entusiasmo.
Ci sono architetti uomini che progettano con un’etica del bisogno e donne archistar che fanno architettura spettacolare, sin anche seminando dissuasori nello sviluppo planimetrico delle piazze, immaginando che possa essere anche strada.
Resta un dato fondamentale ovvero, la storia dell’architettura è stata scritta quasi esclusivamente dagli uomini, per uomini, e secondo logiche di potere maschile, ma chi segue e indaga ogni momento della storia sa che l’origine del costruito era una volontà femminile.
Per secoli, le donne erano escluse dalle scuole della ricerca di architettura e dai grandi cantieri dove, le figure dominanti nella disciplina sono state (e in gran parte sono ancora sono) uomini.
L’architettura celebrata, finanziata, pubblicata e premiata tende ad essere spettacolare, firmata e, visibile con caratteristiche legate a un approccio dominante maschile.
Le poche donne archistar hanno dovuto operare dentro logiche maschili per essere accettate, anche se non si escludono casi di spazi pubblici compromessi perché intesi simili al percorso da casa a chiesa.
Tuttavia un dato è incontrovertibile che, l’architettura dell’abbondanza nasce e si afferma in un sistema di valori patriarcale.
E l’architettura e sin anche l’urbanistica del bisogno, e riferisco di quella meno nota, che poi è fatta di concetti scaturita dalla collaborazione finalizzato e attento al quotidiano come storicamente delle donne, è più vicina a un approccio, almeno culturalmente di pratica femminile.
In quanto le donne hanno avuto maggiore spazio in pratiche marginali e, questo dato, evidenzia una disuguaglianza strutturale nella cultura del progetto specie quando diventa pubblico, dove il potere di decidere è stato a lungo in mano a una parte sola della società.
La stessa che ha modellato le città e gli spazi abitati secondo valori spesso non inclusivi, infatti analizzare un progetto o una città da questa prospettiva di genere.
Come parlare delle figure femminili “rimosse” o invisibili nella storia dell’architettura, riflettere su come cambierebbe l’architettura se fosse guidata da altre logiche (di genere, ma anche di classe, etnia, ecc.).
Cosi come la storia del Grand Tour che nasce intorno alla metà del XVII secolo (1600) e rimase in voga fino all’inizio del XIX secolo (1800), particolarmente popolare tra i giovani aristocratici inglesi, ma anche francesi, tedeschi e nordici.
Il valore del Grand Tour per gli uomini, serviva a completare la formazione con lo Studiare arte, storia e cultura classica (soprattutto in Italia e in Grecia), alla ricerca di relazioni utili per la carriera politica, militare e sociale.
Per terminare questo breve, con cognizione di causa va aggiunto il valore del Grand Tour degli uomini di cui l’Italia intera venne interessata, diventando un museo o biblioteca a cielo aperto per la formazione in valori artistici, letterari e sociali per comprendere e apprezzare meglio la vita mondana.
Diversamente è stato il tour delle donne le quali pur avendo mira di accedere a circoli intellettuali europei, esse, usavano confrontarsi in maniera costruttiva con le donne dei Katundë montani e, nelle borgate dei gradi entri antichi, con le pari di sesso, annotando o vivendo momenti molto costruttivi, affinando il ruolo di madri o future madri che avrebbero rinnovato o rivestito al loro ritorno.
Quindi anche in questo caso se per gli uomini, il Grand Tour era educazione, status e preparazione alla vita pubblica.
Per le donne, era pur essendo una esperienza più rara, comunque diventava un’opportunità di emancipazione culturale e personale, di confronto con luoghi che erano palcoscenico di una dimensione ricca di umanità e ideali e non di lumi dorati ottenuto con le pene di quelle realtà di viaggio.
Atanasio Architetto Pizzi Napoli 2025-06-01
Posted on 30 maggio 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il tema a titolo è un dato di fatto palesemente inconfutabile, da cui si coglie il valore odierno del focolare domestico, non più amministrato dalla saggezza materna, che disponeva legna e cenere con garbo e passione, per ottimizzare luce e calore, diversamente di fochisti inconsulti odierni, che non rispettano neanche la radice domestica, in essenza di Erica, dei cui rami e germogli igienizzavano casa e ambiente circostante.
Così accade anche per la vestizione dei generi, che non segue in alcun modo, manifestando l’itinerario di colori e rappresentanza all’interno della casa, a iniziare dalla culla e poi lungo la Gjitonia, sino alla chiesa.
Ed era in questo microcosmo, dove le cose di bimba, giovane, sposa, generavano la madre e la scuola, secondo un protocollo di vestizione e movenze, senza altri fini, come oggi si usa fare in musei e lungo le vie dove si portano i Santi, in processione, suggeriti da comuni viandanti distratti o, della breve sosta, che non sanno né parlare e né ascoltare storia in arbëreşë.
Questi sono i principi di parlato, ascolto e di movenze, a cui sono stati sottratti i valori della formazione ormai allo stremo e, da cui si evidenziano le note lagrimose.
Di queste va evidenziata la perdita del ruolo storico, dalla parte bassa e di quella alta di ogni Katundë; la dismissione delle attività del centro antico con l’esigenza di allargare i vicoli di ogni rione per parcheggiare negli storici orti botanici; l’uso dei grani cellulari, che ha compromesso il valore dei cunei agrari; dismesso le fontane storiche; appiattiti i ruoli di credenza e di amministrazione; posto a termine il senato delle donne e, il parlamento degli uomini; le prospettive storiche sostenute dalle briciole di minoranza che rendono questi luoghi privi di ogni giustificato valore o forma unitaria, per essere riconosciuto come pane di tempo e lungo.
L’alimento fondamentale che con olio e vino, sfamava i bisogni del passato, senza che vi fosse bisogno del dualismo centrale delle insalatiere, che emanano essenze in grado di deteriorare il fondamentale alimento di coesione e credenza locale ormai compromesso.
Oggi rimane la memoria offuscata di queste storiche immagini, giacché i Katundë di minoranza arbëreşë, non avendo mai avuto il bisogno di scrivere o appuntare il valore di questi adempimenti sociali di memoria antica, vivevano di memoria e di storia condivisa.
Certamente associare immagini a sgrammaticati sostantivi, che non trovano agio nella pronunzia e nella movenza del corpo, il tutto associato a un alfabeto che non illumina la mente per associare immagini dall’alfabeto, come storicamente è accaduto alle civiltà secoli orsono.
Infatti chi non conosce la storia della scrittura o della memoria di scambio e formazione di segni, non può e non deve avvicinarsi a questa storica evoluzione, immaginando che fermare con scatti le immagini, possa illuminare gli arbëreşë, con quel lampo che acceca mente e occhio e non certo illumina le nuove generazioni, che incuriosite vanno verso il buio del varrone.
Tuttavia quanti siedono negli scanni di gestione civile e di credenza, non creano cose e momenti capaci o in grado di raccogliere e diffondere memoria, ma momenti di breve sosta per i viandanti a cui non serve essere illuminati o formati, come avviene con le generazioni di leva odierna, secondo atti di frenetico affanno, perché orfani del senato delle donne che sono più volte madri, come era uso fare un tempo.
Questi due momenti di tempo lento dei Katundë e la frenesia del moderno agire, ha generato un polverone che invade tutti i piccoli centri antichi arbëreşë, delle colline del meridione, facendo così scomparire per inadeguatezza delle nuove generazioni, il modello della stagione lunga e quello della stagione breve, appiattendo ogni cosa con le più moderne quattro stagioni.
Titoli accademici di comuni istituzioni o inadeguati percorsi di formazione di breve durata, assegnano titoli averne senza un protocollo di frequenza o confronto con la realtà delle cose, come era uso fare nell’antico protocollo gestito dal senato delle donne e, poi affinato e accompagnati del costruito degli uomini, in tutto un traguardo ambito e imitato ad oggi, senza avere misura di questo storico protocollo fatto di tempo lungo e parlato.
A oggi si persegue il fine di fare “icone diffuse” in ogni varco di porta un tempo nobile o “grafitare” le storiche prospettiva dei vernacolari centri antichi.
A tal proposito va specificato che questo genere di opere è fornito e accolto, di quanti non trovano agio nei propri ambiti o chi dice di essersi formato fuori e fa restanza, la stessa che serve solo ad affollare inutilmente gli scanni di un ideale che non si conosce come: “kushëtë i Katundë”, dove si riferisce e si immaginano cose lljtirë; che tradotto in Italiano corrente rappresenta la lettera scarlatta (per chi professa la credenza imperiale d’occidente).
A oggi sostenere che le genti arbëreşë, che approdarono nel meridione fossero i discendenti delle armate di Brancaleone, rileva la misura della poca attenzione che alcuni istituti hanno formato gli addetti che dovrebbero o avrebbero dovuto fare resilienza e formazione per le nuove generazioni
A tal proposito è il caso di precisare che gli arbëreşë, a differenza della moltitudine delle genti che qui venivano per trovare agio, rappresentano l’unico esempio di integrazione mediterranea e, valore riconosciuto sin anche dagli indigeni più elevati,
Questo dà la misura, del valore riconosciuto dalla storia agli arbëreşë e, in ogni secolo a venire dalla nascita di Gesù che sono un popolo dalle mille attitudini di operosità senza rivali, specie nel rispettare la natura e il valore mai violato per la memoria e la storia dei luoghi da essi bonificati perché abbandonati.
Al giorno d’oggi i cultori locali, la cui formazione llitirë, è allevata nei dipartimenti più estremi, per poi subito tornare e fare restanza di labile statica, credendo di conoscere gli “ingredienti” storici senza alcuna conferma se non i derivati dell’Albanistica moderna, e di tutte le sue varianti scrittografiche, inopportunamente inserite nel protocollo storico, di resilienza arbëreşë, lo stesso che intanto producendo un paragone al pari di chi vorrebbe: il Latino come una lingua che nasce e si sviluppa grazie al Moderno Italiano.
L’insieme di quanto sino a qui citato, per grandi line, genera Katundë spogli di ogni dimensione architettonica e urbanistica, come era stato un tempo progettato, sostenuto e suggerito, dal Senato delle donne e terminato dagi anni novanta dalle direttive passate al viandante llitirë che non è cresciuto frequentando le storiche scuole intrise di sensi e passioni che erano riverberate all’interno del modello sociale denominato Gjitonia.
Una memoria resta e segna la storia di ogni Katundë, ovvero, con la dismissione del Senato delle donne che generava Gjitonia e, le libere intuizioni locali senza alcuna radice di genio Arbëreşë sono, la deriva che oggi produce e genera la penosa ascesa a impronta di quartiere metropolitano dismesso.
Resta una via da intraprendere, ovvero quella di dare spazio alle donne, di questi piccoli centri antichi collinari, un tempo definiti Katundë Arbëreşë, secondo un nuovo modello di gestione assegnando funzione fondamentale a donne il ruolo che un tempo era delle madri e nonne sagge, ricreando l’ambiente divulgativo, privo dei minimali protocolli di consuetudini che pochi ricordano o conoscono, ma che tutta la popolazione senza esclusione di alcun genere sogna ancora uno che lei sappia per ritrovare per viverli.
Katundë è un luogo antico che segna la vita dell’uomo da millenni, e qui depositarono i lasciti dei principi di un confronto solidale e movimento fraterno, perché ogni dinastia era unita dalle cose che il tempo e la natura qui stendeva alla luce del sole, facilitando per rendeva possibile il vivere senza patire estremo.
Se noi contiamo gli anelli delle essenze arboree ancora floride in queste riserve naturali, avremo conferma dei millenni trascorsi in solenne equilibrio dall’uomo.
Se questi concetti non sono diffusamente noti trovando velate le ere trascorse, serve conosce chi ha sottratto con metodo questi circolari segni della storia dell’uomo, che garantiscono il corso della storia.
Va in oltre ribadito un dato fondamentale che poi ha determinato il deteriorarsi del valore Katundë, in quanto sino a quanto si tratta di disquisire liberamente dei concetti che sono la radice di questi centri antichi, tutti fan gande uso di valori che indicano chi e restanza perché torna.
Tuttavia poi quando si tratta di fare sul serio e, magari presentarsi davanti a giudici, che devono per legge esprimere un giudizio sulla base di fondamenti storici solidamente dimostrati e, non certo effimeri o ideali su basi di restanza, a presentarsi con fierezza davanti ai magistrati e avere ragione, si distingue solo chi si è formato nei federiciani fondaci Olivetani, continuando a ottimizzare la crescita della pianta del prezioso frutto.
In ragione di tutto ciò si ritiene che ormai i tempi siano idonei a diffondere i principi fondamentali per la minoranza che sostiene i propri valori all’interno dei centri antichi attraversi ideali di iunctura familiare trapassati con il parlato e ascolto.
Tutti questi sostenuti dalla radice del parlato che non è odierno dire Albanistico, in tutto il frutto ancora acerbo, che nessuno riesce a digerire.
Giacché la radice linguistica, inizia dalla individuazione del corpo umano e animale, in fraterna convivenza con l’ambiente natura e quello stella e oltre sino al divino.
Tutto il resto e dogana irregolare passate senza pagare dazio culturale e, poi accreditato agli Arbëreşë; questo un principio che i due grandi fratelli che studiavano il parlato in Europa per unire popoli che si dovevano confrontare con un solo e indivisibile parlato: il cui protocollo, non è da accantonare mai, perché altrimenti si spezza il legame che corre tra mente e bocca, ovvero l’immagine visiva, con le vocali irrequiete del parlato Arbëreşë.
Atanasio arch. Pizzi Napoli 2025-25-29
Posted on 26 maggio 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno dei confini nazionali esistono territori dove, a seguito di vicende storiche, politiche, culturali e di credenza, si sono insediate comunità che conservano consuetudini parallele dell’italiano parlato.
Queste minoranze storiche, sono riconosciute e tutelate dall’Europa, lo Stato italiano e dalle Regioni, con specifiche leggi di salvaguardia.
L’indirizzo fondamentale che le direttive prefiggono, non è di “mero divieto alla non discriminazione”, bensì, al “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.
Infatti il principio su cui si basa l’insieme del parlato di ognuna di queste comunità, ha come elemento unitario l’idioma storico, che non deve essere intesa non come esclusiva “compilazione di parole di libero arbitrio” prive di una radice solida di fioritura.
Tuttavia sfugge il principio secondo cui, solo attraverso “i percorso che predilige la radice del corpo umano dei generi, e poi i germogli di ambiente naturale e la fioriture degli ambiti agrari e il costruito, quest’ultimo privo di ogni forma murazioni di confine o recinto” dei gruppi familiari tutti riuniti in forma diffusa, a quanti, oggi vivono i territori paralleli ritrovati lungo i tanti abbracci che caratterizzano la penisola Italiana.
Ragion per la quale, prediligere il parlato, senza avere nessuna attenzione del canto, la gigolatura alta, i costumi, la credenza con gli atti di devozione nel corso dei secoli, la sostenibilità agrarie a e processi di Iunctura familiare costruiti senza barriere, si finisce per chiudere ogni cosa all’interno di un recinto e lasciar gestire cose al fattore scelto dal padrone.
Ogni regione storica di minoranza in Italia, ha una sua identità, sostenuta nel corso dei secoli, per fini comuni, in tutto la perfetta integrazione.
Tutte queste dodici Minoranze sono esempi solidi del percorso sociale del mediterraneo e quanti sostengono che tutto si possa risolvere in favole e parlate altre; non si rende conto che viviamo in un’epoca in continuo progredire incerto, dove ricordarsi di queste minoranze perfettamente integrate, potrebbe indicare la via per una storia del presente e del futuro molto più serena.
Sminuire le minoranze storiche immaginandole come mille recinti di genere pronti a fare transumanza stagionale per poi tornare nel recinto per belate tutto l’inverno, non è eticamente, culturalmente e storicamente corretto.
Infatti il primo invito solido emanato delle istituzioni sosteneva il “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.
Tuttavia e a ben vedere dopo i primi secoli di permanenza le minoranze storiche hanno disposto e prodotto gli incentivi dell’integrazione con gli indigeni locali e, se qualche addetto, abbia potuto immaginare che fare scritti e romanza, per unire la minoranza, si potrebbe anche comprendere e capire per i mezzi e le epoche vissute, nel più profondo isolamento oltre a sfuggire alle pene del proprio dire.
Tuttavia esiste una figura alta, che già nel 1775, comparava il parlato Arbëreşë con le lingue indo europee, ancora oggi notoriamente ignorato, per l’incapacità di studio che distingue quanti non si confrontano, in eventi multidisciplinari o con gli Olivetani opportunamente formati o con altre discipline di coerenza storica.
Una delle cose più inopportune dietro cui si nascondono o si isolano gli inopportuni addetti, è la frase “da noi si dice così” in Arbëreşë “na thomj Këştù” un dire diffuso che rende la minoranza episodi isolati che la rendono al pari dei chicchi di grano sparsi nel cortile della casa dove un nobile napoletano raggiro il diavolo che ancora oggi non riesce raccogliere tutti i chicchi si grano, sparsi per vincere raggirare chi mirava al cuore della giovane sposa.
Se fino al 1977 ancora nessuno si era occupato del valore architettonico, urbanistico del Katundë Arbëreşë ed ella case vernacolari, più note come le culle del bisogno, dove accogliere e allevare identicamente il modello sociale che poi si espandeva fuori l’uscio di casa per diventare Gjitonia, o luogo dei cinque sensi, non si comprende dove si voglia arrivare oggi 2025.
Posso capire le forze culturali post medioevali, quelle rinascimentali e poi via via dicendo, ma oggi apparire con le stesse vesti del XVII secoli per apparire più preparati è il segno della deriva che invade e impolvera irreparabilmente i trascorsi degli Arbëreşë.
Questi atti che non sono pochi offendendo le vere figure di rilievo, che i hanno dato la vita alla “storia vera degli Arbëreşë” nonostante siano stati traditi dai propri fratelli e, per questo hanno finito per modificare il senso di termine dei propri cognomi Arbëreşë perché lagrimosi di vergogna.
A tal proposito è opportuno sopralineare che se oltre cento Paesi, Vichi, Terre, Frazioni, Contrade in tutto agglomerati di antica estrazione post medioevale che, hanno potuto essere sostenuti in forma di Katundë, una disposizione nuova di centro abitato aperta, impressa nell’amnio delle genti che vivevano le regioni del meridione Italiano, specie dopo il buio del medio evo a cui seguirono gli abbagli di lume che si riflettono ancora oggi.
Vera resta, il dato che ogni Katundë non è altro che il continuo di un antico centro abitato posto in luogo di agro collinare, e la di cui toponomastica racchiude il percorso di Chiesa, Case vecchie, Moticellje o Kalivë, poi luogo arrivo, di controllo o promontorio, disteso in fine in luogo di confronto e movimento,
Tutti gli oltre cento Katundë di espansione arbëreşë, riuniti diffusamente il 16 macro aree disposte in sette regioni del meridione italiano e se questo è una conferma come fanno alcuni istituti a dire e promuovere il diktat diversificato che incoscientemente fa: “da noi si dice così” in Arbëreşë “nà thòmj Këştù”, è proprio vero: Olivetani si nasce perché nessuno lo può diventare.
La minoranza storica appellata Arbëreşë si potrebbe raffigurare ad oggi, come la voce di un criaturo, che piange nella sua culla, desideroso degli abbracci della madre, per crescere, camminare, parlare e danzare, con il padre pronto ad indirizzarlo e, diventare un solido riferimento per tramandare il sapere e l’arte della memoria storica.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli2025-05-26
Posted on 25 maggio 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Polifemo e la sua odissea per la lingua e la sua visione in arbëreşë: Ulisse e i suoi uomini approdano sull’isola dei Ciclopi e trovano la grotta di Polifemo, ma il Ciclope li rinchiude nella grotta e comincia a mangiare due dementi al giorno.
Allora il mugnaio Ulisse offre a Polifemo del vino, molto forte che aveva portato con sé e, il Ciclope Arbëreşë, non abituato al vino del mugnaio matto, si ubriaca rapidamente.
E quando Polifemo gli chiede il nome, il mugnaio Ulisse risponde: “Nessuno” (in greco, “Οὖτις”, “Outis” in Arbëreşë, “Mosëgnerji”) un dettaglio cruciale per tutti i parlanti che mirano al futuro.
Purtroppo questi ultimi sereni nella propria solidità culturale per trovare consuetudine e parola, oggi sono noti come i ciclopi dormienti e fieri del parlato arbëreşë, ma il mugnaio Ulisse e i suoi uomini prediletti, mentre le donne tessono “seteria falsa di costume”, prendono un grande palo di legno, presentandolo per matita e lo appuntiscono, lo rendono incandescente nel fuoco, credendo sia inchiostro rosso, e lo conficcano nell’ugola del ciclope, Albanizzandolo lui e tutti i suoi sottoposti.
La beffa di questo atto, si concretizza nel dato che l’Arbëreşë Polifemo vorrebbe urlare di dolore, ma tutto rimane imprigionato nei suoi lucidi sensi, mentre gli altri Ciclopi, “Nessuno lo aiuta”, credendo che vada tutto bene, mentre la lingua afflitta con mira di consuetudine antica, resa deforme, più non si muove.
La breve metafora Arbëreşë, vuole evidenziare il male assuolato, di quanti approdarono nella baia dei ciclopi Olivetani, per zittire il più forte di questi, che nonostante la sua menomazione, non si cibarsi di farina fatua, la stessa che con il vento che soffia da oriente, vela e inquinato tutta la Regione Storica, che viveva e vive della sana crusca di grano antico che resta ignota al Mugnaio Ulisse.
Posted on 21 maggio 2025 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il “pappagallo muto” (tathëghjellj pà ghjùghë) è un’espressione o immagine simbolica in grado di assume molteplici significati in ambiti o contesti in cui viene impedito di parlare a quanti potrebbero aprire nuovi stati di fatto.
Vero è il dato che il pappagallo è animale noto per la sua capacità di imitare la voce umana o simbolo del ripete senza cognizione cose, senza ragione se non per imitare il ripetere il perlato insistente del suo padrone.
Un pappagallo muto, sulla base di ciò, rappresenta un paradosso, un’immagine in contrasto con l’essenza stessa dell’animale e, il silenzio imposto o ereditato dalla natura, imiterebbe, una figura simbolica per quanti, pur avendo qualcosa da dire, non riesce o non possono esprimersi nel parlare, perché ritenuto dal padrone inadatto o impresentabile.
In senso più profondo, rappresenta la perdita di identità e l’essere noto, per una disciplina giusta privandolo della giusta scena proprio come accadrebbe per il pappagallo senza parola, che il padrone lo minaccia di chiuderlo nel buio dello scantinato.
Nei contesti artistici, storici o politici, un pappagallo muto può rappresentare chi è ridotto al silenzio da un’autorità che si mostra e apparisce ingenua e, priva di contenuti solidi e indivisibili.
Poi se questo è legato solo a concetti ripetitivi di una stagione lunga carica di frasi che il pappagallo apprende dal suo padrone.
Il pennuto muto è una figura simbolica che raffigura il silenzio innaturale e, la perdita della voce, rappresenta la metafora sociale del ripete meccanicamente ciò che sente, ed è stato ridotto all’impotenza.
Il caso studio del pappagallo muto degli Arbëreşë, tradizionalmente di contesto orale, rappresenta l’interruzione della metafora di tramandare in ambito familiare il protocollo del bisogno primo.
Molti linguisti Studiano e documentano questo modo di discendere, ma di sovente con strumenti tecnici interno del circoscritto mono disciplinare, senza allargare il confronto con storia, antropologia, pedagogia, sociologia, o promuovere un vitale protocollo per la società contemporanea (scuole, midia, politica e confronto), limitandosi ad archiviarla e vocalizzarla con adempimenti che danno ragione al Baffi quando versò calamaio e pennino contro il suo maestro senza formazione alloglotta.
Il pappagallo muto, allora, rappresenta chi parla, ma non nella lingua che dovrebbe studiare e, non la usa per creare cultura viva e diffusa.
Chi conserva ma non trasmette, documenta, cataloga, ma non partecipa attivamente alla rigenerazione sociale e culturale, diventando isola di vita reale, limitandosi a fare analisi morfologiche e fonologiche, ma non affronta il problema della scomparsa del parlato all’interno di una famiglia, in evoluzione.
Usare la metafora del “pappagallo muto” significa “analizzare un codice che non comunica, perché dimentica che le lingue vivono solo dentro i corpi, le storie, le relazioni comuni.”
Il pappagallo che parla a vuoto, ignora ogni cosa perché comunica cose senza alcun filo comune, diversamente dal “pappagallo muto” che rappresenta, quanti non parlano molto e ovunque, perché non hanno bisogno di ripetere cose, ma senza sostanza.
Il “muto” nel senso profondo, rappresenta un vuoto parlante, in contrapposizione a chi ripete, ma conosce, e non da giusto peso al sapere.
In tutto un doppio paradosso, in cui si evidenziano due modelli, in cui il pappagallo che parla molto, non conosce o ha misura di cosa parla e dice.
Il silenzioso diversamente rappresenta tutte quelle figure che tacciono perché conoscono molto e sanno che il potere del suo padrone lo potrebbe isolare e renderlo non più degno di essere esposto, metafora contraria dei ripetenti parlanti.
Il “pappagallo muto” ha per questo diversi significati, a seconda del contesto e, in generale, può riferirsi a individui silenzioso e riservati, ma colti e riflessivi.
In italiano, la locuzione “pappagallo muto” viene usata per descrivere una persona che non parla molto, taciturna, la stessa che generalmente preferisce osservare, ascoltare e tradurre l’ascolto in apprendimento, piuttosto che partecipare attivamente a una conversazione e deviarne il senso di tema o il significato.
Un’espressione figurata in questo breve vuole riferire a cose che non si vogliono diventino note, perché potrebbero aprire nuovi stati di fatto, gli stessi che non sono contemplati dai principi o antagonisti senza titolo specifico, giacché, “fattori” che si presentano nelle fiere mercatali, come proprietari terrieri, esaltando principi di legalità assoluta anche se in vere, in quanto nulla gli appartiene, a mo’ di oggetto, animale o ideale.
In molti contesti, “il pappagallo muto” rappresenta, in senso figurato, una figura alta e, gratuitamente spogliata di ogni significativo valore storico culturale, alla pari di un oggetto che non può essere utilizzato, perché reso inoperativo nei palcoscenici della ignobile platea, formatasi tra il lavinaio del Surdo e del Settimo Rendano.
Certo che dopo decenni di studio e impegno multidisciplinare, finire per essere scambiato come facevano gli acerbi professore in prima elementare che per l’inadeguatezza professionale, perché non a regime la legge per gli alloglotti e, questi non erano in grado di comprendere, se un allievo di prima elementare era muto o non sapeva solo esprimere parole in italiano.
Ma più grave è chi oggi ritiene quella figura altamente formata e colma di valori Olivetari, deve tacere e fare il “pappagallo muto” sin anche nella definizione delle alte eccellenze vissute a Napoli.
Le storiche figure che hanno reso nota la Regione storica degli arbëreşë dal 1775 al 1865 lasciando tutti basiti e senza speranza, perché in attesa che gli inadeguati pappagalli che vagano per archivi e biblioteche allietino i viandanti della breve sosta partenopea.
Terminando con lo svilire il valore storico di oltre cento paesi di minoranza in sette regioni del meridione Italiano, una storia infinita che si rigenera e si sostiene grazie ai tanti pappagalli parlanti.
Gli stessi sostenuti e alimentati dal ciborio orientale, che non smette ancora di riverberare pene di storia, cultura e credenza secondo i ritmi e le vestizioni dei “pappagalli parlati”.
Sono questi ultimi i preferiti e nessuna figura di genere, si rende conto di quanta pena incutono, in ogni manifestazione dove appaiono, sin anche per associare eventi anomali a lunghi storici ancora resilienti lungo le vie del centro antico dove appariscono gli ’Ouroboros: i serpenti o draghi che si mordono la coda, formando un incatenato cerchio, associato alla dea Igea che si ciba del sangue del rettile superiore.
Una delle espressioni più pregnanti e che rappresenta il processo alchemico senza fine di questo luogo ameno, si palesa nella inconsapevolezza degli astanti che approvano con incoscienza del valore in disunione che si sparge, per opera di quanti dovrebbero amministrare unione solidale, in questo storico luogo di transito in preghiera.
Ma la cosa più penosa è l’averla apposta proprio in quel quadrivio o croce rovesciata, dove era lo sversamento del malefico già indirizzato, al prescelto odei prescelti.
Atanasio arch. Pizzi Napoli 2025-05-21