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TERRA DI SOFIA MERITA RISPETTO DEL SUO STORICO TRASCORSO NON ARCHI COLORATI Mosë bënj pishialljoka kijò hësthë mendja jonë

TERRA DI SOFIA MERITA RISPETTO DEL SUO STORICO TRASCORSO NON ARCHI COLORATI Mosë bënj pishialljoka kijò hësthë mendja jonë

Posted on 15 giugno 2025 by admin

Terra di SofiaNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Terra di Sofia non è un Paese Hora e tantomeno un Borgo, ma Katundë della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, tra i più solidi, significativi centri antichi di tradizioni, in linea con i canoni finalizzati ad attuare e sostenere integrazione.

Vicoli, chiesa, icone, archi, orti botanici e piazza senza uscita, conservano gli echi della storia di un popolo fiero e, sapientemente conservatore della propria lingua, la fede, i costumi, la memoria delle proprie origini e gli ideali di uguaglianza.

Per questo non è saggio proporre e allestire le prospettive degli spazi pubblici, imbrattandoli con lacunosi episodi privi di senso comune, spesso realizzati senza alcun senso di condivisione civica nel rispetto storico di quel luogo ameno.

Non si tratta di arte urbana o di espressione culturale, ma di atti impuri che offendono la bellezza e la dignità della Terra di nostra patrona Sofia.

La memoria di un popolo si conserva prima di ogni altro adempimento, nel decoro dei luoghi e, il prodigarsi in attività di riguardo della storia.

Il tutto finalizzato a tutelare e proteggere il patrimonio culturale unico di uno specifico luogo, specie se poi largamente divulgato e noto a tutti i generi, fatto non solo di edifici vernacolari e tradizioni, ma anche delle prospettive innovative qui pensate, immaginate e vissute, lasciando episodi di storia in sacrificio da tramandare per essere esempio della società moderna.

Chiediamo a tutti i cittadini, giovani, anziani e visitatori della breve e lunga sosta, che qui giungono per conoscere storia, di avere a cuore questo luogo e i suoi luoghi ameni, e quanti amano o dicono di adulare la Terra della Patrona Sofia, non devono violarla in alcun modo ma si devono adoperare per valorizzarla e, dare solida certezza per il futuro.

Qui sono stati depostati numerosi cuori pulsanti arbëreşë di Calabria, questo è un luogo che custodisce storia ricca di tradizioni, fede e cultura.

Tuttavia, è anche teatro di atti che ne minano decoro e rispetto del collettivo patrimonio e, “archi privi di colori significato e rispetto locale” appaiono senza attinenza, su muri, porte e portoni, contaminando le antiche prospettive della storia, deturpando il pubblico luogo che racconta e ancora oggi sostiene integrazione.

In questo contesto, è fondamentale ricordare le figure che hanno contribuito a plasmare l’identità culturale e civile del Katundë come il fervido e libero pensatore dell’Italia preunitaria.

Professore di latino e greco, preferito nella capitale del regno perché le sue idee erano parallele identitarie agli ideologi del 1799 e, divennero emblema sociale, intellettuale e civile della comunità arbëreşë senza esclusione alcuna, se non i malpensanti.

Accanto a lui, va sicuramente ricordato Mons. F. Bugliari, che ha ricoperto ruoli significativi nella Chiesa calabrese, diventando vescovo e, distinguendosi per il suo impegno nell’educazione del clero e nella promozione della cultura, e le tradizioni arbëreşë.

Diventa quindi dovere di noi tutti come comunità, proteggere e rispettare i luoghi che raccontano la storia e, fermare gli atti di vandalismo, che non solo deturpano l’ambiente, ma offuscano anche la memoria di chi ha contribuito a costruire l’identità di questo Katundë, diventata fulcro culturale della regione storica degli arbëreşë.

A tal fine difendere il nostro patrimonio significa onorare il passato e trasmettere alle future generazioni un’eredità di cui essere orgogliosi, ma senza aggiunte inopportune che per come vengono realizzate sono di elementare estrazione popolare che sfugge sin anche ai “percorsi lavinai del turismo di massa” o mercatali dirsi voglia, che non certo approda in questi luoghi per vedere tutta questa inutile pena senza vergogna.

Questo Katundë, non è il semplice borgo come raccontato dai meno saggi o multimediali appariscenti, ma un centro antico culturalmente vivo della regione storica arbëreşë, in tutto una culla di storia, di fede bizantina e memoria collettiva del meridione italiana che corre parallelo al fiume adriatico sino allo Jonio.

Tuttavia non sfuggono a noi tutti, muri imbrattati senza significato e senza memoria storica di quei ben identificati luoghi, tutti che offendono la dignità di prospettiva e di chi l’ha costruito nei secoli.

Un insieme di elevati organizzati secondo metriche del bisogno e della necessità e, il solo lasciarle apparire come vennero assemblate, restituisce valori materiali e immateriali, che la semplice pigmentazione a tema moderno non può mai raggiungere, comprendere, perché vela ignota che adombra la storia.

Questo paese è terra del prete, scelto da Carlo III, qui a discapito di tutto il regno, poi di vescovi e pensatori, patria di figure straordinarie, tra i più fervidi liberi pensatori dell’Italia preunitaria.

Intelletti civili e religiosi di raffinata radice, greca posto alla guida della Real Biblioteca Borbonica, poi coinvolto nei moti giacobini del 1799, tutti illusti che per il loro pensiero liberale e coerenza morale, furono chi arrestato, torturato e infine ucciso a Napoli e chi vilmente trucidato nel suo parse natio, perché sapeva.

Una ferita storica ancora aperta e che il 18 agosto 2022, una lapide depositata per ricordare chi tradì, per coprire quella vergogna e poi fece assassinare l’unico testimone scomodo, colpevole solo di conoscere la verità.

Poi venne il figlio di Anna Maria Pizzi, anche lui vescovo e figura di rilievo nella storia della Chiesa italo-albanese di Calabria.

La sua nomina rappresentò un tentativo di ripristinare l’ordine e la funzionalità del solido istituto ormai allo sbando lopeziano e, che attraversava periodi di crisi e disorganizzazione.

Il Collegio, fondato per la formazione del clero delle comunità di rito bizantino, aveva subito numerosi cambiamenti e difficoltà, con la restaurazione borbonica, la situazione non migliorò significativamente, e il Collegio rimase in uno stato di disorganizzazione.

Tuttavia il geniale figlio di Anna Maria Pizzi, sebbene non avesse frequentato da giovane questa storica istituzione, fu scelto per la sua preparazione teologica, la sua integrità morale e la sua esperienza nell’insegnamento.

La sua nomina mirava a ridare slancio all’istituto, riorganizzando la didattica, migliorando la gestione economica e restituendo prestigio dell’istituto e, nonostante le difficoltà iniziali e le resistenze interne, il suo impegno portò a una parziale riorganizzazione di quel presidio di cultura.

Tuttavia, la sua presidenza non fu priva di controversie e, alcuni membri della comunità locale e del clero ritenevano che la sua nomina fosse stata una decisione imposta dall’alto, senza una consultazione adeguata delle realtà locali. Queste tensioni portarono, nel corso degli anni, a discussioni sulla gestione della scuola ormai anche senza forchette nella mensa scolastica e sulla necessità di una sua possibile scissione in tre entità separate, al fine di migliorare l’efficienza e l’aderenza alle esigenze delle diverse comunità arbëreşë.

Il figlio di Maria, continuò a svolgere il suo ruolo fino alla sua morte e, la sua figura rimane significativa nella storia della Chiesa arbëreşë di Calabria, simbolo di un periodo di transizione e di tentativi di rinnovamento in un contesto di sfide politiche e sociali.

Questi eventi ci parlano ancora oggi e ricordano il valore della coscienza, della cultura, della verità, per questo grafitare i muri di terre di Sofia che non sono meri elevati per essere velati di incoerenza che diviene insulto, diretto e centrato, alla storia arbëreşë, indirizzata verso il cuore dei nostri padri.

Ragion per la quale, rispettiamo le Terre di Sofia e, quanti amano davvero questo Katundë, non lo devono attingere con pennelli roventi, perché hanno avuto il mandato/dovere di sostenerlo candido e pulito, in quanto eco o riverbero di pensiero nobile che qui si annida da scoli e sostiene le ragioni del vivere civile in forma candida

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                              Napoli2025-06-15

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GERMOGLI INNATURALI ARBËREŞË FIORITI PER RESTANZA IN TERRA E AGRO LAGRIMOSO (nà jèmì fàrë arbëreşë pà bègàrë skipë)

GERMOGLI INNATURALI ARBËREŞË FIORITI PER RESTANZA IN TERRA E AGRO LAGRIMOSO (nà jèmì fàrë arbëreşë pà bègàrë skipë)

Posted on 11 giugno 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I luoghi della memoria all’interno dei Katundë, le pertinenze dei cunei agrari di produzione, trasformazione e conservazione, non sono idoneamente tutelati a memoria di garbo e compiutezza storica, per il continuo violarne o velarne, il senso ad opera di ricercatori non titolati.

Tuttavia una deriva così imponente come oggi in atto, non aveva mai adombrato cosi tanto questi luoghi ameni e, mai capitato di vedere tanta continuità lagrimosa di luoghi e di cose Arbëreşë.

A tal propositi si vogliono citare gli esempi più eclatanti come l’aver perso il lume di credenza di Atanasio Patriarca con quelli di Attanasio Vescovo degli Ebdomadari, affidando sin anche il secondo a vili indigeni, per fare penitenza e devozione; o usare fonti storiche per generare recinti sociali di fratrie sostenibili, terminando di compromettere i parametri storici di Iunctura, scambiati per icone o tele per grafitare storia alloctona; senza dimenticarsi del luogo simbolo della pena locale esaltato in favore del Caino Arbëreşë, in elevato alto di fanfara, allestito come manifesto per ricordare che esiste il male assoluto; o utilizzare la piazza come purgatorio del popolo, con toponimo utile a riecheggiare lamenti della sposa ancora di candido biancore di gravidanza.

Questa è oggi quello che un tempo fu “Katundë” e, doveva essere, per le scelte fatte dai preposti praticanti politici: un gioiello; e chi ha creduto che era meglio preferire chi assembla cattedra, senza allertarlo quando avrebbe ricevuto  il “pacco”, come facevano e dicevano quanti conoscono le dinamiche della nostra società Furcillense, diversamente da quanti fanno bottega isolandosi dal mondo e dai lavinai che scorrono di fianco, escludendo quanti hanno vissuto e conoscono cose, i quali siccome lasciati fuori o esclusi con cattiveria, non hanno avuto modo o spazio per avvertire ed evitare le malefatte.

Sono un ricercatore delle cose materiali ed immateriali attribuite alla minoranza Arbëreşë, animalizzo, studio, annoto e scrivo da oltre quattro decenni, i risultati di ricerche storiche, confrontando dati e, accertarne memoria storica, in questi luoghi vernacolari di cui sono unico e solo Olivetano.

Nel mio “storico laboratorio, oggi di fronte l’antica fratria partenopea” sono depositate, opere editoriali di ogni genere e categoria, da me condotte e regolate, non perché sia una figura egocentrica, ma operoso di un pensiero antico compilate nelle forme che sento immagino e penso in lingua madre, secondo la forma di parlato arcaico, più antica del vecchio continente.

Lo stesso che ancora oggi è possibile esternare, ma solo da quanti sentono e sanno parlare in “Arbëreşë Assoluto”, appreso, allevato e conservato nella mia mente in luogo di frontiera di terra, oggi denominato secondo la toponomastica riversa non: llëmë lljtirë.

Le istituzioni ad oggi, perché poco preparate e, maliziosamente tacciono i propri adombrati principi, per dare la scena a mendaci ed ingrate osservazioni, affinate dalla  inconsapevole platea di stranieri che, fuggendo le nebbie, le miserie e, le turbolenze delle loro contrade, non han potuto altrove trovare agio, sanità e, quiete, come sotto il nostro amenissimo clima, che sostiene e protegge le nostre dualistiche leggi morali in forma di anomala restanza, palesata fra le migliori mendaci ad assistere il distratto viandante della breve sosta che non torna più indietro a recriminare la pena inflitta.

E non certo affidare il sostegno della credenza a estranei crescisti all’ombra di minareti, che hanno potuto godere dei benefici della negazione della propria radice, perché convenevolmente estirpano danari, e fare percorsi di devozione e credenza per apparire convertiti.

A rivendicare, dunque, il decoro dei nostro ingiustamente malmenati luoghi di studio e di formazione, rendesi necessario un manuale che metta con chiara parsimonia, ogni veduta dello stato fisico e morale, in modo che, anche uno svagato lettore, che voglia solo deliziarsi di materia e curiosità, sia quasi costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi nello stesso tempo quelle notizie che in un centro antico, rendono facile l’acquisire tutte le comodità che fan la vita dilettevole e degne di essere vissute, perché colme di accoglienza di abbracci materni.

Ogni cittadino si suppone sia sufficiente istruito nelle istituzioni e di tutte le cose notevoli del paese. Tuttavia per accreditare, si fatta supposizione serva e gli si offra un mezzo indispensabile per ricordare, veramente e riconosce le cose notevoli per apparare, se mai, le tante ignorate. E per coloro che, nati nelle province senza abbracci geografici, che non abbiano potuto ancora visitare la capitale del regno, riuscir dovrà certamente piacevole il leggere la descrizione dei monumenti e delle singolari prospettive che vi si ammirano, ed essere o meglio diventare una guida per quando si recheranno e, se tale scopo giunge col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che potrà vivere di agio e conoscenza futura.

Come si può ben vedere la citazione di F.S. B, del 1854 relativa al centro storico di Napoli, calza isoneamente ad ogni luogo di studio.

Se in una comunità arbëreşë, si perde il senso della credenza al punto tale di confondere e miscelare cose civili e di credenza; in tutto i lasciti di memoria storica racchiusi nella piazza, il cuneo votivi e la chiese, deve essere con urgenza rivista l’ostinazione della vendetta portata costantemente in processione dal 28 febbraio del 1985 e, abbisogna far rientrare con devozione, in questo luogo di peccato o inferno dirsi voglia, il solo, unico e indivisibile protagonista in grado di recuperare il senso cristiano, ormai compromessa e portato allo stremo dalle Jannare e dai figli nati, allattati, cresciuti e vissuti tara i quattro calli ascensionali e il noce adombrato.

Il tema a titolo, apre una prospettiva molto chiara dello scenario e, gli attori, che da tempo stanno sminuendo il valore storico del modello di integrazione più solido e duraturo del mediterraneo, devono esser riportati nelle disponibilità  dell’originario senato delle donne nelle Gjitonie, sostenuto dal governo degli uomini, da qui sino all’agro più recondito dove sudore e forza di animo saranno in grado di seminare, far germogliare qui frutti antiche che erano il trittico dell’integrazione fatta in casa dagli arbëreşë.

Solo così si potrà rispondere con adeguate scelte di sistema all’interno dei centri antichi arbëreşë, onde evitare il paradosso verso il patrimonio edilizio e culturale, che rappresenta un’identità secolare unica in tutto il mediterraneo.

Tuttavia gli interventi urbanistici o edilizi se non coordinati o, realizzati senza un piano integrato con specifica mira di valorizzazione che tenga conto delle caratteristiche storiche e culturali di ogni ambito specifico.

Ciò avviene sin anche quando sono disponibili risorse adeguate, le quali, non sempre vengono usate efficacemente, in quanto manchevoli di competenze tecniche o progettuali specifiche nëdë Katundë.

E gli abitanti spesso non percepiscono il valore storico delle architetture tradizionali vernacolari e delle epoche successive, preferite al “nuovo” o il “funzionale”, sacrificando l’esigenza della memoria storica.

Va in oltre rilevato che il calo demografico in molte aree porta a un abbandono del centro storico e alla costruzione in periferia, producendo degrado, ruderi e perdita d’identità.

Molti comuni non hanno strumenti uomini e risorse di genio per pianificare lo specifico, non coinvolge cittadini, architetti, storici e giovani del posto, che dovrebbero essere memoria e manualità.

Tuttavia va ribadito che l’identità arbëreşë non è un marchio culturale e turistico e, i centri storici non devono esse esclusivo per la mira ad esser poli attrattivi per il turismo del viandante ma biblioteche e musei a cielo aperto dove la culturale e la residenzialità lenta, possa mostrare le prospettive e il valore del patrimonio edilizio da condividere con buone pratiche e fare massa critica nell’accesso ai fondi pubblici.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-06-11

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L’ARCHITETTURA DEL BISOGNO DELLA DONNA E IL COSTRUITO DELL’ UOMO IN ABBONDANZA  (Jëmë e jatràtë satë bëgnenë thë ngruituratë tònà)

L’ARCHITETTURA DEL BISOGNO DELLA DONNA E IL COSTRUITO DELL’ UOMO IN ABBONDANZA (Jëmë e jatràtë satë bëgnenë thë ngruituratë tònà)

Posted on 01 giugno 2025 by admin

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NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il confronto quotidiano tra generi e, vissuto negli ambiti della regione storica diffusa in Italia degli Arbëreşë si sosteneva seguendo le linee consuetudinarie con finalità del progredire dei generi e, il ruolo delle donne aveva spazio in autonomia dal focolare della casa sino allo spazio ideale denominato Gjitonia, con ruolo di regina del fuoco e della casa.

Mentre l’uomo aveva spazio di competenza e reggenza, dal confine ideale Gjitonia, dove erano le botteghe artigiane, oltre le terre dell’agro, avendo competenza specifica dei cunei agrari di produzione e trasformazione dove erano i limiti più estremi del territorio comunale.

 Questi due sistemi paralleli di genere donna e uomo, assumeva e svolgeva, ruoli specifici in forma di radice e di fioritura sostenibile, per il modello di Iunctura familiare, della minoranza arbëreşë.

Due sistemi paralleli e coesi, in cui le due parti raffiguranti il matriarcato e il patriarcato, assumevano ruoli specifici, senza mai sovrapporsi o creare attriti, rimanendo per questo efficienti senza soluzione di continuità per secoli, in tutto lo stesso modello che oggi la società moderna cerca di imitare, ma purtroppo senza alcun successo per la sovrapposizione incontrollata dei due generi.

Casa e Gjitonia era il luogo dove la donna progettava e architettava ogni cosa, per poi affidare all’impresa degli uomini l’eseguire e materializzarle il richiesto, diversamente negli ambiti estremi della Gjitonia sino ai confini comunali, di pertinenza de Patriarcato preposto ad architettare, sotto la consulenza e la rifinitura collaborativa con protagoniste il Matriarcato.

Quando oggi si cerca di esporre o presentare un elemento di architettura si usa riferirlo a epoche illuminate al genio del proprio momento a cui fa più comodo riferire, di un solo ed esclusivo genere.

Tuttavia esiste un tempo in cui il bisogno degli uomini compilava edificati vernacolari, in funzione del bisogno progettato dalle donne, non certo per forme di abbondanza, ma esigenza allo stato puro.

Questi due modi distinti di edificare hanno alla base l’assenza e la presenza della figura che oggi valorizza o demolisce una struttura di rilievo, ovvero l’architetto.

Analizzare le due modalità opposte per concepire, progettare e innalzare manufatti per vivere i sistemi del bisogno o economici, sociali e culturali, pone l’esigenza, di sottolineare e distinguere in chiaro, i momenti di donne e uomini che fanno architettura.

Se gli Arbëreshë vivono Katundë sostenuti da valori condivisi dalla donna e dall’uomo, secondo una prospettiva di vita familiare, in regola comune, che prende forma ideale nella Gjitonia, perché capace di razionalizzare valori materiali ed immateriali, alla pari dei complessi monastici dove vigeva il principio della Llighjia.

A tal proposito si potrebbe ipotizzare che la nascita del razionalismo architettonico, si ispira al governo delle donne sostenuto dal senato degli uomini.

E se San Leucio in Campania come altri complessi in Francia e Inghilterra nascevano su principi di uguaglianza sociale, lavoro collettivo e progresso civile, senza tralasciare o sminuire gli esempi più recenti come i Sassi di Matera e il complesso di Le Mortelle, dove il razionalismo moderno non ricevette l’approvazione del governo delle donne, che minacciava di ritornare a vivere nelle grotte, cosi come in tutti gli esempi di edilizia popolare progettati dagli uomini e, nel corso del vissuto delle donne, subirono modifiche e cambiamenti distributivi in forma di superfetazione migliorativa.

Erano i primi anni degli anni sessanta e in un Katundë Arbëreshë della Presila greca, venivano assegnate quattro unità abitative ad opera dell’Ina Casa e, Carmela accompagnata dal figlio, orgoglioso della nuova casa assegnatagli, si senti spegnere l’entusiasmo dalla madre, con la frase: chi ha potuto concepire e realizzare una casa priva di un camino per fare focolare? 

Considerando che l’Architettura del bisogno o vernacolare, si fonda su scarsità, necessità, funzionalità essenziale, guidata dal principio del “quanto essenziale”, spiega anche il perché ogni rione quartiere nato per sodisfare un bisogno sociale non viene considerato alla pari delle architetture dette maggiori.

A tal fine va rilevato che ogni elemento ha una funzione chiara e indispensabile, seguendo il principio di minimizzare gli sprechi e, avendo cura dell’uso oculato delle poche cose poste in essere.

Il tutto come avveniva nelle case dove le risorse e i materiali diventavano fondamento del vivere dignitoso e ogni cosa era incline alla durabilità e alla manutenzione ordinaria.

Essa nasce spesso in contesti di emergenza, crisi, o marginalità e, l’estetica diventa subordine della funzione.

Diversamente avviene con l’Architettura dell’Abbondanza, la quale si basa su opulenza, esuberanza, disponibilità di risorse, le cui finalità sono di natura rappresentativa o simbolica.

E per questo le caratteristiche formali estetiche e dell’uso risultano essere ridondanza e decorazione più del necessario, con finalità estetiche o simboliche finalizzate all’apparire.

Poi se a questo associamo l’uso di materiali pregiati in ampio e largo uso, così come sono esose le risorse e le lavorazioni complesse degli elementi formali ed estetici.

Da ciò, l’architettura dell’abbondanza, nasce quasi sempre sulla base di progetti che hanno il fine di stupire o celebrare, affidandosi all’uso di tecnologie avanzate o sperimentali, generalmente mirano a valorizzare le prospettive dei contesti di benessere, potere, o consumo.

Il principio su cui si basano i progetti hanno finalità che preferiscono l’estetica, la forma che poi diventano predominante sulla funzione e, rendere il manufatto espressione inconsulta del mondo che dispone le cose secondo una visione verticale, ruotando sin anche la tipologia di bosco naturale di collina.

Le espressioni “architettura del bisogno” e “architettura dell’abbondanza” sono di solito utilizzate in modo concettuale per descrivere due approcci opposti nella progettazione architettonica e urbanistica, riferendoli in sostanza al contesto socioeconomico, culturale e ambientale.

Con una certa tradizione nella critica culturale di genere, la quale mira a sottovalutare con finezza i due paralleli di genere, anche se la storia non contraddice il teorema secondo cui “l’architettura del bisogno” è delle donne e quella dell’abbondanza è degli uomini.

Giacche si evidenzia una metafora politica e sociale, che qui si vuole esporre con cautela storica, per evidenziare la regola assoluta dal dualismo di genere, politico e di credenza vissuto.

A tal scopo va rilevato che storicamente, le donne sono associate alla cura, alla casa, al quotidiano e, alla gestione del necessario.

E per questo il progetto che parte “dal basso”, finalizza e sodisfa bisogni indispensabili, relazionali e comunitari, che avvicina a un modo di pensare più relazionale e meno egocentrico, lo stesso riconosciuto da alcune teorie delle prospettive femminili.

Altra forma assume l’architettura dell’abbondanza, quasi sempre espressa attraverso gestualità o espressioni grandiose, monumentali, autoriali, se non talvolta narcisiste, legate a logiche di potere, in visibilità e dominio dello spazio storicamente associati ai modelli patriarcali.

Da ciò si può sintetizzare che mentre l’architettura del bisogno diventa essenziale e rispettosa delle cose naturali che accoglie dispone il necessario che diventa tema prioritario.

L’architettura dell’abbondanza diventa un riassunto che accavalla e richiede sempre un compromesso naturale o effetti collaterali necessari.

Tuttavia bisogna rimanere cauti ed attenti, perché non si tratta di una distinzione biologica, né tantomeno essenziale o generica, perché non tutte le donne progettano nel primo modo, né tutti gli uomini nel secondo.

In quanto il teorema è una distinzione culturale e simbolica, che riflette le asimmetrie di potere nella storia dell’architettura di cui la società è intrisa di entusiasmo.

Ci sono architetti uomini che progettano con un’etica del bisogno e donne archistar che fanno architettura spettacolare, sin anche seminando dissuasori nello sviluppo planimetrico delle piazze, immaginando che possa essere anche strada.

Resta un dato fondamentale ovvero, la storia dell’architettura è stata scritta quasi esclusivamente dagli uomini, per uomini, e secondo logiche di potere maschile, ma chi segue e indaga ogni momento della storia sa che l’origine del costruito era una volontà femminile.

Per secoli, le donne erano escluse dalle scuole della ricerca di architettura e dai grandi cantieri dove, le figure dominanti nella disciplina sono state (e in gran parte sono ancora sono) uomini.

L’architettura celebrata, finanziata, pubblicata e premiata tende ad essere spettacolare, firmata e, visibile con caratteristiche legate a un approccio dominante maschile.

Le poche donne archistar hanno dovuto operare dentro logiche maschili per essere accettate, anche se non si escludono casi di spazi pubblici compromessi perché intesi simili al percorso da casa a chiesa.

Tuttavia un dato è incontrovertibile che, l’architettura dell’abbondanza nasce e si afferma in un sistema di valori patriarcale.

E l’architettura e sin anche l’urbanistica del bisogno, e riferisco di quella meno nota, che poi è fatta di concetti scaturita dalla collaborazione finalizzato e attento al quotidiano come storicamente delle donne, è più vicina a un approccio, almeno culturalmente di pratica femminile.

In quanto le donne hanno avuto maggiore spazio in pratiche marginali e, questo dato, evidenzia una disuguaglianza strutturale nella cultura del progetto specie quando diventa pubblico, dove il potere di decidere è stato a lungo in mano a una parte sola della società.

La stessa che ha modellato le città e gli spazi abitati secondo valori spesso non inclusivi, infatti analizzare un progetto o una città da questa prospettiva di genere.

Come parlare delle figure femminili “rimosse” o invisibili nella storia dell’architettura, riflettere su come cambierebbe l’architettura se fosse guidata da altre logiche (di genere, ma anche di classe, etnia, ecc.).

Cosi come la storia del Grand Tour che nasce intorno alla metà del XVII secolo (1600) e rimase in voga fino all’inizio del XIX secolo (1800), particolarmente popolare tra i giovani aristocratici inglesi, ma anche francesi, tedeschi e nordici.

Il valore del Grand Tour per gli uomini, serviva a completare la formazione con lo Studiare arte, storia e cultura classica (soprattutto in Italia e in Grecia), alla ricerca di relazioni utili per la carriera politica, militare e sociale.

Per terminare questo breve, con cognizione di causa va aggiunto il valore del Grand Tour degli uomini di cui l’Italia intera venne interessata, diventando un museo o biblioteca a cielo aperto per la formazione in valori artistici, letterari e sociali per comprendere e apprezzare meglio la vita mondana.

Diversamente è stato il tour delle donne le quali pur avendo mira di accedere a circoli intellettuali europei, esse, usavano confrontarsi in maniera costruttiva con le donne dei Katundë montani e, nelle borgate dei gradi entri antichi, con le pari di sesso, annotando o vivendo momenti molto costruttivi, affinando il ruolo di madri o future madri che avrebbero rinnovato o rivestito al loro ritorno.

Quindi anche in questo caso se per gli uomini, il Grand Tour era educazione, status e preparazione alla vita pubblica.

Per le donne, era pur essendo una esperienza più rara, comunque diventava un’opportunità di emancipazione culturale e personale, di confronto con luoghi che erano palcoscenico di una dimensione ricca di umanità e ideali e non di lumi dorati ottenuto con le pene di quelle realtà di viaggio.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                       Napoli 2025-06-01

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C’ERANO UNA VOLTA ANCHE I PAESI ARBËREŞË (hishjn gnë gherë edè katùndètë arbëreşë)

C’ERANO UNA VOLTA ANCHE I PAESI ARBËREŞË (hishjn gnë gherë edè katùndètë arbëreşë)

Posted on 30 maggio 2025 by admin

Ascolto e parlatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il tema a titolo è un dato di fatto palesemente inconfutabile, da cui si coglie il valore odierno del focolare domestico, non più amministrato dalla saggezza materna, che disponeva legna e cenere con garbo e passione, per ottimizzare luce e calore, diversamente di fochisti inconsulti odierni, che non rispettano neanche la radice domestica, in essenza di Erica, dei cui rami e germogli igienizzavano casa e ambiente circostante.

Così accade anche per la vestizione dei generi, che non segue in alcun modo, manifestando l’itinerario di colori e rappresentanza all’interno della casa, a iniziare dalla culla e poi lungo la Gjitonia, sino alla chiesa.

Ed era in questo microcosmo, dove le cose di bimba, giovane, sposa, generavano la madre e la scuola, secondo un protocollo di vestizione e movenze, senza altri fini, come oggi si usa fare in musei e lungo le vie dove si portano i Santi, in processione, suggeriti da comuni viandanti distratti o, della breve sosta, che non sanno né parlare e né ascoltare storia in arbëreşë.

Questi sono i principi di parlato, ascolto e di movenze, a cui sono stati sottratti i valori della formazione ormai allo stremo e, da cui si evidenziano le note lagrimose.

Di queste va evidenziata  la perdita del ruolo storico, dalla parte bassa e di quella alta di ogni Katundë; la dismissione delle attività del centro antico con l’esigenza di allargare i vicoli di ogni rione per parcheggiare negli storici orti botanici; l’uso dei grani cellulari, che ha compromesso il valore dei cunei agrari; dismesso le fontane storiche; appiattiti i ruoli di credenza e di amministrazione; posto a termine il senato delle donne e, il parlamento degli uomini; le prospettive storiche sostenute dalle briciole di minoranza che rendono questi luoghi privi di ogni giustificato valore o forma unitaria, per essere riconosciuto come pane di tempo e lungo.

L’alimento fondamentale che con olio e vino, sfamava i bisogni del passato, senza che vi fosse bisogno del dualismo centrale delle insalatiere, che emanano essenze in grado di deteriorare il fondamentale alimento di coesione e credenza locale ormai compromesso.

Oggi rimane la memoria offuscata di queste storiche immagini, giacché i Katundë di minoranza arbëreşë, non avendo mai avuto il bisogno di scrivere o appuntare il valore di questi adempimenti sociali di memoria antica, vivevano di memoria e di storia condivisa.

Certamente associare immagini a sgrammaticati sostantivi, che non trovano agio nella pronunzia e nella movenza del corpo, il tutto associato a un alfabeto che non illumina la mente per associare immagini dall’alfabeto, come storicamente è accaduto alle civiltà secoli orsono.

Infatti chi non conosce la storia della scrittura o della memoria di scambio e formazione di segni, non può e non deve avvicinarsi a questa storica evoluzione, immaginando che fermare con scatti le immagini, possa illuminare gli arbëreşë, con quel lampo che acceca mente e occhio e non certo illumina le nuove generazioni, che incuriosite vanno verso il buio del varrone.

Tuttavia quanti siedono negli scanni di gestione civile e di credenza, non creano cose e momenti capaci o in grado di raccogliere e diffondere memoria, ma momenti di breve sosta per i viandanti a cui non serve essere illuminati o formati, come avviene con le generazioni di leva odierna, secondo atti di frenetico affanno, perché orfani del senato delle donne che sono più volte madri, come era uso fare un tempo.

Questi due momenti di tempo lento dei Katundë e la frenesia del moderno agire, ha generato un polverone che invade tutti i piccoli centri antichi arbëreşë, delle colline del meridione, facendo così scomparire per inadeguatezza delle nuove generazioni, il modello della stagione lunga e quello della stagione breve, appiattendo ogni cosa con le più moderne quattro stagioni.

Titoli accademici di comuni istituzioni o inadeguati percorsi di formazione di breve durata, assegnano titoli averne senza un protocollo di frequenza o confronto con la realtà delle cose, come era uso fare nell’antico protocollo gestito dal senato delle donne e, poi affinato e accompagnati del costruito degli uomini, in tutto un traguardo ambito e imitato ad oggi, senza avere misura di questo storico protocollo fatto di tempo lungo e parlato.

A oggi si persegue il fine di fare “icone diffuse” in ogni varco di porta un tempo nobile o “grafitare” le storiche prospettiva dei vernacolari centri antichi.

A tal proposito va specificato che questo genere di opere è fornito e accolto, di quanti non trovano agio nei propri ambiti o chi dice di essersi formato fuori e fa restanza, la stessa che serve solo ad affollare inutilmente gli scanni di un ideale che non si conosce come: “kushëtë i Katundë”, dove si riferisce e si immaginano cose lljtirë; che tradotto in Italiano corrente rappresenta la lettera scarlatta (per chi professa la credenza imperiale d’occidente).

A oggi sostenere che le genti arbëreşë, che approdarono nel meridione fossero i discendenti delle armate di Brancaleone, rileva la misura della poca attenzione che alcuni istituti hanno formato gli addetti che dovrebbero o avrebbero dovuto fare resilienza e formazione per le nuove generazioni

A tal proposito è il caso di precisare che gli arbëreşë, a differenza della moltitudine delle genti che qui venivano per trovare agio, rappresentano l’unico esempio di integrazione mediterranea e, valore riconosciuto sin anche dagli indigeni più elevati,

Questo dà la misura, del valore riconosciuto dalla storia agli arbëreşë e, in ogni secolo a venire dalla nascita di Gesù che sono un popolo dalle mille attitudini di operosità senza rivali, specie nel rispettare la natura e il valore mai violato per la memoria e la storia dei luoghi da essi bonificati perché abbandonati.

Al giorno d’oggi i cultori locali, la cui formazione llitirë, è allevata nei dipartimenti più estremi, per poi subito tornare e fare restanza di labile statica, credendo di conoscere gli “ingredienti” storici senza alcuna conferma se non i derivati dell’Albanistica moderna, e di tutte le sue varianti scrittografiche, inopportunamente inserite nel protocollo storico, di resilienza arbëreşë, lo stesso che intanto producendo un paragone al pari di chi vorrebbe: il Latino come una lingua che nasce e si sviluppa grazie al Moderno Italiano.

L’insieme di quanto sino a qui citato, per grandi line, genera Katundë spogli di ogni dimensione architettonica e urbanistica, come era stato un tempo progettato, sostenuto e suggerito, dal Senato delle donne e terminato dagi anni novanta dalle direttive passate al viandante llitirë che non è cresciuto frequentando le storiche scuole intrise di sensi e passioni che erano riverberate all’interno del modello sociale denominato Gjitonia.

Una memoria resta e segna la storia di ogni Katundë, ovvero, con la dismissione del Senato delle donne che generava Gjitonia e, le libere intuizioni locali senza alcuna radice di genio Arbëreşë sono, la deriva che oggi produce e genera la penosa ascesa a impronta di quartiere metropolitano dismesso.

Resta una via da intraprendere, ovvero quella di dare spazio alle donne, di questi piccoli centri antichi collinari, un tempo definiti Katundë Arbëreşë, secondo un nuovo modello di gestione assegnando funzione fondamentale a donne il ruolo che un tempo era delle madri e nonne sagge, ricreando l’ambiente divulgativo, privo dei minimali protocolli di consuetudini che pochi ricordano o conoscono, ma che tutta la popolazione senza esclusione di alcun genere sogna ancora uno che lei sappia per ritrovare per viverli.

Katundë è un luogo antico che segna la vita dell’uomo da millenni, e qui depositarono i lasciti dei principi di un confronto solidale e movimento fraterno, perché ogni dinastia era unita dalle cose che il tempo e la natura qui stendeva alla luce del sole, facilitando per rendeva possibile il vivere senza patire estremo.

Se noi contiamo gli anelli delle essenze arboree ancora floride in queste riserve naturali, avremo conferma dei millenni trascorsi in solenne equilibrio dall’uomo.

Se questi concetti non sono diffusamente noti trovando velate le ere trascorse, serve conosce chi ha sottratto con metodo questi circolari segni della storia dell’uomo, che garantiscono il corso della storia.

Va in oltre ribadito un dato fondamentale che poi ha determinato il deteriorarsi del valore Katundë, in quanto sino a quanto si tratta di disquisire liberamente dei concetti che sono la radice di questi centri antichi, tutti fan gande uso di valori che indicano chi e restanza perché torna.

Tuttavia poi quando si tratta di fare sul serio e, magari presentarsi davanti a giudici, che devono per legge esprimere un giudizio sulla base di fondamenti storici solidamente dimostrati e, non certo effimeri o ideali su basi di restanza, a presentarsi con fierezza davanti ai magistrati e avere ragione, si distingue solo chi si è formato nei federiciani fondaci Olivetani, continuando a ottimizzare la crescita della pianta del prezioso frutto.

In ragione di tutto ciò si ritiene che ormai i tempi siano idonei a diffondere i principi fondamentali per la minoranza che sostiene i propri valori all’interno dei centri antichi attraversi ideali di iunctura familiare trapassati con il parlato e ascolto.

Tutti questi sostenuti dalla radice del parlato che non è odierno dire Albanistico, in tutto il frutto ancora acerbo, che nessuno riesce a digerire.

Giacché la radice linguistica, inizia dalla individuazione del corpo umano e animale, in fraterna convivenza con l’ambiente natura e quello stella e oltre sino al divino.

Tutto il resto e dogana irregolare passate senza pagare dazio culturale e, poi accreditato agli Arbëreşë; questo un principio che i due grandi fratelli che studiavano il parlato in Europa per unire popoli che si dovevano confrontare con un solo e indivisibile parlato: il cui protocollo, non è da accantonare mai, perché altrimenti si spezza il legame che corre tra mente e bocca, ovvero l’immagine visiva, con le vocali irrequiete del parlato Arbëreşë.

 

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                 Napoli 2025-25-29

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LE REGIONI STORICHE D’ITALIA (Il tema degli Arbëreşë)

LE REGIONI STORICHE D’ITALIA (Il tema degli Arbëreşë)

Posted on 26 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno dei confini nazionali esistono territori dove, a seguito di vicende storiche, politiche, culturali e di credenza, si sono insediate comunità che conservano consuetudini parallele dell’italiano parlato.

Queste minoranze storiche, sono riconosciute e tutelate dall’Europa, lo Stato italiano e dalle Regioni, con specifiche leggi di salvaguardia.

L’indirizzo fondamentale che le direttive prefiggono, non è di “mero divieto alla non discriminazione”, bensì, al “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Infatti il principio su cui si basa l’insieme del parlato di ognuna di queste comunità, ha come elemento unitario l’idioma storico, che non deve essere intesa non come esclusiva “compilazione di parole di libero arbitrio” prive di una radice solida di fioritura.

Tuttavia sfugge il principio secondo cui, solo attraverso “i percorso che predilige la radice del corpo umano dei generi, e poi i germogli di ambiente naturale e la fioriture degli ambiti agrari e il costruito, quest’ultimo privo di ogni forma murazioni di confine o recinto” dei gruppi familiari tutti riuniti in forma diffusa, a quanti, oggi vivono i territori paralleli ritrovati lungo i tanti abbracci che caratterizzano la penisola Italiana.

Ragion per la quale, prediligere il parlato, senza avere nessuna attenzione del canto, la gigolatura alta, i costumi, la credenza con gli atti di devozione nel corso dei secoli, la sostenibilità agrarie a e processi di Iunctura familiare costruiti senza barriere, si finisce per chiudere ogni cosa all’interno di un recinto e lasciar gestire cose al fattore scelto dal padrone.

Ogni regione storica di minoranza in Italia, ha una sua identità, sostenuta nel corso dei secoli, per fini comuni, in tutto la perfetta integrazione.

Tutte queste dodici Minoranze sono esempi solidi del percorso sociale del mediterraneo e quanti sostengono che tutto si possa risolvere in favole e parlate altre; non si rende conto che viviamo in un’epoca in continuo progredire incerto, dove ricordarsi di queste minoranze perfettamente integrate, potrebbe indicare la via per una storia del presente e del futuro molto più serena.

Sminuire le minoranze storiche immaginandole come mille recinti di genere pronti a fare transumanza stagionale per poi tornare nel recinto per belate tutto l’inverno, non è eticamente, culturalmente e storicamente corretto.

Infatti il primo invito solido emanato delle istituzioni sosteneva il “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Tuttavia e a ben vedere dopo i primi secoli di permanenza le minoranze storiche hanno disposto e prodotto gli incentivi dell’integrazione con gli indigeni locali e, se qualche addetto, abbia potuto immaginare che fare scritti e romanza, per unire la minoranza, si potrebbe anche comprendere e capire per i mezzi e le epoche vissute, nel più profondo isolamento oltre a sfuggire alle pene del proprio dire.

Tuttavia esiste una figura alta, che già nel 1775, comparava il parlato Arbëreşë con le lingue indo europee, ancora oggi notoriamente ignorato, per l’incapacità di studio che distingue quanti non si confrontano, in eventi multidisciplinari o con gli Olivetani opportunamente formati o con altre discipline di coerenza storica.

Una delle cose più inopportune dietro cui si nascondono o si isolano gli inopportuni addetti, è la frase “da noi si dice così” in Arbëreşë “na thomj Këştù” un dire diffuso che rende la minoranza episodi isolati che la rendono al pari dei chicchi di grano sparsi nel cortile della casa dove un nobile napoletano raggiro il diavolo che ancora oggi non riesce raccogliere tutti i chicchi si grano, sparsi per vincere raggirare chi mirava al cuore della giovane sposa.

Se fino al 1977 ancora nessuno si era occupato del valore architettonico, urbanistico del Katundë Arbëreşë ed ella case vernacolari, più note come le culle del bisogno, dove accogliere e allevare identicamente il modello sociale che poi si espandeva fuori l’uscio di casa per diventare Gjitonia, o luogo dei cinque sensi, non si comprende dove si voglia arrivare oggi 2025.

Posso capire le forze culturali post medioevali, quelle rinascimentali e poi via via dicendo, ma oggi apparire con le stesse vesti del XVII secoli per apparire più preparati è il segno della deriva che invade e impolvera irreparabilmente i trascorsi degli Arbëreşë.

Questi atti che non sono pochi offendendo le vere figure di rilievo, che i hanno dato la vita alla “storia vera degli Arbëreşë” nonostante siano stati traditi dai propri fratelli e, per questo hanno finito per modificare il senso di termine dei propri cognomi Arbëreşë perché lagrimosi di vergogna.

A tal proposito è opportuno sopralineare che se oltre cento Paesi, Vichi, Terre, Frazioni, Contrade in tutto agglomerati di antica estrazione post medioevale che, hanno potuto essere sostenuti in forma di Katundë, una disposizione nuova di centro abitato aperta, impressa nell’amnio delle genti che vivevano le regioni del meridione Italiano, specie dopo il buio del medio evo a cui seguirono gli abbagli di lume che si riflettono ancora oggi.

Vera resta, il dato che ogni Katundë non è altro che il continuo di un antico centro abitato posto in luogo di agro collinare, e la di cui toponomastica racchiude il percorso di Chiesa, Case vecchie, Moticellje o Kalivë, poi luogo arrivo, di controllo o promontorio, disteso in fine in luogo di confronto e movimento,

Tutti gli oltre cento Katundë di espansione arbëreşë, riuniti diffusamente il 16 macro aree disposte in sette regioni del meridione italiano e se questo è una conferma come fanno alcuni istituti a dire e promuovere il diktat diversificato che incoscientemente fa: “da noi si dice così” in Arbëreşë “nà thòmj Këştù”, è proprio vero: Olivetani si nasce perché nessuno lo può diventare.

La minoranza storica appellata Arbëreşë si potrebbe raffigurare ad oggi, come la voce di un criaturo, che piange nella sua culla, desideroso degli abbracci della madre, per crescere, camminare, parlare e danzare, con il padre pronto ad indirizzarlo e, diventare un solido riferimento per tramandare il sapere e l’arte della memoria storica.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-05-26

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IL VAGARE DI ULISSE “IL FIERO” DI MENOMARE IN OGNI DOVE I PARLANTI ARBËREŞË (Mosëgnerju Arbëreşë)

IL VAGARE DI ULISSE “IL FIERO” DI MENOMARE IN OGNI DOVE I PARLANTI ARBËREŞË (Mosëgnerju Arbëreşë)

Posted on 25 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Polifemo e la sua odissea per la lingua e la sua visione in arbëreşë: Ulisse e i suoi uomini approdano sull’isola dei Ciclopi e trovano la grotta di Polifemo, ma il Ciclope li rinchiude nella grotta e comincia a mangiare due dementi al giorno.

Allora il mugnaio Ulisse offre a Polifemo del vino, molto forte che aveva portato con sé e, il Ciclope Arbëreşë, non abituato al vino del mugnaio matto, si ubriaca rapidamente.

E quando Polifemo gli chiede il nome, il mugnaio Ulisse risponde: “Nessuno” (in greco, “Οὖτις”, “Outis” in Arbëreşë, “Mosëgnerji”) un dettaglio cruciale per tutti i parlanti che mirano al futuro.

Purtroppo questi ultimi sereni nella propria solidità culturale per trovare consuetudine e parola, oggi sono noti come i ciclopi dormienti e fieri del parlato arbëreşë, ma il mugnaio Ulisse e i suoi uomini prediletti, mentre le donne tessono “seteria falsa di costume”, prendono un grande palo di legno, presentandolo per matita e lo appuntiscono, lo rendono incandescente nel fuoco, credendo sia inchiostro rosso, e lo conficcano nell’ugola del ciclope, Albanizzandolo lui e tutti i suoi sottoposti.

La beffa di questo atto, si concretizza nel dato che l’Arbëreşë Polifemo vorrebbe urlare di dolore, ma tutto rimane imprigionato nei suoi lucidi sensi, mentre gli altri Ciclopi, “Nessuno lo aiuta”, credendo che vada tutto bene, mentre la lingua afflitta con mira di consuetudine antica, resa deforme, più non si muove.

La breve metafora Arbëreşë, vuole evidenziare il male assuolato, di quanti approdarono nella baia dei ciclopi Olivetani, per zittire il più forte di questi, che nonostante la sua menomazione, non si cibarsi di farina fatua, la stessa che con il vento che soffia da oriente, vela e inquinato tutta la Regione Storica, che viveva e vive della sana crusca di grano antico che resta ignota al Mugnaio Ulisse.

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L’ARCHITETTO ARBËREŞË SCAMBIATO PER UN PAPPAGALLO MUTO (Iatroj e shëpivet i mòtitë hështë i ruitur si gnë tathëghjellj pà ghjughë)

L’ARCHITETTO ARBËREŞË SCAMBIATO PER UN PAPPAGALLO MUTO (Iatroj e shëpivet i mòtitë hështë i ruitur si gnë tathëghjellj pà ghjughë)

Posted on 21 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il “pappagallo muto” (tathëghjellj pà ghjùghë) è un’espressione o immagine simbolica in grado di assume molteplici significati in ambiti o contesti in cui viene impedito di parlare a quanti potrebbero aprire nuovi stati di fatto.

Vero è il dato che il pappagallo è animale noto per la sua capacità di imitare la voce umana o simbolo del ripete senza cognizione cose, senza ragione se non per imitare il ripetere il perlato insistente del suo padrone.

Un pappagallo muto, sulla base di ciò, rappresenta un paradosso, un’immagine in contrasto con l’essenza stessa dell’animale e, il silenzio imposto o ereditato dalla natura, imiterebbe, una figura simbolica per quanti, pur avendo qualcosa da dire, non riesce o non possono esprimersi nel parlare, perché ritenuto dal padrone inadatto o impresentabile.

In senso più profondo, rappresenta la perdita di identità e l’essere noto, per una disciplina giusta privandolo della giusta scena proprio come accadrebbe per il pappagallo senza parola, che il padrone lo minaccia di chiuderlo nel buio dello scantinato.

Nei contesti artistici, storici o politici, un pappagallo muto può rappresentare chi è ridotto al silenzio da un’autorità che si mostra e apparisce ingenua e, priva di contenuti solidi e indivisibili.

Poi se questo è legato solo a concetti ripetitivi di una stagione lunga carica di frasi che il pappagallo apprende dal suo padrone.

Il pennuto muto è una figura simbolica che raffigura il silenzio innaturale e, la perdita della voce, rappresenta la metafora sociale del ripete meccanicamente ciò che sente, ed è stato ridotto all’impotenza.

Il caso studio del pappagallo muto degli Arbëreşë, tradizionalmente di contesto orale, rappresenta l’interruzione della metafora di tramandare in ambito familiare il protocollo del bisogno primo.

Molti linguisti Studiano e documentano questo modo di discendere, ma di sovente con strumenti tecnici interno del circoscritto mono disciplinare, senza allargare il confronto con storia, antropologia, pedagogia, sociologia, o promuovere un vitale protocollo per la società contemporanea (scuole, midia, politica e confronto), limitandosi ad archiviarla e vocalizzarla con adempimenti che danno ragione al Baffi quando versò calamaio e pennino contro il suo maestro senza formazione alloglotta.

Il pappagallo muto, allora, rappresenta chi parla, ma non nella lingua che dovrebbe studiare e, non la usa per creare cultura viva e diffusa.

Chi conserva ma non trasmette, documenta, cataloga, ma non partecipa attivamente alla rigenerazione sociale e culturale, diventando isola di vita reale, limitandosi a fare analisi morfologiche e fonologiche, ma non affronta il problema della scomparsa del parlato all’interno di una famiglia, in evoluzione.

Usare la metafora del “pappagallo muto” significa “analizzare un codice che non comunica, perché dimentica che le lingue vivono solo dentro i corpi, le storie, le relazioni comuni.”

Il pappagallo che parla a vuoto, ignora ogni cosa perché comunica cose senza alcun filo comune, diversamente dal “pappagallo muto” che rappresenta, quanti non parlano molto e ovunque, perché non hanno bisogno di ripetere cose, ma senza sostanza.

Il “muto” nel senso profondo, rappresenta un vuoto parlante, in contrapposizione a chi ripete, ma conosce, e non da giusto peso al sapere.

In tutto un doppio paradosso, in cui si evidenziano due modelli, in cui il pappagallo che parla molto, non conosce o ha misura di cosa parla e dice.

Il silenzioso diversamente rappresenta tutte quelle figure che tacciono perché conoscono molto e sanno che il potere del suo padrone lo potrebbe isolare e renderlo non più degno di essere esposto, metafora contraria dei ripetenti parlanti.

Il “pappagallo muto” ha per questo diversi significati, a seconda del contesto e, in generale, può riferirsi a individui silenzioso e riservati, ma colti e riflessivi.

In italiano, la locuzione “pappagallo muto” viene usata per descrivere una persona che non parla molto, taciturna, la stessa che generalmente preferisce osservare, ascoltare e tradurre l’ascolto in apprendimento, piuttosto che partecipare attivamente a una conversazione e deviarne il senso di tema o il significato. 

Un’espressione figurata in questo breve vuole riferire a cose che non si vogliono diventino note, perché potrebbero aprire nuovi stati di fatto, gli stessi che non sono contemplati dai principi o antagonisti senza titolo specifico, giacché, “fattori” che si presentano nelle fiere mercatali, come proprietari terrieri, esaltando principi di legalità assoluta anche se in vere, in quanto nulla gli appartiene, a mo’ di oggetto, animale o ideale. 

In molti contesti, “il pappagallo muto” rappresenta, in senso figurato, una figura alta e, gratuitamente spogliata di ogni significativo valore storico culturale, alla pari di un oggetto che non può essere utilizzato, perché reso inoperativo nei palcoscenici della ignobile platea, formatasi tra il lavinaio del Surdo e del Settimo Rendano. 

Certo che dopo decenni di studio e impegno multidisciplinare, finire per essere scambiato come facevano gli acerbi professore in prima elementare che per l’inadeguatezza professionale, perché non a regime la legge per gli alloglotti e, questi non erano in grado di comprendere, se un allievo di prima elementare era muto o non sapeva solo esprimere parole in italiano.

Ma più grave è chi oggi ritiene quella figura altamente formata e colma di valori Olivetari, deve tacere e fare il “pappagallo muto” sin anche nella definizione delle alte eccellenze vissute a Napoli.

Le storiche figure che hanno reso nota la Regione storica degli arbëreşë dal 1775 al 1865 lasciando tutti basiti e senza speranza, perché in attesa che gli inadeguati pappagalli che vagano per archivi e biblioteche allietino i viandanti della breve sosta partenopea.

Terminando con lo svilire il valore storico di oltre cento paesi di minoranza in sette regioni del meridione Italiano, una storia infinita che si rigenera e si sostiene grazie ai tanti pappagalli parlanti.

Gli stessi sostenuti e alimentati dal ciborio orientale, che non smette ancora di riverberare pene di storia, cultura e credenza secondo i ritmi e le vestizioni dei “pappagalli parlati”.

 Sono questi ultimi i preferiti e nessuna figura di genere, si rende conto di quanta pena incutono, in ogni manifestazione dove appaiono, sin anche per associare eventi anomali a lunghi storici ancora resilienti lungo le vie del centro antico dove appariscono gli ’Ouroboros: i serpenti o draghi che si mordono la coda, formando un incatenato cerchio, associato alla dea Igea che si ciba del sangue del rettile superiore.

Una delle espressioni più pregnanti e che rappresenta il processo alchemico senza fine di questo luogo ameno, si palesa nella inconsapevolezza degli astanti che approvano con incoscienza del valore in disunione che si sparge, per opera di quanti dovrebbero amministrare unione solidale, in questo storico luogo di transito in preghiera.

Ma la cosa più penosa è l’averla apposta proprio in quel quadrivio o croce rovesciata, dove era lo sversamento del malefico già indirizzato, al prescelto odei prescelti.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                 Napoli 2025-05-21

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L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA' VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN  VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA’ VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

Posted on 19 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, avrei tratto conclusioni
Credete che per quattro soldi, questa la gloria da gnomi, avrei studiato gli uomini buoni
Va beh, lo ammetto mi son sbagliato, accetto il “crucifige” e così sia
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato per fare architettura

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante
Mia madre non aveva poi sbagliato a dire che: “Un Olivetaro conta più d’un AlbanErrante”
Giovane e ingenuo ho avuto testa, per i libri o il non provincialismo, e non vissuto di vilismo
E tracce di muli e accuse d’arrivisti, i dubbi di qualunquismo, son quello che resta ai peccatori austeri 

Voi critici, voi illusionisti manieri, sonatori severi, alamici infierì, chiedo scusa a vossìa
Però non ho mai detto che con le canzoni si fan rivoluzioni, si possa far ricerca, storia e poesia
Io canto quando posso, perché son intonato, quando ne ho voglia e senza attendere applausi o fischi
Vendere fra i miei rischi e vi illuminerete del mio passato, mentre continuate a insultarvi addosso

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star qua a studiare
Godo molto di più nel confrontarmi oppure a maturarvi o, al limite, a illuminare il buio dei vasari
Se son d’ umore nero allora scrivo, frugando dentro alle vostre dure miserie
Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenere memoria compromessa dalla semina dell’Erborista

Io tutto, io niente, io napulitano, io cultore, io poeta, io mattone, io anarchico, fascista, comunista e sheshista
Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, arberë di mono vista
Io faccio, io perché canto so indagare, io falso, io vero, io genio, io cretino, senza eguali, ma fuori dalla vostra rissa
Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino e, tanta voglia di ricordare

Secondo voi, ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento o concetto di demenza
E ovvio, che il medico dica che “siete depressi” e, nemmeno dentro al cesso avete un vostro momento
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no un qualche metro per dare valore nel trapeso
Compagni il gioco si fa nero e tetro, comprate ogni titolo, qu a forcella lo vendono per poco

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un cinquantone
Voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo l’asinella ma anche il muscone
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso
Mi piace far canzoni e leggere il divino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto

 

https://www.youtube.com/watch?v=u9sHBNUK3iU

 

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“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

Posted on 12 maggio 2025 by admin

forcaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La “Primavera dei Popoli” è l’espressione coniata da Filippo De Boni nel 1848 con la quale voleva sottolineare l’ondata di rinnovamento che attraversò l’Europa.

Gli intervalli storici poi sono molteplici per i quali furono tracciati i momenti di tutta la storia europea, grazie ad un ampio movimento popolare verso i regimi assolutisti, a cui venivano chieste partecipazione politica, diritti civili e indipendenza nazionale.

La “Primavera dei Popoli” per questo rappresenta il rinnovamento politico e sociale, in tutto, una conquista sociale che si andava palesando quando iniziava la stagione lunga, “la Primavera” e le masse uscivano dall’isolamento dell’inverno, “la Stagione corta” rivendicando la fine delle cose assolute, con l’adozione di costituzioni liberali, migliori condizioni di vita e lavoro indipendente.

Anche se molte di queste rivolte sono state represse, esse contribuirono a diffondere l’idea di democrazia, ispirando movimenti per l’indipendenza e il Ricambio Politico Costituito.

In Italia, la Primavera dei Popoli si manifestò in diverse regioni, a Milano, le Cinque Giornate del 1848 furono un episodio emblematico di resistenza contro l’occupazione austriaca, anche in altre città italiane e, in epoche diverse vi furono movimenti o sollevazioni popolari, come a Venezia, dove fu proclamata la Repubblica di San Marco, a Palermo, dove ebbe inizio la Rivoluzione Siciliana, senza dimenticare Napoli. con le famose quattro giornate dal 27 al 30 settembre 1943.

Oltre al suo significato storico, “la Primavera dei Popoli” è diventata un simbolo di speranza e di lotta per la libertà e la giustizia sociale.

Il termine è stato successivamente coniato per descrivere altri movimenti popolari, come le rivolte del 1968 e la Primavera Araba, indicando un desiderio universale di cambiamento e di emancipazione.

Allo stato della memoria storica va ribadito che qualora si innestano le radici per un evento culturale come il Maggio dei Monumenti sceglie un tema simbolico come “il fuoco”, avendo a memoria solo l’elemento naturale, escludendo i significati che il fuoco ha avuto nella storia di Napoli e di tutti i popoli del globo in simboli, storici, culturali e artistici, distrutti o riverberati.

Il fuoco simbolo di energia, ispirazione e forza rappresenta l’anima che anima o incendia, distruggendo la cultura e l’arte, quando questa sfugge al controllo dei poteri piramidali che gestiscono il potere economico.

Napoli ha un legame profondo con il fuoco anche in senso mitologico pensiamo a Vulcano, alla leggenda di Partenope, al Vesuvio, che può essere rievocato in eventi e spettacoli, ma esiste anche una terza forma fatta di fumi cenere e pena.

Il fuoco è anche simbolo di luce, che illumina la città attraverso la cultura, l’arte e la memoria storica, tuttavia il fuoco come la luce crea prospettive di ombra, le stesse che rimangono spesso nel dimenticatoio.

Il Vesuvio, ad esempio, noto come identità napoletana o emblema potente del “fuoco” che ha segnato la storia, l’urbanistica e l’immaginario della città e, in alcune tradizioni religiose e popolari, il fuoco è purificazione e luce, e può essere celebrato in eventi legati alla fede o alle tradizioni popolari, anche se il Vesuvio, resta in attesa per essere illuminato dal sole e dalla luna.

Il Vesuvio tuttavia simboleggia la distruzione come in alcune epoche di Napoli numerosi scritti facevano fuoco e quindi il mezzo per eliminare le idee di quanti erano visti come dissidenti.

Questa pratica ha una forte valenza simbolica e pratica, infatti bruciare libri, lettere, manifesti o opere scritte serve a eliminare fisicamente le idee che mettono in discussione l’autorità o l’ideologia dominante.

La distruzione fisica degli scritti significa impedire la diffusione di opinioni contrarie al potere e, in regimi autoritari, questo è fondamentale per mantenere il controllo sulle masse.

Il rogo degli scritti rappresenta atto simbolico di repressione e, serve da monito agli altri e chi si oppone rischia non solo la censura, ma anche la persecuzione.

In tutto Bruciare ciò che è stato scritto consente a riscrivere la storia, cancellando testimonianze scomode e impedendo che future generazioni abbiano accesso a versioni alternative della realtà.

Come non ricordare il rogo dei libri nella Germania nazista (1933); o la distruzione di testi “eretici” durante l’Inquisizione; e come non citare i roghi di libri durante la Rivoluzione Culturale in Cina

 E non da meno, la fine del XVIII secolo, con particolare rilievo al contesto turbolento delle rivoluzioni europee come quella del 1799, dove la repressione delle idee attraverso la distruzione degli scritti e la punizione violenta degli autori o editori era una pratica fortemente adoperata.

Nel caso, ci si può riferire a diversi eventi rivoluzionari, ma due contesti emergono, con rilevanza ovvero, la Francia post-rivoluzionaria e colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799.

O Napoleone Bonaparte che prese il potere con un colpo di Stato, dopo anni di radicalizzazione rivoluzionaria e instabilità diffusa.

Durante e dopo la Rivoluzione francese (1789–1799), sia i monarchici sia i rivoluzionari più estremi usarono la censura violenta per zittire gli oppositori.

Stampatori, giornalisti e intellettuali furono spesso imprigionati, esiliati o giustiziati, e i loro scritti bruciati con il fuoco di falò allestiti li nei pressi e poi banditi gli addetti che erano passati alle forche.

In Italia, durante la breve esperienza della Repubblica Partenopea, nata a Napoli con l’appoggio francese, ma con mira cristiana, per questo do breve durata e quando ci fu la violenta reazione borbonica e dopo il riequilibrio della monarchia.

i controrivoluzionari giustiziarono molti repubblicani, tra cui intellettuali e editori, dando alle fiamme e distruggendo i loro scritti, al fine di estirpare ogni traccia del pensiero illuminista di credenza cristiana.

Il meccanismo era chiaro, prima si distruggeva l’idea, libri, giornali, volantini, poi il corpo che la diffondeva, quali gli editori, gli autori o liberi pensatori.

Questa doppia attività mirava a cancellare voce memoria con il dissenso e poi sin anche fisicamente il libero pensatore, sin anche nel 1921 e nel 1848 a Napoli, quando si verificarono episodi significativi di repressione politica e culturale, spesso accompagnati dalla distruzione degli scritti e la persecuzione degli intellettuali, in un clima di forte contrasto ideologico.

Nel 1848, durante i moti rivoluzionari che attraversarono tutta l’Europa e, menzionata come Primavera dei Popoli, anche a Napoli scoppiarono rivolte per ottenere una costituzione, libertà di stampa e riforme liberali dal re borbonico, ma dopo pochi mesi il re Ferdinando II, ritirò ogni cosa reprimendo duramente ogni forma di opposizione.

I giornali liberali furono chiusi, i loro archivi e tipografie saccheggiati e bruciati e, molti editori, scrittori e attivisti furono arrestati o costretti all’esilio.

In particolare, furono perseguiti coloro che avevano pubblicato manifesti o articoli a favore del costituzionalismo o dell’unità d’Italia.

Questo fu un chiaro esempio di controrivoluzione culturale, dove la distruzione degli scritti con il fuoco, fu parte integrante della repressione culturale, sociale e politica.

Certo che quanti hanno scelto il tema del fuoco per il “maggio dei monumenti”, esaltandone percorsi palazzi, case e chiese devono aver perso il senso dell’olio con cui si alimentava la lanterna del filosofo greco Diogene di Sinope, il quale con pena e non pochi sacrifici cercava il senso delle cose, nel tempo dell’antichità.

Non conoscere le vicende su citate in senso generale della storia di Napoli, si può anche accettare, ma che questo sia il frutto delle eccellenze istituzionali partenopee, non trova alcun lume culturale che vede svolgersi, senza soluzione di pena, negli ultimi anni.

Dopo terra, aria e acqua, il filo conduttore di quest’anno è il fuoco e, da qui il titolo, che evoca un’espressione di Matilde Serao: Napoli, cuore ardente, mente illuminata, e anche se la frase non centra nulla con il fuoco, infatti, il senso diventa ispirazione di un racconto collettivo che, attraversando la città in tutte le sue Municipalità, ne celebra le pene di fuoco che qui hanno avuto luogo e, la spinta che dovrebbe rigenerare è racchiusa nei fuochi che Il popolo partenopeo hanno visto cancellare il pensiero liberare dei giusti.

A tal proposito valga di esempio la persecuzione subita con veemenza dal trenta luglio del 1799 nei confronti del libero pensatore, Pasquale Baffi, un Arbëreşë di Terra di Sofia, il quale per essersi distinto nelle pieghe di quella rivoluzione, durata pochi mesi, più incisiva verso i suoi editi prima bruciati e dati alle fiamme davanti casa in via Sant’Agostino degli Scalzi e poi continuamente deturpandola sua memoria per mandato del suo perseguitore parentale, dal undici di novembre di quell’anno.

Infatti trovo fine in quel patibolo di piazza mercato, usato per mostrar come erano puniti i liberi pensatori, che terrorizzavano i regnati e per evitare che potesse trovare agio nell’aldilà venne sgozzato a mo’ di disprezzo.

Pasquale Baffi, un Arbëreşë nato in Terra di Sofia non fu il solo a subire questa sorte che i Borbone riservavano a quanti immaginavano nuove prospettive di parità sociale.

Altri subirono il fuoco delle proprie idee scritte, e tutta Napoli rese in cenere il meglio prodotto dai suoi figli migliori che per essere stati tali furono sacrificati.

Oggi quanti immaginano che un Arbëreşë come Pasquale Baffi, non abbia mai scritto nulla è quindi non è da considerare letterato, specie se sortisce da istituti o istituzione, commette un gravissimo errore, non di poco rispetto nei suoi confronti, ma alla storia e alla cultura in senso generale dell’Europa tutta, sminuendo sin anche il valore dell’istituto da cui proviene che in quel tempo era in fermento e cercava nuove opportunità sociali poi con tempo lungo poste in essere.

Oggi comunemente ricordano i più variegati cultori progettisti e divulgatori, ma pochi sanno dove e come collocare Pasquale Baffi; Luigi Giura e Vincenzo Torelli i rinnovatori di tutta l’Europa.

Ad oggi la nostra politica la nostra scienza e i nostri canali comunicativi, ignorano chi e cosa ricordare, per il nuovo che viviamo in ambito sociale economico e politico, innovazione tecnologica o avvicinamento di popoli e sistemi di comunicazione di massa, rispettivamente delle tre citate figure

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                                    NAPOLI 2025-05-12.

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LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

Posted on 06 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le epoche sono numerose, in cui le citazioni pongono in evidenza i trascorsi della minoranza Arbëreşë, la stessa che per non soccombere delle angherie degli invasori, preferì emigrare dalle proprie terre per trovare agio e credenza ad ovest del mare Adriatico.

Essi seppero riconoscere gli ambiti naturali paralleli dell’originario ambiente culturale e religioso, segnando e valorizzando come si fa con l’oro, quelle le terre abbandonate del meridione della penisola italiana.

E in ogni luogo a loro, consentito di sbarcare, si disposero per cooperare in fraterno progredire, con le genti indigene, per la crescita di quelle terre ritrovate, diventate poi patrimonio dorato steso alla luce del sole e, per questo gli Arbëreşë nel mediterraneo sono stati ritenuti storicamente alla pari della moneta araba così tanto ambita.

Il “Tarì”, una moneta d’oro usata principalmente nell’Italia meridionale a partire dal X secolo, in Sicilia e successivamente espandendosi in tutto meridionale italiano, ebbe notorietà, come in seguito fu per gli Arbëreşë dal XIV secolo.

Il sostantivo (Tarī), dal greco “fresco”, “nuovo” riferisce di cosa innovativa, in tutto, un simbolo di alto valore per scambio economico, in fraterna e civile convivenza, il conio con incisioni sia arabe che latine, testimonia l’incontro tra culture in pacifica convivenza, considerato tra i più antichi del mediterraneo fatto di scambio e operosità.

Il parallelismo tra la Moneta dorata e le genti Arbëreşë, deve essere intesa come risorsa o genio capace di rigenerare e far risplendere l’economia di numerose macro aree dello storico regno di Napoli, oggi Italia meridionale, è più che legittimo, anzi doveroso rendere noto il parallelismo di convivenza.

Tuttavia senza amplificare epoche e tempi, vanno sicuramente ricordati gli intervalli in cui servirono ai romani per difendere terre, con gli indispensabili “Stradioti” o, per dare continuità alle arti della Venezia Operosa, cosi come in ambiti, Papali sino al Regno di Napoli, che ancora oggi trovano agio con questa realtà sempre pronta a dare valore.

In questa breve diplomatica, si vuole rilevare il valore aggiunto, che ne ebbe il meridione italiano, dal XIV secolo, quando per opera degli Arbëreşë, venne innalzata l’economia in diverse macro aree in pena o devastate dagli eventi naturali persistenti.

Sette regioni del meridione oggi dell’Italia, diffusamente articolate in ventuno macro aree, ripopolando oltre cento, abitati urbano ormai allo stremo abitativo e, nel breve di un decennio l’economia di quelle colline, non ha più avuto pena, per la solidità dei germogli innestati con caparbia professionalità Arbëreşë.

In oltre Arabi e Arbëreşë avevano simili intenti nel realizzare i nuclei abitativi, in forza dei modelli di Iunctura familiare, anche se con differenze culturali e storiche significative.

Infatti la difesa dei centri storici e il controllo del territorio, erano scelti secondo posizioni strategiche come colline, o alture, per fini difensivi, specialmente in contesti di instabilità o minaccia esterna, come all’epoca erano vissute le citate comunità in espansione.

A tal fine gli insediamenti dovevano risultare funzionali al paesaggio che offriva le più idonee risorse idriche, terreni fertili, esposizione solare, e adattabili al facile rilievo per fare strade strette e case compatte.

Tutto questo per favorivano la vita comunitaria e la conservazione delle tradizioni culturali e religiose di fondamentale caratura, per questi operosi e geniali popoli.

Gli Arabi, sviluppavo o meglio articolavano le loro città con elementi come il souk, il riad, giardini interni, e una forte influenza architettonica di radice islamica.

Gli Arbëreshë, si inserivano spesso in contesti già esistenti o ricostruivano villaggi spopolati, inserendo elementi propri della tradizione balcanica, ma con adattamenti alla cultura locale, e anche qui gli elementi caratteristici erano, le porte delle case lungo vicoli articolati, archi, orti botanici e vicoli ciechi.

Quattro quartieri eseguiti secondo un impianto a maglia irregolare, case addossate e vicoli labirintici, ma tutti riuniti a garanzia della convivenza fraterna di radice etnica o religiosa riecheggiante.

In sintesi, entrambi i gruppi hanno creato insediamenti adattati al territorio, compatti e con forte identità culturale, ma preoccupandosi sin anche delle proprie origini religiose, linguistiche e storico/consuetudinarie.

Entrambe le comunità hanno mostrato un uso intelligente e sostenibile dell’ambiente, gestione dell’acqua, innalzando il valore dell’agricoltura, i materiali locali, per un approccio funzionale, autosufficiente e del bisogno ecologico.

In sintesi, il vero legame tra arabi e arbëreshë, nella costruzione dei nuclei abitativi è l’intento di creare comunità resilienti, capaci di preservare sé stesse, attraverso l’uso strategico dello spazio urbano e l’ambiente naturali in funzione della coesione sociale.

Nasce spontanea la domanda di dove, in termini fisici e geografici, arabi e arbëreshë si siano incrociati per essere trasmessi, per essere ereditati nei loro insediamenti.

Gli Arabi, pur essendo stati scacciati perseguiti dai Normanni, hanno lasciato tracce architettoniche, urbanistiche e agricole molto visibili, il loro lavoro venne ripreso e reinterpretate da chi in queste terre ne trovo tracce indelebili.

Valgano i sistemi urbani con strade strette, tortuose, adatte alla difesa e al clima caldo, tecniche idrauliche e agricole, canali sotterranei per l’acqua, terrazze e agricoltura irrigua.

Sistemi che esulavano dagli antichi e ormai fuori tempo sistemi piramidali e circoscritti che facevano il borgo medioevale ormai in decadimento.

E sin anche gli stessi Normanni, pur se cristiani, adottarono molte tecniche arabe che potevano dare agio ad altre credenze di gestione dei territori.

Gli Arbëreshë non ereditarono strutture arabe direttamente, ma si insediarono spesso in centri già esistenti o abbandonati, ricordando e avendo misura di quelle aree toccate in passato dagli Arabi vedi le citta della Sicilia come Mazzara del vallo o la stessa città di Napoli tra la via Furcillense e il mare.

In oltre Arbëreşë e Arabi sono anche legati ai termini di “legge” o “regola”, che a sua volta derivato dal greco “kanón”, in tutto “regola” o “standard”.

E mentre gli Arabi si stanziarono in Sicilia nell’anno 827 d.C., iniziando una conquista che durò circa 75 anni e, fino alla completa presa dell’isola nel 902 d.C.

Il tutto ereditato dagli Aghlabidi, una dinastia musulmana con base nell’attuale Tunisia, da cui partirono per sbarcare nella dirimpettaia Mazara del Vallo.

Da cui iniziarono ad espandersi sino al 831 d.C. quando caduta Palermo, questa divenne la capitale dell’emirato arabo in Sicilia, quando nel 902 d.C. capitolava anche Taormina, l’ultimo baluardo bizantino di tutta la Sicilia ormai sotto il dominio e il controllo degli Arabi.

Ma dal 1040 sino al1091 d.C., i Normanni iniziano e completano la riconquista dell’isola, sin anche l’ultima roccaforte, Noto, che rimase fedele agli Arabi sino al 1091.

Tuttavia la dominazione segno profondamente la cultura siciliana, specie nei protocolli dell’Agricoltura, con l’introduzione di tecniche di irrigue pe mettere a dimora colture di agrumi, canna da zucchero, riso, cotone, in forte esenzione.

Tutte queste attività influirono sin anche sull’idioma degli isolani e, molte parole del parlare in dialetto locale derivano dall’arabo ad esempio il noto “zibbibbu” da zabīb, rispondente all’ uva passa.

Dalla Sicilia gli arabi non conquistarono altre parti del regno di Napoli, ma stabilirono contatti di scambio con Amalfi e Napoli stessa, anche se di sovente effettuarono spedizioni militari e razzie lungo le coste tirreniche di pertinenza.

Se nel IX secolo (anni 830–880), Amalfi era una potente repubblica marinara riuscendo spesso a difendersi e, siccome gli amalfitani erano abili commercianti, intrattennero rapporti con il mondo islamico, quindi non furono solo conflittuali ma forse molto di più costruttivi.

Nel 836 d.C., il ducato di Napoli con a capo Sergio I, chiamò in adunata i Saraceni contro i Longobardi di Benevento e gli Arabi furono invitati temporaneamente ad assumere il ruolo di alleati militari.

Anche se successivamente, iniziarono a saccheggiare le coste e diventarono una minaccia, di non poco conto, ma tuttavia non conquistarono mai Napoli, attaccando sistematicamente i dintorni come Pozzuoli, Ischia, Capua, ecc.

La presenza stabile araba in Italia continentale, fu breve e limitata a un piccolo emirato a Lucera in puglia con il fine di affacciarsi all’interno del mare ionio, avendo una base logistica nella zona di Tropea e Squillace, tuttavia, il dominio islamico durante il IX e il X secolo, nell’ambito delle loro incursioni e temporanee occupazioni nell’Italia meridionale. Tuttavia, non stabilirono un dominio stabile e duraturo come fecero in Sicilia, e le loro presenze in Calabria furono spesso legate a scorrerie militari, saccheggi e brevi occupazioni, anche se in alcune aree lasciarono tracce culturali e toponomastiche.

Valga in tal senso Amantea che fu una delle pochissime località calabresi a essere effettivamente occupate e governate dagli Arabi per un periodo più esteso, tra l’839 e l’889, diventando sin anche una roccaforte strategica sulla costa tirrenica.

Furono bersaglio di attacchi arabi Tropea e Nicotera dove ci furono occupazioni temporanee, ma non insediamenti duraturi o solidali dirsi voglia.

Tracce della presenza araba si trovano nelle Toponomastica di luoghi o nei dialetti locali e, in alcune zone si diffuse l’uso di nuove colture come agrumi e tecniche implementazione agricola.

Pur se la Calabria non fu mai completamente arabizzata, l’impatto culturale delle loro incursioni fu comunque percepibile in vari ambiti e, sebbene meno duratura rispetto ad altre aree del Sud Italia come la Sicilia, ha comunque lasciato tracce interessanti sia dal punto di vista culturale che linguistico.

Gli Arabi iniziarono a interessarsi alla Calabria a partire dal IX secolo durante le loro incursioni e conquiste nel Sud Italia.

Pur non riuscendo a stabilire un dominio stabile e duraturo sulla regione, controllarono temporaneamente alcune zone, specialmente nella Calabria meridionale (es. Amantea, Tropea, Gerace, Reggio Calabria).

A differenza della Sicilia, l’impatto architettonico arabo in Calabria è meno evidente e solo attenti osservatori opportunamente formati ne possono trarre o riferire questi lasciti.

Tuttavia, in alcune città si riscontrano tracce di modelli urbanistici simili a quelli arabi, come i quartieri con vicoli stretti e irregolari, chiamati talvolta Rabat; termine arabo per “fortezza” o “insediamento fortificato”.

In Agricoltura introdussero coltivazioni estensive di agrumi, canna da zucchero, cotone, sostenuti da sistemi di irrigazione sofisticati e complessi, le stesse innovazioni sopravvissute nei secoli, influenzando l’agricoltura calabrese.

Sono numerosi gli elementi della cucina calabrese, come l’uso di spezie come cannella e l’agrodolce, gli stessi che potrebbero avere origini arabe.

Cosi come alcuni dolci tradizionali (a base di mandorle, miele, sesamo, gli stessi che ricordano le tipiche ricette arabe.

Senza trascurare alcune parole del dialetto calabrese derivano dall’arabo, spesso tramite il siciliano come: Zibbibbu (uva passa) ← zabīb (uva secca); Giarra (anfora) ← jarra (vaso); Scirocco (vento) ← šarq (oriente); Zagara (fiore degli agrumi) ← zahr (fiore); Sheshiola (quartiere) ← (şèşj)

Per non tralasciare alcuni toponimi o cognomi che possono avere origini arabe o essere stati modificati nel tempo da forme di rotacismo locale.

L’influenza araba in Calabria, pur non essendo capillare o duratura come altrove, ha contribuito in maniera significativa ad alcuni aspetti della cultura materiale e della lingua. La sua impronta è più evidente in contesti agricoli, lessicali e gastronomici, mentre sul piano architettonico e amministrativo è più difficile da intercettare, specie se non si ha formazione Olivetara specifica.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                 Napoli 2025-05-06

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