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EQUIPOLLENZA INDISPONSABILE PER ESSERE UN PAESE DI RADICE ARBËREŞË (Satë  mos thë jemj Skiptarë)

EQUIPOLLENZA INDISPONSABILE PER ESSERE UN PAESE DI RADICE ARBËREŞË (Satë mos thë jemj Skiptarë)

Posted on 13 ottobre 2024 by admin

Casco

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Bozza dei temi indispensabili per allestire progetti, sulla disponibilità di tutela secondo le leggi Regionali, Nazionali e le direttive Europee rivolte alla tutela delle minoranze storiche.

Il progetto da finanziare, vuole finalizzare quanto qui esposto per essere attuato secondo gli intenti di un gruppo, multidisciplinare, sulla base di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologiche, Storiche, Sociologiche, Psichiatriche, Architettonico e Urbanistico, includendo altre discipline per finalizzare il buon esito dell’opera, con ricerche e relazioni specifiche per le mire qui elencate:

 

  1. Giorgi Castriota chi era e, cosa ha rappresenta per la definizione della Regione Storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë;
  2. Tutelare la parlata arbëreshë di questo Katundë, avendo priorità rivolta alle nuove generazioni, tramite scuole o corsi di lingua extra scolastica, secondo le direttive europee che prediligono la lingua locale, della Nazione e la più diffusa Europea;
  3. Recupero di Kalljve, Case a Profferlo o Palazzotti seguendo i percorsi dell’economia e dell’integrazione, oltre i tipici percorsi viari di necessità della Iunctura familiare tipica, quali: Rruhat, Sottoportici, Vicoli Ciechi, Vallj e Orti Botanici del centro antico, da inserire in progetti di valorizzazione del centro antico;
  4. Manifestazioni culturali e, convegni rivolti alla cultura, definendo i temi specifici per i pannelli, per una mostra che esponga i percorsi storici salienti della storia arbëreşë in generale e, quella di questo Katundë e la sua macro area specifica, il tutto da apporre nel museo antropologico o in apposita struttura locale per fare accoglienza;
  5. Studio e ricerca storica dello sviluppo urbano del centro antico, nel corso dei secoli, con apposizione di sistema planimetrico G.I.S. che ne definisca epoca e sviluppo;
  6. Progetto di pannelli per le vie e indicazioni numeriche dei civici in caratteri Romani e Arabi e, per la toponomastica in lingua Arbëreşë, Italiano e Inglese, sia del centro antico, sia dei cunei agrari, silvicoli e pastorizia; in oltre ricercare gli storici itinerari della transumanza di questo Katundë, all’interno del suo agro;
  7. Ampliare il museo fornendo valore antropologico locale, con specifiche sezioni di tema di costumi e organizzazione di vita domestica, conserviera e la lavorazione, l’arte del genio locale;
  8. Comporre una postazione video e audio, di ascolto e visione del parlato con protagoniste le generazioni più anziane;
  9. Formare un gruppo di giovani/e residenti e rispondere alle richieste dei turisti per fare accoglienza, informazione specifica della minoranza, sia del centro antico, del territorio Agreste, della macro area di pertinenza Arbëreşë sino a tutta la regione storica sostenuta e diffusa in Arbëreşë;
  10. Realizzare percorsi pedonali con l’utilizzo di materiali autoctoni di antica necessità, estrattive e additive vernacolari, dovute al bisogno di epoca e storia;
  11. Tracciare i percorsi di credenze locali e, valorizzare le antiche icone del centro storico, dei cunei della sostenibilità agraria, che segnarono i percorsi dell’opera per lavorare e valorizzare territori e centro abitato;
  12. Studio degli effetti delle direttive Europee la legge 482/99, nazionale e quella regionale del 2003, n. 15.; ed eventuali annotazioni da sottoporre a politici e istituzioni, per mire non raggiunte della sua applicazione innescando nuovi processi ancora non contemplati;
  13. Studio del costume tipico, di: giovane donna; sposa; regina della casa; giornaliero; lutto e, vedova incerta; attestandone sin anche le varianti e le inesattezze nel corso dei secoli;
  14. Definizione dei sostantivi che identificano il centro abitato, i rioni, le Piazze, le vie, gli orti botanici e i valori di convivenza sociale largamente appellati a dir poco inopportuni;
  15. Progettare il percorso del costume all’interno del museo, secondo disposizione e temi museali, predisposti da titolati, fornendo la più giusta e idonea linfa espositiva;
  16. Ricerca storica delle figure di eccellenza Arbëreşë di questo Katundë, nelle discipline: Sociali, Economiche; Politiche, Scienza Esatta e del patire storico, sino all’unità d’Italia;
  17. Le Credenze locale e i fenomeni paralleli laici, la terminazione del rito Ortodosso, per il Latino e, gli atti che determinarono l’esigenza del Greco Bizantino;
  18. Valorizzare la giornata del Termine per gli Arbëreşë, il Carnevale gli appuntamenti storici della stagione lunga; l’Estate e di quella corta; l’Inverno
  19. La festa patronale e il significato storico locale dei Santi e le vie della devozione di questo Katundë;
  20. Definizione, di Paese, Gjitonia, Sheshë, Drjtësora, Ruitoj oltre i toponimi indigeni, arbëreşë, di insediamento ed integrazione in espansione;

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LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

Posted on 11 ottobre 2024 by admin

00020NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Ricordo di non aver voluto seguire gli studi nel complesso di San Demetrio, preferendo San Domenico di Acri e poi come riferirò più innanzi mi sono dovuto ricredere.

Ho comunque iniziato a frequentare gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza, egualmente tutelati come pervenuti.

Sono contattato ripetutamente da figure locali che mirano a ricevere conforto culturale dalla mia professionalità, per poi riferire cose inedite e, le stesse poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto, la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 ad applicarmi e trovare agio per un nuovo stato di fatto, indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo di appartenenza e rispetto.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a diffondere i processi o percorsi storici di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre, come si faceva un tempo nelle scuole medie, anche se all’epoca il rimando realizzava la promozione, quelli di oggi promuovono negazione e nulla più.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento, distribuendo attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune e senza alcuna notorietà per editi o fatti di memoria e cultura.

È stato proposto di formare giovani figure di genere locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari di memoria e operosità.

Tuttavia si è preferito dare agio a liberi interpreti, di episodi e storie mai avvenute, che stimolano la curiosità di turisti nel centro o luogo di movimento, ovvero Katundì, secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcuna fondatezza storica, se non il comune campanilismo locale che tritura e rende polvere al vento ogni cosa.

A tal proposito va sottolineato il protocollo, secondo il quale sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi che non hanno in alcun modo avuto luogo nel corso della storia dell’architettura, la stessa che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, Borghi con Katundë; Gjitonie con Vicinato; Sheshi con Piazzette, e mattoni in laterizio, con di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, quando per necessità è stata il frequentare assiduamente le botteghe storiche dei maestri partenopei, in stretta collaborazione con dipartimenti e istituzioni, senza eguali, per addivenire al protocollo che ti rende unico e completo professionista, e non è per caso, coronato nella chiesa di San Demetrio nella zona dei Banchi nuovi, proprio un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire, dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia, oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali/estetici degli edifici storici.

Tutto questo ha reso possibile realizzare, ancor prima del titolo di laurea, di poter essere consulente e collaboratore primo, per il recupero di archivi, biblioteche, cattedrali giardini storici o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di Stabia, il suo Parco e le fontane storiche, la Casa Rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline acquisite e, che consentono di dialogare o trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico, inquadrando le sue genti come giullari che non sanno leggere editi, alfabetari o vocabolari disposti a Capo Sotto.

Il mio Grido di allerta è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, per questo riecheggia nei corridoi, con la speranza di ottenere il comporre gruppi di “giovani guide locali” che con il garbo tipico dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti o turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati e protagonisti a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione, del genio locale e, di Iunctura familiare Kanuniana, sostenuta dalla dieta mediterranea, il tutto per poter vivere o avvertire il luogo dei cinque sensi che solo qui ancora vive.

In altre parole, riproporre il seme antico dell’ospitalità, che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un mondo, una sensazione, un privilegio che ti conduce a vivere fraternamente, senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che sono solo la Regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

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"IL VALORE CULTURALE DI VESTIZIONE ARBËRESHË E LA RESILIENZA DEL COSTUME” (Satë mosë i birmi stòlljtë)

“IL VALORE CULTURALE DI VESTIZIONE ARBËRESHË E LA RESILIENZA DEL COSTUME” (Satë mosë i birmi stòlljtë)

Posted on 08 ottobre 2024 by admin

AtoNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il costume arbëreşë è la testimonianza visiva della storia, della cultura, della fede e delle tradizioni, in tutto la rappresentazione della perseveranza indissolubile con la quale segnare identicamente lo scorrere dei secoli.

Per questo il passaggio di testimone da una generazione all’altra è un rito fondamentale, che consolida il proseguimento della propria identità nel corso della storia, con l’ausilio delle consuetudini e tutte le tradizionali credenze solidamente radicate.

Se questo poi avviene per popolazioni che tramandano esclusivamente attraverso la forma di gesta e parlato, avendo quale prioritaria la metrica del canto, l’evento diventa codice delicatissimo al pari di un’oggetto di cristallo lavorato e, mal riposto nella “credenza “quando fa terremoto.

Quanti utilizzano la storia, quale mezzo per confermare messaggi senza alcuna fondatezza di luogo, di tempo e persone, produce danno, specie quando si vogliono piegare i ricorsi per il mero fine di apparire, con atti notarili o editi cattivamente interpretati.

Storicamente sono molteplici i casi che per glorificare private falsità, usano satinare miti, eroi e avvenimenti, senza luogo e tempo.

Il sistema si può raffigurare come una frana che nella sua greve corsa verso il basso, amalgama ogni cosa e, il ricordo a questo punto, diventa il protagonista grazie alle figure più inesperte, giovani in tutto le meno adatte per riferire memoria di tempo.

Questi atteggiamenti sono il frutto di una cattiva morale culturale e, già nel passato remoto, era uso formulare specifiche richieste (a degenerati scrittori) che tramandavano avvenimenti ereditati da memorie false, costruite a misura, con l’ausilio di documenti apocrifi creati ad arte.

Allo scopo si ritiene adoperarsi per realizzare la “diplomatica” adatta che si analizza e studia i documenti ufficiali, in particolare dei documenti storici prodotti, e il nostro compito rimane quello di analizzare la forma, la struttura e il contenuto di tali documenti verificandone l’autenticità, interpretarne il significato e studiarne il contesto di produzione.

Certamente concentrandoci sui documenti scritti in epoca medievale e moderna, come pergamene, lettere, privilegi, diplomi, e contratti.

Questo dato consente alla minoranza arbëreşë di riconoscere i trattati storici originali e differirli dalla “isola felice”, dove ogni cosa appare esclusivamente candida, meravigliosa e sempre positiva.

Tuttavia a devastare ogni cosa, non sono le menzogne prodotte dai falsi finanziatori, giacché il danno reale è prodotto dalla mancanza di volontà dei dotti, o preposti, i quali sanno e scientemente non separano i falsi dai veri avvenimenti, anzi assistito divertiti alla riproposizione degli ottimi prodotti taroccati on puro fatuo.

Sono proprio queste narrazioni, addirittura poste in stampa, che contribuiscono a rendere celebri, per cattiva conoscenza/coscienza, gli annali della storia, dove la rotta punta a ottenere un’icona di rilievo e non garantire la logica narrazione di fatti, persone e cose.

Come affermava Michele Baffi, figlio del più noto Pasquale originario di Santa Sofia d’Epiro in una sua diplomatica riferita a quanto pubblicato della storia dei romani: “mescolavano le divine con le umane cose, per rendere più augusti i cominciamenti e tanto andò avanti questa confusione, che nessuno fu in grado di comprendere cosa fosse vero e cosa era mescolanza di fatti mai avvenuti”.

Furono gli stessi storici che in seguito ebbero a trarre la conclusione che: in questo modo nacquero gli annali delle prime nazioni, usciti dalle tenebre dell’antichità e dalla stoltezza delle malfondate tradizioni.

Dopo questa breve introduzione gli scenari che si presentano vanno e devono essere analizzati avendo consapevolezza di cosa si potrebbe produrre se attratti dai frutti di pura e più conveniente stoltezza.

La ricerca storica quindi va fatta comparando costantemente gli elementi finiti con quelli indefiniti e la propria capacità di interpretare e affiancare fatti, uomini e cose, avendo capacità di comprendere cosa è storia possibili e cosa no!

Un esempio che qui riporto valga per tutte le cose che banalmente si raccontano: come l’esser giunti  i Kalabanon nelle rive dell’adriatico e dello jonio, allocandosi nelle colline del meridione con i loro bauli colmi di costumi, trascinati dalle colline dell’antica illiria, sino ai porti delle rive adriatiche ad est, caricate nelle navi, scaricati poi nei porti pugliesi a ovest e in seguito trascinati per la Puglia, la Basilicata e la Calabria; un gesto a cui sicuramente agli arbëreşë va dato merito della loro proverbiale caparbietà, ma, pare così a dir poco di esagerato e palese ritenerla una storia senza alcun senso.

Se a ciò si aggiunge il dato che questi bauli spariscono nel XV secolo, dato che il Rodotà li descrive nudi al papa a cui si rivalse per trovare soluzione cristiana.

Nasce spontanea la domanda, a meno che non si tratti di un miracolo come fanno ad apparire nel XVII secolo e, in quale località climatizzata con tecnologie ultra moderne di quell’epoca sono stati custoditi?

In questo mio breve, per questo si vuole affrontare la disanima del contenuto di questi bauli mai esistiti, il cui contenuto teoricamente nasce all’inizio dell’era industriale europea, quando gli esuli posero in essere, ovvero, realizzarono la bandiera identificativa di macro area della cinta Sanseverinese, ovvero, “il Costume Arbëreşë”, memoria riassuntiva laica e clericale di un’identità forte e mai dismessa nella provincia citeriore presilana.

Va a tal proposito sottolineato che il costume arbëreşë, completo, che identifica area e luogo; scaturisce da una solida e coerente narrazione storica, allocata nelle sub aree della Pre Sila arbëreşë.

Rappresenta il Componimento unico, solo, primo ad essere considerato narrazione storica e, da cui sono stati poi estratti frammenti, della macro area delle Miniere e del Pollino.

Questi costumi dal primo che ha come emblema la Sposa, all’ultimo di Vedova Incerta, vanno perdendo il senso originario cosi come i cerchi concentrici di una pietra buttata nell’acqua, si attenuano quando si allontana dal centro di caduta.

I costumi identificati come: da Sposa, moglie e Regina della casa, Giornaliero o del fuoco, di Vedova e Vedova Incerta, sono i fondamentali, gli altri, seguono una rotta che è affine più alle genti autoctone che al consuetudinario arbëreşë di radice e credenza.

Alla raffinatezza del costume si accosta la dualità dell’impegno storico, sociale e clericale degli arbëreşë; ciò nonostante serve un’attenta analisi per comprendere movenze e significato, il che restituisce uno scenario artistico che aumenta, in quei centri in cui la valorizzazione, la tutela identitaria, l’idioma, la consuetudine, la metrica e la religione Bizantina, rendendo il legame tra casa e chiesa, ovvero, il valore civile e religioso forte, solido e completo.

Tutti gli altri centri dove uno di questi elementi o componenti, che compongono il costume, dovessero variare o mancare, restando il costume sintesi o addirittura segno per altra identità, se non addirittura tradizione popolare indigena o llitirë dirsi voglia.

Alla luce degli avvenimenti cadenzati dall’ultima decade del secolo appena terminato, dove a segnare il passo della vestizione dei preziosi componimenti sartoriali, sono inesperte/i giovinette/i, i quali, pericolosamente tralasciano il senso non scritto, custodito nel ricordo di donne adulte, che vengono e sono perentoriamente ignorate se non rinnegate.

Va in oltre marcato il concetto secondo il quale il costume è un testamento, un trattato non scritto; e per questo deve essere letto o interpretato da artigiani/artisti in grado di avvertire vibrazioni molto profonde e colme di significato, nei colori nei ricami, nelle pieghe clericali e di laica credenza.

Coprire il corpo il giorno della nascita, durante la crescita, quando si diventa donne, il giorno del matrimonio, durante l’invecchiamento e al termine della propria esistenza, fa sentire il genere femminile protagonista del mondo arbëreshë, dal primo vagito sino all’ultimo sospiro della vita e, simboleggiano tutto ciò i colori qui in elenco:

Il bianco: associato alla luce alla purezza;

il rosso: associato al sangue e alla fedeltà;

il giallo: associato al sole;

il verde: associato alla vegetazione il lavoro nei campi;

il blu: associato al cielo alla ricerca del termine;

l’oro e l’argento: associato alla ricchezza;

il porpora: associato alla luce del fuoco sempre acceso;

Il raso: associato alla luce della credenza;

il marrone: associato alla terra;

Il nero: associato alla negazione assoluta, come la notte, o buio di termine;

Tutto questo va difeso con forza ed energia culturale solidamente radicato nelle cose del trapasso generazionale, affinché non termini tutto per continuare ad essere inculturazione e trasmette, riproducendo le proprie “tradizioni” all’interno di tutte le macro aree; evitando l’acculturazione ovvero l’invasione dei tratti culturali provenienti dall’esterno, da altre aree geografiche-culturali che possono terminare con il modificare i valori del manuale sartoriale indivisibili.

L’analisi per questo inizia naturalmente citando il significato di ogni singolo colore: la pigmentazione delle stoffe che non è casuale ma mira mai casuale, anzi ognuno di essi e il relativo accostamento inviano messaggi chiari, univoci, il cui fine e legato a un messaggio di onestà, prosperità dell’unione e la relativa discendenza.

Il costume, è il sunto dei travagli di operosità onesta sociale, etnica, religiosa e di credenza all’interno della Regione storica diffusa, sostenuta in parlato e movenze Arbëreşë; esso racchiude antiche gesta e messaggi, codice identitario, rappresenta l’unica forma figurata in senso generale di un’etnia che si è avvalsa per secoli della sola forma del parlato.

L’atto della vestizione, diviene codice di arte, massaggi figurati e di comportamento, discipline o protocollo figurativi tramandato oralmente e con gesta di segni; esso rappresenta e valorizza credenze e pratiche condivise da generazioni, in tutto, il codice che diventa arte.

Esso rappresenta l’anello che lega l’apparire femminile con il territorio, mille pieghe di rinforzo calettate su un basamento dorato, la radice fondale e, ogni piega difende solidamente le cose più intime del genere Arbëreşë, in senso generale e generazionale.

Quattro strati inferiori di vestizioni in colore diverso, la prima indica la natalità, quella più a contatto con il corpo, la seconda la purezza e la fede, la genuinità giovanile e la terza il padre, per arrivare a quella più estrema o pubblica che rappresenta il marito, per generare specie, ovvero il sacrificio.

Fede e sacrificio sono sostenute e regolate dalle rotondità della vita, ma nella connessione con il gallone dorato del basamento assumono andamento rettilineo come segno di rispetto verso il territorio in ogni direzione.

Il costume rappresenta la sintesi dei rituali condivisi, in sintonia con la vita e i rapporti che essi hanno avuto con gli indigeni.

Tutto questo qui riassunto diventa espressione delle diverse macro aree, insiemi di usanze e, in certi casi vere e proprie tradizioni, tramandate attraverso i trattati liturgici come ad esempio le pergamene a doppia faccia, lette dal clericale nella parte rivolta a esso e nelle immagini riferite al Vangelo, volte ai credenti.

Oggi indossare un costume Arbëreşë non deve essere solo occasione per esaltarsi a gesti e referenze senza avere cognizione culturale e linguistica del ruolo che si assume, né bisogna indossarlo sinteticamente, sciattamente o addirittura volgarmente, in quanto, il costume rappresenta un simbolo che deve inviare messaggi dell’appartenenza di un popolo e del suo territorio.

Indossare il costume vuol dire avere rispetto di ogni suo elemento e caratteristica estetica perché quando è esposto, diventa vessillo di un popolo ben identificato.

Come lo sono le dorature del Xhipùni che non deve essere sintesi del generare prole, ma vestizione coerente con il senso del matrimonio che genera prole, imbibendosi prima nella fontana della vita e poi in quella dell’intellighenzia matriarcale, del governo delle donne

Il rito ha inizio con la pettinatura këshètë, messa in atto della tipica forma, entro cui raccogliere i capelli saldamente avvolti dalla candida fettuccia bianca.

Per poi essere il supporto della corona dogale del matrimonio solidamente invalicabile dalla vista delle intimità femminili più esposte.

La stiratura del ricco merletto, linjë che va impostato prima dell’uso, con la giusta rigidezza dosando acqua e amido e, fornire solidità alla preziosa trama che genera la fonte della vita.

A questo punto si dà avvio al rito dell’apposizione xhipùntëi i còha e sotto còha, dal cassetto appositamente attrezzato, seguita la rimozione dei lacci che garantiscono la postura di riposo e la svelatura degli altri elementi conservati e avvolti dalle apposite stoffe di cotone.

Ogni cosa in seguito va prima indossata, calibrata e in fine fissata con raffinata perizia, manualità e dedizione; il costume richiede regole precise, per questo indossate le vestizioni intime e la linjë si continua con sutànini, poi sutàna me raset e in fine la còha, tutte queste una volta indossate vanno calibrate al fine di raggiungere la vestizione che deve essere un’armonia di linee che sul davanti è lineare da sotto il seno fino all’estremità inferiore della còha; sui fianchi e il di dietro, deve essere arrotondata nella parte iniziale per poi allinearsi subito con andamento verticale dettato dalla parte rinforzata da cui partono le bretelle; il contorno inferiore, Gagluni deve risultare perfettamente livellato e il davanti sfiorare la punta delle scarpe, la cui regola è garantita dall’altezza del tacco.

La parte superiore dalla base del collo sino al seno, deve descrivere un piano inclinato che poi s’innesta con la linea curva della prominenza sulla linea verticale su citata.

Xhipùni, deve aderire perfettamente sulle spalle e allinearsi alle rotondità del seno cui deve rimanere aderente persino nei piccoli movimenti delle braccia sollevate.

A seguito di tutto ciò e dopo continue verifiche si fanno gli ultimi rintocchi rivolti alla vestizione degli ori (orecchini e collana con diadema) con l’apposizione della kesa che copre këshètë, rappresentazione dogale della corona della regina del fuoco e della casa.

Poi segue il tocco finale con l’apposizione sul capo o piegata ordinatamente sul braccio del velo dorato da sposa o di quello porporati di regina della casa e del fuoco domestico sempre acceso e diretto.

Poi arriva il tempo dello sfilare o l’apparire, momenti in cui, chi si assume la responsabilità di rappresentare con il raro vessillo un gruppo ben identificato, deve saper trasmettere secoli di storia riassunti in quei preziosi filamenti di porpora e oro; l’atto di apparire e attirare con quei movimenti di grazia e coerenza, deve ricordare che una favela diversa nel sud dell’Italia ancora vive nella più completa sana e onorata integrazione.

Va in fine sottolineato che i tempi e le modalità di mettersi in mostra a casa, negli ambiti di Gjitonia e, negli ambiti diffusi del Katundë, sono momenti in cui, la ruota, la coda e ogni sorta di pendaglio o elemento indossato o portato per essere esposti, ha un luogo, un tempo e un momento di riverbero per essere reso pubblico, altrimenti si perde il senso della vestizione, che non ha né segreti e né tasche, dove celare o nascondere sgradevolezze di unione e condivisione familiare.

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IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

Posted on 06 ottobre 2024 by admin

Generazioni

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi nasce nel mentre la madre si adopera a tenere vivo il fuoco dell’antico camino di casa, educando parimente i suoi figli e quelli della Gjitonia, crescerà avendo nel suo cuore, nel suo animo e nella sua mente, impresse indelebilmente le consuetudini storiche del governo delle donne, in ascolto e gesta Arbëreşë.

Diversamente dagli indigeni o “llitirë”, dirsi voglia, che sono allevati in recinti alloctoni secondo i percorsi gestiti da “fattori e massaie” e non dal governo delle donne Arbëreshë, qui comparati in breve:

  • Persistenza delle identità indigena: Le comunità storicamente strutturate nei Katundë, si sviluppa seguendo costantemente il perenne senso di appartenenza, imbrigliati al concetto di “genio femminile della Gjitonia” connessione spirituale e culturale in linea con il riportato dal territorio parallelo ritrovato, ed è esso che rafforza le tradizioni specifiche di ogni singola figura; diversamente avviene per quanti nascono e vivono l’agro, isolati e lontani dal governo delle donne o luogo dei cinque sensi in Arbëreshë.
  • Isolamento storico e geografico: La dislocazione dei centri Arbëreshë, generalmente allocati in aree collinari, si presenta relativamente isolate, il dato di fatto favorì l’autosufficienza e la preservazione delle proprie tradizioni all’interno della solida iunctura della Gjitonia, limitando la comunicazione; diversamente da chi cresce e vive nei luoghi isolati dell’agro o di altre realtà indigene, dove si rafforzava la mentalità “llitirë”, in favore dei campanilismi senza radice, come quelli disposti e fortificati nel cuore e nella mente in lingua e movenze Arbëreshë.
  • Diversità interna: Gli Arbëreshë condividevano radici comuni, sviluppando e incernierando le proprie sfumature consuetudinarie, tradizioni e costumi, solidamente uniti e unite, dal senso del parlato in ogni forma di pronunzia o gesticolare per una buona comprensione del riferito, simbolismi di un’identità senza confine di temine. Questo ha condotto alla storica frammentazione del senso di appartenenza di radice, poiché ogni Gjitonia tende a enfatizzare le proprie particolarità, senza mai perdere il senso della luna e del sole Arbëreshë.
  • Dinamiche sociali e politiche: Nel corso dei secoli, i contatti con le autorità indigene o llitirë di altre popolazioni rafforzarono il comportamento per gestire risorse all’interno di un contesto più ampio (spesso dominato da identità nazionali altre) questo dato ha portato a una certa competizione tra la terra di origine e quella degli esuli in terra parallela e ritrovata.
  • Mancanza di una narrazione storica unificante: Sebbene la storia degli Arbëreshë sia ricca e affascinante, la mancanza di una narrazione unica e indivisibile, che parta dalle origini e secondo lo scorrere del tempo illuminare e promuover con priorità le eccellenze e le cose prime, seconde, terze e così via della propria storia ancora incerta.

Invece si è preferito esaltare campanili, limitando il valore per il fine di elemosinare merito, alle tradizioni locali più immediate, banali e senza una radice unitaria.

La combinazione di questi fattori ha probabilmente portato ad allestire identità frammentate, della stessa comunità che tende a concentrarsi sui singoli campanili, piuttosto che rafforzare una storia condivisa, ampia e unitaria.

A tal fine e senza perdere l’orientamento originario, la mia Gjitonia da adulto è diventata Napoli e gli ambiti degli antichi Olivetari dove Bizantini, Arabi, Alessandrini e Longobardi, hanno seminato e fatto crescere la cultura Arbëreşë, un vero e proprio banco si scuola con numerosi editi da apprendere, come abituato da piccolo a fare, nel governo delle donne. dove ho avuto il mio natalizio.

Questo mi consente di affermare che nessuno, dico nessuno! si deve permettere o azzardare a venire in Napoli, per fare affermazioni incaute o inopportune, specie se proviene delle torbide acque del torrente Cupo e, poi formatosi nell’agro del Surdo e del Settimo, secondo le direttive della moderna Albania dei Beg.

La meno cauta discendenza Albanofona, in tutto l’inesorabile deriva verso l’infero della cultura, allestita negli anni settanta del secolo scorso, per fare danno al parlato, alla consuetudine, al costume e alla credenza, del “Governo delle donne Arbëreşë”.

Leggo con interesse, tesi di laurea, editi e ogni sorta di scoperta archivistico e bibliotecario riversate e ritrite, che hanno come scenario i luoghi e le vicende degli esuli della diaspora, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota.

Le tematiche in genere servono a delineare il progetto di accoglienza, unico e indivisibile, predisposto dal su citato eroe dopo la sua morte 1468 sino al 1506, distinguendo questo intervallo dalle altre migrazioni, sia concentrate e siano esse diffuse, a partire dalla nascita di Cristo, sino ai giorni nostri; ma questa è un’altra storia che non parla e gesticola in Arbëreshë.

Dagli Stradioti, sino alla diaspora degli Arbëreshë, non sono tutte figure storiche con identiche mire e volontà o interessi di dialogo pacifico, anche se la storia preferisce unificarli, onde evitare di dare spazio a temi militari, politiche, sociali e religiosi preferendo così di, uniformare ogni cosa e fine di provenienza, tutte caparbiamente disposte ad est del mare Adriatico, sino dove finisce lo Jonio.

Tuttavia quello che manca è il valore rivolto alle necessità di questa popolazione in continuo inchinarsi e rendersi disponibili ed allestiti in luoghi di continuo fermento sociale e di credenza.

Queste popolazioni, infatti, hanno saputo rispondere, nel corso dei millenni alle esigenze di Romani, Veneziani, Mussulmani, Papati, Francofoni, Ispanici e, solo dopo la morte dello stratega buono, quando era nuovamente Giorgio Castriota, “il suo popolo” fu protagonista primo, del modello di integrazione più solido e duraturo tra popoli con differenti identità e credenza, oggi denominati Arbëreşë, senza in alcun modo colpo ferire.

Per questo definire tutti con lo stesso identificativo, si perde il tempo, il momento sociale in fermento e la necessità degli Arbëreşë di salvare la propria identità.

Confondere e fare di tutte queste genti un fascio, non da merito al periodo storico in cui gli eventi sono avvenuti, oltre gli scopi per i quali, questi furono indirizzati ad emigrare e insediarsi, secondo la nota diaspora balcanica.

Tutto questo è avvenuto con il fine di rendere un giusto supporto all’identità, che altrimenti sarebbe stata compromessa, come e successo a quanti hanno preferito seminare quelle terre e, non seguire agli Arbëreşë che si trasferirono nelle terre parallele ritrovate, oggi noti per le vicende storiche vissute come i fondamenti o riferimento antropologico del vecchio continente denominato Europa.

Questi fondamentali trascorsi storici, riassumerli in banalissime migrazioni, cavalleresche, militari, di bottega, per allevare e dissodare terre è la più grande offesa, che si possa fare al genere umano, specialmente quando si confondono le necessità dei richiedenti e quelli degli arbëreşë, pronti ad essere sottomessi e resi schiavi non solo del proprio fisico ma del loro pensiero e delle future generazioni, quelle che oggi restano e sono i più evoluti di quelle terre antiche e colme di consuetudini inarrivabili, nonostante il perpetuo ideologismo islamico imperante e mai in quiete.

Questo fa capire quanta responsabilità, hanno oggi quanti sono nati negli ambiti illuminati dal camino gestito dal ministro della casa, una dei componenti del Governo delle donne Arbëreşë, che allevano i propri figli con gli ingredienti dei cinque sensi con misura e garbo.

Quindi, quando sentite parlare, disquisire, pubblicare o editare di questo popolo, bisogna essere molto attenti nell’ascoltare cosa viene riferito, sulla base di quale esperienza del bisogno di tutelare e sostenere un antico protocollo, che nessuno è riuscito a scrivere, disegnare su fogli, muri e terra, perché fatto di movenze e parlato armonico tipico del Governo delle Donne e, compreso dalla sola discendenza a cui viene o è indirizzato. 

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LE COSE BUONE NATE NELLE TERRE NOSTRE ARBËREŞË (Sà thë Mira u Lljènë Nde deratë Tonà Arbëreşë)

LE COSE BUONE NATE NELLE TERRE NOSTRE ARBËREŞË (Sà thë Mira u Lljènë Nde deratë Tonà Arbëreşë)

Posted on 29 settembre 2024 by admin

Sheshi no piazzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel comune disquisire dei capitoli a riferimento della minoranza storica degli Arbëreşë, è diventato un continuo dire, fare e primeggiare in ogni cosa e in ogni ambito del globo, quando le cose degli uomini hanno avuto un luogo, un momento e una stagione per essere rese fattibili, da ciò si deduce facilmente che la minoranza storica, proprio per questo, non poteva essere in ogni dove e in tutte le epoche presente.

Certamente le cose fatte e attuate dagli Arbëreşë, se oggi le volessimo analizzare con dovizia di particolari per esporle, dovrebbero essere collocate di diritto negli scenari dell’intelligenza artificiale, mediatici e del giornalismo additando e raccontando con seria disinvoltura i risultati inarrivabili ancora oggi.

Ormai il senso dei valori di cui gli Arbëreşë sono stati protagonisti in prima linea, nell’evoluzione delle terre ospitati e, poi via via come cerchi concentrici sempre più laghi, in tutto il vecchio e i nuovi continenti.

I temi dove essi primeggiarono sono state le politiche sociali, l’interpretare antichi editi, il genio di luogo per collegare e bonificare terre, la diffusione di notizia per le masse meno abbienti e cosa più fondamentale per, aver avuto il merito di integrarsi senza infliggere pene per quanti li accoglievano, realizzando per questo il modello storico dell’integrazione più solido del mediterraneo.

Questi sono i temi che al giorno d’oggi, non hanno bisogno di condimenti, salse, pietanze, battaglie e danze, senza citare inutili figure, per far emergere gli stati di fatto dove gli Arbëreshë restano e sono inarrivabili in tutto il globo.

Se solo chi si espone sapesse parlare di Giorgio Castriota, Pasquale Baffi, Luigi Giura e Vincenzo Torelli, potrebbe lasciare una scia indelebile della necessità che la politica Italiana Europea e di tutto il vecchio continente vanno predicando in forte affanno e, non trovare agio o metrica risolutiva, in nessuno dei fronti politici e di credenza in forte contradizione.

Basterebbe conoscere le dinamiche storiche e gli eventi dove queste figure sono state protagonisti e, si troverebbe senza tanto patire risposte o soluzioni per:

– una risposta al conflitto Palestinese, Israeliano o, trovare soluzione alle masse migratorie di cui si riferiscono e non si sopportano le male fatte;

– Uguaglianza tra generi, come la stessa istituita millenni addietro dove i gruppi erano sostenuti dal governo delle donne e da quello degli uomini, presidenza del consiglio e quello della repubblica.

– dare una risposta alle inquietudini delle minoranze in continuo affanno, di parità sociale;

– costruire ponti dove servono e quando sono indispensabili con tecnologie innovative;

– diffondere l’intelligenza artificiale dove contribuisce a fare scuola in atti costruttivi, senza prevaricazioni sociali o di genere;

Questi esempi esposti in maniera riassuntiva, se analizzati nelle pieghe più profonde, sicuramente diverrebbero temi molto più interessanti e utili del fare politica per dare risposte alle numerose domande senza risposta, che ogni sono stese alle antenne radio televisive o sui cablaggi delle fibre ottiche non al sole come:

– coloriture improprie su pareti e porte storiche, allestire esponendosi a cucinare in pubblico, riferire di case e di chiese che parlano e chissà a quante altre diavolerie sono pronte ad essere inaugurate nei vutti storici a forma di croce:

–  istruire nuove generazioni secondo protocolli indigeni, non è certo un bel vedere, specie se i protocolli giungono da est dove credono ancora alla leggenda del capretto che allevo Giove;

– allestire manifestazioni, toponomastiche e rievocative di un passato colmo di soprusi sangue e danze, sopra i corpi dei vinti.

-titolare, tradurre e tramandare toponomastica, in maniera a dir poco infantile se non inopportuna, specie per chi non ha titolo e formazione, ma veste fasce e abiti istituzionali

– allestire storia secondo l’antico manuale dei potenti che riteneva il popolo fatto di ignoranza e chi governa può dire e fare tutto.

Gli esempi da sottoporre e non diffondere sono molteplici, quindi è meglio fermarsi per attendere che chi comanda sappia cambiare idea o abbiano più fiducia, di che non si sporge pericolosamente dai campanili, preferendo restare con i piedi a terra e parlare pino, in Arbëreşë.

Non per essere ascoltato da comuni viandanti distratti o di chi cerca opera di cultura fatua, per fare spettacoli radio televisivi o notizia.

Oggi è il tempo di seguire quanti con operosità traducono e interpretano ogni cosa, per tracciare in maniera indelebile la storia dai tempi del Kanun, seguendo il solco strategico da Giorgio Castriota, seminato di grano buono, dai su citati eccellenti di genio Arbëreşë.

Tre è il numero perfetto e Baffi, Giura e Torelli il modello da seguire e imitare, gli altri…. riversano aceto sperando un giorno, diventi vino buono.

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TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Protetto: TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Posted on 15 settembre 2024 by admin

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donne

SE NON AVEVI ANATOMIA DA SPOSA ADELINA NON TI FACEVA INDOSSARE STOLLITË (Pà sisë ,bidë e gofe, nenghë thë kielenë stollitë me garbë)

Posted on 13 settembre 2024 by admin

donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I costumi Arbëreşë sono veri e propri manuali, un componimento sartoriale, cucito e rifinito dal XVII secolo, seguendo le direttive, di credenza e contenuti.

Essi per questo assumono un ruolo culturale solido e continuativo, il più colmo di memoria delle origini e quanti hanno modo di osservarli, avendo sempre a fianco un illustratore adeguatamente formato, ne possono cogliere i valori di appartenenza.

Il costume per questo rappresenta un vero protocollo figurativo, fatto di contenuti depositati con garbo, in quelle innumerevoli cuciture e pieghe, come si fa con i libri o, quando si dipingono paesaggi per memoria.

Essi rappresentano la traccia dell’antica civiltà mediterranea Arbëreşë Bizantini, attraverso cui sono stati inseriti, concetti generali delle civiltà Indo-Europee.

Si riconoscono per il percorso che svolge la donna nell’ambito del governo delle donne nel corso della vita, in ruolo di: Sposa; Regina della Casa; Giornaliero; Vedova; Vedova Incerta.

Le stoffe di questi vestiti tra le pieghe, i ricami e colori sin anche in doratura clericale, contengono le tracce del cammino di noi arbëreşë, per questo il costume, indossato in maniera superficiale e con poca gradevole devozione, denota tutto il disprezzo verso le pene dei nostri avi, i quali, riverberarono sudore e sangue, per lo sviluppo economico e sociale delle discendenze in quelle sante terre parallele ritrovate.

Come i costumi e, del resto altre cose di dominio generale materiale e immateriale, contengono strati multisecolari, facilmente leggibili con figure titolate o con memorie storiche locali, con i quali e per i quali, confrontando le cose con quelle della odierna Albania, lasciano emergerebbe quanta differenza culturale sia stata introdotta nelle cose parallele portate dalla terra di origine, oggi, moderna storia Albanese, e mi riferisco a quella oltre Adriatico istituita agli inizi del secolo scorso, dove sono attinte atti e movenze, da quell’est, che agli avi Arbëreşë mirava ad incuneare amaro e pena islamica.

Da non confondere, con i legami della civiltà dei nostri antenati dell’antichità di quelle terre, con quanti, oggi con movenze ignobili femminili, arrivano per ricordare i primi venticinque anni del nostro eroe Giorgi Castriota, dipingendolo di “beg” e non d’azzurro dell’Atleti di Cristo.

Nessuno cita le vicende di mutuo soccorso, quello, sano e indissolubile del Drago, che è raffigurato, nella Capitale Napoli dal XV secolo, lo stesso che ha consentito ai nostri avi, di essere accolti e considerati come profughi buoni e, non da invasori violenti e malvagi, un costume, che nessun genere di radice Arbëreşë, ha mai indossato.

Nonostante nel quindicesimo secolo sia stato fuso in materiale bronzeo l’apporto dell’atleta Giorgio oggi lo si espone senza attenzione alcuna come quando lui era ricattato e costretto a fare gli interessi delle cupole con terminali caprini di corna difformi e, simulare luna crescente

Infatti le coloriture dello storico costume, sono di Azzurro: il Cielo la credenza; Rosso: la Fedeltà; il Verde: il Lavoro della terra; l’Oro la solidità o fondamenta economica; l’Argento: il Lavoro in miniera, Il Bianco Ricamo; il Marrone, la non conferma del marito scomparso; il Nero, il lutto; Il Nero sul Bianco, il lavoro di casa: Il Bianco ricamato la fonte per sostenere i generi.

Queste vesti, che passano di generazione in generazione, alcune volte sono state anche prestito, per avere misura di nuove confezioni, tuttavia se la conformità fisica o meglio l’anatomia della ragazza prescelta ad essere sposa, moglie, madre e, se le vesti non collimavano secondo un preciso protocollo di vestizione per la rappresentazione finale, con quella della modella in studio di vestizione finale, si preferiva non imprestare quelle vesti.

La misura che le sagge indossatrici del passato erano proporzione fondamentale si riferivano ai fianchi, i glutei, i seni e il rapporto dal giro vita, sino alla cima dei capelli, con quella di estensione sempre dal giro vita  di gambe sino al tallone del piede, due armonie fisiche, che se non riconosciute o individuate, dalle sagge madri indossatrici, a misura d’occhio, non davano agio di accoglienza per la prescelta, la quale dimessa con garbo, si doveva rivolgere ad altre sagge locali, che possedevano vestizioni per un fisico, poco armonico e con volumi che andavano altre la tolleranza da sposa.

Il manuale completo di vestizione è molto articolato e, in questo breve non è il caso di espandere in tutte le sue parti, Tuttavia esso abbraccia tutti gli elementi compositivi, i quali se non adeguatamente aderenti e coprenti con saggezza le parti femminili della procreazione con garbo e misura per il genere femminile che si espone a procreare, diventano mera esposizione senza volto o valore femminile, come purtroppo frequentemente accade senza alcun garbo e rispetto, in musei e feste di rappresentanza. 

Il protocollo è ancor più articolato e consistente, fornendo l’indelebile e unico protocollo di vestizione, che unisce il camino della Casa, con l’altare della Chiesa, tuttavia, forse è meglio rimandare ad altre attività compilative della nostra storia e, qui, non distrarre troppo i comuni viandanti.

Tuttavia è meglio non esagerare con temi e diplomatiche di lume veritiero, altrimenti si finisce per alterare troppo la realtà allestita da e per viandanti, i quali affermano e dicono di aver studiato ogni cosa, non avendone e lume per farlo, in specie come quello rilasciato dagli Olivetani moderni per esporre cose lette, riverse e definite da altri.

Resta un dato, ovvero, che nonostante l’intellighenzia artificiale, ringrazia e accoglie tutti i cultori di spessore che collaborano con lei e gli offrono nuove diplomatiche di conoscenza, quella degli umani fatta di Istituti, Istituzioni, Amministratori titolati da comuni studiosi o topi di archivio, biblioteche e musei senza muse di memoria compiuta, discriminano quanti si distinguono in discipline specifiche, lasciandoli penare come è successo ad Adelina Pizzi, che non le e stato dato neanche l’agio di essere anagrafica.

Ed è lei che oggi osserva misura, disapprova quanto di parallelo e vile, le sia stato reso, per negarle sin anche la vita a lei e agio per quanti donato tutto per il bene della R.s.d.s.A., lei essendo consapevole che il cielo è colmo di pianeti buoni, con una Luna e un Sole, questi “ultimi” mai assenti e sempre pronti a dare visibilità a tutti gli uomini che istituirono, inventano, promuovono e distribuiscono senza mai riposare il male assoluto e fine a sé stesso.

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I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

Posted on 04 settembre 2024 by admin

bovaroNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.

I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.

In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.

I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.

Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.

Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.

La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.

Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.

Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.

Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.

Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.

Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.

Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.

Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.

La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.

A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.

Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.

Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.

Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.

Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.

I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.

Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.

Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.

Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.

Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.

Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.

Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.

Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.

Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.

Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.

Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.

Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.

Commenti disabilitati su I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambiti attraversati, bonificati e ricostruiti per essere vissuti degli Arbëreşë, ha avuto modo di replicarsi senza soluzione di continuità, il modello sociale di parlato, adottato storicamente, nella Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, ben sedici macro aree evolutesi esclusivamente grazie al parlato materno e il buon ascolto dei figli/e mai distratti/e.

In tutto il meridione italiano diffusamente distribuita e storicamente integrata questa consuetudine viva, che non ha mai subito pieghe di sorta dal XIV secolo sino agli anni sessanta del XIX secolo ad oggi e, nessuno, confermo nessuno, ha perso padronanza o misura di questo parlare così acquisito.

Il tutto avvenuto senza alcun supporto di immagini, testi o vocabolari grafitati o scritti, specie se riversi e inutili con parole in lingua Albanofona (?) illeggibili, incompressibili e, avendo una radice somma di sostantivi in italiano irrecuperabile, se non leggendo, senza distrarsi l’intero edito, con vocaboli inutili e senza radice di memoria.

Infatti nessuno della vecchia dinastia e della nuova, dagli anni cinquanta sino al 1975, ha mai avuto insegnamento per acquisire il parlato Arbëreşë, chiaramente quello definibile della crusca, che non ha mai usato libri calamaio o pennini, perché tutti gli allievi hanno vissuto sotto il vigile governo delle donne e i magici luoghi dei cinque sensi: il camino che riverberava e crepitava in lingua parlata, sin dove si estendeva la Gjitonia.

Chi scrive è una memoria attenta e sempre presente di questo titolo accademico senza eguali e che non ha bisogno di riquadri lignei o di genere, per il titolo accademico del parlato più solido e irraggiungibile da nessun istituto o istituzione allestita in epoca moderna dirsi voglia.

Il titolo della crusca Arbëreşë, inizia con la descrizione del corpo umano tutto, si estende alle cose della natura, che lo rendono vivo e gli consentono di fare agricoltura, grazie a consuetudini, la credenza e il costume rispettivamente: del comune vestire, in sposa, regina del fuoco e vedova di vita o incerta.

Questo titolo ha come sede naturale i quattro sheshi, tipici dell’urbanistica Arbëreşë, gli stessi organizzati secondo una rifinita Iunctura familiare di luogo specifico, senza vincoli o recinti fisici di sorta.

Tutti gli allievi sono fieri di partecipare e non perdere una lezione, dal primo giorno di vita e sino che si ha possibilità di confrontarsi nel corso della propria vita e, sin anche da vecchi quando non si è più in grado di auto sostenersi nelle case, oggi di cura, per chiedere aiuto e ricevere conforto in Arbëreşë.

Il titolo che è un riconoscimento ideale del luogo natio, lo senti lo avverti nel cuore e nella mente e ogni volta che l’orecchio avverte striduli linguistici e sobbalzi, disapprovi quelle stonature o compilazioni inutili che non ti risvegliano memoria, ma fanno danno profondo attorno al tuo avanzare fiero. con quel titolo fatto non di volatile farina fatua, ma crusca e odori di criscito locale del tuo forno di casa.

Chi ha un titolo della crusca arbëreşë, conosce i protocolli del saluto, sa quando restare e partecipare o allontanarsi dalla discussione, conosce i tempi e i modi per apparire senza mai prevaricare genieri e figure di rilievo.

Il titolato non palesa mai forme di rispetto a nessun essere umano, conoscere il tempo di farsi da parte, in tutte le cose che fanno la vita comune degli Arbëreşë con titolo valido di crusca e, quando uno di questi dovesse venire a mancare, il titolo scompare e si diventa comuni llitiri, diffusamente infarinati, per essere subito riconosciuti.

Questo era un titolo di studio che si acquisiva prima di iniziare il ciclo primario delle scuole dell’obbligo italiane, un tutolo di crusca, che assieme a tutti i tuoi coetanei davano forza al consuetudinario storico, certificando, toponomastica ricorrenze e parlato al proprio centro antico; forza storica di una memoria composta e compilata di consuetudini, ascolto e movenze ritmate, quando si doveva festeggiare la memoria dell’Estate degli Arbëreşë, quella ricordata nel 1775 da Baffi nel “Discorso” della storia degli abitanti delle antiche terre, oggi denominate Albania.

Di tutte le generazioni parlanti questa lingua, nati prima del 1975 e poi maggiorenni nel 1996, il parlare Arbëreşë è diventata parte fondamentate seguendo i tempi del vivere insieme e non certo leggendo libri o compilazioni del comune alfabetare, divenendo per questo, le memorie storiche dell’odierna promozione di questa lingua antica, conservandone sia il senso che il valore di ogni macroarea.

Nonostante ciò non sono mai interpellati nelle manifestazioni che contano e vedono promuovere il pianeta delle consuetudini e delle architetture del bisogno vernacolare, le stesse che ripetutamente e senza riguardo sono compromesse a tutto campo e sin anche le prospettive storiche, rivitalizzate con inopportune raffigurazioni.

E delle quali si cerca di valorizzarle, invitando e dare la scena a quanti non hanno alcuna percezione di cosa sia e cosa rappresenti la R.s.d.s.A. e il suo parlato non scritto.

La valenza del parlato è stata sempre circoscritta e diretta al corpo umano e, sin anche nelle esternazioni del saluto tra generi non ha mai valicato questo limite.

Vero resta il dato che nelle attività sociali il saluto non è mai rivolto al tempo del giorno, mattino, pomeriggio o della sera dirsi voglia, ma esclusivamente, al benessere e allo stato del corpo umano in continua crescita evolutiva.

Un altro dato fondamentale di questo aspetto sociale del parlato è la valutazione che di giorno in giorno, si facevano degli allievi della Gjitonia, in tutto delle nuove generazioni di generi in crescita, il primo eseguito dal governo delle donne, che con cadenza specifica riferiva fatti e necessità al governo degli uomini e al reggente del modello di Iunctura locale.

Era questi in base ai dati pervenuti in forma orale, a valutare le necessita e le caratteristiche di ogni figura e del suo ruolo all’interno del gruppo che si poneva tra il focolare di casa e, la Gjitonia iuncturale.

Questa era una olimpiade giornaliera dove nessuno era escluso, sin anche quella sostenuta e portata avanti in forma di para olimpiade, dove ogni figura avrebbe avuto per il tempo del futuro, ruolo utile e non discriminatori, per nessuno dei partecipanti.

Il titolo della crusca acquisito dal camino sino dove arriva la Gjitonia, per una figura che ha affinato il sapere relativamente ad aspetti storici e delle arti architettoniche, urbanistiche e del restauro conservativo.

Nel momento in cui sono stati avviati nuovi stati di fatto, con dipartimenti di ricerca, relativi agli ambiti naturali e costruiti di tutta la R.s.d.s.A. e del suo percorso evolutivo, ha dato agio per continuare e fornire nuove frontiere di studio, rivolte all’edificato storico e dei suoi materiali di epoche specifiche dei centri antichi Arbëreşë.

L’insieme lingua della Crusca e titolo accademico degli Olivetari Partenopei, ha consentito di raggiungere mete di studio, tali da fornire risposte significative, sia delle consuetudini, del parlato delle credenze, del genio locale e sin anche del valore aggiunto all’intero ambiente naturale dove questi Katundë hanno iniziato a dare vita e coerenza a ogni evento naturale accaduto.

Questo ha consentito attraverso modelli G.I.S. di addivenire a nuovi modelli di studio sino ad oggi ignoti a numerosi dipartimenti preposti al mono tema, che inquadrano la R.s.d.s.A., come un modello linguistico di radice incerta, in perenne evoluzione, senza tenere conto che la minoranza  Arbëreşë, trasferendo questo suo modello sociale, sei secoli orsono dalle terre della odierna Albania, rappresenta la costanza, che porta nel su intimo, il rispetto degli altri popoli e per questo capace di essere, esempio di integrazione mediterranea, in credenza cristiana. 

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