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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

132201199-l-agricoltore-usa-il-chiodo-e-il-martello-sul-nuovo-ferro-di-cavallo-forgiato-sullo-zoccolo-delNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi dirò, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti, forse riderete di me perché non sono istituto, ma una promessa data quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile in esecuzione per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni, di esporre i risultati, ma credetemi è costata tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più dime a questi luoghi lagrimosi ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire e salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare e, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti e attività che non sono mere e semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edifica e il suo valore storico identificandone, l’originario impianto del bisogno otre s definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget e le risorse indispensabili da porre in essere il fine più idoneo e perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate  o allestisce consigli, che si credono eccellenza giacche eletti, ai quali se proponi cose con finalità storiche invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando il tempo di saggiare manicaretti, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o sopporta di vedere, se non per il continuo dissipare risorse.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio uno svolgimento e una fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o a ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2025 by admin

 

GjitoniaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questo breve tema di studio si vuole definire lo spazi Katundë da cui iniziarono a muoversi e, come servì a sostenere le terre parallele ritrovate, per essere caratteristica e agio consuetudinario degli Arbëreşë, avendo a riferimento i Danteschi valori che descrivevano la “terra lagrimosa dolce”, il luogo dove il vento, passa sopra un pugno di pia gente.

Il che lascerebbe immaginare che un Katundë Arbëreshë, sia insieme umido, ma non è così, infatti le lacrime appartengono alle persone sensibili e, colme di valori emozionali di sentimenti solidi, in oltre il vento, che qui accarezza i generi, rende l‘ambiente sano e colmo di sensibili valori identitari, come una carezza materna viene rivolta al nascituro.

I Katundë in ragione del patto stipulato da indigeni e Arbëreşë, con testimoni la luna e il sole, viene predisposti secondo “arche di accoglienza” con funzioni specifiche da Giorgio Castriota in comune accordo, con il re Aragonese Alfonso V d’Aragona, più noto come il Magnanimo, grazie ai quale dal 1471 sino al 1502 giunsero profughi dalle terre oltre adriatico.

Cui segui una seconda ondata con ottomila profughi Grecofoni/Arbëreşë dopo il 1535, consolidando l’accoglienza migratoria del bisogno, per la salvaguardia del patrimonio culturale, portato nel cuore e nella mente dalle terre Balcane, per essere radicate senza alcun innesto mussulmano, in quelle terre mantenute dagli Angioini sino ad allora aride, impappolate e senza una consuetudine solida e duratura.

Va in oltre sottolineato che in urbanistica, il termine “arche” è usato per descrivere il principio o la base su cui si fonda un centro urbano e la sua pertinenza territoriale in valore.

E facendo riferimento alla struttura originaria di un centro abitato, come un Katundë articolatosi nel corso del tempo, il tutto restituisce uno scenario storico solido, indelebile e impenetrabile.

In questo contesto, si può parlare di “arche” anche quando si analizzano le fasi storiche di sviluppo, osservando come i principi fondatori del Katundë, siano legati ad uno specifico territorio il suo uso, la distribuzione degli spazi privati e pubblici, e ritrovare la connessione di queste funzioni, di come abbiano generato e influenzato la crescita o lo sviluppo di questi luoghi di memoria storica.

Quando si affrontano argomenti con tema i sistemi abitativi e i relativi ambiti Silvicoli, Agro e Pastorali, ritrovati per allestire consuetudini di origine Arbëreşë, bisogna essere molto scrupolosi o meglio attenti e giustamente formati, prima di diffondere teoremi, nomi, sostativi e tempi, ande evitare di dover poi dare ad altri il compito o la pena di correggere ogni cosa, allestendo diplomatiche, che dovranno correggere i teatrini senza regia, con protagonisti tempo, natura e omo, tutti ignudi ed esposti vergognosamente senza rispettare la memoria e storica.

Il sistema abitativo Katundë, (dall’Arbëreşë); “luogo di movimento e operoso”, vero e proprio germogli di risorse umane dove partire, per espandersi lungo le vie di cresta, di risorsa aurica territoriale, fatta di ori silvici a monte e, pastorali in agri verso valle.

Il sistema cosi, riconosciuti, non sono semplici da intercettare e definire correttamente, specie da chi non è formato e sa fare un mestiere specifico, perché le similitudini ad altre realtà storiche equipollenti, non sono di facile lettura e, quasi sempre generano o hanno generato, libero valore storico, attribuendo a quei luoghi, termini e cose senza definizione o appellativi specifici riferito alle tempistiche di sviluppo, privi dei minimali valori del bisogno e tradizioni di questa antica popolazione, del vecchio continente europeo; in tutto un patto stipulato tra uomo e territori, con il sole e la luna a rivestire il ruolo di testimoni.

L’insieme abitativo e le pertinenze di territorio fondamentali per il sostentamento, sono l’insieme che, nel protagonismo abitativo, racchiude nel percorso evolutivo fatto dalla natura, l’uomo e il tempo poi annotate nelle pieghe o trame della storia stese al sole e illuminate anche dalla luna senza veli, per questo, chiare ed inequivocabili.

Generalmente lo spettacolo naturale lo offre la collina, secondo le teorie di Aristotele, annotate nel libro settimo, dove rifermento della collocazione altimetrica dei presidi abitativi e dei relativi abitanti dice:

chi risiede in montagna dove il freddo incide al processo sociale è tendenzialmente chiuso e ristretto nelle sue attività di coesione e produzione.

O ancora peggio chi vive vicini al mare, generalmente incline all’ autarchia e irrispettoso delle leggi, per le troppe frequentazioni, riferendo così chiaramente a quanti mirano a promuovere sé stessi e la loro pletora servile; diversamente da quanti abitano e vivono in ambiti collinari sono notoriamente predisposto alle attività e alle arti valorizzando luogo e genti pronte al sacrificio per il bene comune.

Infatti questi ambiti sono i più strategici ad offrire risorse naturali, in forma acqua dolce di sorgenti o torrentizi, boschi per legna, oltre i terreni più fertili per l’agricoltura e la pastorizia.

Inoltre, i terreni collinari possono essere più favorevoli per alcune coltivazioni rispetto alle pianure troppo soleggiate o le montagne troppo fredde per ogni attività.

Nel contempo la collina offre la posizione naturale difensiva più idonea, rendendo più difficile, il sopraggiungervi dal mare, in tutto un punto elevato, facile da sorvegliare a scapito di ogni sorta di invasore.

Le zone collinari sono meno suscettibili a inondazioni rispetto alle pianure. Essendo situate a un’altezza maggiore, queste aree sono più sicure in caso di piogge intense o fiumi in piena.

Esse beneficiano di un clima più temperato, evitando il caldo eccessivo delle pianure, alture a offrire una maggiore ventilazione e condizioni più salutari, considerate luoghi sacri o simbolicamente significativi in molte culture, e costruirvi un insediamento conferiva prestigio e un senso di “elevazione” rispetto al resto del mondo.

Va in oltre sottolineato, il dato secondo cui gli Arbëreşë sopraggiunsero nel meridione lungo gli abbracci naturali delle coste dello Jonio e preso atto della pericolosità di quei luoghi troppo esposti, oltre le insidie dalle famigerato anofele, per le vicende derivanti secoli prima a loro sconosciute ma che la storia odierna attribuisce al dominio romano, un il danno ambientale prodotta, quando utilizzarono e spogliarono l’appennino meridionale, estirpando alberi per sodisfare le esigenze dei loro innumerevoli cantieri, rendendo i corsi fluviali palladosi, cosi come tutte le piane di deflusso verso il mare.

Questo è anche il motivo o dato di fatto secondo cui, ogni centro abitato, non è mai allocato ad altitudini inferiori ai 350 metri sul livello del mare, lime storico, dove questo insetto infestante trovava il suo ambiente ideale per colpire e trovare agio di lunga vita e solo l’altitudine indicata precedentemente le rendeva inefficaci le sue mortali punture, non erano più terminali.

Questo limite territoriale, in genere, era individuato con il toponimo di “Vote” indicante, un torrentizio disposto prima della via di costà da non superare.

Tuttavia per esigenze lavorative si poteva anche fare, breve permanenza e con particolari momenti climatici non dilungati, oltre una ben nota fascia giornaliera climatica, che assolutamente non doveva essere prolungata oltre misura di esperti o di residenza prolungata e stabile.

Qui chiaramente ci addentreremo, focalizzando la ricerca di Paesi, Vichi, Contrade, Civitas, Casali e ogni altro agglomerato urbano di collina abbandonato o poco abitato al XIV secolo della Calabria Citeriore, un tempo risorsa della Sibari fannullona, poi bizantina e, sogno di conquista dei longobardi, poi trasformate in grange cistercensi e in fine mira degli Arbëreşë senza terra o dimora, in apparenza.

Giacché come accennato prima, luoghi da sottoporre a controllo dei regnati della capitale Napoli, visto i trascorsi di interessi dei principi locali e le loro dinastie con i trascorsi francofoni, non più tollerati.

Da ciò quando gli arbëreşë giunsero in questi ambiti di arche concordate e pre definite, trovarono un sistema religioso, affiancato a un insieme articolato di abituri estrattivi, dovendosi per questo prodigare ad affiancare il sistema di promontorio e quello di nuova edificazione civile più consona alla propria consuetudine.

Quella che in alcuni casi li costrinse a una distanza di sicurezza che se il presidio antico ritrovata aveva valore di autonomia religiosa o civile si doveva rispettare la distanza minima di mezzo miglio.

Va sottolineato che dal punto di vista amministrativo dei territori, incidendo, con gabelle per sostenere credenza e vita civile senza alcun servizio.

Dove clerici locali e principi riscuotevano per conto della credenza papale e quella civile della reggenza del regno napoletano.

Questo in specie era diviso in principati, dove ognuno pensava a favore del proprio orticello per diventare nota produttiva di vanto ai piedi del re, accontentandosi solo di partecipare alla reggenza alta, come sempre figure di secondo piano, mentre quella regia era sempre affidata a dinastie ora francofone, ora ispaniche e sin anche austriache, tutto qui alternandosi a dominare e allestivano il loro trono nei variegati castelli, secondo una costante storica singolare.

E solo pochi storici, furono capaci a rilevare, ovvero le merlature della difesa della residenza reale, nella capitale che non erano rivolte a mira delle vie degli invasori facilitate dal mare, ma verso la citta ribelle, per sottomettere la larga e variegata strada di residenze principesche del regno.

Infatti non c’è mai stata una dinastia che sia originaria di Napoli o che possa essere definita tale, vero resta il dato che quanto la città e la sua regione hanno avuto un’importante storia di dominazioni straniere o dinastia alcuna in originarie del territorio del regno.

Anche “Partenope” si riferisce all’antica sirena mitologica ma comunque di radice Greca, quindi storicamente non c’è mai stata una dinastia autoctona che abbia regnato direttamente sul Regno di Napoli in modo esclusivo.

Infatti le dinastie che hanno governato la città e il regno, furono Angioini, Aragonesi e Borboni, provenivano da fuori Napoli (Francia, Spagna e Austria).

Questo singolare processo di dominazione, ha reso gli arbëreşë partecipi al pari degli indigeni locali, che non si sentivano a casa propria liberi del vivere il proprio territorio.

Nascono per questo pensieri contrapposti, che per i loro conflitti interni non mutano per secoli e bisogna attende i catasti onciari e il successivo decennio francese per vedere uniti territori secondo aree omogenee e vedere scomparire la cassa sacra che lascio ai legittimi contadini nuove porzioni di terreno.

In tutto i rioni riconoscibili in Chiesa, Kallive, Karinë relletë, Bregù a cui nel tempo si articolarono nuovi şeşi in grado di generare il sistema Katundë ad iniziare dalle case additive o vernacolari del bisogno.

I rioni su citati, rappresentano il percorso evolutivo che il borgo ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, inizia la definizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

Gjitonia, sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antica scuola di formazione governato dalle donne indispensabile per la consuetudine, le arti e il parlato arbëreşë oltre i valori di credenza cristiana costantinopolitana.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici e, si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari e dei silvici luoghi di pertinenza locale.

Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata o ricentrata dirsi voglia, per questo, Katundë rappresentano il cardine e rappresenta la terra lagrimosa che sostiene lingua, religione e storia, quell’ambito capace di produrre il modello d’integrazione più riuscito, solido e duraturo del mediterraneo.

Il piccolo elevato vernacolare, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati, poi blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena, realizzando la casa che di volta in volta soddisfa il bisogno abitativo del bisogno familiare.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente soppressione della Giunta di Cassa Sacra, gli del Katundë ebbero un nuovo sviluppo urbanistico/architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

È questa l’epoca in cui si migliorano i cunei agrari della produzione e della trasformazione, in ogni Katundë, Paese, Frazione o Contrada arbëreşë o indigena, si elevano cosi dal secolo XVII al XVIII, i palazzi nobiliari, influenzata dallo stile Barocco, con lune facilmente riconducibili ad un’epoca ben precisa.

Gli ambiti urbani, assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello con uno spazio di tempera per evitare il troppo calore estivi e il freddo dell’inverno.

Va in oltre precisato che dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, i frazionamenti delle proprietà abitative, richiesero l’uso delle scale esterne, (il profferlo), in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive di vie, ruga, Vallj, aggiungendo modesti ristretti supportici che consentivano appena il passaggio di asini con le ceste.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e la classe media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici e inserendo in molti esempi ancora esistenti, anche se alcuni sono stati inglobati o resi parte del volume di questi storici manufatti, che in questo modo hanno ingabbiato sia i profferli di accoglienza che i minati di affaccio nobiliare.

Il sistema urbano veniva organizzato secondo pertinenze di Iunctura familiare, localmente denominati o specificamente identificati nel loro insieme; in “rioni di toponomastica storica” organizzati secondo i bisogni di determinati intervalli storici, un compromesso abitativo tra indigeni locali di antica radice di conquista, a cui si aggiunsero, poi in due distinte epoche gli esuli Arbëreşë della diaspora, prima quanti giunsero dopo la morte dell’eroe Giorgio 1471/1502 e dopo gli Epiroti o Coronei del termine del 1533.

In Arbëreşë denominati Şeşi e, non sono meri spiazzi o piazzette dove affacciano gli ingressi di un numero indefinito di case, come comunemente è stato diffuso, da inadatti teoreti, senza alcuna formazione storica, se non quella di riversare aceto contaminato ad opera dei liberi mescitori delle cantine locali, dove il vino veniva unito ad acqua, e spacciato per esempio genuino.

Essi sono un sistema urbano fato di Case Vernacolari (Kalivatë), Vicoli (Rruhat), Sottoportici (Suportë), Larghi senza Uscita (Vagllj i Mbulitur) Vicoli Ciechi, Vicoli (Rruhatpa sitë), Orti Botanici (Kopshëti jone) Scale in Salita (Udatë me Pedastrozullë), il tutto per compilare un insieme per la lenta percorrenza e il controllo di eventuali viandanti non appartenenti alla Iunctura specifica del Katundë.

Tutto l’insieme cosi compilato o realizzato era diretto dal governo delle donne e ed è in questi sistemi urbano che le donne conservavano consuetudini e tramandavano principi sociali e del parlato che poi erano la prova iniziatica delle capacita che i generi in crescita ponevano in essere, riverberando la solidità dei principi trasmessi, o ereditati.

Queste attività per la difesa della propria identità, in comune progredire, ha superato ogni genere di attacco sociale, culturale e sin anche religioso, ma la forza estratta dalla consuetudine di antichi valori,  hanno permesso o meglio consentito di superare e distogliere moltissime attività in tale senso.

Tuttavia dagli anni settanta del secolo scorso e sempre con più arroganza linguistica e antropologica, con editi a dir poco infantili e senza radice stoica, secondo direttive subliminali proveniente dalle rive frastagliate e in accoglienti il fiume adriatico ad ovest, li dove incide la luna e le stelle.

È inutile cercare di illuminare, con menzogna inimitabile il sole, in quanto il nero della notte porta pensieri solidi agli arbëreşë, che stendono al sole le solide consuetudini che incidono le regole su quel “Calendario Marmoreo denominata Gjitonia”, che non potrà mai essere corretto, come si fa con gli scritti moderni, perché la consuetudine arbëreşë rimane scolpito nella pietra senza spazio di alcuna aggiunta.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                            Napoli 205-02-13

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IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

Posted on 09 febbraio 2025 by admin

PenelopeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Pe quanti conoscono la storia e affiancano processi sociali e crescita dei generi, avvicinare questi momenti di vita diventa, somma per allestire processi in grado di rendite alto il valore dei luoghi vissuti, specie se per continuare a conversare e, non perdere il patto stipulato con testimoni, il sole e la luna, al fine di fare Casa, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno hanno molte volte orientato la loro attività di ricerca, secondo percorsi, tesi ad aprire i confini della storiografia e, raccogliere tracce che confermino la presenza di uomini e donne, li abbandonati secondo autonomie sociali al fine di affrontare e rispondere in forma di mera soluzione, matematica.

Idee, mentalità e immagini letterarie, diventano così i simbolismi di solidità, che porta ad altri interessi, anche se, in linea generale possiamo definire antropologici, dove tutto si materializza in ambiti di studio, da attraversare, ma purtroppo come è successo nel passato, avendo come compagni lettori o traduttori locali, sconosciuti, e quasi sempre non sono lucidi osservatori, ma ignari viandanti che non hanno arte o memoria di nulla.

Tuttavia vi sono stati grandi intellettuali, come Giuseppe Maria Galanti, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare per ricevere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, a Giuseppe Galasso e le indicazioni verbalmente espresse in vari incontri, all’Istituto Italiano di studi filosofici a Napoli e, la caparbia lena di suoi discepoli, hanno reso possibile il germoglio del postulato a titolo. E rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di banali e negazionisti antropologi, che credevano “Gjitonia” fosse e un mero prodotto post industriale di mero vicinato.

Ovvero, la trasformazione avvenuta dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa che ha caratterizzato il XIX e gran parte del XX secolo, che comunque sono fuori dal nostro intervallo di Studio.

A tal fine e per analizzare il processo sociale sostenuto dal governo delle donne è utile iniziare con il citare le vicende storiche più antiche,

Dove emerge la figura di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei fedele tesseva e disfaceva il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (“anatra”) per essere scampata da giovinette dall’essere annegata, anche se per alcuni il nome è connesso all’evento della tela (dal greco- pēné), in quanto protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga.

Infatti, attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e dato per disperso, crescendo da sola il piccolo Telemaco evitando perennemente con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti e, grazie al famoso stratagemma: che di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, per essere fedele alla promessa di famiglia.

Mantenendo, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Alla fine, Ulisse tornò, uccise i provocatori della moglie e si ricongiunse con essa; tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, e simile alle tempistiche giornaliere, che ogni moglie arbëreşë, ha vissuto e trascorso, nelle innumerevoli Gjitonie, che caratterizzarono in antichità i Katundë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera prima del tramonto del sole, il marito partiva per i campi e rincasare dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici preparando corredi ed elementi tessili con i telai tessendo seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, e nel contempo allevavano i propri figli e sin anche quelli altrui, al fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, in tutto, ambiti non circoscritti e senza confini, se non quelli del rispetto e di cinque sensi, che qui si vivevano e si respiravano ad oltranza, per le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una tessitura solida di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kallive, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, che costituivano percorrenza lenta regolata dalla articolata e difficile percorrenza, colme di accessi delle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli orti botanici di pertinenza, in tutto “percorsi angusti”, articolati con scale apparentemente disorganizzato, perché mai facile o veloce percorrenza.

Strade che mirano a rallentare il comune viandante, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio orientate in direzione nord-sud, generando l’interazione sociale paritaria gestito dalle donne.

Gjitonia mantiene viva la continuità sociale e il confronto in ogni forma o sfaccettatura, diretta o indiretta, perché composta da spazi privati e pubblici in condizioni dove sono regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche di tessitura che proteggono l’onore delle donne, fatto di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici.

Il sistema così articolato divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, fatto di “tessitrici specialiste” di un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Furono molte le figure nobili o meglio femminili che qui transitarono del Gran Tour, infatti qui non transitavano gli uomini ma le donne e furono tante che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano erano attratte da questa apparizione al femminile dei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne, quando visitavano il meridione, apprezzando i manicaretti, le pietanze e i prodotti alcolici fatti con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa si recavano in questi luoghi per capire costumi colori e avere misura di un modo assai dissimile con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato e accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita, ma da oggi in poi, “intellettuali”, “antropologi” e ogni “sorta di lettore libero”, avranno da sudare non poco nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e il valore di Gjitonia, che non è stato mai Mero Vicinato Indigeno, ma luogo della tessitura delle donne Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-02-09

Commenti disabilitati su IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 07 febbraio 2025 by admin

photo_2025-02-06_21-28-11NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèù cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immagino che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande per accoglie sposi;

Eseguito per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa poi molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, perché voleva cantare volando e gridare:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

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“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE”  (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE” (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

Posted on 05 febbraio 2025 by admin

DA STATO A MANXANAa

PROGETTO PRELIMINARE DI RICERCA E COMPILAZIONE DEI PAESI CHE SONO

LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA DAGLI ARBËREŞË

(il modello completo di solida integrazione mediterranea)

 

Introduzione

 

Questa nota di progetto vuole essere una proposta per tutte le amministrazioni che mirano ad allestire o disporre attività di resilienza, nel rispetto e suggerendo le leggi che tutelano le minoranze storiche, in specie l’Arbëreşë, secondo le direttive qui di seguito elencate:

– Convenzione – Quadro tutela delle minoranze, Consiglio d’Europa 10/11/1994;

– Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Articolo 21), che vieta la discriminazione, dell’Unione Europea che privilegia il principio di non discriminazione in tutte le sue forme.

Costituzione della Repubblica Italiana:

 – Articolo 6 tutela le minoranze che vivono sul territorio nazionale;

–  Articolo 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico;

– La Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482, Art. 2. Comma 1, in attuazione dell’articolo agli articoli 3 e 6 della Costituzione Italiana a tutela cultura il parlato di minoranza storica:

– Decreto del Presidente Repubblica del 2 maggio 2001, n. 345 Art. 1 Comma 3;

– Decreto Legislativo del 22 gennaio 2004 n. 42 recante il “Codici dei Beni Culturali e del Paesaggio”;

– Legge della Regione di Abruzzo, Molise, Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria.

– Decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63,

le attività di seguito elencate formulano atti, attività e direttive, non intese come “divieto alla non uguaglianza”, ma, “sollecito ad acquisire atteggiamenti, misure, progetti e dispositivi il cui fine vuole concertare la più solida continuità culturale”.

Se a questo associamo le direttive che i PNRR, ovvero i Piani Nazionali di ripresa e Resilienza, come non adoperarsi a delineare, percorsi di salvaguardia delle regioni storiche sostenute dalle minoranze, che in Italia rappresentano i modelli di integrazione tra i più solidi, longevi e meno invasivi di tutto il Mediterraneo.

 

Premessa

Chi possiede una lingua materna, la storia con protagonisti i padri in campo a seminare bene,  i riti religiosi in Chiesa , le tradizioni e costumi come solido patrimonio, la Gjitonia che si concretizzano nello studio di generi e prodotti e dell’artigianato, la iunctura tra famigli che descrive architettura e ambiente, per il fine di continuare a essere patrimonio insostituibile, soprattutto in quest’epoca dove sono messe, seriamente, a dura prova per l’invasione commerciali e di nuovi simboli, espressi da grafiti indigeni non paralleli, restituisce  e fa una forza culturale irremovibile.

Il progetto qui i compimento in forma preliminare, si prefigge il fine di coinvolgere figure alte per accorare, un gruppo di lavoro, multidisciplinare, sulla base o la fonte di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologico, Storico, Sociologico, Psichiatrico, Architettonico, Urbanistico, Credenza Religiosa e Consuetudini diffuse dagli Arbëreşë, includendo anche altre discipline, per il fine di raggiugere il buon esito dell’operato di tutela e resilienza, seguendo protocolli di ricerca, relazioni, grafici e studi specifici di mire fondamentali di luogo naturale, tempo, epoche e uomini.

 

 

 

Temi di tutela per sostenere la resilienza di questo esempio di integrazione mediterraneo

 Ripristinare la parlata arbëreshë di macro area o di Katundë, avendo mira i lascito più antichi per le nuove generazioni, utilizzando in prima analisi i presidi scolastici con “un tempo breve” di avvicinamento e in seguito “ tempi più articolati ” per porre in essere corsi specifici come l’antico governo delle donne realizzava per la trasmettere la lingua, secondo direttive locali, con preferenza del parlato e del canto rimato, senza l’ausilio di musica, vocabolari e forme scrittografiche di alcun genere, come si usa fare con le lingue più forti, ovvero quelle sostenute dalla poesia e la forma scritta, qui mai utilizzata da tutto i buoni parlati e pronti per l’ascolto;

Recupero dei sistemi urbani di approdo e di sviluppo oltre i percorsi dell’economia tipici di necessità vernacolare, in tutto componimenti di iunctura familiare solidale intrecciata nei: Vicoli (Rruhat), Suporti (Sottoportici), Vicoli Ciechi Rruhat i mëbuliturë), Vallj (Spazi circoscritti senza Uscita) e Orti Botanici (Kopshëti) storicamente allestiti nel centro antico,  l’insieme poi finalizzato a compilare progetti di resilienza del centro antico, dove innestare e far rifiorire i valori sociali del Governo delle donne o luogo dei cinque sensi;

 

Allestire manifestazioni culturali e, convegni rivolti alla cultura, per la definizione di temi che troveranno allocamento in mostre evidenziando i percorsi storici di integrazione degli arbëreşë in generale e, quella di ogni Katundë e la sua macro area, nei dettagli più intimi; il tutto da apporre in una struttura di museo antropologico o in appositi spazi di libero accesso all’interno del centro antico e le attività proto industriali, innanzi il camino;

Studio e ricerca storica dello sviluppo urbano del centro antico, seguendo i ricorsi storici, sociale e dell’economia nel corso dei secoli, con apposizione di sistema planimetrico G.I.S. indispensabili a definire epoca e sviluppo e sistemi rionali secondo cui era composto a ha seguito il percorso di crescita il Katundë dall’essere centro antico e diventare centro storico;

 

Realizzare un’analisi toponomastica che possa definire l’ampliamento del centro antico seguendo la realizzazione dei quattro rioni tipici (Sheshi) e le pertinenze di origine come il cortile la casa e l’orto botanico, a cui seguirono i modelli più complessi di “Iunctura familiare”, articolata in quelli antichi e lineari per i più moderni.

Progetto dei pannelli toponomastici viari numerici, dei civici in caratteri Romani e Arabi, per la toponomastica di memoria locale, sia del centro antico, sia dei cunei agrari, silvicoli e pastorizia; in oltre eseguire la puntigliosa ricercare degli storici itinerari della transumanza di macro are e di radice di ogni Katundë, all’interno del suo agro di pertinenza;

 

Tracciare i percorsi di credenze del centro antico e, valorizzare le antiche icone del centro storico, oltre quelle dei cunei della sostenibilità agraria, cercando di cogliere l’orientamento a associarle agli accadimenti storici, datandone la realizzazione con gli elementi che solidarizzano e compongono gli levati.

Definizione dei cunei agrari della produzione, della trasformazione e conservazione del bisogno sostenibile proto industriale eseguiti davanti al camino o al forno del modulo abitativo del bisogno vernacolare.

 

Ampliare i musei monotematici del costume, volgendo l’interesse non a temi specifici ma di largo interesse antropologico locale, con sezioni a tema di costumi e momenti di vita domestica giovanile e di rappresentanza, o delle attività e lavorazione, dei prodotti Solanizzati, in tutto l’arte del genio locale sostenuto e diretto dal governo delle donne;

 

Comporre una postazione video e audio, del parlato per l’ascolto di macro area, al fine di fornire alle generazioni più adulte di tramandare i valori originali per la discendenza del parlato e dell’ascolto secondo antiche consuetudini;

 

Formare un gruppo di giovani/e residenti locali, al fine di rispondere con cognizione storica locale e generale con coerenza, alle richieste di turisti della lunga o della breve sosta e, rendere interessante l’accoglienza, riverberando informazione specifica della minoranza, sia del centro antico, che del territorio agreste, della macro area di pertinenza, accompagnano i turisti lungo le trame viarie del centro antico e, avvertire i valori dei cinque sensi qui depositati tra gli elevati di iunctura familiare, in tutto i valori solidi che fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë;

Formulare un elenco vernacolare del perlato primo in Arbëreşë, ovvero identificare il corpo umano di genere e le necessità naturali del bisogno di vivere, oltre a tutte le movenze e le cantilene di ironia, per fare memoria di vicinanza allerta sociale da tramandare alle nuove generazioni e come il senso Gjitonia, anche del parlato e dell’ascolto non scritto;

 

Realizzare percorsi pedonali con l’utilizzo di materiali autoctoni di antica necessità, creando le prospettive secondo l’uso dell’epoca, si serviva di prodotti naturali o estrattive, realizzando forme e pianori aditivi del bisogno o della necessità dell’epoca in continuo progredire;

Gli stessi che segnarono i percorsi dell’operato di credenza locale, per i tanti scampati pericoli naturali, come carestie terremoti e pandemie, in tutto momenti di isolamento e pena che misero in dubbio la continuità sociale e produttiva dei cunei agrari e sin anche dei centri abitati, in forma proto industriale.

 

Intercettare i lavinai storici, che resero possibile il sostenersi all’interno dei sistemi articolati, in quanto unica risorsa naturale per igienizzare e rendere vivibili quegli ambiti.

Analisi di ricerca e studio degli effetti della legge 482/99, nazionale e quelle regionali estrapolandone i benefici e le manchevolezze di tutela non contemplate rispetto a quelle troppo esaltate; annotazioni da sottoporre a politici e istituzioni, per le mire non raggiunte per il ventaglio ristretto estrapolato dalla lettura, per meglio dire, i processi involutivi non previsti e ancora non meglio contemplati;

Studio del costume tipico, di: giovane donna; sposa; regina della casa; giornaliero; lutto e, vedova incerta; attestandone sin anche le varianti e le inesattezze nel corso dei secoli, che oggi sono attesti in editi, convegni e tesi dipartimentali;

Studio dei processi di organizzazione urbana, tipica e articolata secondo i rioni tipici che fissano le varie e poche e le genti che qui trovarono agio di vivere, secondo la riorganizzazione Prima greca, poi bizantina, in seguito longobarda poi cistercense, arbereshe dominate da francofoni, austriaci e ispanici.

 

Definizione dei sostantivi che identificano il centro abitato, i Rioni, le Piazze, le Vie, gli Orti Botanici e i Valori di convivenza sociale largamente utilizzati senza alcuna Radicanza Arbëreşë;

Progettare il percorso ideale del costume all’interno di musei ed eventi, secondo disposizione e temi, predisposti da titolati, fornendo la più giusta e idonea linfa espositiva, che molto spesso non trova ragione di essere tema di memoria;

 

Ricerca storica delle figure di eccellenza Arbëreşë, nelle discipline: di Credenza Economiche; Politiche, Scienza Esatta e del patire storico, sino all’unità d’Italia e ancora oggi nel confronto con la terra madre;

Le Credenze locale e Sociali, oltre fenomeni paralleli laici, la terminazione del rito Ortodosso, per il Latino e, gli atti che determinarono l’esigenza del Greco Bizantino;

 

Valorizzare la giornata del Termine per gli Arbëreşë, il Carnevale gli appuntamenti storici della stagione lunga; l’Estate e di quella corta; l’Inverno.

La festa patronale e il significato storico locale dei Santi, tracciando le vie della devozione di ogni Katundë;

 

Definizione solidale e condivisa di Katundë, Borgo, Paese, Contrada, Rione, Quartiere, Gjitonia, Sheshë, Drjtësora, Ruitoj oltre i toponimi indigeni da non contemplare perché appartenuti alla storia prima che approdassero gli, arbëreşë;

Analisi dei processi costruttivi, primari estrattivi, quelli vernacolari del bisogno, per dare forma alle residenze prima e dopo il terremoto del 1783, intercettando i palazzotti o palazzati nobiliari, di crescita sociale ricostruiti secondo le imposizioni regie imposti dal governo centrale di Napoli

 

Vanno anche analizzati gli spazi temporali dei terremoti che hanno messo alla prova, territorio, uomini e i processi di sviluppo edilizio nei Katundë Arbëreşë attraverso i quali definire le tessiture petrografiche e degli elementi di laterizio in uso nei modelli architettonici utilizzati, a seguito dei numerosi eventi tellurici che interessarono la regione storica dal XIV secolo a venire.

Le Vallje: la festa dell’integrazione,

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KANDJLORA ARBËREŞË

KANDJLORA ARBËREŞË

Posted on 03 febbraio 2025 by admin

CandeloraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricorrenza che si celebra il 2 di febbraio, in tutto, la memoria che segna la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria, secondo la tradizione cristiana.

Il nome “Candelora” deriva dal latino “candelorum”, che significa “candele”, in arbëreşë ” Kandjlorë”, che ha come espressione diffusa il benedire le candele, simbolo di luce che rappresenta Gesù come “luce che illumina le genti” almeno questo è l’auguri che ogni credente cerca di mettere a regime specie dal punto di vista religioso etico e culturale.

In Italia, la Candelora è anche legata a diversi detti popolari e tradizioni e, in alcune regioni, è considerata un momento di passaggio tra l’inverno e la primavera, e si dice che se il giorno della Candelora è soleggiato, l’inverno durerà ancora sei settimane, mentre se è nuvoloso, la primavera è già vicina.

Tra queste regioni le più significative sono quelle che si dispongono nel meridione italiano e fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

Come si ricorda per quanti conoscono il parlato arbëreşë la Candelora è associata a previsioni meteo e l’eliminazione delle cose o le persone negative, in senso di tempo buono e figure formate idoneamente.

Un detto recita: “Se alla Candelora piove o tira vento, l’inverno è ormai al mezzo e comincia il suo declino” e se il tempo è sereno, invece, si dice che l’inverno durerà ancora a lungo.

La festa è anche legata alla purificazione della Madonna, che secondo la legge ebraica doveva presentarsi al Tempio dopo 40 giorni dalla nascita di un bambino maschio, per ricevere in dono la purificazione e simboleggia la sua consacrazione e la sua partecipazione al piano divino.

Dal punto divista sociale e della partecipazione dei generi, essa rappresenta anche il passaggio dall’oscurità alla luce, e in molte culture, questo è un momento simbolico per lasciare alle spalle le difficoltà dell’inverno e guardare con speranza alla primavera che arriva e libera la mente.

In alcune regioni, la Candelora è anche vista come un’opportunità per compiere atti innovativi o di rinnovamento rispetto all’inverno e, le pene esposte in pubblico dominio dalle istituzioni, sino al primo di Febbraio e, promuovendo limpide  forme di solidarietà culturale, di fratellanza e solidarietà.

La tradizione delle candele benedette, rappresenta dunque, sia la luce spirituale che quella fisica, facendo riferimento al rinnovamento e alla speranza, che il nuovo anno solare, a breve darà inizio, al fine che possa rendere ogni luogo espressione di un passato costruttivo e solidale.

Una regione storica dove chi vale va elogiato e chi non sa, deve sedersi e, ascoltare o apprendere le gesta e le ritualità degli uomini sani, tutti quelli che conoscono e sano fare, senza distinzione alcuna,  come è stato fatto nel modello di integrazione mediterranea dagli Arbëreşë, con Napoli capitale, mente e luogo storico di integrazione.

In tutto, la candelora è anche il giorno del termine di rappresentazioni a dir poco volgari, se non addirittura offensive verso quanti dedicano tempo danaro e impegno fisico e mentale, per illuminare di nuovo la regione storica diffusa degli arbëreşë e sin anche le menti rigide e chine, di quanti oggi fanno Albania , le terre  da dove un tempo si costrinsero a  migrare gli arbëreşë per non essere sottomessi culturalmente o mutare quella credenza antica, che parificava il sole e la luna.

Quello che avviene al giorno d’oggi è inconcepibile blasfemo e ineducato, non da forestieri senza scrupoli, ma dagli attivisti locali, che preferiscono estranei a casa nostra per approdarvi e spiegare come si terminano i quadrupedi, come si allevano e si rappresentano le consuetudini più antiche del vecchio continente europeo.

Questa candelora è il tempo adeguato a cambiare e, quanti non lo faranno dovranno a breve dare spiegazioni per non ardere con la luce che fanno le fiamme dell’inferno e magari scambiandole con la luce del sole e della luna della stagione che fa germogli, fioritura e frutti genuini per tutti i generi e senza distinzione alcuna.

Il Sole e la Luna sono spesso considerati simboli potenti con significati profondi, che variano leggermente tra le diverse tradizioni e culture dei Balcani. Tuttavia, ci sono alcuni temi comuni che emergono.

Il Sole è generalmente visto come un simbolo di vita, energia e vitalità, associato alla luce, al calore e alla crescita, elementi necessari per il benessere e la prosperità.

In molte tradizioni è anche visto come una divinità o una forza divina che protegge le persone e rappresenta anche il ciclo della vita, poiché, con la sua ascesa e il suo tramonto, simboleggia la nascita, la crescita, la maturità e la morte.

Esso è spesso legato alla fertilità, sia quella agricola che quella umana, e viene invocato per portare buon raccolto e prosperità nelle famiglie.

La Luna, al contrario, è un simbolo di cambiamento e mistero, legata alle fasi della vita, incarna la dualità, rappresentando l’oscurità, la morte.

E spesso associata al femminile, alla fertilità e alla spiritualità, vista come una figura che governa l’emotività, l’intuizione e i sogni, legata alle divinità o figure femminili che proteggevano la casa e la famiglia.

Connessa con il soprannaturale e il misterioso, spesso legata a leggende di creature mitologiche, come le streghe o i lupi mannari, che si attivano durante la sua piena fase.

Il Sole e la Luna rappresentano un equilibrio di forze complementari, una dualità che permea la natura e la vita quotidiana, con il Sole che porta forza e chiarezza e la Luna che governa il cambiamento e la dimensione spirituale.

Sì, nel contesto delle tradizioni sono interpretati come simboli che si riflettono nelle differenze tra cristianità (in particolare il cristianesimo occidentale) e ortodossia (che prevale nei domini orientali).

Sebbene il simbolismo del Sole e della Luna non sia direttamente legato a queste due religioni in modo esplicito, esistono delle interpretazioni simboliche che possono essere collegate a queste tradizioni religiose.

Il Sole comunque viene associato alla luce divina e alla Verità di Cristo, che “illumina” il cammino dei credenti e, rappresenta la rivelazione divina o la presenza di Dio nel mondo.

Nella cristianità occidentale, può essere inteso come simbolo di Cristo stesso, con il suo potere di illuminare l’umanità e di purificare attraverso la luce, connesso con l’Eucaristia e la Pasqua, che celebrano la resurrezione e la vittoria sulla morte, portando “luce” nelle tenebre della morte e del peccato.

Di contro la Luna, con il suo ciclo di fasi, va intesa secondo la relazione con la fede ortodossa e alla liturgia, celebrando molte festività secondo il calendario lunare, che segue il ciclo di questa, come nel caso della Pasqua ortodossa, che viene celebrata in una data diversa rispetto a quella cattolica a causa della differenza nei calcoli basati sul ciclo lunare.

Rappresentando per questo la misteriosità e la spiritualità del mondo visibile, può simboleggiare il legame tra l’umanità e il divino nella tradizione ortodossa, che è spesso più mistica e sottile rispetto alla cristianità occidentale.

La spiritualità ortodossa tende ad essere percepita come più legata al mistero, al silenzio, alla preghiera interiore, e alla venerazione dei santi e delle icone, che possono essere in qualche modo legati a questa simbologia lunare di ciclo e trasformazione.

Quindi, in un contesto metaforico, il Sole potrebbe rappresentare la chiara e radiosa presenza di Cristo nel cristianesimo cattolico, mentre la Luna, con le sue fasi e il suo cambiamento, potrebbe essere vista come un simbolo della profondità mistica e rituale della tradizione ortodossa. Naturalmente, queste sono letture simboliche che si sovrappongono a concetti più ampi di fede e spiritualità.

Sì, il concetto di dualismo tra il sole e la luna può essere interpretato come un simbolo che rappresenta opposti complementari in diverse tradizioni, comprese quelle cristiana e musulmana, anche se il loro significato specifico varia nelle due religioni.

Nel cristianesimo, il dualismo spesso si manifesta attraverso concetti come la luce e le tenebre, dove il sole può simboleggiare la presenza di Dio, la verità e la salvezza, mentre la luna può essere vista come simbolo di riflessione, rivelazione e mistero. La luce solare potrebbe rappresentare la manifestazione divina, mentre la luna, che riflette la luce del sole, potrebbe essere un simbolo di rivelazione indiretta o della Chiesa che porta la luce di Cristo nel mondo.

Nel mondo musulmano, la luna ha un ruolo simbolico molto forte. La luna nuova segna l’inizio del mese nel calendario islamico, e la luna crescente è spesso associata con l’Islam stesso. Il sole e la luna possono rappresentare anche la divisione tra il mondo materiale e quello spirituale. In alcuni commentari coranici, la luna e il sole sono visti come segni della grandezza di Dio, con il sole che rappresenta la Sua luce diretta e la luna che funge da guida riflessa.

In entrambe le religioni, quindi, questi corpi celesti, pur non essendo simboli esclusivi di un dualismo assoluto, giocano un ruolo importante nel descrivere la relazione tra il divino e l’umano, tra la luce e le tenebre, tra la verità e la riflessione.

La luna crescente è un simbolo comunemente associato all’Islam, anche se non è direttamente presente nel Corano, anche se il simbolo è stato adottato da molte nazioni musulmane e usato come emblema durante l’Impero Ottomano, e da lì si è diffuso in molte culture.

Tuttavia, è importante notare che la luna crescente non ha un valore religioso come lo potrebbe avere, per esempio, la croce per i cristiani.

Infatti essa è più un simbolo culturale, che rappresenta l’Islam in un contesto storico e politico, adottato in bandiere di paesi musulmani, come la Turchia, la Tunisia, e il Pakistan, la luna crescente appare accanto a una stella, ma il suo significato è spesso interpretato come un simbolo di rinnovamento, di speranza, o di orientamento.

Dal punto di vista religioso, la luna ha un’importanza pratica, poiché il calendario islamico è lunare, con i mesi che iniziano con la nuova luna, e anche il Ramadan e altre festività sono basati sul ciclo lunare.

Ma il simbolo della luna crescente comunemente non è strettamente una rappresentazione della divinità di Allah o di un concetto teologico specifico; piuttosto, è un simbolo che ha acquisito significato attraverso la tradizione e la storia.

In sintesi, sì, la luna crescente è un simbolo fortemente associato all’Islam, ma la sua connessione è più culturale e storica che teologica.

Tuttavia e in ragione di ciò resta un dato, ovvero, in alcune altre regioni storiche, esistano tradizioni di patti giurati “al cospetto del sole e della luna” e affonda le sue radici in pratiche ancestrali che mescolano elementi di religioni pre-islamiche, come quelle pagane, con influenze delle tradizioni monoteistiche successive.

Infatti sono numerose le etnie che usano sigillare, il giuramento davanti al sole e alla luna, divenendo così atto simbolico che richiamava la sacralità di questi corpi celesti.

L’idea di giurare “al cospetto” di elementi naturali così potenti come il sole e la luna assume un significato profondo, poiché questi erano visti come testimoni divini o forze naturali incontestabili, in grado di garantire la veridicità del giuramento.

Questa pratica affonda le radici in antiche credenze politeistiche, in cui il sole e la luna erano divinità o entità di grande importanza. Anche in alcune tradizioni islamiche popolari nei Balcani, l’idea di giurare davanti a simboli come il sole e la luna potrebbe essere stata mantenuta come parte del folklore, pur non avendo una base teologica ufficiale nell’Islam. È un caso in cui la religione e le tradizioni locali si mescolano, e le pratiche pre-esistenti vengono adattate a nuove credenze religiose.

Questi patti giurati al sole e alla luna potrebbero essere interpretati come simboli di un impegno forte e irreversibile, in cui la forza universale di questi corpi celesti diventa una sorta di garante del patto stesso.

Quindi, anche se non fanno parte delle tradizioni formali dell’Islam o del cristianesimo, sono un esempio di come credenze popolari e simboli naturali vengano utilizzati per conferire valore e sacralità agli impegni e alle promesse.

È una pratica che si inserisce in una lunga tradizione di “giuramenti naturali”, nei quali elementi come la terra, il cielo, l’acqua, il fuoco e altri aspetti della natura venivano invocati come testimoni di impegni solenni.

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ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

Posted on 02 febbraio 2025 by admin

Leopardi

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Questo era il grido di minoranza rivolto a quanti gestivano maggioranza in “Terre di Sofia” e, spesso sentivo inneggiarlo a gran voce, la mattina quando andavo a scuola, nei Bar di pomeriggio, la sera nelle Cantine e quando andavo a tagliare i capelli dal Barbiere, ai tempi in cui, vivevo studiavo e ascoltavo il parlato arbëreşë in rispettoso e costruttivo progredire.

Questo era un grido che voleva sottolineare, l’appartenenza indigena di una parte del sistema Katundë, la stessa che non prediligeva l’integrazione, perché provenienti da terre limitrofe e ben distinte dall’agro genuino, che aveva nonostante tutto contribuito non da poco e reso praticabile un terreno umido impraticabile e desolante, colmo di reflui fluviali da bonificare.

E per ottenere riconoscenza di gli abitanti di Terra, dovettero rivolgersi a cassa sacra, per averne merito di proprietà, diversamente da quanti li vivevano e, non si erano mai dati da fare per essere parte attiva del sociale del centro abitato a loro limitrofo nel temine lungo lo scorrere del torrente denominato “votetë”.

Quindi ultimi senza alcun sentimento pronto a fare fratellanza e integrazione con gli Arbëreşë, che li avevano sempre aiutati a migliorare sé stessi e le pertinenze dell’ISKI, storicamente malsana, oggi come allora.

Tuttavia quello che più prevale sono le falsità di quanti affermano pubblicamente che l’essere riuscito ad emergere dalla massa, solo per tagli e titoli di, “bocconcini”, ottenuti non si sa come e , questo risveglia, memorie e sentimenti di quell’epoca incancellabile per la formazione di non poche generazioni.

Specie se questa frase viene elevata dai piccoli discendenti, oggi diventata adulti, ma rimasta sempre avvolti in quella nebbia antica che caratterizzava quel pianoro dove palesare presenza, usavano battere i piedi o far sentire il riecheggiare sull’incudine dei djganë da stagnare, unica risorsa di genio del fabbro o artigiano mancato.

Gli stessi discendenti che oggi boicottano ogni iniziativa, che potrebbe fornire strumenti o teoremi fondamentali per la crescita in ogni fronte del vituperato Katundë, che per loro e grazie a loro vive in pena irrecuperabile.

Tuttavia se a queste affermazioni, elevati dove i quadrupedi venivano terminati, sono emozione di ignari, che si esaltano per aver conosciuto “l’antropologo menzognero”, che non sapeva né parlare e né ascoltare in Arbëreşë, è una pena che denota lo stato in cui si vorrebbe valorizzare la regione storica diffusa e sostenuta da chi parla e sa ascoltare questo idioma.

Certo che salire sulla madia dove si terminano i maiali tra gennaio e febbraio affermando che la riuscita di un progetto locale è avvenuto per esclusiva solidarietà e delle capacità paterna, lì in quel luogo nata per dare pena a suini bovini e ovini è un controsenso, specie dove i neri erano scartati per la qualità della carne, considerata infetta, lurida e di aroma insano.

Tutto quanto il dire, diventa un’offesa verso quanti si adoperano con metodo e confronto per la valorizzazione delle cose Arbëreşë, dato lo stato e la capacità di istituti, istituzioni e libere figure che si alternano nei palcoscenici di insani mattatoi culturali, in tutto un insieme di attori incoscienti; i diretti discendenti che vollero quel “genere sparso prematuramente insanguinato”, la giornata del termine storico: ovvero il 28 febbraio del 1985.

Ciò che si vuole sottolineare in questo breve contributo di memoria locale, è la miscellanea di conoscenza che nello stesso individuo possono attivarsi nei processi involutivi, tipici dell’età giovanile e, coesistere la mutazione, dello sviluppo.

In altre parole, la plasticità negativa a ogni età, senza mai raggiungere la più idonea o passibile maturazione celebrale in verso, agio o direzione costruttiva.

Oggi, nel momento in cui si è compreso, con stati di fatto, che il cervello potrebbe offrire potenziali opportunità di cambiamento a qualsiasi età, assume significativo valore l’immaginare progetti per interventi mirati a favore cognitivo dei su citati generi, che allo stato vagano le foreste della cultura come pirati pronti all’arrembaggio.

Allo scopo serve uno strutturato per produrre Modificabilità Cognitiva Strutturale, specie nell’età di sviluppo e, per queste figure servirebbe avvicinarle come si fa con il gregge e, sottoporli senza rimando alcuno alle prove di ’”Arricchimento Strumentale specie chi non ha la fortuna di nasce strutturato di ascolto e parlato Arbëreşë “.

Allo stato delle cose tutto si potrebbe configurare come percorso di recupero per ogni frammento cognitivo, specie quando si diventa adulto e si vuole dimostrare di esserlo.

Questa estensione del Programma di Arricchimento Strumentale (PAS) è strutturato come un training specifico è finalizzato al recupero delle funzioni cognitive e, di tutto quello che circonda un individuo nel corso del suo sviluppo dall’età infantile sino a quella adulta.

Dimostrando che la plasticità cerebrale è presente anche nelle figure meno inclini, che non si devono mai abbandonare al libero pascolo, in tutto, il ciclo di vita dei generi, specie, quelli meno dotati di tutto.

Questo comunque implica la responsabilità di progettare e realizzare interventi significativi ed efficaci, gli stessi che oggi restano o meglio sono, realtà documentata da una forte letteratura e capacità organizzativa.

A tal fine valgano i numerosi giardini botanici, presenti sino agli anni settanta del secolo scorso e ancora presenti in altra forma, ma disanimati di essenze, i quali andrebbero, rigenerati per poter aprire una nuova stagione curativa della nota medicina empirica Salernitana, rivolta a quanti avanzano evidente Modificabilità Strutturale e Cognitiva, la più diffusa nei circuiti della minoranza Arbëreşë.

Il giardino assume così una duplice funzione: ovvero essere un luogo dove iniziare a sviluppare sensibilità celebrale e in oltre radicare i semi di erbe curative antiche, le stesse che nel mondo greco radicato in quello persiano e quello egiziano e arabo iniziarono a fare Farmacia Naturale.

Il giardino ricostruiva l’immagine dell’Universo, motivo per il quale questi spazi erano anche definiti «Giardini paradiso».

Essi infatti dall’agro e sino al centro antico, fornivano alla mente un immaginario di folti boschi, popolati da una fauna diversificata, come se sorgessero nel deserto, ma irrigati da acqua portata li dai noti lavinai naturali, appositamente addomesticati o indirizzati.

Il giardino o hortus diversificavano le coltivate arare con spazio decorativo e, accogliere quanti avevano urgenza di Modificabilità Strutturale e Cognitiva, indicati al plurale col termine di Orti proprio per la quantità di addetti da sostenere.

In essi la fauna era creata per mezzo dell’elemento decorativo, con l’ausilio di piante tagliate ad arte e dalle forme degli animali, sino a disegnare scene di caccia e, risvegliare antichi istinti a quel genere che cerebralmente e fisicamente oziava.

Le principali caratteristiche dell’assetto architettonico del giardino botanico non contemplava alcuna murazione se non Gardj, (Recinto in elementi naturali intrecciati) che non impedivano in alcun modo, il variare o delimitare la prospettiva di bosco libero ed esenziale.

Internamente, lo spazio era riempito da arbusti posizionati a distanza dagli alberi da frutta, mentre la risorsa di acqua era disposta fuori da recinto.

L’arte figurativa assumeva così un valore pedagogico dei sottoposti a cura ambientale un tramite anche per l’arte negli spazi a ridosso di edifici, che non dovevano impedire in alcun modo la prospettiva profonda anzi contribuendo a sostenerla.

Gli spazi verdi erano e, rivestivano un tempo il valore simbolico: e iniziarono ad essere modellati per risvegliare le capacità cognitive degli infermi, grazie alla similitudine che si riuscivano a estrapolare dalle più svariate figure zoologiche.

La scelta di trasformare uno spazio aperto in un’area verde deve sempre ricadere sulla posizione panoramica di cui era investito lo stesso giardino.

Suddiviso in un’area razionale, tramite terrazze era arricchito con l’inserimento dei pergolati e orti stagionali i cui concimi derivavano dai cibi delle tavole quando si terminava di pranzare.

Le piante utilizzate per l’abbellimento dei giardini, miravano a rappresentare ambienti con verdure e piante botaniche e non, diviso in aree omogenee introducendo nello spazio circoscritto i valori sociali, arborei e medicali.

La presenza degli elementi naturalistici diverrà forma allegorica, nelle decorazioni dei prodotti delle arti minori, ma questa è un’altra storia, quello che qui si vuole sottolineare è lo stato in cui si sostiene la Iunctura familiare odierna, fatta di esaltazione, protagonismo e filiere a dir poco inopportune.

Specie per quanto attinenti ai valori di sostenibilità storica, di idioma consuetudinari e i legami che reggevano la credenza e la via breve e stretta tra casa e chiesa.

Questi elementi primari erano poi la conseguenza della credenza che reggeva il percorso di crescita, sociale; la stessa che univa indissolubilmente, il Camino della casa, ovvero, dove iniziava ogni favola; Gjitonia dove avevano sviluppo e luogo i cinque sensi governati dalle donne e l’agro produttivo condotto e diretto dal senato degli uomini, che chiudevano e solidarizzavano il giardino delle meraviglie Arbëreşë.

Tuttavia vale il principio secondo cui: partecipare non è tutto, ma essere esclusi a priori in ogni manifestazione non è certo un gesto di nubilato culturale; anche se proviene dalla categoria degli “iskitati”.

In questi giorni, si festeggia “Candelora” un evento di rinnovamento dell’estate, che avanza per sovrastare il buio dell’inverno, questo è anche un invito per quanti si ostinano a promuovere eventi culturali immaneggiabili.

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RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO  INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

Posted on 28 gennaio 2025 by admin

ARberia

Dal diciotto di gennai del 1977 la distanza che ha visto espandere la “Radicanza di cuore tra Terra di Sofia e Napoli”, mantenendo solide pulsazioni di luogo nel confino a 228 chilometro, pari a 141 miglia, esponendosi nel tempo sino a 230 chilometri paria a144 miglia, nel circoscritto della città di Napoli.

Da quel giorno senza mai smettere di studiare e fare memoria di tutelare, nel prodigarsi per diventare portatore sano di fatti della storia avuto luogo in Terra di Sofia equiparati, in seguito ai cento e più centri antichi di simili origini e diventata la missione della Radicanza senza soluzione di continuità.

Il luogo emblematico dove tutto ebbe inizio, è il Giardino che un tempo fu Orto Botanico dei Bugliari di sotto, quando Vescovo era il figlio di Anna Maria Pizzi.

A Napoli cosi ogni cosa lasciata nella Radicanza in Terra di Sofia, divenne misura e studio in: Sedil Capuano, poi dopo il terremoto del 1980, in Via Leopardi e, dopo il termine di febbrai del 1985 lungo la Via del Sole e della Luna, per poi approdare nella storica Salita della Sapienza, li dive era il noto giardino botanico civile, dell’antica Capo Napoli; e in fine oggi, accanto alla fratria un tempo frequentata da Pasquale Baffi.

Tornare oggi nel luogo natio, si dovrebbero allestire, per lungo tempo, fuochi di candelora per fare cenere di tutti gli editi, favole e ogni sorta di compilazione, esclusi il “Discorso degli Arbëreşë del 1776 di Baffi e le vicende che rinforzarono i valori Arbëreşë con i fratelli Giura e il Torelli”.

Tutto il resto andrebbe distrutto e , reso cenere, cosi come i riversi allestiti e riverberati, dalle pecore al pascolo, nel promontorio tra il Surdo e il Settimo dagli anni settanta del secolo scorso, da un pastore senza titolo.

Allo scopo, non bisogna distrarsi e perdere misura, degli errori e le malefatte nel corso dei trascorsi del Corsini, quando era in Sant’Adriano, a iniziare dalla pena inflitta al primo Vescovo Francesco, alle lacrime del secondo Bugliari, che lo dismise per pena infinita.

Una delle prime azioni posta in essere una volta a Napoli è stato di reperire tutti gli atti che del centro di Sofia che risultavano essere conservati nell’archivio di Napoli e, poi nel corso dell’esperienza universitaria, confrontare e lette con l’ausilio di docenti eccelsi, ed ecco che carte, fotografate e amaramente pagate divennero la guida, o meglio la cometa da seguire.

Nel corso del 1983, la ormai certezza del titolo accademico, quasi acquisito, diede spazio alla volontà di tornare nel luogo natio e fare famiglia, ma le istituzioni tutte, pubbliche clericali e germaniche, dirsi voglia, fecero tanto male di termine il 28 febbraio del 1985, che nell’aprile dello stesso anno, rifiorì la volontà di “Radicanza senza più termine”.

Inizia adesso un solido percorso di formazione nel loco di Napoli noto come la Salita della Sapienza, e non a caso, dopo numerose esperienze lavorative con istituti, istituzioni e docenti che hanno preteso che dovessi ritenermi un loro pari con titolo.

La Radicanza nel frattempo aveva germogliato e dato frutti molto genuini, con misura Solanizzata e, quel titolo accademico che sino ad allora era stato lasciato nel cassetto, perché ritenevo non più utile da conseguire, risveglio la promessa data che non poteva avere patto chiuso.

Ma i continui spasmi di quanti non immaginavano senza titolo “l’Olivetaro Arbëreşë”, fecero tanto per far ritornare sui suoi passi e, sostenere quell’esame mancante, nella primavera del 1984, per conseguire il titolo di laurea, il giorno prima dei suoi primi cinque decenni di memoria storica, studio compilativo e, di analisi inarrivabile per ogni pascolante o pascolatore, nel promontorio che circoscritto dal Surdo e dal Settimo.

Se sino al giorno del titolo di laurea, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo il Molise e la Puglia erano stati luoghi di rilievo, ricerca e progetto, dopo la data, del venti di ottobre del 2004, la Radicanza ebbe a dare frutti a dismisura, a  Potenza, Roma Firenze, Valentia e in numerose Università d’Europa dove l’esperienza applicata alla valorizzazione della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, trovò nuovi solchi dove germogliare frutti sino ad alloro sconosciuti o comunemente trattati.

Nascono così le Inchieste di Servizio e Formazione per gli Adulti, questi ultimi rimasti attaccati ancora alle antiche derive culturali poste in essere da non formati senza alcuna preparazione dell’ascolto e del parlare Arbëreşë scambiato per Albanese moderno.

Sono da ciò indagati centri i antichi e come essi si siano sviluppati, quali sono gli adeguati sostantivi per identificarli e quale percorso storico vernacolare abbiano seguito per restituirci gli storici odierni.

È stata identificata la valenza storica di che unisce Casa, Gjitonie e Cunei della produzione della trasformazione, Agro Silvicola e Pastorale, mai posta in analisi sino agli studi posti in essere dall’Olivetaro Arbëreşë, se non per fenomeni marginali che non potevano suggerire la leva del sostentamento.

Sono stati descritti i costumi e il valore sociale di tutti i costumi delle Oltre venti macro aree che compongono la Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Lo studio poi è stato interamente riversato nelle vicende delocativa del 2009, ottenendo attenzione da alte istituzioni e politici oltre della reggenza del sistema che si occupa della prevenzione, gestione a situazioni di emergenza.

Questa ultima in particolare dal 2014, a fine delle udienze si è astenuta dal proporre ancora modelli di ricostruzione per quanti subiscono calamità o sono colpiti da eventi sismici.

Va in oltre sottolineato che si aggiungono a tutto questo, studi mirati di numerose macro aree che sino ad oggi non conoscevano il senso della Iunctura urbana, fatta di elementi ripetitivi, costruiti e sociali, che solo chi ha studiato al fianco di eccellenze della storia, della geologia, della psichiatria e valorizzazione del territorio in quanto ambiente naturale, dell’antropologia saggia, senza dimenticare i grandi maestri dell’architettura, dell’urbanistica, della storia e del buon vicinato giovanile, che hanno saputo seminare bene.

Il rilievo, ricerca e progetto di edifici storici tutelati da rendere funzionali, ha fatto sì che la formazione venisse a consolidarsi al punto tale che sin anche la presa visione dell’analisi grano metrica, di murature o elevati crollati e spogliati delle intonacature, comparati in loco con eventi tellurici della storia, comparati al vernacolare del bisogno, diano certezza storica, di temo luogo e uomini.

Gli studi condotti a Napoli nel loco denominato Salita della Sapienza con la perfetta pronunzia dei vocaboli fondamentali, di una Lingua che non ha poesie o forme scritto grafiche, come definita dai fratelli Grimm.

In tutto una lingua che fonda il suo essenziale e ristretto uso orale, secondo una grammatica di pronunzia fondamentale, che non vanno oltre la definizione del corpo umano dei due generi e, gli elementi naturali ad esso prossimi o stellari, gli stessi che contribuiscono al suo progredire e rigenerarsi.

In tutto una Lingua razionale, che per essere tramandata, fa uso della canzone e delle movenze del corpo, al fine di fissare memoria da tramandare.

La lingua Arbëreşë non conosce la scrittura, non conosce libri né lavagne o terreno verticale dove disegnare o tracciare alfabeti.

Nessuno di noi ha preso fratria con questa lingua, studiando, leggendo o traducendo vocaboli in arbëreşë, a cui è affiancata una parola italiana, questa lingua prima diventa pensiero e poi diventa pronunzia e, mai succederà in alcun luogo che un pensiero italiano possa essere pronunziato in Arbëreşë, in quanto non avrebbe né senso e né valore.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Sino a quando gli organi decisionali dirsi voglia, si orienteranno nel non accogliere l’Olivetaro Arbëreşë o figura in grado di rispondere sulla secolare tradizione, indispensabile a dare resilienza a, “un Katundë o Contrada”, si continuerà a riverberare ricerca storica, con le numerose figure mitiche degli scribi e, siccome gli arbëreshë, sono una minoranza radicata nella sola forma orale a voi la conclusione del tema in analisi.

È indubbio che si possano innescare, scelte progettuali inadeguate, come ad esempio, scambiare la Gjitonia, con il vicinato o addirittura con un Quartiere, e ancor peggio un Katundë rinascimentale per un Borgo medioevale

A tal Fine è spontaneo chiedersi a questo punto, se si esegue prima il rilievo e l’indagine storica dello stato dei luoghi e dei moduli abitativi, ovvero gli Sheshi denominati, Kishia, Bregu Kaliva, e dell’insieme toponomastico ereditato oralmente dei sistemi aggregativi sia articolate e di quello più recenti lineari.

Così anche per i sistemi viari, riportati con patire storico  circolare riferito in forma e costume d’inferno Dantesco.

Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia sottovalutato il modello arbëreshë.

Tuttavia un’analisi conoscitiva e di confronto di quanto messo a dimora in località Katun o Kontrada specifica, indicherebbe che studi mirati sino ad oggi, alcun istituto ha condotto escludendo l’Olivetaro Arbëreşë in ambiti mediterranei, scambiando le dinamiche urbanistiche e architettoniche arbëreshë, stravolgendone completamente lo scenario delle volumetrie rinascimentali e dei tempi che seguirono.

È bene rilevare che un paese minoritario non è soltanto affare meramente politico, ma è anche affare volto al patrimonio immateriale radicato nell’idioma degli arbëreshë che non sono mai stati il vero obiettivo da salvaguardia nelle discipline dei dieci comandamenti; Architettonica, Urbanistica, Antropologica, Geologica, Psichiatrica, Storca, Idiomatica, Sociale, Religiosa e della solida Consuetudine, rimaste tutte e sempre ignote.

 

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COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

Posted on 26 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La gestione dei centri storici Arbëreşë, come quello di tutti i piccoli agglomerati urbani collinari, non identificabili come borghi, secondo le analisi di antropologi, linguisti, urbanisti, e istituzioni variegate, sono la non saggia espressione significativa dello stato attuale in cui vaga, la cultura degli adulti, ma è anche un esempio di come non si debba agire in tutte quelle nicchie culturali, che non sono allocate nei pressi di industrie, dove nulla di sostenibile hanno avuto alcun germoglio.

Con questo studio si vuole evidenziare previ esami specifici, uno dei problemi meridionali e, in dettaglio, cosa abbia spento i cunei agrari della produzione crescita e trasformazione, raramente tema dai su citati analisti che ritenevano fosse mero urgenza abitativa.

E i su indicati argomenti ogni volta che sono stati temi, di congressi o pubblicazioni, i contributi più interessanti sono venuti generalmente da organismi, con mira sociale di un ben identificato luogo abitativo da valorizzare.

Le massime istituzioni preposte di luogo, hanno finora praticamente ignorato l’argomento, salvo che per studi come quanto qui trattato sulla distribuzione della popolazione della regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë; valgano di esempio le eccellenze dei cunei agro silvo pastorale dell’antichità seicentesca, dove restano stese al sole le pene incompiute, in forma radicale, specie dalle istituzioni che hanno sempre sperato di edulcorare l’argomento, con il semplice diktat “Fare Katundë con le Gjitonie tralasciando le cose relative all’agro”.

Siamo perennemente, di fronte a scritti e contributi di studiosi che possono essere qualificati solo in senso estremamente lato, senza mai unire le risorse umane dei luoghi dal punto di vista del bisogno vernacolare più ampio e, le risorse messe in campo dalla natura.

Viene allora spontaneo chiedersi: di che cosa si occupano i professionisti delegati dalle istituzioni, dal momento che non gli interessi il maggiore dei nostri problemi, quello che condiziona tutta la vita sociale, economica e politica, a partire dal cento antico e, poi riverberandosi lungo i cunei agrari della produzione, germogliando economia e produzione sostenibile.

È senz’altro un sintomo assai interessante, è racchiuso nella più semplice risposta, infatti, mentre il trittico di specialisti coadiuvati da istituti locali, che non sentono l’esigenza di una questione che dia unità, scambiata come un piede deforme al posto di un organico e omogeneo sviluppo del Katundë, mentre, i cui sopra, non ne hanno ancora afferrato l’importanza, e soprattutto la drammaticità nel momento attuale, rimanendo imperterriti a formalismi ambientali o linguistici, visto che trattano l’argomento di minoranze, con forti dubbi di autentica analisi economica e sociale.

Il tutto viene inteso come problema marginale, visti secondo gli schemi astratti di una indiscriminata applicazione di uno “standard” culturalmente prefabbricato per altri luoghi e, sempre meno radicato alla dipendenza del territorio, più incline all’industria moderna, che spera nel sole e nel vento, quale risorsa energetica e non di indirizzamento dell’agio agro, silvico e pastorale.

Gran parte delle attenzioni, infatti, sembrano concentrate sul piano regolatore urbano e, la pianificazione regionale; vista esclusivamente da una ampia prospettiva di una maglia di accreditamento, sia come espansione del territorio (decentramento urbano) sia come espansione di rapporti comuni(zona unitarie di ambientali equipollenti).

Prevalgono così, nei piani regolatori esigenze di una civiltà industrializzata, anche in questi ambiti l’industria ha evitato di transitare o fare sosta per fatica inutile, neanche con minimali misure, creando  ulteriori accadimenti senza controllo e, formalmente, il malinteso entusiasmo fa aprire il Mezzogiorno una inesauribile “architettura solitaria che imita, senza speranza, le prospettive naturali” e con essa ogni speranza di insediare attività o filiere corte e specifiche di un determinato ambiente naturale, con specifiche produttive irripetibili.

E così nei vari Katundë, villaggi o centri storici recentemente manomessi o svuotati, possiamo trovare, accanto all’influenza di ricreare un “ambiente” che formalmente assomigli all’ambiente delle città metropolitane, ma che inizia e termina nel circoscritto fatto per dormire vegetando.

Da qui nascono le entusiastiche prose elogiative del colore, le rappresentazioni schematiche di vita, le prospettive equipollenti, la cancellazione dei veicolare anfratti, dove si svolgeva la vita all’aperto, e la scuola della consuetudine antica, non trova luogo per formare chi dovrebbe essere parte attiva di una filiera che si riverberava da camino di casa sino dove erano i germogli e le attività agroalimentare senza eguali.

Quando parliamo di Gjitonia in genere fermiamo il discorso nei circoscritti ambiti ameni in memoria della nostra giovinezza, senza avere alcuna consapevolezza del valore iniziatico del lavoro che in questi ambiti nasceva per riverberarsi, sino alla destinazione più recondita dei cunei agrari della produzione solanesca.

Queste osservazioni preliminari sono necessarie, per introdurci ad un breve esame dei comuni piani regolatori che hanno invaso i centri di radice Arbëreşë, i più significativi e interessanti saggi mai resi noti dello stato attuale della cultura, che raccontano gli atteggiamenti meridionali, tra i più vulnerabili, perché consuetudine conservata nel cuore e nella mente del governo delle donne meridionali.

Infatti troviamo nel decentramento suburbani, i contadini che non vivono la Gjitonia, forma fondamentale per allevare nuove generazioni, in tutto che rappresenta il ricambio continuo della stessa e identica attività, una filiera breve che nasce nella proto industria intorno al camino, dove le donne, panificavano e producevano insaccati e derivati della filiera di suini e dei bovini, oltre alla selezione di sorta o esperimenti conserviero alimentare di filiera casalinga.

Il camino della casa il forno comune della Gjitonia, rappresentano la proto industria che attendeva, nei vicoli e nei recinti propri, i prodotti della produzione che poi diventavano sostentamento per l’intera società circostante.

Il cui obiettivo di vita doveva essere infinitamente parallelo alle vecchie abitazioni, secondo cui è lecito chiedersi, quale nuova vita potranno impostarsi e su quale attività rinnovate per sostenere questa storica filiera fatta dal governo delle donne e degli uomini sempre in sintonia tra casa e agro diffuso che la natura qui poneva in essere.

Salvo questo esempio di decentramento, e l’altro di trasferimento delle attività nell’agro, ogni cosa  fatta dal nuovo trittico di specialisti, appena abbozzato; né è possibile vedervi la ricerca di una evoluzione per un problema esemplare riassuntiva di tutta la situazione meridionale, unitaria e praticamente spaccata in due, ma che respirano, e vivono fianco a fianco, gli uni alle spalle degli altri, ignorandosi, ma a ben vedere sono cerchi che nascono dallo stesso centro che poi li richiama e li sostiene

Negli odierni paini regolatori, perciò è possibile scorgere soltanto l’applicazione di alcuni schemi astratti, buoni forse per altri luoghi, ma non certo per questi centri che sono stati capitale di contadini e allevatori.

Sono numerosi i casi dove si possono riconoscere le manchevolezze, sottolineate dal fenomeno della fretta demagogica, e nell’impreparazione dei preposti: e noi siamo infatti certi che l’impostazione politica abbiamo un’importanza fondamentale per l’efficienza di un’opera urbanistica che parte dal centro e descrive un’ansa circolare sostenibile.

Ma, nel caso che stiamo esaminando, fino a qual punto le manchevolezze che si riscontreranno nel tempo, come la trasformeranno i nuovi quartieri creati per i cittadini sotto la spinta e l’esigenza della prepotente vitalità o fretta dei politici, e quanto invece dalla mancanza di una preparazione specifica di tutta la cultura urbanistica “ufficiale”, ad affrontare, i problemi concentrici del Sud, non di un meccanico decentramento urbano, ma della saldatura della campagna alla Gjitonia, della liberazione delle campagne, per trasformare nei suoi rapporti sociali, e non soltanto con un cambiamento di casa, un contadino e un cittadino, con uguali possibilità.

Per queste ragioni un piano che regoli e dia forza a ogni cosa va attuato nelle parti che richiedono un intervento dall’alto; non radicato nella situazione meridionale, senza la partecipazione della popolazione da cui è praticamente ignorato, il programma Gjitonia esaurendo le risorse in un’ennesima collezione di lavori pubblici, da fotografare per i manifesti murali.

Anziché elevarsi a strumento cosciente di una nuova vita, che risolve le ansie dei cittadini, i quali non devono solo avere un tetto per la notte, ma anche l’incarico di non avere nulla da fare durante tutto il giorno.

Questo è la peggiore deriva che l’urbanista, segue quando non si rende neanche conto del fallimento di un vero Piano Regolatore.

E l’ostacolo maggiore ad una inefficiente pianificazione è appunto questa volontà di separare le attività che legano la casa La Gjitonia o Vicinato e le attività di scuola dell’agro che attende ancora oggi uomini formati e prescelti, non intesi come docili strumenti o forze negative deboli, ma risorsa unica strumenti per nuove rinnovare innescare processi produttivi e valorizzare territorio natura e la salute degli uomini.

E cioè impostare anzitutto per una coscienza politica in grado di leggere capire e promuovere la partecipazione collettiva della popolazione.

Il Piano casa Gjitonia e agro, avvenire, se si conoscono le cose eccellenti del territorio che compone il Mezzogiorno; un esempio di quel paternalismo che, con l’abituare le popolazioni meridionali a vivere nelle case riverberando processi sociali nella Gjitonia troverà gli strumenti sociali adeguati o la soluzione dei problemi, che tenta di nascondere a se stessa sotto una maschera di ottimismo, sotto il desiderio di evasione fra balconi per rompere l’isolamento feroce che lo lega alla sua vita ormai desolata e senza futuro.

Il concetto di quartiere post industriale si è allontanata dalla scala umana che non è più luogo dove si viva bene, immaginando di andare, tranquillamente al mercato senza sapere come e cosa comprare.

E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria, l’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli inaspettata che non trova agio sociale attraverso una economia possibile.

Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare è imprevista, può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia urbana.

Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene unito, e senza una memoria dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.

Se tra il modulo abitativo e il luogo di lavoro tipico del meridione italiano non interponi la Gjitonia, tutto si perde nelle pieghe della disperazione politica dualista o sociale disorientata

I “razionalisti” si riferiscono a una corrente di pensiero che ha avuto grande influenza nell’architettura e nell’urbanistica del XX secolo, particolarmente legata ai movimenti modernisti come l’architettura funzionalista che mirava a fare una casa per tutti, ma poi come adempiere alle esigenze aconomiche non è stato mai posto rimedi se non la scuola nelle sue pieghe più politicizzate.

Tuttavia, oggi appare evidente vi fossero errori storici o critiche che sono stati mossi nei confronti di queste figure, che copiavano come far rientrare il gatto in casa o ventilare il volume senza progettare e formare o realizzare aspettative di accoglienza economica, che dimettessero in relazione con il territorio e le opportunità li in attesa.

Gli errori storici sono innumerevoli ma basta citare i temi qui di seguito illustrati:

  • Eccessivo distacco dalla tradizione e dalla cultura locale:

I razionalisti, nel loro desiderio di creare un’architettura universale, hanno spesso trascurato il legame con la cultura locale e le tradizioni del territorio, mirando esclusivamente industria che in tutti i luoghi di salvaguardia non erano e ne sono ad oggi presenti, realizzando così dormitori diffusi, che di giorno, diventano un modo moderno per delinquere in quanto luoghi di facile e comodo movimento.

Questo approccio ha portato alla costruzione di edifici che, pur essendo funzionali, talvolta risultano freddi, impersonali e disconnessi dal contesto sociale e culturale in cui avrebbero dovuto essere inseriti.

  • Semplificazione eccessiva delle forme:

I razionalisti cercavano di ridurre la forma architettonica alla sua essenza, enfatizzando la geometria e la funzionalità. Tuttavia, molti architetti e critici hanno sostenuto che questa semplificazione eccessiva ha portato a edifici che, pur essendo funzionali, risultavano privi di identità che il governo delle donne poteva innestare nelle nuove generazioni.

La ricerca della purezza formale ha talvolta sacrificato l’estetica e la bellezza, portando a edifici che sembrano privi di ogni minimale calore umano infatti mancano tutti sono sprovvisti di forni e camini domestici.

  • Negligenza del contesto urbano e sociale:

I razionalisti si concentravano principalmente sull’architettura in quanto tale, spesso senza considerare il contesto sociale o urbano, era il 1978 quando rivolsi la seguente domanda a un mio cattedratico professore: ma a che serve fare case se non si crea una filiera produttiva, queste genti a breve cosa faranno? Mi rispose dicendo mi che ero un semplice allievo e che se non avessi cambiato idea non mi sarei mai laureato; gli risposi che non avevo bisogno di una laurea per essere per fare l’architetto.    

  • Funzionalismo senza considerare la qualità della vita:

La visione razionalista enfatizzava il “funzionalismo”, ovvero l’idea che ogni elemento architettonico dovesse avere una funzione chiara e fine all’abitare.

Ignorando, in alcuni casi, il benessere psicologico e sociale degli abitanti, come nel caso delle “torri residenziali” progettate senza considerare adeguatamente gli spazi pubblici, la socialità tra i residenti e i luoghi di un eventuale lavoro di filiera corta.

Le abitazioni moderne, prive di un legame con il contesto sociale, hanno spesso creato ambienti impersonali e alienanti di odio e malessere.

  • Realizzazione di progetti irrealizzabili o difficili da mantenere:

Alcuni progetti razionalisti si sono dimostrati poco praticabili o difficili da realizzare nella realtà., dove la visione della, città completamente rinnovate, immaginava spazi per la vita non sempre tecnicamente sostenibili. L’ideale del “macchina per abitare” ha spesso trascurato le necessità quotidiane degli utenti, risultando in spazi difficili da mantenere o da adattare per dare agio alla macchina del lavoro di ogni individuo.

  • Impatto ambientale e sostenibilità:

Un altro aspetto che i razionalisti non avevano considerato in modo adeguato è stato l’impatto ambientale delle loro costruzioni.

I modernisti, pur cercando di adottare tecnologie innovative, non si preoccupavano in maniera sufficiente della sostenibilità a lungo termine degli edifici, che in moti casi dopo qualche decennio hanno terminato di essere vivibili e delle soluzioni razionaliste hanno avuto un impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità ecologica, che oggi deve correre ai ripari con spese non sostenibili.

In sintesi, sebbene il razionalismo abbia portato un contributo dell’abitare, molte delle sue realizzazioni hanno sollevato critiche che riguardano la disconnessione tra contesto sociale e, rigidità funzionale verso gli aspetti emotivi estetici ed economici che qui non sono mai stati tema di dialogo a lungo termine.

Commenti disabilitati su COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË - UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA  Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

Posted on 23 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Un luogo tranquilla costruito dalla natura e sostenuto dal genere umano, dove portare sedie e fare conversazione, lavoro di cucito, ricamo e spogliature dei Solanizzati ancora da maturare, mentre i bambini giocano in sicura spensieratezza, crescendo in compagnia dei loro coetanei.

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato e non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Quei luoghi dove il genere uomo hanno tempi brevi per la sosta e le notizie di rito del governo; ecco qui esposto l’esempio di «fatti generi e cose» di un’ambiente riconducibile ai trascorsi di Gjitonia.

Il perché di questa breve è presto detto: esso rappresenta la cellula o unità elementare di convivenza organizzata, che unisce le famiglie, sfugge ad una definizione puramente urbanistica, così come ad una sociologia o antropologia pura, anzi si impenna a qualsiasi precisa teorizzazione spaziale, forse ancor più di altri organismi di maggiore complessità.

Gjitonia infatti va piuttosto interpretato come rapporto umano risultante da svariate condizioni sociali, e non come particolare circoscrizione di un intorno fisico o numerico di radice catastale.  

Preferibile dunque, anziché tentare di schematizzarlo o emularlo pubblicamente per forza di un circoscritto serve, cercare attraverso esempi vivi i caratteri che intervengono a formare questo modello di urbanistica e società di ristretti atti e attività da diffondere.

L’idea stessa di Gjitonia fa immediatamente correre il pensiero alla vita dei piccoli e dei piccolissimi centri o di quelle parti di città che meno hanno risentito i profondi mutamenti dei tempi più recenti con palazzotti razionali o unità abitative dirsi voglia.

In altre parole, sembra più facile capirsi guardando ciò che è avvenuto ed avviene in quegli insediamenti talvolta plurisecolari che ancor’oggi continuano a vivere ed a funzionare nei modi loro originari: e si può risalire tranquillamente fino al medioevo.

L’abitazione   medioevale   ignora l’esistenza   di numerosi funzioni e servizi, e non concepisce tale mancanza come un limite, perché è implicito che il soddisfacimento dei bisogni relativi nasca da una integrazione realizzata fuori dalla casa, sull’aia, sulla piazza, così come sulla strada o nel soleggiato anfratto sottovento.

Sono questi elemento che si modellano in favore della famiglia e l’anfratto, là dove il clima lo esige, si modella per il consenso degli edifici più notevoli o le fontane, i lavinai, le gradinate, che finiscono per diventare teatro dove il pubblico partecipante attivo si ritrova ad osservare e criticare ciò che avviene ai suoi piedi, avvolte soleggiati, bagnati e altre volte ventilati ad asciugare.

Il concetto di una integrazione che avviene fuori dalla casa ci illumina subito su alcuni caratteri; principalmente la mancanza di certi servizi individuali e il sussistere di bisogni che possono venir soddisfatti per il singolo solo in quanto lo siano per la collettività, mentre la necessità di comunicazione con il vicino si può specchiare in una riduzione dell’intimità, da tutti riaspettata.

Come si vede, si tratta di caratteri decisamente negativi, i quali per essere superati devono intervenire fatti positivo, il tutto poi diviene constatazione di matematica elementare di adizione e sottrazione.

Sembra dunque difficile ammettere che il permanere di determinati lineamenti urbanistici, una volta soddisfatti i bisogni di cui si è detto, basti da solo ad assicurare la continuità dei rapporti umani di mero vicinato.

Se ci portiamo più a vanti nel tempo ad osservare abitati che risalgono al sei settecento, notiamo che determinati caratteri si spostano, dalla struttura interna delle abitazioni e, si affina, differenziando i locali destinati alle funzioni fondamentali.

Ed ecco che dalla strada, di cui si va impadronendo il traffico, il punto di incontro si sposta più vicino all’abitazione del singolo, quando non addirittura all’interno di essa, come è avvenuto in molti Katundë arbëreşë per vocalizzare ogni anfratto, strada o slargo dirsi voglia. 

Se ne deve dedurre che i confini del vicinato si restringono, e non è difficile controllare come in effetti la partecipazione corale alla comunità si affievolisca col finire delle forme di vita che qui avevano avuto origine.

Un altro elemento da notare è il passaggio dal prevalere della casa unifamiliare alla diffusione del fabbricato collettivo: nel primo caso la vita di vicinato si svolge necessariamente all’esterno, e perciò stesso può dilatarsi in una continuità a catena di cellule successive.

Nell’altro caso è naturale che un collegamento nasca anzitutto tra gli abitanti di uno stesso edificio e che le persone si incontrino sulle scale, o che comunichino da una finestra all’altra, e questo denta l’isolarsi della cellula che diventa casa o appartamento comune.

La città del secolo scorso si è favolosamente moltiplicata senza avvertire la presenza di valori paragonabili alla Gjitonia.

Pur se essa ha cercato di rispondere a dei bisogni quantitativi, graduandone il soddisfacimento secondo criteri di opportunità sociale o politica. 

Nei grandi tagli edilizi che hanno caratterizzato le città d’Europa essi si fregiano di imponenti edifici dove il singolo individuo può anche vivere ignorando il suo vicino; ma dietro a questa sottile cortina si addensano le vecchie case e le straducole impraticabili alle carrozze, dove ognuno sente la presenza di un intorno umano che gli è notoriamente comune.

Contemporaneamente si allungano nelle interminabili periferie i quartieri amorfi del feudalesimo industriale; qui non soltanto l’uomo non può più costruire la propria casa, ma nemmeno può sceglierla, perché una vale l’altra, essa gli viene assegnata come una divisa unica, è tutto l’insieme fa parte di uno stato di necessità, identico a quello in cui tutti si trovano attorno a lui senza alcuna necessità dei valori racchiusi nel bisogno di vicinato. 

Così, la casa diventa qualcosa di sordo e di estraneo, dove si spengono quei fermenti che da essa nascevano: la strada della felicità implica necessariamente una evasione, né si può guardare con amore il prossimo che fa da sfondo alla scena di ogni giorno.

La rapidità e la vastità con cui si sono espansi i centri antichi, del secolo scorso, hanno moltiplicato il numero delle abitazioni prive di ogni sorta di personalità, la stessa che l’uomo non può e non riesce ad amare.

Quale sia il volto di un centro antico odierno lo sappiamo bene: sotto il segno di una stridente disarmonia, assistiamo al sopravvivere di strutture secolari, così come alle profezie di ideali centri che mirano al futuro, mentre va sfuggendo il senso stesso della nostra dimensione di generi che attende un luogo ideale per esprimere se stesso.

Rintracciare adesso elementi positivi comuni entro un intorno fisico anche limitato, sembra impresa senza uscita. 

Questo edito nella sua breve esposizione porta a concludere che una vita di Gjitonia si associa a condizioni di basso tenore di vita e nel corso di questa indagine, gli elementi favorevoli, sono stati evidenziati così come segue:

–  abitazioni che rispondono a bisogni minimali;

– attrezzature e spazio in comune a seconda le ragioni pulsanti;

– l’assenza di alcune comodità (case sprovviste di

acque, mancanza forno, in tutto cellule densamente abitate);

–  molti bambini e spazi, adatti per i giochi, comuni sempre sotto il vigile governo delle donne;

–  un numero sufficiente, ma limitato di attività sempre fuori dal perimetro di Gjitonia (il tutto contribuisce a un numero scarso, di spostamenti delle massaie se non per la via dell’agro);

– un livello di vita laborioso e semplice, che permetta di comunicare e partecipare con il prossimo, a differenza di quanto avviene in condizioni di agiatezza anche modesta, entro le quali si riscontrano atteggiamenti più individualistici.

Per contro l’esperienza di stimolare la socialità tra Gjitoni con l’ausilio di servizi comuni, espresso con un tenore di vita ragionevole, risolvendo numerosi insuccessi.

Qui divengono fondamentali i valori tipicamente domestici si tutelavano ad oltranza diversamente dai nuovi ambiti più moderni, senza che le persone riescano a conoscersi più che in qualsiasi altro tipo di abitazione collettiva.

È, una volta di più, il fallimento di una urbanistica moderna che pretenda di agire sugli uomini, anziché partire dagli uomini per dare loro le condizioni ambientali più adatte.

Così è evidentemente impossibile enunciare qualsiasi concetto urbanistico generale capace di ricreare nei nuovi aggregati la vita di vicinato: solamente dove particolari circostanze segnalino la possibilità, sia pure latente, di un più caldo rapporto umano, l’dovrà porre ogni cura per scegliere anzitutto la dimensione da assegnare all’elemento urbanistico adeguata a ll’ intensità di quel rapporto.

Si può dire che la maggior parte delle famiglie sono scontente dei vicini che hanno, pur sapendo bene di poter contare su loro in caso di necessità urgente.

Il dovere dell’aiuto reciproco, il senso di solidarietà umana sono infatti ancora vivi tra queste famiglie; il piacere di stare insieme a conversare o divertirsi costituisce tuttora lo spunto per un avvicinamento frequente ed amichevole.

Ma è raro il caso di qualcuna che, pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente.

Per quanto tali risultati siano sconcertanti, ed ammettendo che la ricerca successiva li confermi, riteniamo sia utile tenerli presenti considerando il problema dal punto di vista pratico.

Dalla nostra ricerca appare chiaro che l’esasperazione dei rapporti tra le famiglie del vicinato ha delle motivazioni abbastanza logiche accanto ad altre meno facilmente ponderabili.

Innanzitutto l’eccessiva vicinanza fisica: i rapporti sono peggiori infatti quanto più le case sono vicine; in secondo luogo il livello economico molto basso che, oltre a creare inevitabilmente in ciascuno uno stato di tensione continuamente in cerca di occasioni per scaricarsi, fa sì che ogni piccola differenza acquisti un valore sproporzionato e crei invidie e rancori.

La maggiore mobilità economico-sociale verificatasi in questi ultimi anni ha aggiunto motivi di dissenso in un mondo fermo per secoli in una greve uniformità di livello, in un mondo in cui «lavoro e sacrificio» erano le leggi comuni della vita, e «contentarsi di poco» il necessario sostegno della dignità individuale.

I valori della vita sono piuttosto espressi in sentimenti che in termini razionali, ed è quindi difficile acquistarne conoscenza dal rimanendone al di fuori.              

I l vicinato possono essere considerati, senza cadere in affermazioni arbitra rie, non soltanto come una unità di cultura, di civiltà, ma come unita di cultura consapevole, e capace i tra smettersi e fondersi in quella più va sta cultura che sta alla base di tutta una società democratica.

I l primo o m mezzo di trasmissione dei v a lo r i culturali è costituito dalla famiglia, m a nessuna di esse è oggi isolata, per quanto possa aspirare a provvedere a sé stessa con i suoi soli mezzi.   

Un   agglomerato occasionale di famiglie con tutti i legami e le fo rm e di associazione che sorgono appunto dal loro vicinato.  

In ogni fa miglia il padre, recandosi al lavoro, è espo­sto a contatti sociali con i compagni di lavoro e alle norme   di vita che regolano l’ambiente dell’officina   o dell’agro 

Entrambi i genitori possono essere membri di associazioni religiose, politiche, sindacali o ricreative, nelle   quali confluiscono punti di vista ed opinioni comuni su interessi   particolari.  

S i incontrano nei negozi, e le varie questioni relative al modo di comportarsi – dovere, civismo, cor­rettezza -vengono in superficie attraverso la discussione e l’esercizio della critica.

I bambini, fino a ll’ età di almeno 11 anni, frequentano una scuola situata nelle immediate vicinanze; giocano insieme nelle strade o nei camp i da gioco, vanno e vengono nelle case dei compagni smi­stando notizie da casa a casa e fornendo occasioni   e   confronti   tra i diversi metodi di educazione.  

I l vicinato è quindi un insieme di «ten­sioni» –tra individui, tra famiglie, tra casa e scuola, tra casa e lavoro, tra opinioni e gruppi i di interesse; le tensioni possono essere importanti e di peso decisivo, le relazioni per­sonali possono degenerare in lite e persino in violenze; ma da tutti que­sti fatti l’insieme, emerge un modo di v iv e r e, con la cultura del vicino.

L a m a gg io r parte della gente che lavora v iv e all’interno di questi limiti ideali, in un Katundë; ma esiste la consapevolezza, ed essi appaiono ben chiarie distintivi, quando accade che antichi legami si spezzino in occasione di spostamenti verso nuove abitazioni o altri siti.

T r e aspetti principali della cultura di Gjitonia sono degni di nota: prima di tutto i detti rapporti di buon vicinato, cioè la premura e solidarietà che si manifestano quando si verificano disgrazie: c’è una regola di vita nei confronti di coloro che sono colpiti verso i quali i diritti non sono rispettati e dove il livello generale è molto basso. 

Il secondo aspetto talvolta si rivela come un tratto spiacevole, a seconda se si abbia o meno qualche cosa da nascondere: è la curiosità.

Se ci è indifferente parlare dei fatti nostri sul pianerottolo o dalla fine­stra, non la condanneremo; ma se desideriamo la riservatezza, ci risentiremo verso i vicini curiosi. 

L’inte­resse che tanta gente prova per gli affari degli altri – le loro fortune disgrazie, le operazioni, le nascite, i matrimoni, le morti – crea nel vicino, una   conoscenza perfetta anche di quello che accade dietro porte chiuse o ambiti aperti. 

Può rappre­sentare un motivo di fastidio, ma può talvolta   impedire   sofferenze   e tragedie, può contribuire in modo po­sitivo a creare più strette relazioni umane, in modo particolare per coloro che sono soli od isolati.

Il terzo aspetto è l’accettazione di un tipo   riconosciuto   di   apparenze esteriori, ossia della così detta «rispettabilità».

Sono i frutti dell’in­nato spirito di conservazione, che si aggrappa a tutto quello che si ritine ne possa essere definito «ciò che è be­ne», e si preoccupa di trasmettere le norme e i principi delle generazioni più vecchie a quelle più giovani.

È un fatto prepotente della vita fa ­ migliorare, perché ogni membro di una fa mig lia ha il dovere, nei confronti degli altri membri, di non lasciare che essi scadano a gli occhi dei vicini.

«L’uccello che insudicia il nido è l’uc­cello cattivo», dice un proverbio; e l’uomo che vuole in frangere il codice riconosciuto va via, verso altri luoghi, dove, vivendo anonimo, può allonta­nare da sé ogni responsabilità.

La rispettabilità indica il tono e definisce la cultura di un vicinato.

Le norme di rispettabilità naturalmente variano, e in certi quartieri non sarebbe consi­derato rispettabile essere in rapporti amichevoli con la polizia.

Attraverso comuni interessi e un comune sentire, tra gli abitanti del vicinato   si   stabiliscono   delle   rela­zioni, e attraverso   regole   general­mente, se non universalmente, accet­tate, il vicinato si rivela come una unità di importanti   valori   morali, intellettuali ed estetici chiaramente individuabili, diventa qualche   cosa su cui è possibile costruire.

 

Queste ed altre ragioni plausibili di tensione, che non staremo qui a considerare, ci sembra siano sufficienti per non farci concludere troppo semplicisticamente che queste famiglie preferirebbero vivere isolate (come del resto qualche

donna ha affermato in un impeto d’ira), o – peggio ancora – che meglio sarebbe far in modo che stiano lontane una dall’altra, perché «i contadini sono individualisti», perché non sono capaci di vita associativa.

È certo che il vicinato ha avuto una funzione sociale e psicologica importante nella vita di questa piccola comunità come mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale.

I bambini, si può dire, vivono «Gjitonia» più che nella loro famiglia: passano da una casa all’altra, assorbono avidamente tutto quello che possono apprendere osservando i vicini sia direttamente, sia attraverso quello che ne sentono dire in casa nei pochi momenti di isolamento ed intimità familiare.

Quando una madre che non è la propria, commenta col marito o con i figli più grandi i fatti accaduti nel vicinato durante il giorno, l’ultimo scandalo o la lite che ha variato la monotonia della giornata.

Presto imparano anche loro a riferire quello che hanno visto, e l’interesse dei grandi è il migliore stimolo a perfezionare i mezzi di raccolta delle notizie che poi, valutate ed ampiamente interpretate dagli ascoltatori, costituiscono come altrettante lezioni pratiche sulla base delle quali si effettua l’apprendimento degli schemi non solo psicologici e sociali, ma anche morali della comunità.

Quando l’apprendimento è completo, i fatti sono ormai riferiti già deformati dalla valutazione soggettiva che si è intanto perfettamente adeguata al modello della comunità.

È facile immaginare come l’individuo, in tempi in cui saper leggere e scrivere era un lusso di pochi, venisse rigorosamente modellato su schemi difficilmente modificabili dei quali diveniva a sua volta depositario e trasmettitore, non solo nell’ambito della sua famiglia, naturalmente, ma di tutto il vicinato.

Un tale elemento può dunque chiamarsi unità di vicinato, e la sua ampiezza non si esprime con calcoli di uni­ versale validità, ma si affida unicamente alla sensibilità di chi progetta.

Nei casi reali che possono presentarsi oggigiorno, la più forte funzion e di collegamento è forse rappresentata dal lavoro, specie se artico lato in attività complementari; ma attività che si svolgano entro un raggio modesto, dall’artigianato fino alla piccolissima industria, così come si verifica in altre regioni. 

Qui i vari mestieri hanno bisogno uno dell’altro per giungere al prodotto finito; e ciò che si può vedere in qualunque cortile dove si aprono le varie botteghe, può agevolmente tradursi in una forma attuale, senza che l’abbandono di caratteri urbanistici negativi abbia a indebolire la necessità del rapporto umano.

Una tale unità di vicinato può concepirsi di nuovo come una integrazione non astratta, anzi come uno strumento che l’urbanista consegna ai suoi simili perché continuino a realizzare ciò che già in essi esiste.

Resta un dato inconfutabile che unisce Vicinato e Gjitonia, esso consiste nel dato che dalle pieghe più intime della propria casa; riverberandosi come cerchi concentrici sin nelle regioni più amene.

Tutti, in prima linea sin anche chi ti è stato germano a, finire dall’impari più lontano, cercheranno di limitare, sminuire o adombrare il tuo lume, avendo in continua consapevolezza che il confronto non è stato mai possibile.

Tuttavia attuano e mettono in campo tutte le risorse perverse nate in quelle case del bisogno, per limitare la corsa che ancora ti lega e, non ti libera dall’essere speciale e impareggiabile Gjitonë o fratello dirsi voglia.

P.S. a mio padre

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                      Napoli 2024-01-22

Commenti disabilitati su CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

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