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L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA' VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN  VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA’ VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

Posted on 19 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, avrei tratto conclusioni
Credete che per quattro soldi, questa la gloria da gnomi, avrei studiato gli uomini buoni
Va beh, lo ammetto mi son sbagliato, accetto il “crucifige” e così sia
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato per fare architettura

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante
Mia madre non aveva poi sbagliato a dire che: “Un Olivetaro conta più d’un AlbanErrante”
Giovane e ingenuo ho avuto testa, per i libri o il non provincialismo, e non vissuto di vilismo
E tracce di muli e accuse d’arrivisti, i dubbi di qualunquismo, son quello che resta ai peccatori austeri 

Voi critici, voi illusionisti manieri, sonatori severi, alamici infierì, chiedo scusa a vossìa
Però non ho mai detto che con le canzoni si fan rivoluzioni, si possa far ricerca, storia e poesia
Io canto quando posso, perché son intonato, quando ne ho voglia e senza attendere applausi o fischi
Vendere fra i miei rischi e vi illuminerete del mio passato, mentre continuate a insultarvi addosso

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star qua a studiare
Godo molto di più nel confrontarmi oppure a maturarvi o, al limite, a illuminare il buio dei vasari
Se son d’ umore nero allora scrivo, frugando dentro alle vostre dure miserie
Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenere memoria compromessa dalla semina dell’Erborista

Io tutto, io niente, io napulitano, io cultore, io poeta, io mattone, io anarchico, fascista, comunista e sheshista
Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, arberë di mono vista
Io faccio, io perché canto so indagare, io falso, io vero, io genio, io cretino, senza eguali, ma fuori dalla vostra rissa
Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino e, tanta voglia di ricordare

Secondo voi, ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento o concetto di demenza
E ovvio, che il medico dica che “siete depressi” e, nemmeno dentro al cesso avete un vostro momento
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no un qualche metro per dare valore nel trapeso
Compagni il gioco si fa nero e tetro, comprate ogni titolo, qu a forcella lo vendono per poco

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un cinquantone
Voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo l’asinella ma anche il muscone
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso
Mi piace far canzoni e leggere il divino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto

 

https://www.youtube.com/watch?v=u9sHBNUK3iU

 

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“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

Posted on 12 maggio 2025 by admin

forcaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La “Primavera dei Popoli” è l’espressione coniata da Filippo De Boni nel 1848 con la quale voleva sottolineare l’ondata di rinnovamento che attraversò l’Europa.

Gli intervalli storici poi sono molteplici per i quali furono tracciati i momenti di tutta la storia europea, grazie ad un ampio movimento popolare verso i regimi assolutisti, a cui venivano chieste partecipazione politica, diritti civili e indipendenza nazionale.

La “Primavera dei Popoli” per questo rappresenta il rinnovamento politico e sociale, in tutto, una conquista sociale che si andava palesando quando iniziava la stagione lunga, “la Primavera” e le masse uscivano dall’isolamento dell’inverno, “la Stagione corta” rivendicando la fine delle cose assolute, con l’adozione di costituzioni liberali, migliori condizioni di vita e lavoro indipendente.

Anche se molte di queste rivolte sono state represse, esse contribuirono a diffondere l’idea di democrazia, ispirando movimenti per l’indipendenza e il Ricambio Politico Costituito.

In Italia, la Primavera dei Popoli si manifestò in diverse regioni, a Milano, le Cinque Giornate del 1848 furono un episodio emblematico di resistenza contro l’occupazione austriaca, anche in altre città italiane e, in epoche diverse vi furono movimenti o sollevazioni popolari, come a Venezia, dove fu proclamata la Repubblica di San Marco, a Palermo, dove ebbe inizio la Rivoluzione Siciliana, senza dimenticare Napoli. con le famose quattro giornate dal 27 al 30 settembre 1943.

Oltre al suo significato storico, “la Primavera dei Popoli” è diventata un simbolo di speranza e di lotta per la libertà e la giustizia sociale.

Il termine è stato successivamente coniato per descrivere altri movimenti popolari, come le rivolte del 1968 e la Primavera Araba, indicando un desiderio universale di cambiamento e di emancipazione.

Allo stato della memoria storica va ribadito che qualora si innestano le radici per un evento culturale come il Maggio dei Monumenti sceglie un tema simbolico come “il fuoco”, avendo a memoria solo l’elemento naturale, escludendo i significati che il fuoco ha avuto nella storia di Napoli e di tutti i popoli del globo in simboli, storici, culturali e artistici, distrutti o riverberati.

Il fuoco simbolo di energia, ispirazione e forza rappresenta l’anima che anima o incendia, distruggendo la cultura e l’arte, quando questa sfugge al controllo dei poteri piramidali che gestiscono il potere economico.

Napoli ha un legame profondo con il fuoco anche in senso mitologico pensiamo a Vulcano, alla leggenda di Partenope, al Vesuvio, che può essere rievocato in eventi e spettacoli, ma esiste anche una terza forma fatta di fumi cenere e pena.

Il fuoco è anche simbolo di luce, che illumina la città attraverso la cultura, l’arte e la memoria storica, tuttavia il fuoco come la luce crea prospettive di ombra, le stesse che rimangono spesso nel dimenticatoio.

Il Vesuvio, ad esempio, noto come identità napoletana o emblema potente del “fuoco” che ha segnato la storia, l’urbanistica e l’immaginario della città e, in alcune tradizioni religiose e popolari, il fuoco è purificazione e luce, e può essere celebrato in eventi legati alla fede o alle tradizioni popolari, anche se il Vesuvio, resta in attesa per essere illuminato dal sole e dalla luna.

Il Vesuvio tuttavia simboleggia la distruzione come in alcune epoche di Napoli numerosi scritti facevano fuoco e quindi il mezzo per eliminare le idee di quanti erano visti come dissidenti.

Questa pratica ha una forte valenza simbolica e pratica, infatti bruciare libri, lettere, manifesti o opere scritte serve a eliminare fisicamente le idee che mettono in discussione l’autorità o l’ideologia dominante.

La distruzione fisica degli scritti significa impedire la diffusione di opinioni contrarie al potere e, in regimi autoritari, questo è fondamentale per mantenere il controllo sulle masse.

Il rogo degli scritti rappresenta atto simbolico di repressione e, serve da monito agli altri e chi si oppone rischia non solo la censura, ma anche la persecuzione.

In tutto Bruciare ciò che è stato scritto consente a riscrivere la storia, cancellando testimonianze scomode e impedendo che future generazioni abbiano accesso a versioni alternative della realtà.

Come non ricordare il rogo dei libri nella Germania nazista (1933); o la distruzione di testi “eretici” durante l’Inquisizione; e come non citare i roghi di libri durante la Rivoluzione Culturale in Cina

 E non da meno, la fine del XVIII secolo, con particolare rilievo al contesto turbolento delle rivoluzioni europee come quella del 1799, dove la repressione delle idee attraverso la distruzione degli scritti e la punizione violenta degli autori o editori era una pratica fortemente adoperata.

Nel caso, ci si può riferire a diversi eventi rivoluzionari, ma due contesti emergono, con rilevanza ovvero, la Francia post-rivoluzionaria e colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799.

O Napoleone Bonaparte che prese il potere con un colpo di Stato, dopo anni di radicalizzazione rivoluzionaria e instabilità diffusa.

Durante e dopo la Rivoluzione francese (1789–1799), sia i monarchici sia i rivoluzionari più estremi usarono la censura violenta per zittire gli oppositori.

Stampatori, giornalisti e intellettuali furono spesso imprigionati, esiliati o giustiziati, e i loro scritti bruciati con il fuoco di falò allestiti li nei pressi e poi banditi gli addetti che erano passati alle forche.

In Italia, durante la breve esperienza della Repubblica Partenopea, nata a Napoli con l’appoggio francese, ma con mira cristiana, per questo do breve durata e quando ci fu la violenta reazione borbonica e dopo il riequilibrio della monarchia.

i controrivoluzionari giustiziarono molti repubblicani, tra cui intellettuali e editori, dando alle fiamme e distruggendo i loro scritti, al fine di estirpare ogni traccia del pensiero illuminista di credenza cristiana.

Il meccanismo era chiaro, prima si distruggeva l’idea, libri, giornali, volantini, poi il corpo che la diffondeva, quali gli editori, gli autori o liberi pensatori.

Questa doppia attività mirava a cancellare voce memoria con il dissenso e poi sin anche fisicamente il libero pensatore, sin anche nel 1921 e nel 1848 a Napoli, quando si verificarono episodi significativi di repressione politica e culturale, spesso accompagnati dalla distruzione degli scritti e la persecuzione degli intellettuali, in un clima di forte contrasto ideologico.

Nel 1848, durante i moti rivoluzionari che attraversarono tutta l’Europa e, menzionata come Primavera dei Popoli, anche a Napoli scoppiarono rivolte per ottenere una costituzione, libertà di stampa e riforme liberali dal re borbonico, ma dopo pochi mesi il re Ferdinando II, ritirò ogni cosa reprimendo duramente ogni forma di opposizione.

I giornali liberali furono chiusi, i loro archivi e tipografie saccheggiati e bruciati e, molti editori, scrittori e attivisti furono arrestati o costretti all’esilio.

In particolare, furono perseguiti coloro che avevano pubblicato manifesti o articoli a favore del costituzionalismo o dell’unità d’Italia.

Questo fu un chiaro esempio di controrivoluzione culturale, dove la distruzione degli scritti con il fuoco, fu parte integrante della repressione culturale, sociale e politica.

Certo che quanti hanno scelto il tema del fuoco per il “maggio dei monumenti”, esaltandone percorsi palazzi, case e chiese devono aver perso il senso dell’olio con cui si alimentava la lanterna del filosofo greco Diogene di Sinope, il quale con pena e non pochi sacrifici cercava il senso delle cose, nel tempo dell’antichità.

Non conoscere le vicende su citate in senso generale della storia di Napoli, si può anche accettare, ma che questo sia il frutto delle eccellenze istituzionali partenopee, non trova alcun lume culturale che vede svolgersi, senza soluzione di pena, negli ultimi anni.

Dopo terra, aria e acqua, il filo conduttore di quest’anno è il fuoco e, da qui il titolo, che evoca un’espressione di Matilde Serao: Napoli, cuore ardente, mente illuminata, e anche se la frase non centra nulla con il fuoco, infatti, il senso diventa ispirazione di un racconto collettivo che, attraversando la città in tutte le sue Municipalità, ne celebra le pene di fuoco che qui hanno avuto luogo e, la spinta che dovrebbe rigenerare è racchiusa nei fuochi che Il popolo partenopeo hanno visto cancellare il pensiero liberare dei giusti.

A tal proposito valga di esempio la persecuzione subita con veemenza dal trenta luglio del 1799 nei confronti del libero pensatore, Pasquale Baffi, un Arbëreşë di Terra di Sofia, il quale per essersi distinto nelle pieghe di quella rivoluzione, durata pochi mesi, più incisiva verso i suoi editi prima bruciati e dati alle fiamme davanti casa in via Sant’Agostino degli Scalzi e poi continuamente deturpandola sua memoria per mandato del suo perseguitore parentale, dal undici di novembre di quell’anno.

Infatti trovo fine in quel patibolo di piazza mercato, usato per mostrar come erano puniti i liberi pensatori, che terrorizzavano i regnati e per evitare che potesse trovare agio nell’aldilà venne sgozzato a mo’ di disprezzo.

Pasquale Baffi, un Arbëreşë nato in Terra di Sofia non fu il solo a subire questa sorte che i Borbone riservavano a quanti immaginavano nuove prospettive di parità sociale.

Altri subirono il fuoco delle proprie idee scritte, e tutta Napoli rese in cenere il meglio prodotto dai suoi figli migliori che per essere stati tali furono sacrificati.

Oggi quanti immaginano che un Arbëreşë come Pasquale Baffi, non abbia mai scritto nulla è quindi non è da considerare letterato, specie se sortisce da istituti o istituzione, commette un gravissimo errore, non di poco rispetto nei suoi confronti, ma alla storia e alla cultura in senso generale dell’Europa tutta, sminuendo sin anche il valore dell’istituto da cui proviene che in quel tempo era in fermento e cercava nuove opportunità sociali poi con tempo lungo poste in essere.

Oggi comunemente ricordano i più variegati cultori progettisti e divulgatori, ma pochi sanno dove e come collocare Pasquale Baffi; Luigi Giura e Vincenzo Torelli i rinnovatori di tutta l’Europa.

Ad oggi la nostra politica la nostra scienza e i nostri canali comunicativi, ignorano chi e cosa ricordare, per il nuovo che viviamo in ambito sociale economico e politico, innovazione tecnologica o avvicinamento di popoli e sistemi di comunicazione di massa, rispettivamente delle tre citate figure

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                                    NAPOLI 2025-05-12.

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LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

Posted on 06 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le epoche sono numerose, in cui le citazioni pongono in evidenza i trascorsi della minoranza Arbëreşë, la stessa che per non soccombere delle angherie degli invasori, preferì emigrare dalle proprie terre per trovare agio e credenza ad ovest del mare Adriatico.

Essi seppero riconoscere gli ambiti naturali paralleli dell’originario ambiente culturale e religioso, segnando e valorizzando come si fa con l’oro, quelle le terre abbandonate del meridione della penisola italiana.

E in ogni luogo a loro, consentito di sbarcare, si disposero per cooperare in fraterno progredire, con le genti indigene, per la crescita di quelle terre ritrovate, diventate poi patrimonio dorato steso alla luce del sole e, per questo gli Arbëreşë nel mediterraneo sono stati ritenuti storicamente alla pari della moneta araba così tanto ambita.

Il “Tarì”, una moneta d’oro usata principalmente nell’Italia meridionale a partire dal X secolo, in Sicilia e successivamente espandendosi in tutto meridionale italiano, ebbe notorietà, come in seguito fu per gli Arbëreşë dal XIV secolo.

Il sostantivo (Tarī), dal greco “fresco”, “nuovo” riferisce di cosa innovativa, in tutto, un simbolo di alto valore per scambio economico, in fraterna e civile convivenza, il conio con incisioni sia arabe che latine, testimonia l’incontro tra culture in pacifica convivenza, considerato tra i più antichi del mediterraneo fatto di scambio e operosità.

Il parallelismo tra la Moneta dorata e le genti Arbëreşë, deve essere intesa come risorsa o genio capace di rigenerare e far risplendere l’economia di numerose macro aree dello storico regno di Napoli, oggi Italia meridionale, è più che legittimo, anzi doveroso rendere noto il parallelismo di convivenza.

Tuttavia senza amplificare epoche e tempi, vanno sicuramente ricordati gli intervalli in cui servirono ai romani per difendere terre, con gli indispensabili “Stradioti” o, per dare continuità alle arti della Venezia Operosa, cosi come in ambiti, Papali sino al Regno di Napoli, che ancora oggi trovano agio con questa realtà sempre pronta a dare valore.

In questa breve diplomatica, si vuole rilevare il valore aggiunto, che ne ebbe il meridione italiano, dal XIV secolo, quando per opera degli Arbëreşë, venne innalzata l’economia in diverse macro aree in pena o devastate dagli eventi naturali persistenti.

Sette regioni del meridione oggi dell’Italia, diffusamente articolate in ventuno macro aree, ripopolando oltre cento, abitati urbano ormai allo stremo abitativo e, nel breve di un decennio l’economia di quelle colline, non ha più avuto pena, per la solidità dei germogli innestati con caparbia professionalità Arbëreşë.

In oltre Arabi e Arbëreşë avevano simili intenti nel realizzare i nuclei abitativi, in forza dei modelli di Iunctura familiare, anche se con differenze culturali e storiche significative.

Infatti la difesa dei centri storici e il controllo del territorio, erano scelti secondo posizioni strategiche come colline, o alture, per fini difensivi, specialmente in contesti di instabilità o minaccia esterna, come all’epoca erano vissute le citate comunità in espansione.

A tal fine gli insediamenti dovevano risultare funzionali al paesaggio che offriva le più idonee risorse idriche, terreni fertili, esposizione solare, e adattabili al facile rilievo per fare strade strette e case compatte.

Tutto questo per favorivano la vita comunitaria e la conservazione delle tradizioni culturali e religiose di fondamentale caratura, per questi operosi e geniali popoli.

Gli Arabi, sviluppavo o meglio articolavano le loro città con elementi come il souk, il riad, giardini interni, e una forte influenza architettonica di radice islamica.

Gli Arbëreshë, si inserivano spesso in contesti già esistenti o ricostruivano villaggi spopolati, inserendo elementi propri della tradizione balcanica, ma con adattamenti alla cultura locale, e anche qui gli elementi caratteristici erano, le porte delle case lungo vicoli articolati, archi, orti botanici e vicoli ciechi.

Quattro quartieri eseguiti secondo un impianto a maglia irregolare, case addossate e vicoli labirintici, ma tutti riuniti a garanzia della convivenza fraterna di radice etnica o religiosa riecheggiante.

In sintesi, entrambi i gruppi hanno creato insediamenti adattati al territorio, compatti e con forte identità culturale, ma preoccupandosi sin anche delle proprie origini religiose, linguistiche e storico/consuetudinarie.

Entrambe le comunità hanno mostrato un uso intelligente e sostenibile dell’ambiente, gestione dell’acqua, innalzando il valore dell’agricoltura, i materiali locali, per un approccio funzionale, autosufficiente e del bisogno ecologico.

In sintesi, il vero legame tra arabi e arbëreshë, nella costruzione dei nuclei abitativi è l’intento di creare comunità resilienti, capaci di preservare sé stesse, attraverso l’uso strategico dello spazio urbano e l’ambiente naturali in funzione della coesione sociale.

Nasce spontanea la domanda di dove, in termini fisici e geografici, arabi e arbëreshë si siano incrociati per essere trasmessi, per essere ereditati nei loro insediamenti.

Gli Arabi, pur essendo stati scacciati perseguiti dai Normanni, hanno lasciato tracce architettoniche, urbanistiche e agricole molto visibili, il loro lavoro venne ripreso e reinterpretate da chi in queste terre ne trovo tracce indelebili.

Valgano i sistemi urbani con strade strette, tortuose, adatte alla difesa e al clima caldo, tecniche idrauliche e agricole, canali sotterranei per l’acqua, terrazze e agricoltura irrigua.

Sistemi che esulavano dagli antichi e ormai fuori tempo sistemi piramidali e circoscritti che facevano il borgo medioevale ormai in decadimento.

E sin anche gli stessi Normanni, pur se cristiani, adottarono molte tecniche arabe che potevano dare agio ad altre credenze di gestione dei territori.

Gli Arbëreshë non ereditarono strutture arabe direttamente, ma si insediarono spesso in centri già esistenti o abbandonati, ricordando e avendo misura di quelle aree toccate in passato dagli Arabi vedi le citta della Sicilia come Mazzara del vallo o la stessa città di Napoli tra la via Furcillense e il mare.

In oltre Arbëreşë e Arabi sono anche legati ai termini di “legge” o “regola”, che a sua volta derivato dal greco “kanón”, in tutto “regola” o “standard”.

E mentre gli Arabi si stanziarono in Sicilia nell’anno 827 d.C., iniziando una conquista che durò circa 75 anni e, fino alla completa presa dell’isola nel 902 d.C.

Il tutto ereditato dagli Aghlabidi, una dinastia musulmana con base nell’attuale Tunisia, da cui partirono per sbarcare nella dirimpettaia Mazara del Vallo.

Da cui iniziarono ad espandersi sino al 831 d.C. quando caduta Palermo, questa divenne la capitale dell’emirato arabo in Sicilia, quando nel 902 d.C. capitolava anche Taormina, l’ultimo baluardo bizantino di tutta la Sicilia ormai sotto il dominio e il controllo degli Arabi.

Ma dal 1040 sino al1091 d.C., i Normanni iniziano e completano la riconquista dell’isola, sin anche l’ultima roccaforte, Noto, che rimase fedele agli Arabi sino al 1091.

Tuttavia la dominazione segno profondamente la cultura siciliana, specie nei protocolli dell’Agricoltura, con l’introduzione di tecniche di irrigue pe mettere a dimora colture di agrumi, canna da zucchero, riso, cotone, in forte esenzione.

Tutte queste attività influirono sin anche sull’idioma degli isolani e, molte parole del parlare in dialetto locale derivano dall’arabo ad esempio il noto “zibbibbu” da zabīb, rispondente all’ uva passa.

Dalla Sicilia gli arabi non conquistarono altre parti del regno di Napoli, ma stabilirono contatti di scambio con Amalfi e Napoli stessa, anche se di sovente effettuarono spedizioni militari e razzie lungo le coste tirreniche di pertinenza.

Se nel IX secolo (anni 830–880), Amalfi era una potente repubblica marinara riuscendo spesso a difendersi e, siccome gli amalfitani erano abili commercianti, intrattennero rapporti con il mondo islamico, quindi non furono solo conflittuali ma forse molto di più costruttivi.

Nel 836 d.C., il ducato di Napoli con a capo Sergio I, chiamò in adunata i Saraceni contro i Longobardi di Benevento e gli Arabi furono invitati temporaneamente ad assumere il ruolo di alleati militari.

Anche se successivamente, iniziarono a saccheggiare le coste e diventarono una minaccia, di non poco conto, ma tuttavia non conquistarono mai Napoli, attaccando sistematicamente i dintorni come Pozzuoli, Ischia, Capua, ecc.

La presenza stabile araba in Italia continentale, fu breve e limitata a un piccolo emirato a Lucera in puglia con il fine di affacciarsi all’interno del mare ionio, avendo una base logistica nella zona di Tropea e Squillace, tuttavia, il dominio islamico durante il IX e il X secolo, nell’ambito delle loro incursioni e temporanee occupazioni nell’Italia meridionale. Tuttavia, non stabilirono un dominio stabile e duraturo come fecero in Sicilia, e le loro presenze in Calabria furono spesso legate a scorrerie militari, saccheggi e brevi occupazioni, anche se in alcune aree lasciarono tracce culturali e toponomastiche.

Valga in tal senso Amantea che fu una delle pochissime località calabresi a essere effettivamente occupate e governate dagli Arabi per un periodo più esteso, tra l’839 e l’889, diventando sin anche una roccaforte strategica sulla costa tirrenica.

Furono bersaglio di attacchi arabi Tropea e Nicotera dove ci furono occupazioni temporanee, ma non insediamenti duraturi o solidali dirsi voglia.

Tracce della presenza araba si trovano nelle Toponomastica di luoghi o nei dialetti locali e, in alcune zone si diffuse l’uso di nuove colture come agrumi e tecniche implementazione agricola.

Pur se la Calabria non fu mai completamente arabizzata, l’impatto culturale delle loro incursioni fu comunque percepibile in vari ambiti e, sebbene meno duratura rispetto ad altre aree del Sud Italia come la Sicilia, ha comunque lasciato tracce interessanti sia dal punto di vista culturale che linguistico.

Gli Arabi iniziarono a interessarsi alla Calabria a partire dal IX secolo durante le loro incursioni e conquiste nel Sud Italia.

Pur non riuscendo a stabilire un dominio stabile e duraturo sulla regione, controllarono temporaneamente alcune zone, specialmente nella Calabria meridionale (es. Amantea, Tropea, Gerace, Reggio Calabria).

A differenza della Sicilia, l’impatto architettonico arabo in Calabria è meno evidente e solo attenti osservatori opportunamente formati ne possono trarre o riferire questi lasciti.

Tuttavia, in alcune città si riscontrano tracce di modelli urbanistici simili a quelli arabi, come i quartieri con vicoli stretti e irregolari, chiamati talvolta Rabat; termine arabo per “fortezza” o “insediamento fortificato”.

In Agricoltura introdussero coltivazioni estensive di agrumi, canna da zucchero, cotone, sostenuti da sistemi di irrigazione sofisticati e complessi, le stesse innovazioni sopravvissute nei secoli, influenzando l’agricoltura calabrese.

Sono numerosi gli elementi della cucina calabrese, come l’uso di spezie come cannella e l’agrodolce, gli stessi che potrebbero avere origini arabe.

Cosi come alcuni dolci tradizionali (a base di mandorle, miele, sesamo, gli stessi che ricordano le tipiche ricette arabe.

Senza trascurare alcune parole del dialetto calabrese derivano dall’arabo, spesso tramite il siciliano come: Zibbibbu (uva passa) ← zabīb (uva secca); Giarra (anfora) ← jarra (vaso); Scirocco (vento) ← šarq (oriente); Zagara (fiore degli agrumi) ← zahr (fiore); Sheshiola (quartiere) ← (şèşj)

Per non tralasciare alcuni toponimi o cognomi che possono avere origini arabe o essere stati modificati nel tempo da forme di rotacismo locale.

L’influenza araba in Calabria, pur non essendo capillare o duratura come altrove, ha contribuito in maniera significativa ad alcuni aspetti della cultura materiale e della lingua. La sua impronta è più evidente in contesti agricoli, lessicali e gastronomici, mentre sul piano architettonico e amministrativo è più difficile da intercettare, specie se non si ha formazione Olivetara specifica.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                 Napoli 2025-05-06

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LA CASA DI NONNA FRANCESCA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

LA CASA DI NONNA FRANCESCA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 05 maggio 2025 by admin

photo_2025-05-03_18-30-15cNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèu cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e, quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immaginò che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza e ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande e, accoglie sposi;

Eseguiti per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, per chi cantare volando e dice:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                 Napoli 2024-05-04

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I GOVERNI DELLA REGIONE STORICA DEI KATUNDË DIFFUSI E SOSTENUTI IN ARBËREŞË (Gjitonia e Kushëtë i Arbëreşë)

I GOVERNI DELLA REGIONE STORICA DEI KATUNDË DIFFUSI E SOSTENUTI IN ARBËREŞË (Gjitonia e Kushëtë i Arbëreşë)

Posted on 04 maggio 2025 by admin

photo_2025-05-03_18-36-02gioventu italiana di azione cattolicaNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è un immaginario nella mente di ognuno di noi che se opportunamente sollecitate rievocano con saggezza i momenti della nostra storia meglio di ogni genere di trattato o immaginario comune e, qui in questo breve si vuole esporre il metodo più attendibile al fine di perseguire e illustrare le antiche consuetudini, ormai dismesse in tutti i centri di minoranza arbëreşë e dalla mente dei comini viandanti.

E sebbene istituti, istituzioni e organi preposti per la salvaguardia della storia, siccome poco attente alla conoscenza, anche se palesano forme di malia, tacciono, preferendo valori men­daci o, ingrate osservazioni di alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, trovano agio, sanità e quiete, tra le Gjitonie Arbëreşë.

In ragione di questo amenissimo clima proposto e largamente diffuso nei Katundë arbëreşë, secondo le diffuse e ornamentali regole maliziose, nate per conservare, ma non hanno capacita di rispondere ai temi delle cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità, oggi in travaglio.

Si sono preferiti e avvantaggiati, tutti quanti erano di piccola statura e, questi una volta tornati dalle cattedre dove avevano sognato di essere saliti, hanno scambiato il loro ruolo dei campanili inquadrandoli per minareti mussulmani. 

A rivendicare dunque il decoro della nostra ingiustamente malmenata regine storica,  si rende necessario un  sito come Scesci i Passionatit che in  forma di manuale, ne met­tesse con chiara  parsimonia la visione dello stato fisico e morale di ogni cosa e figura, in modo che anche uno svagato lettore che vo­glia solo deliziarsi di curiosità e avvenimenti, sia co­stretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi, nello stesso tempo quelle notizie che possano avere un posto sicuro, per acquisire tutte le comodità dilettevoli della storia e le cose Arbëreşë.

Per poter comprendere il significato storico di questi modelli, bisogna conoscerli per collocarli geograficamente nelle giuste nicchie mediterranee, poi lungo una direzione di due paralleli terrestri, seguendo il vivere comune più esteso e infine oggi negli ambiti abitativi considerati dormitorio che trovano lavoro a cielo aperto.

Quattro momenti identificabili in: Iunctura familiare, Gjitonia, Vicinato e Quartieri di periferia senza futuro, questi ultimi oggi definiti il lugo senza futuro della società moderna da relegare.

Parlare dei primi due momenti storici della società del mediterraneo quindi è fondamentale anche per capire i motivi della deriva culturale oggi in atto.

Gli argomenti che qui si mia a raffigurare e rievocare sono gli indimenticabili governi di generi Arbëreşë, articolati in senatrici e deputati a vita.

Ed entrambi svolgevano ruolo fondamentale nel garantire la continuità sociale ed economico esecutivo, con dovizia e operosità sostenibile dei generi che davano fioritura Nëdë Katundë.

Il modello di Deputate e Senatori partecipava in egual misura al processo di sostenibilità, per il buon fine, allevando e sostenendo e cogliere le cose miglior di ogni genere, secondo il bisogno di formazione e crescita sociale dei rioni tipici arbëreşë”.

Le Deputate assumevano il ruolo di allestire e preparare i generi in crescita e formazione primaria, gli stessi che poi avrebbero occupato ruoli fondamentali nell’operato locale del Senato locale, all’interno del centro antico e dell’agro di pertinenza comune (Thë Kushëtë).

Tutto questo era indispensabile per rinforzare la filiera produttiva, le attività di consumo e conservazione dei ricavati, garantendo il valore specifico di ogni genere, sostenendo la genuinità di cose, generi e necessità culturale, mantenendo sempre viva la radice per le nuove ere.

Questo sistema articolato, assicurava che gli atti di formazione rimanessero solidali e duraturi con la radice originaria, in correlazione con le consuetudini, trapiantate perché provenienti dalle colline ad est del mare adriatico.​

Tutto questo è stato reso possibile grazie al governo delle donne di ogni Katundë arbëreşë, disponendo scelte solide, attraverso atti di formazione rivolti a tutte le nuove generazioni, li nate cresciute e allevate, così rivestendo ruolo, dopo essere stati certificati anche da agli uomini, i delegati della verifica, che l’antico disciplinare era stato rispettato.​

Oltre alle funzioni di formazione e controllo, le donne nei loro ambiti di pertinenza (Gjitonia), rivestivano anche ruoli amministrativi, assegnando giudizio fondamentali primi, per il futuro dei generi, avviando e vigilando su quello che sarebbe stato il risultato di tutela.​

In sintesi, Deputate e Senatori rappresentavano due momenti fondamentali della formazione, che garantiva il buon esito del sistema sociale di ogni Sheshi o Sheshio e, attraverso questi traguardi, garantire, il rispetto del protocollo di eguaglianza senza prevaricazione alcuna di generi e cose, del popolo sovrano, secondo i principi consuetudinari paralleli e ambientali ritrovati.

Tuttavia, esistono alcune differenze sostanziali, che caratterizzano i Katundàrë arbëreşë, dove il governo delle donne, sa come innescare i cinque sensi o, tempo lento per acquisire sintonia con la storia che scorre, senza sfuggire ai tempi di precedenza.

Gjitonia diventa così, la culla dove si formano e si ripetono i lasciti di scolarizzazione primaria, ad opera delle madri tutte, che qui riunite e sempre presenti in solide attività, valorizzavano tutti i generi in crescita, senza preferenza alcuna, oltre nell’adoperarsi alla compilazione di prima spogliatura dei prodotti e tutto quello che serviva diventasse bagaglio di memoria sostenibile, per il tempo della stagione corta (l’inverno).

Gli spazi gestiti da questo gruppo al femminile coesi e rispettosi dei valori arbëreşë secondo il patto della promessa data (Besa).

Resero questi ambiti che nel corso dei secoli, attraverso il rivestire il ruolo circoscritti dalla Iunctura familiare, in tutto, la prima scuola di formazione per le nuove generazioni in crescita.

Famiglie che si riuniscono, si ritrovano attorno a un ideale fuoco solidare, come avviene in tutti i rioni che compongono il costruito del centro antico arbëreşë.

Riuniti tutti in porzioni ben definite e rigidamente connesse tra le rappresentanti femminili, le deputate di una porzione di abitato, lo stesso dove sistematicamente si compilano e si dispongono le necessità familiari di cooperazione, poi confermate dal governo degli uomini che ne trae beneficio e tranquillità.

All’interno dello spazio dove, la famiglia allargate senza confini, si articolava, erano allevati sostenuti e formati con dovizia di particolari, i generi in crescita, ed avere così, agio di esternare le capacità di genio o lavoro dirsi voglia, le stesse poi sottoposte all’attenzione del governo degli uomini, che esprimevano un parere complementare, perché quello fondamentale era stato già attestato nel tempo dello sviluppo.

Il teorema secondo cui “il governo delle donne arbëreşë cresceva, formava e indicava la via alle nuove generazioni” evoca un’immagine potente, perché istituito a sostenere la comunità.

Tutto questo instancabile operare, va interpretato come leadership culturale e sociale, che non è di mera radice politica, ma piuttosto del ruolo centrale delle donne, nella trasmissione dei valori, della lingua, delle tradizioni religiose, oltre al senso di valorizzare la comunità preparando figure più idonee e senza preferenza alcuna.

Le donne erano fonte di famiglia e, nella comunità, insegnavano non solo le competenze pratiche, ma anche la storia, la cultura e offrendo nel contempo, formazione specifica per gli adempimenti futuri.

In senso figurato, queste donne fungevano da guida morale e culturale, mantenendo viva la memoria e la continuità dell’identità attraverso le generazioni che doveva sapere cosa scegliere, per loro e la sostenibilità in evoluzione.

Riferire del “luogo dei cinque sensi” senza confini fisici, potremmo parlare di un concetto simbolico o esperienziale piuttosto che di un sito geografico reale.

Vero è che un luogo senza confini fisici dove i cinque sensi (vista, udito, tatto, olfatto, gusto) diventano strumenti di connessione in forma di esperienza meditativa o sensoriale profonda, in tutto spazi comunitari dove si condividono emozioni, storie, rituali, inseriti in un’ambiente in cui si abbattono barriere tra corpo e paesaggio.

Il tutto si concretizza con le pratiche della Gjitonia, dove il “luogo” non è fisico, ma fatto di relazioni, contatto, profumi, suoni e gesti quotidiani.

Nei fatti un “luogo” è relazionale, non delimitato da mura, perché i sensi sono veicolo di memoria collettiva e appartenenza culturale, che coinvolgono senza barriere spaziali, dove il corpo percepisce stimoli per il benessere psico-fisico, senza confini tra interno ed esterno.

Resta nota e si porta ancora memoria della leva di ferro, chiamata “saltarello” (Colòshjnì), posizionata in ogni porta, inserito nella parte interna in un apposito alloggiamento che, serrava la porta.

Una chiusura tradizionale caratterizzata da una leva di ferro di due semi archi, la quale quando ruotata, dopo ave chiamato e avuto consenso, dopo il battacchio, il meccanismo, sollevando la leva consentiva l’apertura della porta per entrare dall’esterno.

Questo sistema combinava la semplicità di una chiusura manuale con la possibilità di essere aperto dall’esterno, in modo sicuro e reso disponibile per tutti i componenti di Iunctura che vigilava nel corso della giornata.

È trascorso un tempo secondo cui Gjitoni era meglio del Parente, un teorema diffuso e a dir poco demenziale, infatti il i due sostantivi denotano entrambi un legame sociale e parentale, anche se il parente quando si reca in una casa è l’unico momento della storia di questo ambito dei cinque sensi, in cui le porte non si chiudono solo con il “saltarello” (Colòshjnì), ma di giorno e con la chiave, e le finestre si adombrano con gli scuri, perché quel governo delle donne viene  ispezionato da Presidente in persona (Tatë Madj) e le scelte di uno specifico nucleo familiare devono interessare la Famiglia Arbëreşë, quella fatta dal padre la madre i figli le mogli e prole.

Tutto il resto era fuori l’uscio di casa e l’intimo della decisione non doveva fare parte in alcun modo, dell’ambito sociale della Gjitonia, che per questo veniva esclusa delle scelte ristrette della famiglia parentale.

Molte porte avevano apposto un rettangolino con la raffigurazione vaticana raffigurante un braccio che benediva con la frase latina “In Hoc Signo Vinces” (“sotto questo segno vincerai”).

Questo dava la misura del valore di credenza cristiana, che avvolgeva tutti gli ambiti di Gjitonia, gli stessi che nei tempi di pentecoste allestivano altari a impronta di quelli delle chiese per dare senso di credenza a questi luoghi di sociale e buona convivenza.

Oggi dei protocolli che hanno reso possibile la sopravvivenza di questi centri antichi di Iunctura con le numerose Gjitonie locali, hanno smesso da diverso tempo di pulsare, cosi come le prospettive sono di giorno in giorno soffocate da adempimenti inconsapevoli, e colmi di valori in forma di violenza, sin anche quando si modificano. pavimentano o rifiniscono intonaci murari, intesi come tele pittoriche dove raffigurare cose qui mai avvenute o mai transitate.

A noi studiosi osservanti, cresciuti grazie alla formazione materne della Gjitonia, non resta che raccogliere le lacrime amare di questi ambiti, evitando che diventino paludi o trapesi.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-05-04

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verdeaquila

THË KATUNDJ KU U LLEVA E RRITÀ (Il mio paese natio)

Posted on 02 maggio 2025 by admin

verdeaquila

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mio luogo natio Katundë, che non molti sanno, racchiuda il significato di luogo di confronto e movimento solidale di donne, per allevare al meglio ogni figura o genere.

Esso ai tempi della mia nascita, era già diretto dal governo delle donne e approvato dall’operato degli uomini, il tutto, articolato in Gjitonie o luoghi dei cinque sensi, composti di madri, mogli e figlie di uomini, che gestivano i campi di semina Haretë o Rashj.

Era in queste macro culle sociali al femminile, che ogni nuova generazione, riceveva abbracci materni e, per i meno fortunati allo scuro di questi valori, ricevevano gli abbracci solidali del governo delle donne.

Le stesse, che instancabilmente, giorno dopo giorno, non trascuravano il vigilare che non aveva, un abbraccio mattutino, guida giornaliera e la nenia prima di andare a letto, perché tutti erano figli e figlie allo stesso modo, anche i meno fortunati appellati con discrezione (làlà o bibilljë).

Rammento l’uso di questi sostantivi, con cui mia madre indicava làlà, chi da piccolo aveva diviso con me il latte e bibilljà chi era cresciuta senza padre e, per questo passata al controllo del governo di Gjitonia.

Il ” governo delle donne arbëreşë” cresceva, formava e indicava la via alle nuove generazioni elevando la morale di quanti poi sarebbero diventati guida nella comunità, senza escludere alcun genere.

Il modello qui citato, va interpretato come leadership culturale e sociale, non di mera radice politica per fare prevaricazione, ma del ruolo delle donne nella trasmissione dei valori, della lingua, delle tradizioni religiose, oltre al senso del bisogno comune da valorizzare spazi, cose e generi, preparando le figure più idonee e senza preferenza alcuna a sostenere questi fondamentali teoremi.

Gli stessi che dismesso l’antico governo delle donne, oggi sovrastano e alimentano la politica della minoranza, fatta dai meno adatti.

Quei luoghi del Katundë natio e formativo, che conoscevo e conosco uno ad uno, pur se manomessi, spianati senza ragione, per essere veicolabili e labili, sono tutti allocati e riparati dal vento, esposti con garbo e misura al sole, per questo, il governo qu riunito, esplicava le proprie funzioni in piacevole dislogo e senza pene la permanenza.

Per questo motivo, ogni decisione era presa con misura e, quando nasceva, si sviluppava con merito in favore delle giovani leve in crescita.

Qui erano accolti tutti i generi senza prevaricazione alcuna dirsi voglia raccomandazione, sin anche chi aveva diversità abile, in quanti tutti avevano una collocazione dignitosa all’interno della iunctura familiare che teneva il fuoco acceso di questo governo al femminile.

Ogni Gjitonia seguiva con attenzione le attività, di formazione sociale, religiosa o ricorrenze di credenza nel corso dell’anno solare.

Si allevavano e si formavano generi, secondo protocolli cristiani e nessuna delle madri allevava i figli sotto il noce allattandoli, con la luna crescente, ma sotto il sole dei luoghi ameni di Gjitonia; l’abbraccio naturale fatto di amore e sensi genuini.

I Katundë per questo sono stati sempre ben amministrati, ad iniziare dalle singole case, che si riverberavano nel centro antico e dei suoi cunei agrari di prodizione, trasformazione e conservazione.

Cosi come i percorsi carrabili che davano agio al lavoro a tutte le attività che facevano economia e progresso e cultura, incastonato tra i vicoli, gli archi, vichi chiusi, le piazzette e gli indispensabili orti botanici, questo un insieme che rendeva le consuetudini arbëreşë, inarrivabile dagli indigeni o da quanti volevano trarre beneficio dalla consuetudine governata, diretta e sostenuta dalle donne.

Quindi, nei Katundë (e nel suo agro), l’educazione dei figli era affidata alle donne e le ragioni culturali e sociali, trovano ragione, per i seguenti motivi.

Essendo i Katundë basati sui principi patriarcali, l’uomo era il capofamiglia, lavoratore e “portatore di reddito”, mentre alla donna spettava il ruolo di “angelo del focolare”, responsabile della gestione della casa e la crescita e formazione dei figli.

Specie in contesti isolati o rurali, come i Katundë arbëreşë, dove la vita si organizzava secondo ruoli e compiti in maniera molto solidale.

Vera era che le donne stavano in casa o nei contesti di iunctura, accudendo figli e anziani, mentre gli uomini erano impegnati in lavori più lontani e pesanti.

Tutto questo venne sostenuto sino al Novecento inoltrato, quando le donne avevano meno accesso all’istruzione e difficilmente lavoravano fuori casa, rendendole “disponibili” per l’educazione e il sostegno familiare.

Questa condizione le confinava, per usare un eufemismo, nel ruolo educativo, anche senza un vero riconoscimento formale, in molte culture inclusa la cristiana, tuttavia le donne erano le figure affettive morali e baricentriche, sia per la Chiesa e sia per le consuetudini che rafforzavano la famiglia con questa prima educatrice, soprattutto nell’insegnare valori morali, religiosi e comportamentali.

Tuttavia va considerato, che all’epoca, vi era assenza di asili, scuole dell’infanzia o servizi sociali e, l’educazione dei bambini avveniva interamente in casa, riversando il ruolo delle madri in quel contesto di Gjitonia, supportate da altre donne della famiglia, come nonne, zie e sorelle maggiori.

Va sottolineato che la maggior parte di queste, non aveva alcuna formazione pedagogica o medico-sanitaria, soprattutto fino alla metà del Novecento, per riconoscere e affrontare disabilità cognitive, sensoriali o motorie.

Di conseguenza, l’intervento educativo si basava sul buon senso, l’osservazione quotidiana e l’affetto, che le donne potevano dare per relazionale l’accudimento, socializzazione o, stimolo emotivo in grado di intercettare il ruolo più idoneo all’interno del gruppo della figura che aveva necessità di inserimento.

In tutto forme pratico-funzionali di gesti semplici della vita quotidiana, come mangiare, vestirsi, camminare, o rendere pratici di un’attività per valorizzarli, con atti ripetitivi a imitazione, cercando di incidere attraverso esempi e routine il meglio che si poteva dare.

Il protocollo comunque pur se privo di basi scientifiche, era fondamentale per il rispetto e lo sviluppo emotivo e sociale di questi giovani in crescita, avendo cosi un ruolo preciso all’interno della iunctura familiare.

Per questo, l’essere diversamente abili, non era vissuto come una “sfortuna” o “punizione”, ma offrire socialità e stimoli alternativi che evitavano l’isolamento.

In tutto un’educazione basata sull’amore e sull’esperienza, per affrontare bisogni speciali, in un contesto che non offriva nulla in termini di supporto professionale, ma solidarizzava il rispetto verso sé stessi e gli altri.

Gjitonia era per tutti e senza alcuna distinzione, una scuola senza lavagna, senza inchiostro, pennini, matite quaderni e fogli piani o arrotolati.

Gli unici attrezzi per apprendere e parlare in arbëreşë, erano e sono cuore, mente, occhio e orecchio e, la lavagna, dove volgere sguardo e attenzione, erano le prospettive dell’ambiente che generava le infinite prospettive della vita fuori e dentro la natura.

Quelle righe che ogni giorno, il corpo docente delle donne, in quella iunctura familiare senza confini non rimandava alla fine della stagione lunga o ti boccia per ripetere l’intera stagione corta, ma sosteneva tutti, senza soluzione di continuità siano al compimento della formazione.

A tal fine è bene precisare, anzi addimandare a tutti voi che qui leggete e, avete conoscenza e padronanza completa del parlato in arbëreşë: quanti libri avete letto, quanti quaderni avete compilato, quanti calamai avete versato, prima di esprimervi correttamente con l’idioma ereditato dalle vostre madri thë Gjitonia.

A tal proposito sappiate che l’attestato che: l’asilo, le scuole primarie, secondarie, l’università e “quinquenni specialistici”, qui si attribuivano solo per meriti e, le nostre nonne, madri, sorelle depositavano ogni cosa, nel nostro cuore, nella nostra mente, per questo, chi oggi mira a ripetere quella operazione con libri, lavagne e vocabolari riversi, non si rende conto, del male che produce, alla sostenibilità della natia minoranza, la stessa che vive, riverbera e sostiene la Regione Storica degli Arbëreşë.

Personalmente ho vissuto con profitto questa realtà e, oggi quando sento riverberi di radice Albanistico/a, mi ritengo fortunato, e fiero di aver saputo cogliere per intero questa storica eredità così grande e indivisibile.

Nello svolgersi della vita bisogna raccogliere tutti i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto, giacché, ogni frammento contiene l’anima di un vissuto, un sacro lume da custodire, con cura e devozione; nulla va perduto perché è grazia di ogni sacro momento della vita.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                 Napoli 2025, il giorno di Sant’Atanasio Patriarca

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CREDENZE ARBËREŞË SOSTENUTE DAI RISONANTI ACUSTICI  (longhelljetë tona)

CREDENZE ARBËREŞË SOSTENUTE DAI RISONANTI ACUSTICI (longhelljetë tona)

Posted on 29 aprile 2025 by admin

photo_2025-04-28_12-36-53eeeeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nell’antichità l’uomo mise a punto dispositivi acustici con forme simili ai contenitori di liquidi e cose, utilizzando materiali quali: pietra, bronzo e ceramica, a seconda delle necessità di amplificare o modulare parola e canto.​

Questi contenitori generalmente trovati vuoti e, simili a urne, servivano a sostenere ed elevare i suoni, opportunamente affossati lungo pavimenti, li elevati murari o nell’intradosso degli orizzontamenti a volta, ottenendo così, un effetto di riverbero indispensabile a migliorare l’acustica dove avevano luogo manifestazioni pubbliche o di preghiera. ​

I contenitori risonanti, noti anche come “echeia” o “salvavoce”, sono stati descritti da Vitruvio già dal 80 a.C. e, sebbene siano una caratteristica distintiva dell’architettura teatrale romana, anche l’antico oriente aveva sviluppato tecniche per amplificare e modulare il suono, utilizzando questi strumenti ceramici, riflettono la comprensione avanzata dell’acustica o applicazione pratica della scienza del suono.

I romani prelevarono come bottino di guerra dai teatri in fiamme delle città greche, questi contenitori che subito dopo ebbero ragione e compresi di non essere vasi comuni, destinati alla conservazione del cibo, ma recipienti particolari che avevano funzione nel sistema dell’acustica di questi luoghi di ascolto.

Collocati in apposite nicchie ricavate nella cavea, la parte del teatro che ospitava il pubblico, i recipienti funzionavano come cassa di risonanza, aumentando la potenza del suono che proveniva dalla scena e consentendo, pertanto, una migliore acustica anche per quegli spettatori che occupavano i posti meno esposti rispetto al luogo dove si svolgeva la rappresentazione in favella.

Appare assai verosimile che questi tipi di recipienti, avessero funzione, a quali toni dovevano corrispondere, adottando la scala tonale del teorico musicale, che divide due ottave in otto toni fissi e dieci toni variabili.

I toni variabili erano selezionati poi per tre diverse modalità e, la modalità per i piccoli teatri rendeva necessaria l’amplificazione di sette toni.

A tal fine, tredici vasi risonanti dovevano essere collocati a intervalli uguali, due vasi per sei toni ciascuno e un vaso al centro per il settimo tono.

Nei teatri di grandi dimensioni, anche i toni delle altre due ottave avrebbero dovuto essere amplificati da altre due file con un numero corrispondente di contenitori risonanti.

Il vaso acustico o vaso sonoro veniva incastonato nelle pareti e sotto il pavimento di alcuni edifici antichi e medievali.

Sebbene la loro finalità non sia del tutto certa, si ritiene che avessero lo scopo di migliorare l’acustica degli edifici riducendo i tempi di riverbero.

I risonanti erano recipienti di metallo, come bronzo o rame, inseriti in nicchie nei gradini della cavea del teatro e, la loro funzione favoriva il diffondersi di specifiche frequenze, migliorando la qualità dell’ascolto per il pubblico.

Disposti in modo da corrispondere alla scala tonale di ben identificati toni della voce o strumenti musicali.​

Nonostante la presenza effettiva di vasi risonanti nei teatri romani è stata oggetto di dibattito tra numerose le figure a ritenere che fossero utilizzati principalmente nei teatri in pietra, mentre in quelli in legno non erano necessari a causa delle proprietà acustiche naturali del legno.​

In sintesi, mentre l’uso dei vasi risonanti nei teatri romani, divenendo un elemento che contribuiva a diffondere le tecniche acustiche dell’epoca.

Diffusamente i vasi si trovano incastonati nelle pareti e, conosciuti come echei o salva voce, si ispiravano alle teorie acustiche dell’epoca, avendo forme di grandi recipienti di rame o bronzo inseriti in apposite nicchie, che aumentavano la risonanza.

Tuttavia, a seconda delle dimensioni del teatro, gli echei potevano essere ospitati in una, o fino a tre file di posti a sedere, questi forma di campana, avevano feritoie sonore aperte verso la platea del pubblico (koilon).

Si riferisce che gli strumenti in metallo erano costosi, cosicché furono sostituiti da vasi di argilla nelle città più piccole e meno ricche.

Tuttavia come già accennato i vasi, si ritennero indispensabili solo nei teatri realizzati in pietra, poiché nelle strutture in lignee non erano necessari a causa delle naturali proprietà di risonanza delle essenze utilizzate.

Nei teatri di grandi dimensioni, anche i toni delle altre due ottave avrebbero dovuto essere amplificati da altre due file con un numero corrispondente di vasi risonanti.

L’efficacia dei vasi incastonati nelle pareti è stata tuttavia messa in dubbio in varie circostanze e, secondo alcuni esperimenti moderni, i vasi incastonati nelle pareti avrebbero, al contrario delle aspettative, peggiorato la qualità dei suoni assorbendo la risonanza di alcune frequenze sonore piuttosto che amplificare i suoni.

Nel suo documento, il cronista di Metz deride il priore per aver creduto che avrebbero potuto migliorare il suono del coro, mentre l’archeologo Ralph Merrifield suggerì che il loro uso sarebbe dovuto molto di più a una tradizione di depositi votivi piuttosto che a una vera e propria credenza alle teorie di Vitruvio.

Nel 2011, durante una conferenza tenutasi a Patrasso, in Grecia, venne dimostrato che la teoria era in effetti corretta e che la ricostruzione di un antico vaso acustico fosse possibile.

I vasi armonici (o vasi risonanti) sono stati utilizzati principalmente tra il Medioevo e il Rinascimento, in particolare dal XII al XVI secolo, anche se ci sono esempi più antichi e alcuni più tardi.

Per controllare la risonanza e migliorare la chiarezza del suono, specialmente nei luoghi con grandi volte r, nelle chiese bizantine, l’uso dei vasi armonici non era particolarmente diffuso come lo sarebbe stato pio nell’architettura romanica e gotica dell’Europa occidentale.

Tuttavia, ci sono alcune tracce e ipotesi che fanno pensare che in alcuni casi selezionati possano essere stati utilizzati anche in contesti bizantini.

E Fonti archeologiche e storiche a differenza del mondo latino-occidentale parlano esplicitamente di vasi armonici, le fonti bizantine non ne parlano in modo chiaro o diretto.

Tuttavia, in alcuni scavi archeologici (ad esempio in Grecia o nei Balcani), sono stati ritrovati vasi incassati nei muri di edifici religiosi bizantini, anche se non è sempre certo che fossero usati a fini acustici e non semplicemente decorativi o strutturali.

Le chiese progettate con una forte attenzione all’acustica, soprattutto per il canto liturgico, pensiamo alla potenza dei cori nella liturgia ortodossa che, preferiva usare elementi architettonici quali cupole, absidi, nicchie, per modellare l’acustica, piuttosto che vasi armonici.

Alcune fonti medievali occidentali raccomandano esplicitamente la loro installazione per migliorare la propagazione del suono nei grandi spazi liturgici.

Nelle chiese bizantine i vasi armonici non erano comuni né sistematici, ma potrebbero essere comparsi in modo sporadico o influenzati da altre culture, specialmente in regioni di confine tra Oriente e Occidente.

Lo schema secondo con cui essi erano disposti, ispirarono le arche dell’architettura, per le quali vennero immaginati spazi monumentale che potesse accogliere fedeli in forma di “abbraccio” simbolicamente i fedeli.

Colonnati o meglio una sorta di nicchia di costruito che fungesse anche da riverbero per la preghiera e, così, diffusa da uno altare baricentrico si potesse cogliere nell’emiciclo di San Pietro e nella Piazza del Plebiscitò a Napoli e in numerosi altri adempimenti architettonici di credenza o luogo di incontro di fedeli o sudditi dirsi voglia, in egual misura.

Infatti sovrapponendo lo schema Vitruviano per la collocazione dei vasi risonanti, agli impianti volumetrici di queste pizze o luoghi di riunione all’aperto, si configura un “progetto antico di ascolto diffuso” o messaggio di preghiera o plebiscito, uniformemente distribuito alla platea di credenti li riunita.

Non da meno sono gli altari le cupole o le navate con le devozioni laterali, se non le navate stesse poste lateralmente alla centrale, tutti questi infatti denotano u e compilano una cassa di risonanza per distribuire meglio la parola dell’apostolo divulgatore.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2024-04-29

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VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË  (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

Posted on 25 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Vernacolo dal latino vernaculus: appartenente ai servi nati in casa, e quindi domestico, paesano, da verna vesna schiavo natio da una schiava in casa, del padrone.

Il parlato deriva dalla radice vas-ana abitare, restare, fermarsi, vas-a, vas-ana abitazione, vas-tu, citta, vas-tu, sito, casa, vas-tya, abitare rimanere stare città, asteios cittadino.

Verna dunque e una di quelle parole portate dall’Asia nel suolo italiano dai primi emigranti, e per questo si trovano isolate dalla lingua latina e non trovano l’interpretarsi con l’aiuto del sanscrito.

Gli antichi perciò la spiegarono con ver-nare germogliare a primavera, lat verë, paragonando i nati dalla schiava locale, ai germogli o frutti di quella terra.    

Oggi la voce Vernacolo rimane solo come attributo, della lingua naturale d’un paese, in quanto si scosta dalla lingua comune, ma la parola sarebbe la Lingua dei Servi, quindi plebe volgare.

In tutto, “vernacolare” significa “nativo di un luogo”, riferendosi, per questo a qualcosa che è proprio di un luogo, di una regione o di un popolo specifico.

Le case vernacolari, o architettura vernacolare da ciò, si riferiscono a edifici che si adattano alle condizioni ambientali, ai materiali disponibili e alle tradizioni locali di un’area geografica specifica.

Esse sono spesso costruzioni semplici, frutto di conoscenze tramandate di generazione in generazione e, si concretizzano nella espressione architettonica spontanea di un popolo specifico.

Con essa si vogliono indicare gli elevati abitativi costruiti secondo le tradizioni bisogni, locali, con materiali del posto, senza utilizzare modelli tipici dell’architettura storica fatta dai professionisti.

Da ciò l’espressione “vernacolare” è semplicemente la tipologia di una cultura locale, non “importata” o “standardizzata” da maestranze specifiche, perché segue il bisogno primo e, quindi, in continua evoluzione.

Ed essa si manifesta negli elevati di un paese o di una regione particolare, a questo va anche aggiunto che l’aggettivo è un sostantivo relativamente recente, nonostante l’etimologia latina e, compare infatti solo a partire dal XVIII secolo. 

L’architettura “vernacolare” è in sostanza, “architettura dell’aria”, come citato da Yves Klein e, questa espressione immaginata pensata e realizzata in funzione delle cose che un determinato ambito sviluppano i suoi abitanti e, in linea con le cose che qui offre la natura.

In tutto, l’edificato è ideato rispetta i tre criteri dello sviluppo sostenibile, ovvero: sociale, economico e ambientale, promuovendo e valorizzando le attività sociali e professionali all’interno di un nucleo abitativo nascente.

Gli immobili o cellule prime, sono costruiti servendosi delle risorse disponibili nella regione e il maggior vantaggio è che resistono meglio alle condizioni metereologiche tipiche di questi luoghi e partecipa alla valorizzazione del patrimonio senza incidere né sulle prospettive naturali e né sull’ambiente che non deve prodigassi a subire alcuna invasione. 

Il costruito per questo si iscrive in un contesto di rispetto dell’ambiente, del clima e occupa un posto importante nella riflessione architettonica, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di temperamento abitativo. 

Alla luce delle cose esponete in questo breve, potremmo definire, il costruito secondo i principi del bisogno locale come “un edificio appartenente ad un patto nato da un movimento di attività locali stipulato dalla natura e dall’uomo con la supervisione del tempo”.

Il sancito denota il fatto che un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca, durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato il realizzato secondo la necessità di bisogno.

Questo antico modo di costruire per necessità è stato uno dei cardini che hanno consentito alla minoranza di radice Arbëreşë, allocatasi nel meridione italiano dal 1469, per addivenire a quel modello di integrazione tra i più solidi e duraturi di tutto il mediterraneo.

Infatti essi una volta definite con gli indigeni locali ambiti e spazi di loro pertinenza hanno dato seguito al costruito sia in agro e sia nei centri antichi dei modelli del bisogno che appellarono “Kalljva e Katoj”, la prima in memoria della terra parallela da cui furo costretti fuggire o luogo del governo del genere maschile, la seconda come luogo dove sostenere la propria consuetudine sociale, grazie al governo delle donne.

Analizzando con dovizia di particolari, il sostantivo kalýva (καλύβα) esso racchiude anche un valore simbolico e culturale profondo, soprattutto in ambito della credenza popolare, in quanto rappresentativo di uno stile di vita umile, essenziale e, sostenuto alla natura, generalmente associata a pastori, contadini o eremiti, queste tutte tipologie in uso o che caratterizzano la vita dell’agro, comunque sempre ben distanti dai centri abitati.

Infatti nei racconti popolari, vivere in una kalýva è segno di modestia, libertà e autenticità e, nei monti Athos, come in in altre aree monastiche, la kalýva è il rifugio degli eremiti, identificabili in piccole celle isolate dove vivono in solitudine e preghiera, infatti sono numerosi i santi ortodossi, ricordati per aver vissuto in kalýves, rinunciando ai beni terreni per dedicarsi alla meditazione e al contatto con Dio.

La kalýva appare anche nella poesia e nelle canzoni popolari come luogo di pace, vedetta, rifugio, o dolore specie quando la mira volge e si affida al ricordo.

L’identificativo “katoi” (κατώι) anche esso deriva di radice greca e riferisce però, generalmente a un piano, seminterrato di una casa tradizionale.

Tuttavia nei contesti tradizionali, il “katoi” è utilizzato per conservare vino, olio, formaggi, o altri generi di necessità alimentare, proprio perché il piano più basso consente temperature lineari e senza picchi di stagione.

Il termine “kato” (κάτω), ha come indicatore un luogo protetto “Basso” o “sotto posto” al livello di campagna e questo proprio per stabilizzare i picchi di temperatura naturali.

Il sostantivo deriva da “katoi” (κατώι in greco) e, riferisce di un piano inferiore, seminterrato di una casa tradizionale di cui è la radice di primo bisogno e su cui si sovrappongono le ere, in opera di miglioramento.

Quindi se disposto all’interno del Centro Antico inquadra e circoscrive l’abitazione vernacolari del bisogno costruite, o meglio innalzate dagli Arbëreşë

A ben rilevare con questa ulteriore premessasi dispone o meglio, si apre una nuova diplomatica, che mai nessuna istituzione ha immaginato di affrontare, per essere idoneamente progettata, realizzata e diffusa, giacché, bisogno vernacolare, puro, semplice e di primo livello.

Tuttavia, chi volesse approfondire questo nuovo discorso delle storiche attività che gli Arbëreşë, giunti nella regione storica, non citando sgrammaticati e riversi concetti, ma atti contenuti nel cuore e nella mente, di chi è cresciuto sotto il governo delle donne e poi seguendo nel pieno rispetto i docenti della medicina empirica, la credenza Olivetara o Federiciana, dell’antichità e del moderno.

Tuttavia non va lasciato alla deriva lo storico concetto di Gjitonia, modello sub urbano tipico degli Arbëreşë; noto come governo delle donne o, luogo dei cinque sensi, in tutto, un ambito costruito e privo di confini fisici, dove storicamente erano sostenute le consuetudini linguistiche fatte di ascolto, allevando tutte le generazioni, senza preferenze di genere alcuno.

Dare nuova linfa a questa scuola antica degli Arbëreşë è un tema da non far sfumare completamente, specie con le moderne tecnologie che non sono fatte di ascolto materno diffuso, ma esperimenti alloctoni che non trovano agio in questi ambiti dove ha avuto origine il modello di integrazione più solido e duraturo, in età moderna.

Il tutto si potrebbe concretizzare nel sostenere ambiti di accoglienza diffusa, ricollocando, o meglio dare vita a tutte qle cellule abitative, ormai in disuso, ma pronte ad essere svelate secondo la metrica dei cinque sensi, che non sono una mera stanza di albergo, ma percorso turistico, in grado di solcare le antiche metriche di accoglienza dove l’ospite sedeva a capotavola, ben riverito per essere condotto lungo i luoghi e le prospettive della storia locale.

Facendolo diventare bandiera di ospitalità pura, indirizzandolo ad accogliere, avvertire tutte le sensazioni che rimangono nella mente di ogni figlio, quando tornava a casa dai genitori.

In tutto ambiti, prospettive, riverberi che riecheggino e fanno cogliere il meglio di queste prospettive corte, ma sempre colme di odori, sapori diffusi di prospettive brevi, di Gjitonia riproposte oggi identicamente.

E sono proprio gli elevati del bisogno vernacolare, che invece di essere musealizzati, saranno rivitalizzati per restituirgli ruolo fondamentale antico, per essere vissuti al pari di come era uso delle nostre madri e dei nostri padri Arbëreşë.

Per poi essere come i figli che una volta partivano da questi luoghi di formazione, per brillare nelle città, in tutti i campi della cultura, della medicina, della scienza esatta e della politica, giacché motivati da una metrica sociale irripetibile che ancora oggi troverebbe modo di riverberarsi in questi ambiti di iunctura familiare che fa sentire tutti a casa.

Un governo delle donne che forma, all’interno della Gjitonia e, quello degli uomini, lungo i cunei agrari e le botteghe artigianali, misurano le capacita in senso generale, lasciando loro in eredita sensazioni specifiche di cui si è persa traccia.

Nasce così, la filiera dei Katundë Arbëreşë, eccellenze e fondamento del trittico alimentare, l’insieme di cunei agro silvo e pastorali, che ancora conservano protocolli di eccellenza, ricercati in ogni dove.

Infatti attivando il protocollo di accoglienza all’interno dei centri antichi, riattivando gli storici abituri, alimentando la filiera ristorativa, con i prodotti locali, si darebbe avvio a un modello antico di accoglienza, sostentamento alimentare e sociale senza pari.

Il tutto compilato secondo cose genuine, prive di additivi, conservanti, che non vanno oltre la manualità della filiera degli orti botanici di casa, ancora presenti all’interno degli articolati sistemi di iunctura urbana denominati “sheshi”.

E quanti volessero approfondire, questi argomenti perché manchevoli di formazione adeguata del bisogno, basta che dialoghino paritariamente con un Arbëreşë, senza aver necessità di salire in cattedra.

Giacché solo chi siede negli Stenopoi e Plateiai, conosce e vive di sensi acquisiti dal governo delle donne, senza prevaricazioni di genere o istituzione alcuna, come fanno quanti siedono in seggioloni ammortizzati e, non hanno lumi per intravedere le prospettive di questo orizzonte fatto di: parlato e di ascolto del bisogno formativo vernacolare, che si trova depositato nei centri antichi vissuti e allestiti dagli Arbëreşë.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-25

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LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

Posted on 24 aprile 2025 by admin

KesaNapoli – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il revisionismo mette in dubbio ogni cosa e, costruire la memoria è un impegno che non deve essere mera memoria tramandata o lasciata nelle diponibilità dei comuni viandanti locali.

Esiste una Terra dove la popolazione oggi vive in dormiente attesa, nel prodigarsi a sviluppare l’inopportuno servilismo di riconoscenza, nei confronti del nero impositore economico di turno.

Ed è così che si smarrisce, si abbandonando e ci si inchina ad ogni, sorta di memoria, compilata con fatui ideali, che rendono gli uomini e un luogo, esempio di sgradevole progresso scambiato per cultura e consuetudine locale condivisa.

L’attuale congiuntura sociale di restrizione, fa emerge con prepotenza il potere o forza strutturata come plasmare attivamente le dinamiche sociali, culturali e persino etiche e di credenza in questa “lunatica società nascente”.

E con sempre più risalto, si manifesta la forza dell’apparire, dell’individualismo egocentrico più estremo, plasmando e modellando sempre di più il paradigma culturale dell’esaltazione del singolo/i a scapito della collettività, vive e sostiene la mente con il fatuo collettivo più degenere, a scapito della farina e della crusca che poi sono gli ingredienti più salutari per tutti i generi, perché risultato dell’operato condiviso di uomo, natura e territorio.

A questo stato di fatti e cose senza alcuna radice riconosciuta, è la deriva più invasiva, che erode progressivamente le coscienze locale, la quale una volta istituita, senza ragione di comune progresso e convivenza, si espande e rende tutti più soli dalla realtà delle cose.

Il risultato della deriva che poi è strutturata nella struttura sociale e di credenza induce a condividere interessi e obiettivi politici, sempre più flebili, indotte dalle logiche del mercato globalizzato e dalla centralità narcisistica a tutti i costi.

Il potere economico e di credenza, nella egocentrica espansione e deregolamentazione, agisce come agente corrosivo e, rende sempre più labili le consuetudinarie barriere di bene comune.

A capo della deriva si dispone il processo che vuole marginalizzare le specificità culturali di luogo, devastando le tradizioni locali e i quei sistemi consuetudinari di antica radice, ritenuti dal potere economico non possibili da allineare con le imperanti logiche del profitto e della non efficienza.

In questo contesto, la sistematica abolizione di ogni figura o atto di classe, non è un effetto collaterale, bensì una condizione funzionale alla perpetuazione di un sistema che prospera sulla competizione individuale e sulla dissoluzione delle identità collettive che sono state storicamente antagoniste a questa nuova deriva imperante, analfabeta e sgrammaticata.

Le istituzioni culturali e sociali, un tempo depositarie e dei solidi modelli culturali egemonici e di paradigmi di pensiero strutturati (siano essi scientifici, filosofici, letterari e di credenza), appaiono oggi in una fase di progressivo adeguamento alla sottocultura di massa, che si espande senza limiti, evitando ogni forma di ascolto tra adulti e giovani in evoluzione.

La Chiesa, la Scuola, l’Università e le Associazioni, un tempo erano o meglio rappresentavano il sole di un’alba che durava il tempo della luce “alta e memorabile” e, oggi cedono alla pressione di una cultura popolare e mediatica che privilegi di “restanza senza ascolto” ma pronte ad essere impotenti divulgatori, inclini alla mera spettacolarizzazione effimera che fa “luna crescente buia e immorale”.

La trazione che un tempo sosteneva la culturale non risiede più nei modelli delle storiche figure intellettuali, oggi genericamente ignote e la “restanza” si mantiene ben distante dall’ascolto dei protocolli tradizionali, colmi di consuetudini e metrica che consente prima di tutto il verificare cose reali dal fatuo.

Infatti lo stato delle cose privilegia l’attrattività pervasiva e la capacità di aggregazione di masse disposte ben lontani dai cunei della cultura che sviluppava i suoi frutti secondo le stagioni del germoglio, la fioritura e i frutti ben maturi da cogliere nel corso della “stagione lunga”.

Tutto questo induce le persone a disporsi perfettamente allineati, pur di non rimanere ai margini di questo “fantasma culturale moderno” che nasce si sviluppa o cresce al buio della “stagione corta” la stessa, facilmente identificabili nel mercato dell’intrattenimento, che ti rende un giullare senza corte o pagliacci senza un circo equestre.

Tuttavia resta un dato, ovvero: se un asino va in una reggia, non è l’asino a diventa re, ma la reggia a diventare stalla; questo è un modo di dire ricco di significato, usato per sottolineare che non basta mettere qualcuno in un contesto prestigioso o elevato perché assuma automaticamente le qualità adatte a quel contesto.

Anzi, spesso accade il contrario: è il contesto stesso a decadere, adattandosi all’inadeguatezza di una ben nota e specifica figura di genere.

In parole povere: se metti una persona rozza, ignorante o incapace in una posizione di prestigio o potere, non sarà lei a migliorarsi, ma sarà l’ambiente stesso a perdere valore.

Tuttavia, allo stato delle cose sono le istituzioni stesse a mostrarsi grandi per una crescente volontà di avvicinare questi modelli culturali “bassi e senza alcuna radice culturale alta”.

Si assiste a un rovesciamento della dinamica tradizionale e, se un tempo la cultura egemone imponeva i propri valori canonici e, la sottocultura rimaneva un fenomeno periferico, oggi, nell’era della globalizzazione e del primato del potere economico, è quest’ultima a dettare la linea di sviluppo secondo la misura che storicamente non genera cultura.

La museificazione, amplificata dalle logiche del sistema economico, si configura come un vento capace di penalizzare cultura/religioni e, pur se la sua azione non sembra di efficacia tale da velare ogni cosa essa è capace di lasciare gli orizzonti liberi, deformandoli con echi e miraggi riverberati e senza regola.

La spinta dell’omologazione di gusti, comportamenti e credenze conduce a un progressivo affossamento di quelle forme di pensiero che storicamente hanno reso migliori gli stati le cose e gli uomini.

In definitiva, il massificare o museificare le cose, alimenta il sistema economico che privilegia l’individuo che fa uso di questi prodotti di materia ed immateria del profondo cambiamento, la stessa che poi si riverbera seguendo la luna piena e mai il sole.

E se prima esisteva un regno dove il sole non tramontava mai, la globalizzazione ha creato un regno dove a non tramontare mai è la flebile luce della luna, che non ha mai fatto giorno.

Tutto questo è facile da intercettare in tutte quelle ricorrenze o momenti condivisi e,  quanti dicono di voler valorizzare la “Regione Storica diffusa e Sostenuta In Arbëreşë” poi termina solo in penosi atti dell’apparire e con messaggi di sottomissione, esponendo cavalli e cavalieri, che non guardano mai dove nasce il sole, ma solo dove la luna si presenta indegna ad illuminare.

A tal proposito valga la citazione secondo cui per globalizzare, appare concretizzando forme delle quali i midia in senso generale è bene elevare i Katundë, tipici della minoranza arbëreşë, cosi come per altre culture, l’identificazione dei luoghi costruiti del bisogno vernacolare, tradotti in Italiano, in Paesi, Contrade, Frazioni, Porti, Approdi e Golfi di accoglienza, oltre ogni genere del costruito di epoche e luoghi.

In tutto quella che venne appellata il tempo del lume in risalita, identificati ed offesi con l’appellativo di “Borgo”, in senso di “bovari medioevali”, ovvero il tempo della luna calante che piegava ogni genere umani in ogni dove.

Il tempo dell’oscurantismo e della società fatta di piramidale gestione, il luogo dove l’uomo veniva misurato per essere collocato nel suo cerchio infernale di pertinenza, in favore solo del principe castellano e la sua discendenza, poteva decidere chi poteva e non doveva progredire.

Solo i media, figli della sottocultura si arrogano il diritto di istituire o allestire, addirittura un festival, dove ed essere privilegiato è solo ed indiscutibile “Borgo dei Borghi” che non ha mai fatto la storia dei generi tutti, preferendo quella di alcuno.

Per concludere si vuole sottolineare le ricostruzioni storiche che si attribuiscono alle ballate tipiche che segnano l’inizio della stagione lunga, il sole che sorge e mette la luna in secondo piano.

Peccato che anche per questa rievocazione che nessuno ha mai relazionato e per questo ignaro del valore linguistico di questi momenti di giubilo comune.

Purtroppo poi tutti terminano in concerti di cornamuse, strumenti a mantice e corde, che tutte assieme, fanno il patibolo delle cantate di genere degli Arbëreşë, che non sono i modernizzati Albanesi o Albanisti dirsi voglia.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                             Napoli 2025-04-24

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STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i  mëmesë pà  redë thë gnë khëmbë)

STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i mëmesë pà redë thë gnë khëmbë)

Posted on 22 aprile 2025 by admin

Arazzo2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mercato della seta, raso e stoffe pregiate in Calabria, conobbe il suo massimo splendore tra il XV e il XVIII secolo.

Con mete di scambio luoghi come Catanzaro, Reggio Calabria, Monteleone (Vibo Valentia) e San Giovanni in Fiore (Cosenza), grazie alla presenza di un pregiato artigianato tessile locale, che faceva largo uso dei filamenti naturali di ginestra, cotone e baco da seta diffusamente in ogni Katundë.

Tuttavia, il declino di questa risorsa locale, ebbe inizio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a causa di vari fattori, innescati dalle vie di scambio Francofone, Anglofone e d’Oriente.

E ancor di più, quando la richiesta in queste terre, venne indirizzata alla produzione di olio per facilitare le rotative industriali britanniche, che demandavano olio e, non più filamenti di tessitura, dando avvio per questo alla estirpazione dei gelseti sostituita da uliveti.

Ben presto lo scambio divenne florido, commerciando olio a misura di “litro” in favore anglosassone che era fatto di quattro pinte.

In otre, incise anche le crisi economiche e politiche legate alla fine del Regno di Napoli e all’unità d’Italia, che mentre industrializzava il Nord, rendeva poco competitiva le produzioni Meridionali in senso generale, dove prevalevano senza soluzione di continuità, le metriche artigianali non competitive, a cui si aggiunse la malattia del baco da seta, come la pebrina, che penalizzarono, non poco, la filiera della produzione serica e dei filamenti.

Possiamo dire che il mercato del tessile di Calabria assume una forma flebile, nella seconda metà dell’Ottocento, anche se alcune attività artigianali residuali continuarono senza sosta, ma non in grado di rispondere al mercato che migra.

Da ciò l’assemblaggio di vestiti nuziali, tipici della regione strica diffusa e sostenuta in arbëreşë, si dovette rivolgere a fornitori partenopei, almeno sino alla seconda decade del secolo XIX, quando le nuove leve che ambivano ai voti clericali, iniziarono a frequentavano il “collegio romano di formazione greco bizantina”, giacché Sant’Adriano aveva trasferito le funzioni, di Vescovato e formazione Clericali, mantenendo esclusivamente la Scuola Collegiale civile.

Furono molti di questi gli aspiranti clerici, a fare da ponte con i Katundë arbëreşë di Calabria citeriore, veicolando stoffe ornamenti e decori, atti a sostenere la vestizione femminile di tradizione locale.

E anche se all’interno della Città del Vaticano, non erano presenti negozi di stoffe o merletti di pubblica vendita, era possibile trovare articoli tessili, per vesti religiose di alta qualità, nelle immediate vicinanze di Roma Capitale.

Restano note la ditta di Gammarelli, Comandini, Galleria San Pietro, Desta e Sartoria, incorniciate dal 1798 nello storico contesto di confine delle due città Capitoline, in tutto una simpatica coincidenza che rappresenta l’armadio di credenze sulla Terra, che va della casa e, lungo la via che unisce tutti gli ideali di credenza.

Tante pieghe di stoffa ben composte, che poi si ritrovano nell’abbigliamento ecclesiale e femminile delle consuetudini degli Arbëreşë.

Sorge dunque spontanea la domanda: le donne Arbëreşë dopo la chiusura della via della seta e in Calabria, escludendo la breve parentesi Partenopea, dove trovavano gli elementi che caratterizzavano il vestito tipico di donna, sposa regina della casa, vedova e vedova incerta di un tempo?

La risposta sorge spontanea o meglio, la risorsa nasce grazie ai giovani che seguirono la via della devozione nelle scuole ecclesiali vaticane e, mia madre nel corso degli anni cinquanta sino alla fine degli anni settanta usava questo canale per reperire merletti e tessiture dorate da sostituire a molti indumenti di vestizione ormai invecchiati.

Non Solo la Sarta Adelina di Santa Sofia ma molte altre, nei centri antichi limitrofi, avevano come riferimento un B. Golia locale, i quali lavorando presso il Vaticano, potevano fornire le stoffe e i merletti secondo la giusta debita misura che solo qui trovavano commercio.

In genere erano persone disponibili, preparata e consapevoli di cosa potesse intendersi per ogni richiesta, che le sarte di ogni Katundë necessitavano e, con tanta perizia e memoria del costume locale, riportavano o inviavano nel Katundë, quei frammenti richiesti e indispensabili a restaurare o in molti casi cucire ex novo, l’indumento di tradizione danneggiato o mancante, per le famiglie più legate alla consuetudine Arbëreşë.

A tal scopo torna in mente il periodo appeno giunto a Napoli per intraprendere i miei studi di architettura e offrivo, continuamente la mia disponibilità a mia madre Adelina, a reperire stoffe e fasce dorate, ma lei riteneva che Napoli non fosse eccellenza, in quanto le misure di sviluppo in altezza delle fasce dorate non avessero la dimensione in misura di palmo napoletano ma solo la meta.

Per questo doveva sovrapporre la stessa trama che non risultava essere un lavoro di mano esperta, perché, ripetizione di trama modesta.

Così anche per altri elementi che chiedeva e dandomi frammenti di tessitura, misura e coloritura, che qui a Napoli non ho mai trovato, mentre richieste a Golia, nel breve i nipoti che frequentavano il Collegio di formazione clericale a Roma portavano, il richiesto in perfetta tessitura, misura e coloritura, quando tornavano nelle festività e in vacanza, ndë Katundë.

Tuttavia al giorno d’oggi rievocare questi epici frammenti della storia del costume danno la misura delle inquietudini e i sacrifici che il governo delle donne arbereshe dovette superare per dare lustro e merito alla vestizione in ogni pregnante momento rappresentativo della loro esistenza.

immaginare che il gusto estetico di vestizione, possa ricomporre, nuove vesti di tale peso, esse non troverebbero vetrina se non in particolari momenti di giusta, falsa e ridicola rievocazione museale, come impunemente avviene.

A tal fine sarebbe il caso di avviare le rotative oleandole con olio di oliva DOP e non con quello dei refusi di lavorazione, per realizzare un’opera epocale che riunisca come facevano le vesti del governo delle donne un tempo, tutta la cultura storica ormai allo sbando e che non trova misura in nulla, se non poetizzando suonando e favoleggiando ogni cosa.

L’unica risorsa che rimane ancora viva e si può riprendere con garbo e senso, è l’arte manuale delle tessitrici Arbëreşë e, allora perché non tessere la storia, dai tempi della nascita del nostro eroe, il parlato, le consuetudini del bisogno e la credenza, senza fare nodi o alcun intreccio irregolarità di politica e cultura irregolare, in tutto “un arazzo Arbëreşë” dove si possa disporre secondo la luna ed il sole, la storia e dove evidenziare chi è dovuto migrare per non dover soccombere alle necessità di credenza di chi rapiva i figli altrui per fare discendenza di minareto.

Il tutto per essere una compilazione ragionata e precisa, a iniziare dalle dimensioni che devono essere contenute in 13 metri, per un’altezza di 89 centimetri: ovvero; la data da cui ha inizio la pena di storia Arbëreşë a cui è sempre stato imposto di fare campanili altrui, ad opera dei prevaricatori di turno e, meno adatti dirsi vogli.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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