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IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

Posted on 06 ottobre 2024 by admin

Generazioni

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi nasce nel mentre la madre si adopera a tenere vivo il fuoco dell’antico camino di casa, educando parimente i suoi figli e quelli della Gjitonia, crescerà avendo nel suo cuore, nel suo animo e nella sua mente, impresse indelebilmente le consuetudini storiche del governo delle donne, in ascolto e gesta Arbëreşë.

Diversamente dagli indigeni o “llitirë”, dirsi voglia, che sono allevati in recinti alloctoni secondo i percorsi gestiti da “fattori e massaie” e non dal governo delle donne Arbëreshë, qui comparati in breve:

  • Persistenza delle identità indigena: Le comunità storicamente strutturate nei Katundë, si sviluppa seguendo costantemente il perenne senso di appartenenza, imbrigliati al concetto di “genio femminile della Gjitonia” connessione spirituale e culturale in linea con il riportato dal territorio parallelo ritrovato, ed è esso che rafforza le tradizioni specifiche di ogni singola figura; diversamente avviene per quanti nascono e vivono l’agro, isolati e lontani dal governo delle donne o luogo dei cinque sensi in Arbëreshë.
  • Isolamento storico e geografico: La dislocazione dei centri Arbëreshë, generalmente allocati in aree collinari, si presenta relativamente isolate, il dato di fatto favorì l’autosufficienza e la preservazione delle proprie tradizioni all’interno della solida iunctura della Gjitonia, limitando la comunicazione; diversamente da chi cresce e vive nei luoghi isolati dell’agro o di altre realtà indigene, dove si rafforzava la mentalità “llitirë”, in favore dei campanilismi senza radice, come quelli disposti e fortificati nel cuore e nella mente in lingua e movenze Arbëreshë.
  • Diversità interna: Gli Arbëreshë condividevano radici comuni, sviluppando e incernierando le proprie sfumature consuetudinarie, tradizioni e costumi, solidamente uniti e unite, dal senso del parlato in ogni forma di pronunzia o gesticolare per una buona comprensione del riferito, simbolismi di un’identità senza confine di temine. Questo ha condotto alla storica frammentazione del senso di appartenenza di radice, poiché ogni Gjitonia tende a enfatizzare le proprie particolarità, senza mai perdere il senso della luna e del sole Arbëreshë.
  • Dinamiche sociali e politiche: Nel corso dei secoli, i contatti con le autorità indigene o llitirë di altre popolazioni rafforzarono il comportamento per gestire risorse all’interno di un contesto più ampio (spesso dominato da identità nazionali altre) questo dato ha portato a una certa competizione tra la terra di origine e quella degli esuli in terra parallela e ritrovata.
  • Mancanza di una narrazione storica unificante: Sebbene la storia degli Arbëreshë sia ricca e affascinante, la mancanza di una narrazione unica e indivisibile, che parta dalle origini e secondo lo scorrere del tempo illuminare e promuover con priorità le eccellenze e le cose prime, seconde, terze e così via della propria storia ancora incerta.

Invece si è preferito esaltare campanili, limitando il valore per il fine di elemosinare merito, alle tradizioni locali più immediate, banali e senza una radice unitaria.

La combinazione di questi fattori ha probabilmente portato ad allestire identità frammentate, della stessa comunità che tende a concentrarsi sui singoli campanili, piuttosto che rafforzare una storia condivisa, ampia e unitaria.

A tal fine e senza perdere l’orientamento originario, la mia Gjitonia da adulto è diventata Napoli e gli ambiti degli antichi Olivetari dove Bizantini, Arabi, Alessandrini e Longobardi, hanno seminato e fatto crescere la cultura Arbëreşë, un vero e proprio banco si scuola con numerosi editi da apprendere, come abituato da piccolo a fare, nel governo delle donne. dove ho avuto il mio natalizio.

Questo mi consente di affermare che nessuno, dico nessuno! si deve permettere o azzardare a venire in Napoli, per fare affermazioni incaute o inopportune, specie se proviene delle torbide acque del torrente Cupo e, poi formatosi nell’agro del Surdo e del Settimo, secondo le direttive della moderna Albania dei Beg.

La meno cauta discendenza Albanofona, in tutto l’inesorabile deriva verso l’infero della cultura, allestita negli anni settanta del secolo scorso, per fare danno al parlato, alla consuetudine, al costume e alla credenza, del “Governo delle donne Arbëreşë”.

Leggo con interesse, tesi di laurea, editi e ogni sorta di scoperta archivistico e bibliotecario riversate e ritrite, che hanno come scenario i luoghi e le vicende degli esuli della diaspora, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota.

Le tematiche in genere servono a delineare il progetto di accoglienza, unico e indivisibile, predisposto dal su citato eroe dopo la sua morte 1468 sino al 1506, distinguendo questo intervallo dalle altre migrazioni, sia concentrate e siano esse diffuse, a partire dalla nascita di Cristo, sino ai giorni nostri; ma questa è un’altra storia che non parla e gesticola in Arbëreshë.

Dagli Stradioti, sino alla diaspora degli Arbëreshë, non sono tutte figure storiche con identiche mire e volontà o interessi di dialogo pacifico, anche se la storia preferisce unificarli, onde evitare di dare spazio a temi militari, politiche, sociali e religiosi preferendo così di, uniformare ogni cosa e fine di provenienza, tutte caparbiamente disposte ad est del mare Adriatico, sino dove finisce lo Jonio.

Tuttavia quello che manca è il valore rivolto alle necessità di questa popolazione in continuo inchinarsi e rendersi disponibili ed allestiti in luoghi di continuo fermento sociale e di credenza.

Queste popolazioni, infatti, hanno saputo rispondere, nel corso dei millenni alle esigenze di Romani, Veneziani, Mussulmani, Papati, Francofoni, Ispanici e, solo dopo la morte dello stratega buono, quando era nuovamente Giorgio Castriota, “il suo popolo” fu protagonista primo, del modello di integrazione più solido e duraturo tra popoli con differenti identità e credenza, oggi denominati Arbëreşë, senza in alcun modo colpo ferire.

Per questo definire tutti con lo stesso identificativo, si perde il tempo, il momento sociale in fermento e la necessità degli Arbëreşë di salvare la propria identità.

Confondere e fare di tutte queste genti un fascio, non da merito al periodo storico in cui gli eventi sono avvenuti, oltre gli scopi per i quali, questi furono indirizzati ad emigrare e insediarsi, secondo la nota diaspora balcanica.

Tutto questo è avvenuto con il fine di rendere un giusto supporto all’identità, che altrimenti sarebbe stata compromessa, come e successo a quanti hanno preferito seminare quelle terre e, non seguire agli Arbëreşë che si trasferirono nelle terre parallele ritrovate, oggi noti per le vicende storiche vissute come i fondamenti o riferimento antropologico del vecchio continente denominato Europa.

Questi fondamentali trascorsi storici, riassumerli in banalissime migrazioni, cavalleresche, militari, di bottega, per allevare e dissodare terre è la più grande offesa, che si possa fare al genere umano, specialmente quando si confondono le necessità dei richiedenti e quelli degli arbëreşë, pronti ad essere sottomessi e resi schiavi non solo del proprio fisico ma del loro pensiero e delle future generazioni, quelle che oggi restano e sono i più evoluti di quelle terre antiche e colme di consuetudini inarrivabili, nonostante il perpetuo ideologismo islamico imperante e mai in quiete.

Questo fa capire quanta responsabilità, hanno oggi quanti sono nati negli ambiti illuminati dal camino gestito dal ministro della casa, una dei componenti del Governo delle donne Arbëreşë, che allevano i propri figli con gli ingredienti dei cinque sensi con misura e garbo.

Quindi, quando sentite parlare, disquisire, pubblicare o editare di questo popolo, bisogna essere molto attenti nell’ascoltare cosa viene riferito, sulla base di quale esperienza del bisogno di tutelare e sostenere un antico protocollo, che nessuno è riuscito a scrivere, disegnare su fogli, muri e terra, perché fatto di movenze e parlato armonico tipico del Governo delle Donne e, compreso dalla sola discendenza a cui viene o è indirizzato. 

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LE COSE BUONE NATE NELLE TERRE NOSTRE ARBËREŞË (Sà thë Mira u Lljènë Nde deratë Tonà Arbëreşë)

LE COSE BUONE NATE NELLE TERRE NOSTRE ARBËREŞË (Sà thë Mira u Lljènë Nde deratë Tonà Arbëreşë)

Posted on 29 settembre 2024 by admin

Sheshi no piazzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel comune disquisire dei capitoli a riferimento della minoranza storica degli Arbëreşë, è diventato un continuo dire, fare e primeggiare in ogni cosa e in ogni ambito del globo, quando le cose degli uomini hanno avuto un luogo, un momento e una stagione per essere rese fattibili, da ciò si deduce facilmente che la minoranza storica, proprio per questo, non poteva essere in ogni dove e in tutte le epoche presente.

Certamente le cose fatte e attuate dagli Arbëreşë, se oggi le volessimo analizzare con dovizia di particolari per esporle, dovrebbero essere collocate di diritto negli scenari dell’intelligenza artificiale, mediatici e del giornalismo additando e raccontando con seria disinvoltura i risultati inarrivabili ancora oggi.

Ormai il senso dei valori di cui gli Arbëreşë sono stati protagonisti in prima linea, nell’evoluzione delle terre ospitati e, poi via via come cerchi concentrici sempre più laghi, in tutto il vecchio e i nuovi continenti.

I temi dove essi primeggiarono sono state le politiche sociali, l’interpretare antichi editi, il genio di luogo per collegare e bonificare terre, la diffusione di notizia per le masse meno abbienti e cosa più fondamentale per, aver avuto il merito di integrarsi senza infliggere pene per quanti li accoglievano, realizzando per questo il modello storico dell’integrazione più solido del mediterraneo.

Questi sono i temi che al giorno d’oggi, non hanno bisogno di condimenti, salse, pietanze, battaglie e danze, senza citare inutili figure, per far emergere gli stati di fatto dove gli Arbëreshë restano e sono inarrivabili in tutto il globo.

Se solo chi si espone sapesse parlare di Giorgio Castriota, Pasquale Baffi, Luigi Giura e Vincenzo Torelli, potrebbe lasciare una scia indelebile della necessità che la politica Italiana Europea e di tutto il vecchio continente vanno predicando in forte affanno e, non trovare agio o metrica risolutiva, in nessuno dei fronti politici e di credenza in forte contradizione.

Basterebbe conoscere le dinamiche storiche e gli eventi dove queste figure sono state protagonisti e, si troverebbe senza tanto patire risposte o soluzioni per:

– una risposta al conflitto Palestinese, Israeliano o, trovare soluzione alle masse migratorie di cui si riferiscono e non si sopportano le male fatte;

– Uguaglianza tra generi, come la stessa istituita millenni addietro dove i gruppi erano sostenuti dal governo delle donne e da quello degli uomini, presidenza del consiglio e quello della repubblica.

– dare una risposta alle inquietudini delle minoranze in continuo affanno, di parità sociale;

– costruire ponti dove servono e quando sono indispensabili con tecnologie innovative;

– diffondere l’intelligenza artificiale dove contribuisce a fare scuola in atti costruttivi, senza prevaricazioni sociali o di genere;

Questi esempi esposti in maniera riassuntiva, se analizzati nelle pieghe più profonde, sicuramente diverrebbero temi molto più interessanti e utili del fare politica per dare risposte alle numerose domande senza risposta, che ogni sono stese alle antenne radio televisive o sui cablaggi delle fibre ottiche non al sole come:

– coloriture improprie su pareti e porte storiche, allestire esponendosi a cucinare in pubblico, riferire di case e di chiese che parlano e chissà a quante altre diavolerie sono pronte ad essere inaugurate nei vutti storici a forma di croce:

–  istruire nuove generazioni secondo protocolli indigeni, non è certo un bel vedere, specie se i protocolli giungono da est dove credono ancora alla leggenda del capretto che allevo Giove;

– allestire manifestazioni, toponomastiche e rievocative di un passato colmo di soprusi sangue e danze, sopra i corpi dei vinti.

-titolare, tradurre e tramandare toponomastica, in maniera a dir poco infantile se non inopportuna, specie per chi non ha titolo e formazione, ma veste fasce e abiti istituzionali

– allestire storia secondo l’antico manuale dei potenti che riteneva il popolo fatto di ignoranza e chi governa può dire e fare tutto.

Gli esempi da sottoporre e non diffondere sono molteplici, quindi è meglio fermarsi per attendere che chi comanda sappia cambiare idea o abbiano più fiducia, di che non si sporge pericolosamente dai campanili, preferendo restare con i piedi a terra e parlare pino, in Arbëreşë.

Non per essere ascoltato da comuni viandanti distratti o di chi cerca opera di cultura fatua, per fare spettacoli radio televisivi o notizia.

Oggi è il tempo di seguire quanti con operosità traducono e interpretano ogni cosa, per tracciare in maniera indelebile la storia dai tempi del Kanun, seguendo il solco strategico da Giorgio Castriota, seminato di grano buono, dai su citati eccellenti di genio Arbëreşë.

Tre è il numero perfetto e Baffi, Giura e Torelli il modello da seguire e imitare, gli altri…. riversano aceto sperando un giorno, diventi vino buono.

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TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Protetto: TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Posted on 15 settembre 2024 by admin

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donne

SE NON AVEVI ANATOMIA DA SPOSA ADELINA NON TI FACEVA INDOSSARE STOLLITË (Pà sisë ,bidë e gofe, nenghë thë kielenë stollitë me garbë)

Posted on 13 settembre 2024 by admin

donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I costumi Arbëreşë sono veri e propri manuali, un componimento sartoriale, cucito e rifinito dal XVII secolo, seguendo le direttive, di credenza e contenuti.

Essi per questo assumono un ruolo culturale solido e continuativo, il più colmo di memoria delle origini e quanti hanno modo di osservarli, avendo sempre a fianco un illustratore adeguatamente formato, ne possono cogliere i valori di appartenenza.

Il costume per questo rappresenta un vero protocollo figurativo, fatto di contenuti depositati con garbo, in quelle innumerevoli cuciture e pieghe, come si fa con i libri o, quando si dipingono paesaggi per memoria.

Essi rappresentano la traccia dell’antica civiltà mediterranea Arbëreşë Bizantini, attraverso cui sono stati inseriti, concetti generali delle civiltà Indo-Europee.

Si riconoscono per il percorso che svolge la donna nell’ambito del governo delle donne nel corso della vita, in ruolo di: Sposa; Regina della Casa; Giornaliero; Vedova; Vedova Incerta.

Le stoffe di questi vestiti tra le pieghe, i ricami e colori sin anche in doratura clericale, contengono le tracce del cammino di noi arbëreşë, per questo il costume, indossato in maniera superficiale e con poca gradevole devozione, denota tutto il disprezzo verso le pene dei nostri avi, i quali, riverberarono sudore e sangue, per lo sviluppo economico e sociale delle discendenze in quelle sante terre parallele ritrovate.

Come i costumi e, del resto altre cose di dominio generale materiale e immateriale, contengono strati multisecolari, facilmente leggibili con figure titolate o con memorie storiche locali, con i quali e per i quali, confrontando le cose con quelle della odierna Albania, lasciano emergerebbe quanta differenza culturale sia stata introdotta nelle cose parallele portate dalla terra di origine, oggi, moderna storia Albanese, e mi riferisco a quella oltre Adriatico istituita agli inizi del secolo scorso, dove sono attinte atti e movenze, da quell’est, che agli avi Arbëreşë mirava ad incuneare amaro e pena islamica.

Da non confondere, con i legami della civiltà dei nostri antenati dell’antichità di quelle terre, con quanti, oggi con movenze ignobili femminili, arrivano per ricordare i primi venticinque anni del nostro eroe Giorgi Castriota, dipingendolo di “beg” e non d’azzurro dell’Atleti di Cristo.

Nessuno cita le vicende di mutuo soccorso, quello, sano e indissolubile del Drago, che è raffigurato, nella Capitale Napoli dal XV secolo, lo stesso che ha consentito ai nostri avi, di essere accolti e considerati come profughi buoni e, non da invasori violenti e malvagi, un costume, che nessun genere di radice Arbëreşë, ha mai indossato.

Nonostante nel quindicesimo secolo sia stato fuso in materiale bronzeo l’apporto dell’atleta Giorgio oggi lo si espone senza attenzione alcuna come quando lui era ricattato e costretto a fare gli interessi delle cupole con terminali caprini di corna difformi e, simulare luna crescente

Infatti le coloriture dello storico costume, sono di Azzurro: il Cielo la credenza; Rosso: la Fedeltà; il Verde: il Lavoro della terra; l’Oro la solidità o fondamenta economica; l’Argento: il Lavoro in miniera, Il Bianco Ricamo; il Marrone, la non conferma del marito scomparso; il Nero, il lutto; Il Nero sul Bianco, il lavoro di casa: Il Bianco ricamato la fonte per sostenere i generi.

Queste vesti, che passano di generazione in generazione, alcune volte sono state anche prestito, per avere misura di nuove confezioni, tuttavia se la conformità fisica o meglio l’anatomia della ragazza prescelta ad essere sposa, moglie, madre e, se le vesti non collimavano secondo un preciso protocollo di vestizione per la rappresentazione finale, con quella della modella in studio di vestizione finale, si preferiva non imprestare quelle vesti.

La misura che le sagge indossatrici del passato erano proporzione fondamentale si riferivano ai fianchi, i glutei, i seni e il rapporto dal giro vita, sino alla cima dei capelli, con quella di estensione sempre dal giro vita  di gambe sino al tallone del piede, due armonie fisiche, che se non riconosciute o individuate, dalle sagge madri indossatrici, a misura d’occhio, non davano agio di accoglienza per la prescelta, la quale dimessa con garbo, si doveva rivolgere ad altre sagge locali, che possedevano vestizioni per un fisico, poco armonico e con volumi che andavano altre la tolleranza da sposa.

Il manuale completo di vestizione è molto articolato e, in questo breve non è il caso di espandere in tutte le sue parti, Tuttavia esso abbraccia tutti gli elementi compositivi, i quali se non adeguatamente aderenti e coprenti con saggezza le parti femminili della procreazione con garbo e misura per il genere femminile che si espone a procreare, diventano mera esposizione senza volto o valore femminile, come purtroppo frequentemente accade senza alcun garbo e rispetto, in musei e feste di rappresentanza. 

Il protocollo è ancor più articolato e consistente, fornendo l’indelebile e unico protocollo di vestizione, che unisce il camino della Casa, con l’altare della Chiesa, tuttavia, forse è meglio rimandare ad altre attività compilative della nostra storia e, qui, non distrarre troppo i comuni viandanti.

Tuttavia è meglio non esagerare con temi e diplomatiche di lume veritiero, altrimenti si finisce per alterare troppo la realtà allestita da e per viandanti, i quali affermano e dicono di aver studiato ogni cosa, non avendone e lume per farlo, in specie come quello rilasciato dagli Olivetani moderni per esporre cose lette, riverse e definite da altri.

Resta un dato, ovvero, che nonostante l’intellighenzia artificiale, ringrazia e accoglie tutti i cultori di spessore che collaborano con lei e gli offrono nuove diplomatiche di conoscenza, quella degli umani fatta di Istituti, Istituzioni, Amministratori titolati da comuni studiosi o topi di archivio, biblioteche e musei senza muse di memoria compiuta, discriminano quanti si distinguono in discipline specifiche, lasciandoli penare come è successo ad Adelina Pizzi, che non le e stato dato neanche l’agio di essere anagrafica.

Ed è lei che oggi osserva misura, disapprova quanto di parallelo e vile, le sia stato reso, per negarle sin anche la vita a lei e agio per quanti donato tutto per il bene della R.s.d.s.A., lei essendo consapevole che il cielo è colmo di pianeti buoni, con una Luna e un Sole, questi “ultimi” mai assenti e sempre pronti a dare visibilità a tutti gli uomini che istituirono, inventano, promuovono e distribuiscono senza mai riposare il male assoluto e fine a sé stesso.

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I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

Posted on 04 settembre 2024 by admin

bovaroNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.

I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.

In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.

I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.

Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.

Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.

La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.

Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.

Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.

Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.

Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.

Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.

Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.

Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.

La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.

A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.

Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.

Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.

Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.

Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.

I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.

Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.

Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.

Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.

Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.

Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.

Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.

Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.

Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.

Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.

Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.

Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.

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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambiti attraversati, bonificati e ricostruiti per essere vissuti degli Arbëreşë, ha avuto modo di replicarsi senza soluzione di continuità, il modello sociale di parlato, adottato storicamente, nella Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, ben sedici macro aree evolutesi esclusivamente grazie al parlato materno e il buon ascolto dei figli/e mai distratti/e.

In tutto il meridione italiano diffusamente distribuita e storicamente integrata questa consuetudine viva, che non ha mai subito pieghe di sorta dal XIV secolo sino agli anni sessanta del XIX secolo ad oggi e, nessuno, confermo nessuno, ha perso padronanza o misura di questo parlare così acquisito.

Il tutto avvenuto senza alcun supporto di immagini, testi o vocabolari grafitati o scritti, specie se riversi e inutili con parole in lingua Albanofona (?) illeggibili, incompressibili e, avendo una radice somma di sostantivi in italiano irrecuperabile, se non leggendo, senza distrarsi l’intero edito, con vocaboli inutili e senza radice di memoria.

Infatti nessuno della vecchia dinastia e della nuova, dagli anni cinquanta sino al 1975, ha mai avuto insegnamento per acquisire il parlato Arbëreşë, chiaramente quello definibile della crusca, che non ha mai usato libri calamaio o pennini, perché tutti gli allievi hanno vissuto sotto il vigile governo delle donne e i magici luoghi dei cinque sensi: il camino che riverberava e crepitava in lingua parlata, sin dove si estendeva la Gjitonia.

Chi scrive è una memoria attenta e sempre presente di questo titolo accademico senza eguali e che non ha bisogno di riquadri lignei o di genere, per il titolo accademico del parlato più solido e irraggiungibile da nessun istituto o istituzione allestita in epoca moderna dirsi voglia.

Il titolo della crusca Arbëreşë, inizia con la descrizione del corpo umano tutto, si estende alle cose della natura, che lo rendono vivo e gli consentono di fare agricoltura, grazie a consuetudini, la credenza e il costume rispettivamente: del comune vestire, in sposa, regina del fuoco e vedova di vita o incerta.

Questo titolo ha come sede naturale i quattro sheshi, tipici dell’urbanistica Arbëreşë, gli stessi organizzati secondo una rifinita Iunctura familiare di luogo specifico, senza vincoli o recinti fisici di sorta.

Tutti gli allievi sono fieri di partecipare e non perdere una lezione, dal primo giorno di vita e sino che si ha possibilità di confrontarsi nel corso della propria vita e, sin anche da vecchi quando non si è più in grado di auto sostenersi nelle case, oggi di cura, per chiedere aiuto e ricevere conforto in Arbëreşë.

Il titolo che è un riconoscimento ideale del luogo natio, lo senti lo avverti nel cuore e nella mente e ogni volta che l’orecchio avverte striduli linguistici e sobbalzi, disapprovi quelle stonature o compilazioni inutili che non ti risvegliano memoria, ma fanno danno profondo attorno al tuo avanzare fiero. con quel titolo fatto non di volatile farina fatua, ma crusca e odori di criscito locale del tuo forno di casa.

Chi ha un titolo della crusca arbëreşë, conosce i protocolli del saluto, sa quando restare e partecipare o allontanarsi dalla discussione, conosce i tempi e i modi per apparire senza mai prevaricare genieri e figure di rilievo.

Il titolato non palesa mai forme di rispetto a nessun essere umano, conoscere il tempo di farsi da parte, in tutte le cose che fanno la vita comune degli Arbëreşë con titolo valido di crusca e, quando uno di questi dovesse venire a mancare, il titolo scompare e si diventa comuni llitiri, diffusamente infarinati, per essere subito riconosciuti.

Questo era un titolo di studio che si acquisiva prima di iniziare il ciclo primario delle scuole dell’obbligo italiane, un tutolo di crusca, che assieme a tutti i tuoi coetanei davano forza al consuetudinario storico, certificando, toponomastica ricorrenze e parlato al proprio centro antico; forza storica di una memoria composta e compilata di consuetudini, ascolto e movenze ritmate, quando si doveva festeggiare la memoria dell’Estate degli Arbëreşë, quella ricordata nel 1775 da Baffi nel “Discorso” della storia degli abitanti delle antiche terre, oggi denominate Albania.

Di tutte le generazioni parlanti questa lingua, nati prima del 1975 e poi maggiorenni nel 1996, il parlare Arbëreşë è diventata parte fondamentate seguendo i tempi del vivere insieme e non certo leggendo libri o compilazioni del comune alfabetare, divenendo per questo, le memorie storiche dell’odierna promozione di questa lingua antica, conservandone sia il senso che il valore di ogni macroarea.

Nonostante ciò non sono mai interpellati nelle manifestazioni che contano e vedono promuovere il pianeta delle consuetudini e delle architetture del bisogno vernacolare, le stesse che ripetutamente e senza riguardo sono compromesse a tutto campo e sin anche le prospettive storiche, rivitalizzate con inopportune raffigurazioni.

E delle quali si cerca di valorizzarle, invitando e dare la scena a quanti non hanno alcuna percezione di cosa sia e cosa rappresenti la R.s.d.s.A. e il suo parlato non scritto.

La valenza del parlato è stata sempre circoscritta e diretta al corpo umano e, sin anche nelle esternazioni del saluto tra generi non ha mai valicato questo limite.

Vero resta il dato che nelle attività sociali il saluto non è mai rivolto al tempo del giorno, mattino, pomeriggio o della sera dirsi voglia, ma esclusivamente, al benessere e allo stato del corpo umano in continua crescita evolutiva.

Un altro dato fondamentale di questo aspetto sociale del parlato è la valutazione che di giorno in giorno, si facevano degli allievi della Gjitonia, in tutto delle nuove generazioni di generi in crescita, il primo eseguito dal governo delle donne, che con cadenza specifica riferiva fatti e necessità al governo degli uomini e al reggente del modello di Iunctura locale.

Era questi in base ai dati pervenuti in forma orale, a valutare le necessita e le caratteristiche di ogni figura e del suo ruolo all’interno del gruppo che si poneva tra il focolare di casa e, la Gjitonia iuncturale.

Questa era una olimpiade giornaliera dove nessuno era escluso, sin anche quella sostenuta e portata avanti in forma di para olimpiade, dove ogni figura avrebbe avuto per il tempo del futuro, ruolo utile e non discriminatori, per nessuno dei partecipanti.

Il titolo della crusca acquisito dal camino sino dove arriva la Gjitonia, per una figura che ha affinato il sapere relativamente ad aspetti storici e delle arti architettoniche, urbanistiche e del restauro conservativo.

Nel momento in cui sono stati avviati nuovi stati di fatto, con dipartimenti di ricerca, relativi agli ambiti naturali e costruiti di tutta la R.s.d.s.A. e del suo percorso evolutivo, ha dato agio per continuare e fornire nuove frontiere di studio, rivolte all’edificato storico e dei suoi materiali di epoche specifiche dei centri antichi Arbëreşë.

L’insieme lingua della Crusca e titolo accademico degli Olivetari Partenopei, ha consentito di raggiungere mete di studio, tali da fornire risposte significative, sia delle consuetudini, del parlato delle credenze, del genio locale e sin anche del valore aggiunto all’intero ambiente naturale dove questi Katundë hanno iniziato a dare vita e coerenza a ogni evento naturale accaduto.

Questo ha consentito attraverso modelli G.I.S. di addivenire a nuovi modelli di studio sino ad oggi ignoti a numerosi dipartimenti preposti al mono tema, che inquadrano la R.s.d.s.A., come un modello linguistico di radice incerta, in perenne evoluzione, senza tenere conto che la minoranza  Arbëreşë, trasferendo questo suo modello sociale, sei secoli orsono dalle terre della odierna Albania, rappresenta la costanza, che porta nel su intimo, il rispetto degli altri popoli e per questo capace di essere, esempio di integrazione mediterranea, in credenza cristiana. 

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IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG  (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

Posted on 30 agosto 2024 by admin

Ato

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si appresta a restaurare monumenti l’unica prospettiva indispensabile dove incuria degrado o distruzione abbiano piegato la resilienza di un manufatto o del circoscritto, bisogna avvalersi delle raccomandazioni elencate nella “Carta di Atene dal 1931” dove si consiglia il rispetto dell’opera “storica ed artistica del passato”, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.

A tal fine dobbiamo sempre dire quello che guardiamo, ma cosa più essenziale, dire cosa vediamo; come i fatti, le cose con protagonisti i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.

Nello specifico la tutela, diversamente come suggerito dalla carta di Atene, in tutte le ventuno macro aree della R.s.d.s.A., è iniziata male, proseguita peggio, terminata con l’operato degli “esposti”, tutto questo, ad oggi porta a ritenere sia improrogabile allestire una istituzione, che redarguisca, tutti i pretendenti dell’ormai, storico pellegrinare in cerca della discendenza più nobile o illustre.

Cadere in errore al giorno d’oggi e molto semplice, ma se a farlo sono quanti preposti al rispetto dei luoghi, sin anche nei confronti del più distratto o disinformato ascoltatore, si fa violenza non verso chi ascolta, ma si danneggia la prospettiva di questi luoghi, vissuti dai popoli più silenziosi, e più operosi del vecchio continente.

In tutto le persone che hanno versato lacrime di sangue, per far germogliare l’albero della propria identità, senza nulla scrivere o dipingere in alcuna superfice elevata per viverci segnando epoche.

Il fatto che la minoranza non abbia mai fatto uso alcun tipo di scrittura lettura, o grafici di memoria, non è un caso, infatti l’innocente discendenza, ascoltava e apprendeva il parlato dal solidissimo governo delle donne, lo stesso che ad oggi nessun ricercatore ha studiato compiutamente e, questo denota quanta poca esperienza o sperimentazione, sia stata diffusa per fare luce relativamente ai trascorsi di questi vissuti ambiti.

Un protocollo mai allestito da alcun istituto o istituzioni, i quali hanno operato con metodologie a dir poco inopportune e, vorrebbero aggiungere cose senza titolo, attingendo dagli esagerati modernismi Albanesi, terminando nella trincea linguistica, quando l’errore è palese, sin anche con lo scudo circolare, con incisa la frase: da noi si dice così; (nà thòmj këshëtù)

Nasce così l’idiosincrasia; ovvero, l’avversione, e la ripugnanza verso determinati temi, termini e oggetti, per lo più inesistenti, incoerenti, anzi a dir poco diagonali alle cose della R.s.d.s.A., sotto ogni pinto di vista.

Certo che definire la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë con l’inadatto, sostantivo “Arberia”, assume una visione geografica, a dir poco inopportuna, perché notoriamente gli addetti, per darsi una valenza di titolo mai avuto con merito, ma per copiature riportate secondo cui la minoranza provenire del sud della antica terra di origine.

Definendo così la provenienza della minoranza dal sud della antica terra di origine, in quanto qui secondo alcuni risiedeva la nobiltà culturale fatta di echi sopraggiunti dalla Grecia, ciò nonostante i protocolli della geografia storica, riconoscano, tale sostantivo, ovvero Arberia, le terre circoscritte del centro e del nord della antica terra di origine, oggi Albania.

Ciò nonostante, viene sottovalutato un dato fondamentale, ovvero, se una regione subisce le angherie di un instabile invasore, come è possibile che ad essere penalizzate o sottoposti a misure di sottomissione morale e religiosa, siano solo le popolazioni del sud e non uniformemente minacciate dell’intera nazione, che senso avrebbe e quale teoria privilegia alcune religioni, dato che di questo si trattava, infatti chi invade non rispettava niente e nessuno dove si trova o dove si colloca e con cosa?

Se il tema poi si espande alla definizione e il comune parlare dei centri abitati rielaborati ed elevati secondo le necessità tipiche degli arbëreşë, si apre infatti, una violenta tormenta di farina senza precedenti.

Diversamente dai valori sociali e formali contenuti negli innalzati e i sistemi abitativi, germanofoni o medioevali, dirsi vogli, ritenuti simili, uguali o equipollenti al modello di città aperta degli Arbëreşë.

Dato per certo che i Katundë, sono il modello innovativo che non ha eguali, e pur se i suoi innalzati nascono sei secoli orsono, possono essere considerati il germoglio delle odierne città metropolitane, infatti essi sono una rappresentazione di sistemi aperti di Iunctura urbana, dove, i quattro rioni tipici, rispettivamente: Karelletë, Chishia, Bregù e Sheshi; sono le tappe del percorso storico evolutivo di una radice, che si sviluppa e sostiene nel lungo tempo, in tutto, il solido fusto moderno da cui sono nati rami e fioriture consone.

Chiunque si appresta a recarsi per illustrare o presentare gli ambiti di un Katundë, appellando “Borgo Arbëreşë”, si trasforma in un viandante comune, senza meta specifica; come fanno quanti entrano in una chiesa e, invece di fare la croce, vi accedono rinnegando credenza, storia e luce.

Soto il puro aspetto Storico, Urbanistico e Architettonico, un Katundë e un Borgo sono antitetici e perfettamente contrari, perpendicolari diagonali, comunque mai paralleli:

  • Un Katundë, tradotto letteralmente, vuol dire luogo di confronto, lugo di movimento operoso: Ka e Tundë; esso rappresenta l’uguaglianza sociale senza vincoli di un determinato gruppo indigeno a cui gli Arbëreşë si affiancano, per la crescita del luogo e del suo agro. In tutto, forma urbana o patto di iunctura familiare solidale, priva di prevaricazioni, di genere o di gruppi organizzati e tutti uniti esprimono vicinanza solidale di un ben identificato luogo aperto e accogliente le cose dell’agro.
  • Il Borgo, diversamente, rappresenta l’espressione sociale, piramidale, la città chiusa avvolta su se sessa, non contempla uguaglianza di genere, perché piramidale società ellittica, con apposte mura, fossati acquitrinosi e, porte chiuse.

Di queste quatto colonne che fanno la trama storica evolutiva di un centro antico Arbëreşë, ovvero di un Katundë, si potrebbe allargare il tema e farla diventare una vera e propria diplomatica, per l’uso improprio che si fa nel divulgare i il sistema sociale distribuito nei rioni: “Sheshë in Arbëreşë”.

Il sostantivo comunemente è presentato come una piazzetta circolare allivellata, dove si aprono le poste di un numero imprecisato di ingressi privati delle storiche Kallive o Katoj.

Questa una visione a dir poco inopportuna, la cui radice nasce dai sessantottini, che leggevano i giornaletti di Capitan Miki o il Grande Blek, dove in genere le illustrazioni di questi suggeritori delle cose Americane, disegnavano le capanne degli indiani o gli scenari di immaginario, nello spazio circoscritto dalle capanne con pelli di bufalo.

Tornando alle cose, i fatti, i bisogni e le esigenze del vecchio continente, di cui noi Arbëreşë siamo parte essenziale dal nel XV secolo e, in questa breve diplomatica si cerca di essere professionisti maturi, non adolescenti in cerca di avventure di leggenda, specie sulla scorta di risorse pubbliche che non hanno riverbero e, non superarono il circoscritto della storica edicola di Nonino.

Per riparare a questa deformata storica, del protocollo Arbëreşë qui si vuole rendere chiaro, completo, indivisibile e indeformabile, il significato del sostantivo “Sheshë”.

Specie dopo quando esposto da quanti qui si sono recati a stendere themi di laurea, senza un relatore che avesse idea, della storica parlata della R.s.d.s.A. e, mi riferisco a quanto appreso ascoltando come si faceva un tempo, acquisendo fatti e cose dall’orecchio, e non leggendo confuse alfabetari o riversi vocabolari, con lo strumento occhio, l’antico metodo per divulgare sapere.

Per questo sia ben chiaro a tutti voi, viandanti distratti, compresi quanto non trovarono agio e notorietà, nelle frazioni di origine e, qui si sono insediati per fare danno, immaginando di avere gloria impossibile, a imitazione di quanti certi che il popolo fosse ignorante e sempre pronto a credere alle cose, diffuse con metodo dai regnati.

Lo “Sheshë” senza affanni non è; uno spiazzo dove affacciano un numero imprecisato delle porte di casa; in quanto la parola, di radice antica, vuole indicare un sistema di “Iunctura familiare solido e indivisibili” ogni volta che viene organizzato e sostenuto; esso si compone: di case che si sviluppano a ridosso di Rruhat articolate, su cui affacciano gli accessi di porte gemellate a finestrelle, (dal forte valore strategico) archi di misura e metrica, di luogo, Scalinate, vicoli ciechi e orti botanici, in tutto un componimento di sostenibilità e difesa senza mura perimetrali, se non quelle dei Katoj familiari sempre aperti.

Se il modello esposto vi dovesse creare pena linguistica, di titolo e merito, recatevi nei centri antichi di un Katundë della R.s.d.s.A., non da individui supponenti e imparati, ma attenti ascoltatori dello stridulo dei cinque sensi, che ognuno di noi possiede, ma mi raccomando non andate togati perché i cinque sensi non si attivano!

Adesso passiamo a un altro argomento ovvero, “I Musei”: essi iniziato ad essere articolati, con compilazioni di libero dire locale, senza avere una stratificazione che li leghi alla storia del luogo o della macro area relativa, specie nel percorso che univa casa e chiesa, per il proseguimento della specie Arbëreşë.

Il Costume in questi ambiti, diventa indispensabile protocollo, l’unico in grado di tracciare il percorso evolutivo della minoranza, anche se comunemente è stato sottoposto a studio per opera e misura di campanili, tutti articolati in funzione di manifestazioni utili a rendere primi, i dispensatori di turno, oggi di Calabria Citra, domani di quello Ultra e così via, via per decenni, senza mai smettere di vagare e rinforzare gli inutili principi, terminati nell’essere stai ospiti di biblioteche ora di Barcellona, domani di Parigi, dopodomani di Madrid, Valenzia e Monaco, Venezia, Firenze e così via sempre, ramenghi e fuori dal circoscritto del Collegio Corsini dove è nato.

È dalla fine degli anni settanta, del secolo scorso che in maniera a dir poco gratuita, raccogliere vesti, attrezzi e ogni sorta di elemento che vorrebbe fare memoria, in circoscritti di elevato impropri e, senza radice linguistica sono appellati “Musé”.

Una idiomatica deriva che calpesta il parlato Arbëreşë, lo stesso che vorrebbe fosse appellato con radice del parlato in: “Loku menditë”o “Ku mhbami mendë”.

Un sistema difforme, disarticolato o confusione che non fa certo museo antropologico, delle arti e del costume, quest’ultimo, nello specifico è, presentato in maniera a dir poco inopportuna, se non ridicola, esponendo in pubblica piazza la parte più intima della vestizione, assieme a quella più infima e vile indossato da qualche decennio come blasone nobile nel momento del “si” specie sull’altare, davanti al testimone celeste.

Il tutto con l’apposizione pubblica del primo concetto: Bhërlocunë, e il secondo atto Vàndèrenë, il tutto poi  contornato dal voler rendere la cosa, ancora più penosa, con la zògha a modo di ruota o di coda, nella pubblica via e, addirittura in chiesa sull’altare.

Il museo per gli addetti titolati della R.s.d.s.A. è considerato mera raccolta di elementi disarticolati, un’incompiuta di tempo fatti e cose, che diventano mercato domenicale o rionale li disposto, per attendere Kopizènë, e pronte ad essere frantumate e rese patrimonio senza sudore, per i raccoglitori di polvere locale.

Altro argomento di seminato fatuo sono le Inopportune, “Vallje di Scanderbeg”, infatti il soprannome, rievocando e sottolineando la sua appartenenza all’epoca mussulmana, non certo il tempo in cui fu eroe Arbëreşë, anche se comunemente in tutti i centri storici senza misura, si rievocano dal giorno del Termine di memoria e, in estate Arbëreşë queste esternazioni, sono e rappresentano la memoria del passaggio generazionale del parlato.

Intanto con la dicitura di “Vallje di Scanderbeg”, vorrebbero rievocare una giornata di memoria per una epica battaglia, che vide Giorgio Castriota sterminare gli avversari e, per le tante vittime stese inermi, conferma della vittoria, lui che all’epoca era un cristiano praticante, iniziava, con i suoi sottoposti a ballare e cantare, sopra le resta degli avversari inermi, che giacevano in quelle distesa, di corpi senza vita.

Certo che la formazione storica e culturale denota carenze non di poco conto, anche perché, solo quanti non adeguatamente formati ed attenti, promuovono queta figura con le effigi dei Turchi Selgiuchidi, e dei capostipiti Beg.

Di questo ci lasciava notizie anche Giovanni da Fiore, il quale, quando ebbe modo fare memoria, scriveva; Giorgio Castriota, comunemente appellato “Scanderbeg”.

E’ un altro segnale di memoria ereditiamo la toponomastica di Santa Sofia Terra, dove la strada che unisce l’antica chiesa Bizantina del IX secolo, con quella nata Latina del XVII secolo pota a memoria, “Via Castriota”.

Per concludere le “Vallje”, non sono altro che una prova generale dell’avvenuto lascito del parlato e, vuole essere confermato con Canti di genere e Movenze del corpo, per ricordare e sancire il passaggio tra generazioni; è questi non sono altro che i concetti basilari della storia delle comunicazioni.

Relativamente alle attività di memoria delle consuetudini la credenza, la lingua e il costume, si è sempre preso di mira attrezzi, costumi e null’altro al fine di musealizzarle, contornati dalle cose più inopportune e senza logica museale tra di esse.

L’inadeguatezza degli addetti poi ha fatto il resto, dal punto di vista del concetto Museo, verso il costume e gli attrezzi utili a delineare la risalita dell’economia, secondo i dettami dell’antropologia, ed è per questo che sono stati prodotti errori e manomissioni molto pericolose alla memoria dello storico protocollo, in essi racchiuso e, si come ricoperti di polvere e fluidi scuri, non sono oggi più leggibili nei loro contenuti di tempo.

Vedere ascoltare le attività antropologiche riassunte tutte, con le cose più comode e semplici e, interpretate, in maniera povera/semplice sono il percorso condiviso con i tempi e le pieghe della storia che non è mai stata tale, proscrivere il contenuto è nostro obbligo, perché è bastato essere muniti di una “Singer serie Sfinge del 1926”, quest’ultima la data baricentrica delle vesti femminili Arbëreşë che non vanno oltre il tempo della Sposa, la Regina del fuoco, la Vedova e  la Vedova incerta.

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EVOLUZIONE STORICA DEGLI ARBËREŞË: DA GJITONIA, A IUNCTURA URBANA OGGI CONFUSA (Gjitonia: vatrà e cèlljur prètë billjëtë Arbëreşë)

EVOLUZIONE STORICA DEGLI ARBËREŞË: DA GJITONIA, A IUNCTURA URBANA OGGI CONFUSA (Gjitonia: vatrà e cèlljur prètë billjëtë Arbëreşë)

Posted on 23 agosto 2024 by admin

Untitled-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando una diplomatica ha come specifica trattazione la minoranza Arbëreşë, sostenutasi per caparbia linea, in ogni stagione, senza l’ausilio di scritti, immagini, perché vissuta secondo consuetudini storiche, diventano indispensabile esporre i prodotti, in specifici presidi della memoria.

Specie se l’solamente della minoranza ha prodotto tipologie ambientali, e vissuto di memoria privo di qual si voglia forma letteraria e delle immagini collettive, riuscendo a tenere il passo con i tempi, senza stravolgere o differenziare la formazione delle generazioni in continuo progredire.

Da alcuni secoli a oggi, le nuove leve della cultura, se escludiamo il primo analista Pasquale Baffi, Il quale per essendo a pieni titoli, numeri e conoscenza prima, delle lingue scritte più antiche del vecchio continente, preferì indietreggiare davanti al dilemma dello scritto Arbëreşë e, scelta che avrebbe sicuramente danneggiato agio a confusioni diffuse alla sua dinastia di appartenenza tutta.

Nonostante ciò preferì rispettare la forza di conservare nelle consuetudini del passato non certo figlia delle arti figurative e, quelle dello scritto, tuttavia quanti non li seguirono in questa scelta inopportuna, fecero danno con lo scrivere, infatti o prodotto letterale in lingua Arbëreşë, che dopo di lui con molta energia terminò nel divide invece che unire gli Arbëreşë.

Se nel corso dei secoli in tutta la regione storica, hanno seguito le regole prima della Gjitonia o recinto ideale della famiglia allargata, poi le dinamiche di Iunctura urbana, oggi con la modernità in atto, perché ostinarsi a cose antiche e senza senso come la scrittura,

In tutto delle forme di vocabolari, all’incontrario dato che, la minoranza non sa né leggere, né scrivere il suo parlato e, ancor peggio storicamente utilizzando alfabetari in continua crescita con 20, 30, 40 lettere e sempre più crescenti come ironizzava nel 1919, Norman Douglas, in visita per gli anfratti della Calabria Citeriore Arbëreşë.

Vero, inconfutabile e senza ombre rimane un dato: il modello scrittografico non ha mai unito gli Arbëreşë, anzi è forse una dei germogli delle divisioni in atto.

È proprio per evitare il progredire di tale deriva, che qui si propone la Gjitonia, non come luogo sociale dei cinque sensi ripetuto identicamente in ogni ambito o quartiere degli oltre cento paesi Arbëreşë.

Ma rendendola tecnologicamente o radio televisivamente visibile e fattiva, ne basterebbe una, per ogni macro area, nello specifico i programmi della RAI Regionale o TV Private di macro area.

Il tema nasce perché generazioni di Arbëreşë, sin anche dagli anni sessanta del secolo scorso, non acquisivano la parlata, le movenze gli atteggiamenti sociali, la memoria degli appuntamenti di credenza e quelli delle stagioni e di confronto, leggendo libri partecipando a commedie e, certamente prima di andare all’asilo o intraprendere la formazione scolastica d’obbligo, o seguendo la radio o la televisione.

L’unico spettacolo o teatro che essi frequentavano per formarsi e produrre memoria era lo spazio indefinito del Governo delle donne, una vera e propria scuola, oggi paragonabile a uno spettacolo o meglio una perenne trasmissione dove a recepire per le nuove generazione erano, l’occhio e l’orecchio, gli stessi che oggi vediamo assieme alle ripetute soste pubblicitarie, che nella Gjitonia, erano le pause di promozione i telegiornali di critica, questi ultimi sempre evasi  da bambine, bambini e adolescenti.

Ad oggi per unire formare e rendere le nuove generazioni pronte ad affrontare le nuove vicende sociali si progettano e si propongono corsi e adempimenti di formazione senza una base di ricerca, prima di approntare i progetti di qual si voglia, natura devono o vorrebbero finalizzare, per la sostenibilità.

Nonostante ad oggi non esiste comune, macroarea della RsdsA, che abbia delle eccellenze pronte ad accogliere raccontare o esporre chi siano da dove veniamo, come ci siano integrati e perché i nostri ambiti urbani pur se equipollenti a quelli indigeni radicalmente sono diversi.

Non esiste una Iunctura storica e sociale del raccontato unico e indivisibile come dovrebbe essere, ma una pericolosa deriva diffusa fatta di personalismi di pena locale, anche comunemente esposta e, priva di reverenza verso chi ascolta, che anche se all’apparenza appare distratto, forse è più formato del parlatore di turno.

In ogni Katundë si ritiene che la storia, sia un fatto ristretto e non riferibile a epoche e cadenze in linea con i fatti di uomini e cose, ragion per cui ogni esponente locale si sente investito del libero interpretare e, raccontare, divulgare o sentenziare, senza alcuna cognizione di storia plausibile.

A tal proposito valgano gli esempi a cui continuamente si da accenno, in quanto, la vergogna culturale è anteprima senza precedenti, al comune divulgare cose, elevare figure, promuovere costumi o raccontare appuntamenti sociali, solo per sentito dire o comune conversare da indigeni.

Infatti solo chi conosce, parla e ne capisce questa lingua, colma di consuetudini e genio antico, perché allevato con orecchio e occhio dall’infanzia, può cogliere in ogni sua inflessione di sensi e prospettive dell’Arbëreşë parlato, fatti cose, credenze, consuetudini luoghi della storia locare parallela e colma di echi dell’antico Est.

Come con l’avvento della televisione l’alfabetizzazione si faceva con la nota trasmissione “Non è Mai Troppo Tardi, anche gli arbereshe oggi dovrebbero con le istituzioni tutte accordate a produrre programmi televisivi.

Con i quali, oltre al parlato storico Arbëreşë, si potrebbero alfabetizzare le nuove generazioni, nell’indicare come leggere e attivare secondo un protocollo mai adottato, ovvero il parallelismo di occhio e orecchio.

Un suggerimento emanato dalle alte sfere della comunicazione nel 1995, prima del tragico consiglio germogliato nel 1999, oggi il tronco perverso di fiori in emergenza fatua.

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STORIA DI LAMIA, CARONTE, PILATO E KAINO, L’ONDA NERA DI UN KATUNDË ARBËREŞË (Pathë lljchë Tata Mieshëtrj, mëma gruja me garbë e ine Moterë nuse e mirë)

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Posted on 20 agosto 2024 by admin

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