NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il genio Vernacolare arbëreşë nasce perché radicato nel territorio, opera del bisogno, a misura del clima, fatto con materiali locali in sudore quotidiano operoso.
Tutto questo per realizzare un’architettura umile, sostenibile, necessaria e, capace di espandersi nell’ambiente del quale rifletteva e riflette l’identità collettiva, per quanti e di quanti avevano necessità di risiedere, in confronto con l’ambiente naturale e dare vita al luogo parallelo ritrovato.
Ad oggi si contrappongono a questa storica metodica opere in elevato di cunei multiformi appellati “Boschivi Verticali”, dove l’arte dell’apparire, adombra ambiente, natura e genio dell’uomo.
Pur ispirandosi alla natura, essi trovano agio nell’apparire verticale come un tempo facevano i cunei che spaccavano la legna del bosco o le pietre dei monti e, oggi si vogliono sovvertire ruoli, forma e sostanza.
In tutto sono una metrica di sostenibilità esclusivamente estetizzata, pensata per stupire, in quanto simbolo di una nuova ecologia di facciata, dove il verde è puro e semplice travestimento di immagine e non ha alcuna utile sostanza.
E mentre un tempo l’architettura vernacolare univa, perché linguaggio comune e, tesseva filamenti di paesaggio, nature e vita, il verticalismo edilizio come i cunei dividono componimenti naturali unitari.
Nei trascorsi dell’architettura del bisogno non c’era utopia di necessità, ma convivenza, equilibrio tra uomo e territorio, con i suoi ritmi nella stagione lunga fuori la porta di casa e, nella stagione corta, all’interno del volume misurato di necessità per gli uomini.
Ogni casa era un frammento di paesaggio, ogni Katundë un’estensione del bosco di collina, che forniva acqua limpida, che scorreva silenzioso.
Il Bosco Verticale, è utopia senza domani, un’immagine potente, sospesa nel vuoto più estremo e per questo in grado di dialogare solo con il vento.
Non è più un abitare, ma una vetrina, dove il verde apparisce abbarbicato lungo lo scorrere del cemento e, diventa solo il componente di una quinta innaturale, perché il monte che è verticale, non è mai verde ma colmo di grigiore.
Nonostante tutti sanno che, i boschi non sono in verticale, ma sono gli alberi a crescere e, le foreste vere non si arrampicano sulle montuosità granitiche, dove regna solo il gelo e la neve.
Perché i Boschi nascono e si estendono lungo le colline, dove le radici, si allargano e vivono nel tempo, abbracciati dal sole e, mai lo fanno nelle rocce montuose sempre pronte a disgregarsi per il gelo.
Questi edifici non uniscono ma dividono, in quanto sono cunei, identici simili o equipollenti a quelli che un tempo si usavano per spaccare il legno o dividere il marmo, essi si elevano nei luoghi di confronto e movimento (Katundë) per dividere e formare due fronti fraterni, chi può abitarli o chi li osserva dal basso, tra natura e realtà, avverte subito che esse sono prodotto di una natura impossibile.
Non siamo più nel regno dell’abitare, ma in quello della rappresentazione da palcoscenico, infatti, pur essendo rivestiti di piante, questi giganti verticali, in attesa di essere fumosi, non saranno mai un ponte, ma solo ed esclusivamente cunei, notoriamente strumenti che nell’immaginario collettivo dividono solidi frammenti unitari.
Come un tempo si usavano per spaccare i tronchi nei boschi, oggi si infilano nello spazio urbano, marcando distanza tra abitanti e natura, in tutto una vita sospesa non più con i piedi per terra.
Questi boschi innaturali, non sono gesto d’unione, ma frattura, tra l’idea di abitare, desiderio di apparire, diversamente all’architettura vernacolare che tesseva relazione, di radice.
Notoriamente al giorno d’oggi queste canne al vento, che simulano una perenne primavera, si ergono come simboli di esclusione, scollegati dal contesto che li circonda, a cui viene vietato di espandersi perché devono solo apparire nella prospettiva innaturale creata ad arte.
Diversamente dall’architettura vernacolare che nasceva per espandersi come organismo vivo, capace di crescere assieme alla comunità per, adattarsi a tempo e stagioni.
Ampliandosi come fa un centro antico o un bosco vero, lentamente, facendo crescere le sue radici orizzontali, nella terra sempre uguale.
Il Bosco Verticale, invece, nasce già compiuto, senza possibilità di evoluzione, è già alto, ma non lascia passare il vento e non consente al alcun che, neanche il pascolare tra ombra e luce, ponendosi più come un cancello e non certo come via luminosa e libera.
È rappresenta un oggetto, una figura e sin anche una cassaforte chiusa, che non cresce, non si espande, non dialoga, ma natura imprigionata in un perimetro, una verticalità che non appartiene al bosco, ma alla visione dell’apparire.
In natura, i boschi crescono sulle colline, si diffondono in orizzontale, erano accarezzati dal sole, dalla luna che indicava la via all’acqua e al vento.
Nessun bosco nasce in verticale, le radici non si arrampicano, cercano profondità, la narrazione del Bosco Verticale è una illusione prospettica, una scena che si esaurisce nello sguardo, senza un futuro di reale trasformazione.
L’architettura vernacolare era fatta con ciò che il luogo offriva, pietra, legno, terra, paglia, divenendo emblema o espressione spontanea di un equilibrio tra uomo, natura e ambiente.
Non emulava la natura, ma ne faceva parte e, cresceva come un organismo collettivo, lentamente, seguendo le esigenze delle stagioni, i limiti del territorio e dell’uomo.
Il Bosco Verticale, al contrario, porta il bosco dove esso non può vivere e tutto si trasforma in un gesto estetico potente, ma innaturale anzi oserei dire devastante.
Vero restano gli atti e i fatti, perché, inserire un frammento di foresta dentro un quartiere urbano è come sradicare un animale dal suo habitat, lo si toglie dal suo recinto per trasformarlo in simbolo per abbellire il centrotavola, o il pappagallo che ripete cose inconsulte.
Un bosco non nasce tra vetro e acciaio, non vive appeso ad altezze di cime tempestose e, non cresce in luoghi innaturali respirando, traffico e seminando cemento.
Il bisogno dell’uomo è fatto di terra, di umidità, sole, e vento silenzioso, qui invece, ogni cosa risulta essere isolata, contenuta, ingabbiata, non più come fa la natura e, la rappresentazione o meglio la sceneggiata vuole salire di prepotenza sul palco della natura.
Il vernacolare univa, perché parlava la lingua del luogo, diversamente da questo verde urbano, che invece, non parla con ciò che lo circonda, rimanendo solitaria immagine sradicata, una principessa che ha perso la via maestra e qu diventa estranea, inutile, terminando nel bacino dell’estetica che una storia che non gli appartiene.
I Katundë che vivono alla giornata, non cercano simboli, ma sono alla ricerca di sé stessi e, restano imbibiti di senso e garbo, non hanno bisogno di sfoghi fumosi e verticali, ma di spazi che li rappresentano, e fanno ascolto, in tutto un bisogno di architetture che parli la loro lingua, non di icone e simboli privi di credo.
Il Bosco Verticale è un’immagine potente, ma effimera, infatti apparisce, stupisce e violenta l’immaginario. Non crea legami, non espande radice, perché è solo in camino che non funziona, ma emana e riempie di fumo il vernacolare abitato, lo si guarda, lo si fotografa, lo si celebra e, poi svanisce nella routine della città, senza lasciare alcuna traccia nell’anima del luogo, se non la fumigine, che ci costa imbiancare nel corso della stagione lunga.
L’architettura vernacolare, invece, non aveva e non ha bisogno di stupire, perché fuoco vivo nel tempo e nello spazio, si costruiva per avvicinare generi, ed era fatta per essere usata, trasformata, tramandata in quanto gesto collettivo, non mero spettacolo.
Oggi più che mai, serve tornare a un’architettura che non isoli, che non si elevi per separare, ma che si radichi per unire.
Un’architettura che non venga ammirata e poi essere dimenticata, o segnare fastidiosamente l’immaginario collettivo senza essere mai potuta abitata, riconosciuta o vissuta.
Nei Katundë, le prospettive sono libere, non si impedisce di guardare il sole né la luna, qui si alza lo sguardo per contemplare simboli di credenza reali.
L’orizzonte resta aperto, perché abitare è anche poter vedere lontano, condividere la luce, il vento, il tempo.
Là dove l’architettura diventa monumento o fine a sé stessa, lo spazio si chiude, le prospettive imposte diventano teatrali, pittoriche, da rivista e distraggono lo stare insieme.
Ci si perde nell’immagine, si dimentica la relazione, non fanno il bene del vivere comune, ma del mercato senza uno scopo per il bene della comunità ma del singolo o dichi lo rappresenta.
I Katundë non hanno bisogno di stupire, ma bisogno di durare e continuare a vivere per dare agio sociale all’uomo e alla natura, offrendo spazi semplici, ma profondi, dove la bellezza è nella misura, nel ritmo, nel dialogo con ciò che è intorno e, l’abitare non è consumo, ma condivisione.
L’architettura vernacolare nasceva per unire, fatta con ciò che il luogo offriva: pietra, legno, terra, essa cresceva lentamente, come i Katundë, e tutti gli insediamenti umani radicati nella terra, nella collettività, nel ritmo delle stagioni.
Ogni casa era parte del paesaggio, mai sua negazione. Non imitava la natura: ne faceva parte.
Il vernacolare era espansione, adattamento, linguaggio vivo, si costruiva con il tempo e con la gente, senza utopie, senza spettacoli.
Nascevano per svilupparsi e crescere, per essere tramandato e, senza apparire, ma appartenere a chi doveva conservare memoria.
Oggi invece si alzano totem. Il Bosco Verticale, per quanto ricco di suggestione, non unisce, ma divide. È un’immagine potente, ma isolata. Un bosco appeso al cielo, che non nasce dalla terra, che non può espandersi né trasformarsi. Non ha prospettiva di futuro, solo quella dell’apparizione, è utopia senza domani.
Un tempo si usavano i cunei per spaccare il legno dei boschi e, oggi, questi grattacieli verdi sono cunei urbani: si insinuano nella città non per tessere relazioni, ma per tagliare, per separare. Tra chi abita e chi guarda. Tra natura e imitazione. Tra reale e simbolico.
Il bosco, quello vero, cresce sulle colline, orizzontale, espanso, radicato e, non vive sospeso e mirando verso il vuoto, in vetro e acciaio, non è balcone irrigato da fontane e, sradicarlo dal suo ambiente per allestirlo in verticale privandolo della sua anima naturale.
I Katundë di oggi hanno bisogno di essere ascoltati, non coperti da icone, senza storia o credenza, ma abbisognano di spazi che lascino vedere il sole e la luna, che non impongano prospettive pittoriche o narrazioni di un mercato che non consente confronto.
Il buon abitare non si costruisce sull’immagine, ma sulla relazione, che non distragga, ma accompagni, che non celebri sé stessa, ma custodisca il vivere comune.
Il vernacolare era presenza silenziosa e necessaria, diversamente, dalle canne fumarie travestite di oggi, per quanto verdi, appaiono per essere subito dimenticati e fanno paura per il fumo che quanto prima spargeranno nell’aria.
È tempo di tornare a costruire per durare, non per stupire, per radicare storia, non per cancellare un modo antico dell’abitare, che non è solo apparire ma memoria e rispetto del passato.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-07-27