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QUALE MIGLIORE TUTORE DI UN ARBËREŞË PASIONATO E OLIVETANO ShAnasj i nipi Pasionatitë e Congorelljtë

QUALE MIGLIORE TUTORE DI UN ARBËREŞË PASIONATO E OLIVETANO ShAnasj i nipi Pasionatitë e Congorelljtë

Posted on 25 agosto 2025 by admin

MediterraneoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono Olivetano e figlio di una terra antica, plasmata da madri contadine e padri sapienti, in una terra dove gli abbracci sono la culla naturale del sapere.

Non parlo per non tacere, ma per svelare le cose della storia e, il raccontare verità dimenticate pur se scolpite nella pietra che ancora echeggiano tra vigneti, uliveti e grano delle colline mediterranee.

Sedete, ascoltate, perché nella mia voce c’è la vostra origine, nel mio racconto, la vostra identità e, potrete conoscerla solo ascoltando il mio parlato, così avrete modo di essere immersi e affrontare con più garbo i vostri domani.

La storia di un luogo non appartiene mai a una sola persona, né a una sola epoca, ma è il frutto di tante genti e tanti trascorsi, fatti di umiltà e dedizione, costruendo cosi cose grandi e discrete per voi e anche di loro.

Ogni pietra riposta, ogni campo arato, ogni parola tramandata è parte di un disegno più ampio, fatto di mani operose, cuori pazienti e menti di luce.

Ci sono nomi che si ricordano e altri che il tempo ha avvolto nel silenzio, ma tutti hanno avuto un ruolo, tutti si sono adoperati, nel loro tempo e nel loro modo di essere, per fare.

C’è chi ha costruito, chi ha protetto, chi ha insegnato, chi ha semplicemente vissuto con dignità, e chi ha sottratto, contribuendo a mantenere viva l’anima del paese, sin anche in pena.

Nessuno è stato inutile, nessuno è stato davvero solo, perché ogni genere nasce dall’incontro, dalla fatica condivisa, dal desiderio comune di lasciare qualcosa di buono al dopo.

È questo che rende grande un luogo e, non sono solo i monumenti o i nomi incisi, ma la memoria collettiva fatta di gesti semplici e coraggiosi, ripetuti ogni giorno con amore e con il principio di fare.

Non ho interesse a ripetere scritti altrui, né a custodire o formule linguistiche che non portano e ne hanno peso alcuno.

Quello che cerco non è la bellezza dei segni, ma la sostanza delle parole che hanno avuto un compito preciso, ovvero quello del saper dare agio a costruire.

Non metaforicamente, ma nel senso più concreto e, costruire comunità, legami, identità e le parole che sono servite, senza clamore, nell’elevare case, riconoscersi tra simili, per vivere al suo interno e tramandare ciò che conta per essere ripetuto.

Nei centri antichi degli Arbëreşë, come in tanti luoghi dimenticati, la lingua non è mai stata un ornamento, ma una struttura, con funzione dell’architrave a forma di corona.

Non si parlava per dire o rumoreggiare dissenso, si parlava per mantenere e, ogni parola portava dentro una funzione come dire pane, nominare la terra, identificare i vivi e i morti è un modo di esistere e identificarsi. Perché chi taceva troppo a lungo, termina per sparire o non partecipare terminando di non sostenere le cose che servono per fare la storia di un Katundë.

Gli Arbëreşë non sono conquistatori, non sono oppressori, ma quanti che hanno sostenuto nel susseguirsi delle epoche, questi luoghi naturali, privi di imperi o imperativi, perché colmi di memoria e, avevano necessità di sostenere un luogo nel tempo.

Le loro parole non servivano a comandare, ma a resistere, non imponevano, ma reggevano, un linguaggio costruito su fondamenta più antiche della scrittura stessa, fatta di un alfabetario tessuto tra relazioni, consuetudini e ascolto silenzioso.

Molti di quei suoni sono stati trascritti male, o non sono stati trascritti affatto e, gli alfabeti dominanti non li hanno contenuti, o li hanno resi di genere ignoto o inadatto.

Così oggi difficoltà a leggere, capire e comprendere quelle tessiture che fanno i centri antichi che appaiono marginali, quasi trasparenti e nella prospettiva naturale apparire senza rispetto dell’ambiente.

Ma chi ha orecchio per ascoltare comprende che lì c’è stata una densità, che resiste ancora, perche le pietre accantonate stridulano ancora e, le famiglie conservano, le feste mostrano la tenuta di un’identità che non ha bisogno di legittimazioni ufficiali, specie da chi non ha neanche un orecchio per ascoltare.

L’Italia ufficiale si è costruita anche grazie a queste voci minori, ma non ormai tutti lo hanno dimenticato, e che dovrebbe, preferisce raccontarsi essere centrale, e indossare emblemi lineari multicolori per apparire sugli altri.

E invece è stata una tessitura, fatta da mani diverse, lingue diverse, funzioni diverse, in tutto popoli che hanno allestito le fondamenta non per monumenti, ma per strutture vive ed essenziali.

Essi non hanno scolpito nella pietra, ma inciso nei ritmi della quotidianità, non hanno dominato, ma sono durati, tutti insieme per fare catena umana e passare l’uno con l’altro, le pietre per innalzare Katundë.

Parlare oggi di queste comunità non è nostalgia, ma restituire densità e ruolo ad ogni frangente della storia, ma non per correggerla, ma per completarla e renderla solida e indivisibile.

Dare spazio a ciò che non si è imposto, eppure ha resistito, costruito e sostenuto il peso del tempo.

Ogni pietra, ogni muro scrostato racconta storie che conosco a memoria, come i volti degli anziani seduti all’ombra che, con un cenno del capo, mi riportano al tempo in cui tutto sembrava più semplice e per essere compreso.

E complicato oggi raccontare le voci che rimbalzano tra i vicoli, con ancora l’accento antico dei nonni, e l’aria profuma di pane appena sfornato, o rivivere le prospettive di quei giardini, tra i rami del fico e i fiori sparsi senza ordine, dove ritrovare la verità delle cose semplici, l’identità, l’appartenenza, l’amore per una terra che non smette mai di parlare, anche da lontano e senza mai smettere di pulsare come fanno le cose fatte con il cuore.

Essere un Olivetano non è semplice da spiegare, perché è diverso da chi vive senza radici né visione del futuro. Un Olivetano parte con uno scopo: custodire e trasmettere certezze e fede, non per diffondere parole vuote o verità distorte.

Gli Olivetani germogliano là dove non c’è credenza, dove le radici sono dimenticate e non esiste albero che dia ombra a chi vive di sudore e dolore. Portano senso dove manca direzione, e fede dove tutto sembra smarrito.

L’ulivo è una pianta che, una volta cresciuta, dona ombra per sempre. Non si lascia influenzare dalle stagioni: rimane solida, sempreverde, rispettosa dei ritmi del sole e della luna. I suoi frutti sono indispensabili, ma la sua forza più grande è l’ombra che offre, rendendo più lieve la fatica di chi lavora.

C’era un paese arrampicato tra le chine delle alture calabresi, dove le campane non suonavano mai da sole ed erano illuminate senza sosta dal sole e dalla luna.

E al loro fianco, si levava sempre un canto antico, intonato da gole che conoscevano l’arbëreşë puro e  antico che riecheggiava assieme al greco della chiesa.

Lo chiamavano i figli di due alture: da una parte la pietra dura dei monasteri, bianca e paziente come un libro aperto; dall’altra il respiro nomade degli arbëreshë, popolo venuto dal mare e mai più tornato indietro ed entrambi, vivevano fianco a fianco, uno nel parlato della casa e, l’altro nel canto della chiesa.

Padre, olivetano, parlava poco ma scriveva credeva molto e diceva che la vera preghiera era “fare bene le cose semplici”: accendere un lume, zappare una vigna, ascoltare.

Dall’altra parte, la nonna che prima era stata madre e zia che raccontava storie al fuoco, tra proverbi arbëreşë e ricordi confusi di una terra mai vista e diceva che da piccola saliva sui tetti delle chiese per sperare di vederla.

Un giorno d’agosto, al centro della piazza, si sposarono i nipoti di entrambi, nessuno seppe decidere se usare l’incenso greco o l’acqua benedetta benedettina, così decisero di usarle entrambi.

Il sacerdote leggeva in latino e, il coro rispose in arbëreşë e, alla fine, quando il sole calava dietro le querce, e la gente diceva: “Questo non è un matrimonio, è una terra che ricorda chi è.”

E mentre il vino scorreva e i tamburelli battevano il tempo, qualcuno, forse un vecchio monaco, o forse un pastore, sussurrò: “Dove si mescolano i popoli che non si sono mai arresi, lì nasce il Mediterraneo più vero.”

Un Olivetano si nutre già da piccolo della saggezza semplice e concreta tramandata dalle mani operose delle madri, delle zie e delle nonne, che lavoravano “crusca” cioè con le cose che resta del lavoro quotidiano, genuino e vissuto.

Poi gli olivetani erano cresciuti e preparati alla vita, sotto la vigile sapienza dei padri, degli zii e dei nonni: sono loro tutti, con il genio e l’esperienza, a istruirle, e fargli da maestri.

Il primo vero “titolo” che ricevono gli olivetani, quindi, non gli viene conferito da cattedre polverose o da istituzioni sterili, magari piazzate tra i torrenti secchi e dimenticati.

No, il sapere qui nasce dalla voce collettiva del popolo, dall’intelligenza quotidiana e concreta di un intero Katundë che educa, plasma, forgia e garantisce un letterato arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-25

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RIPRISTINARE IL SENSO DELLA DIPLOMATICA ANCHE PER LA STORIA DEGLI ARBËREŞË  Pagliaminiti, Bububj e Trimaxi venë tue ju ciuerë

RIPRISTINARE IL SENSO DELLA DIPLOMATICA ANCHE PER LA STORIA DEGLI ARBËREŞË Pagliaminiti, Bububj e Trimaxi venë tue ju ciuerë

Posted on 22 agosto 2025 by admin

Arbereshe2Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gli ambiti dove sono stati vissuti e si dovrebbero conservare i valori della minoranza arbëreşë, smarriscono giorno dopo giorno i fondamenti della consuetudine culturale.

Sminuendo così la memoria storica e, onde evitare il continuo regredire di questa penosa china, urge allestire, fare, usare e “allestire diplomatiche di ricerca” , l’unico ponte fondamentale per unire cultura, territorio, natura e uomini.

Fare una diplomatica storica non significa solo svolgere una ricerca puntigliosa e di senso solidamente compiuto, ma interpretarne i valori per, comprenderne gli intrecci, attraverso i quali ascoltare, meditare, costruire e tessere una fiducia che abbia come radice la storia vera, non le favole.

Il valore di una diplomatica risiede nella sua capacità di unire visione strategica, sensibilità umana, competenza tecnica, intelligenza lucida ed emotiva.

Questo è un ruolo che richiede fermezza, ma anche flessibilità, riservatezza ma chiarezza, pazienza e prontezza d’azione, il tutto contornato da una solida conoscenza dei tempi, secondo una interpretazione lenta e ragionata.

In questo capitolo, esploreremo non solo le responsabilità e le sfide che questo ruolo comporta, ma anche il senso profondo che ha animato chi ha scelto l’alternativa per fare ricerca, contribuendo labilmente, alla costruzione degli itinerari che sortiscono in ogni epoca con il solito mugnaio matto.

Perché dietro ogni trattato, c’è una persona che lavora, spesso lontano dai riflettori, per far dialogare con esattezza di luogo e di tempo le diversi immagini che tracciarono le cose della storia.

Tuttavia a margine di ciò, l’ostinata volontà di dare una forma scritta a una lingua nata e vissuta nell’oralità, arbëreşë, ha spesso animato le solite saette illuminanti, ma carenti di strumenti adeguati, per fare o costruire diplomatiche, terminando così per nel confondere la necessità del singolo con la virtù dei tanti.

Questo ha innescato paradossi senza eguali nel tentativo di codificare un patrimonio linguistico prezioso, si è talvolta ridotto in lagrimoso valore alfabetario, esponendo ogni cosa a misera favola frammentata, incoerente e svuotata di ogni sorta di attendibilità.

Tutto questo ha innescato vicende raccontate fuori dal tempo, errori reiterati, interpretati in forma gratuita o elementare e il tutto ha reso difficile trovare pieno agio nel presente, schiacciata tra un passato idealizzato e un futuro incerto.

Ed è proprio in questo contesto terminale che il modello di ricerca detto diplomatica diventa fondamentale e utile da svelare, in quanto come diceva e divulgava Michele Baffi, questa era l’unica attività in grado di restituire ordine, chiarezza al contesto storico anche per gli arbëreşë.

Infatti fu con lui che ha diplomatica diventa custode della verità e garante della dignità culturale, perché il ruolo non è solo quello di approfondire, ma di dare voce e struttura a ciò che rischia di perdersi nel rumore della confusione storica.

La narrazione, la rievocazione di eventi folkloristici, museali, musicali o legati alle credenze popolari, spesso vengono proposte nei modi e nei luoghi che appaiono, a dir poco, irriverenti se non inventati e privi di una radice che possa consolidare indelebilmente il senso di appartenenza.

Giacché ogni attività posta in essere, invece di restituire dignità e memoria a ciò che dovrebbe essere celebrato, termina con il rendere banale il passato, trasformandolo in spettacolo divertente e ironico, ma comunque voto di ogni logica e significato del rappresentato.

Tutti i tentativi, che non hanno avuto alla base una idonea diplomatica di studio, per quanto allestiti e colmi di tutte le possibili buone intenzioni, finiscono col tradire il vero senso della commemorazione e, la manifestazione culturale non è mai ciò che si vuole far comprendere, ma diventa un artificio, una messa in scena che mortifica la profondità e il significato originario della funzione che si voleva svolgere come santità culturale.

Si crea così una frattura tra ciò che è stato o realmente vissuto e ciò che viene esibito, svuotando di contenuto la memoria collettiva che termina sempre per stridere, senza mai apparire come opera di primo canto.

Anche per questo il protocollo di verifica della diplomatica è necessaria, per ristabilire almeno l’ordine cronologico della narrazione e, riportare coerenza, o ridare alla cultura minoritaria arbëreşë, non solo visibilità, ma soprattutto verità.

A tal fine, è necessario evidenziare quelle manifestazioni o luoghi per la diffusione in arti e vestizione che, senza alcuno scrupolo o senso di decenza, violano i significati profondi e le prospettive reali dei luoghi e delle attività in cui la storia ha avuto e deve continuare ad avere luogo di radice in fioritura.

Oggi, la memoria locale e persino la toponomastica raccontano una realtà ben diversa da quella messa in scena comunemente, da quanti non essendo adeguatamente formati seminano gratuitamente il fatuo più devastante.

Una realtà certamente difficile da cogliere per gli ignari fanciulli o il frettoloso viandante che si prodigano a fare ricerca e turismo distratto, ma che dovrebbe invece essere ben specificata, almeno ni confronti di quanti scelgono di addentrarsi nei vicoli della cultura arbëreşë, muovendosi tra simboli, memorie e significati antichi fatti di parlato e ascolto.

Se non si ha la lucidità per distinguere il vero dal falso e, sin anche alterato, sarebbe quantomeno auspicabile interrogare chi conserva ancora chiarezza di visione, anziché contribuire a una confusione che non educa, non onora e non tramanda niente.

Non da meno sono le ricorrenze di credenza popolare, che un tempo affondavano le radici in una profonda spiritualità, ma che oggi appaiono sempre più come simboli di festa vuota, quasi da “circo” e, non più credenza rivolta con lo sguardo e le braccia verso il cielo.

Il senso originario si dissolve sotto le luci delle celebrazioni moderne, dove la sacralità lascia spazio all’intrattenimento e, la memoria collettiva diventa sempre più labile, ridotta a una sequenza di gesti svuotati e ripetuti meccanicamente.

È così si perde ogni legame con la certezza come è il cielo, di contro l’invisibile avanza senza un domani possibile.

Il senso delle cose è ormai sfuggito, travalicando il recinto della decenza e della consapevolezza, fino a corrompere persino i gesti più semplici quelli più carichi di significato.

Anche il saluto, un tempo espressione autentica di riconoscimento, rispetto e appartenenza, è oggi spesso ridotto a una mera ricostruzione formale, una compilazione artificiale di lingua tradotta in latinico, svuotata di anima senso, movenza e privo di riverenza, in quanto forma ironica.

Non è più un segno vivo tra due persone, ma una formula elementare, priva della forza identitaria e relazionale che un tempo custodiva e si riverberava in questi vicoli di vita comune e condivisa.

Così, ciò che era naturale diventa imitazione; ciò che era sentito, diventa esibito e, quelle qui brevemente richiamate non sono che le manifestazioni più banali, potremmo dire da asilo infantile, di un problema ben più profondo o ampio dirsi voglia.

Se già nei gesti minimi o essenziali, come un saluto, si perde il senso originario, la misura, la consapevolezza, immaginate cosa accade quando il tema diventa più complesso, come ad esempio la storia, il costume, l’architettura, la psichiatria antropologica.

Lì, dove servirebbe uno strumento solido, e profondo, si assiste spesso a una rappresentazione disordinata, approssimativa, se non del tutto inventata per tracciare le cose che non sono delle figure illustri o della storia.

Il danno prodotto non è solo culturale e storico, ma etico, perché si tradisce la memoria, si confonde l’identità e si eleva troppa l’ignoranza velando con spessore la conoscenza.

L’auspicio qui in questo breve perseguito possano almeno smuovere qualche coscienza, anche se, in molti contesti locali, la radicalizzazione culturale e identitaria sembra seguire ben altra strada, insaccata con gesta di semplici restanti, disarmanti, sin anche dello storico imbuto per ben insaccare il budello suino.

Eppure, proprio qui, in questa piccola “scuola olivetana” la riflessione lenta e profonda ha ancora un senso relativo al termine “diplomatica” in quanto essa rappresenta la forma più estrema di resistenza possibile, fornita da chi torna Olivetano.

Non urlo, non rissa, ma rigore, equilibrio e cura della parola, in un mondo circoscritto ma si spessore e, la diplomatica non è semplicemente studio profondo, ma tessitura di elementi o meglio filamenti solidi capaci di custodire, una metrica, testimone silenziosa del vero.

Come insegna la storia di questi luoghi, non serve gridare per lasciare un segno, ma serve chiarezza, radicamento e coraggio nel dire le cose come stanno, anche quando il mondo intorno preferisce voltarsi dall’altra parte e non ascoltare.

Adesso su via tutti all’asilo a imparare l’ascolto, perché le correzioni degli errori del passato spettano alla diplomatica quella che dall’ottocento insegnava a distinguere i falsi dagli autentici e oggi, di falsi che parlano come se fossero veri, ne abbiamo troppi e, pure irritabili e senza un di decenza.

P.S.

La diplomatica è la disciplina che interviene quando la storia, basandosi su fonti false o manipolate, rischia di essere raccontata male, essa agisce come “strumento di verità”, che riporta sulla retta via le ricostruzioni storiche, smascherando falsi documenti, errori cronologici o interpolazioni.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-21

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TUTTI CON L’IDENTICO SCHEMA PER SOSTENERE LA COMMEDIA DI ARBËRIA (Chiamatela: Regione Storica Diffusa, Sostenuta, Parlata e Ascoltata in Arbëreşë)

TUTTI CON L’IDENTICO SCHEMA PER SOSTENERE LA COMMEDIA DI ARBËRIA (Chiamatela: Regione Storica Diffusa, Sostenuta, Parlata e Ascoltata in Arbëreşë)

Posted on 19 agosto 2025 by admin

Woman head full of things to do

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) -Uno schema irrigidito buio e dominante, sembra sovrastare la cultura letteraria arbëreşë, soffocando ogni slancio autentico e ogni tentativo di rinnovamento critico fatto di ascolto e parlato.

Infatti se si escludono le figure luminose di Pasquale Baffi del tempo passato e dell’Olivetano odierno, entrambi nati a Santa Sofia d’Epiro, il resto del letterario panorama appare come un’eco ripetitivo e privo di vitalità, intenta più a custodire frammenti identitari che a far evolvere un pensiero largo condiviso e vivo.

In questo contesto, ciò che si diffonde non è cultura, ma fatuo inquinante, che la conoscenza dell’uomo abbia mai certificato, riproduzione acritica, rituale oltre che sterile dell’eredità consuetudinaria, di pensiero e parlato, incapace di manifestarsi nell’ascolto moderno.

Le attività svolte dall’Olivetaro hanno prodotto risultati irripetibili, testimonianze vive di un impegno concreto e di un’intelligenza operativa capace di generare valore reale all’interno della comunità, aprendo temi sino a ieri ignorati e ritenuti inutili perché non tema alla portata dei rettangoli letterali.

Eppure, nonostante l’evidenza di tali esiti, si continua a preferire, per comodità, abitudine o convenienza, la teoria politica dell’Ischitano matto, figura grottesca che non smette di ripetere ossessivamente che si sta estinguendo.

E mentre le sue cose si disgregano, egli rimane imperterrito, a lamentarsi che la fine di questo luogo sia ferma sulla soglia di casa.

Una tragedia paradossale, dove la voce del delirio riesce a sovrastare quella dell’azione di una intera comunità, che tace e attende il nuovo messia, ignorando che non è ancora nato, mentre il vittimismo cronico ha più credito della lucidità epocale.

Se le attività svolte da Pasquale Baffi rappresentano un apice dimenticato della cultura arbëreşë, infatti egli, con rigore e lungimiranza, si dedicò allo studio e alla scrittura della lingua utilizzando caratteri che all’epoca non esistevano nel panorama tipografico italiano,

E il suo gesto di profonda consapevolezza filologica e visione linguistica non è ancora studiato dai prescelti moderni.

Tuttavia, durante le persecuzioni che lo portarono alla morte, i suoi manoscritti, furono sottratti e rieditati in stamperie partenopee, risultando, come da lui predetto, colme di errori grammaticali, disonestamente a firma altrui.

E oggi, gli ignari letterati, più inclini alla superficialità che allo studio, si fermano a osservare, con fredda miopia, che di suo non esisterebbe nulla di “sottoscritto”.

Inconsapevoli, e qui nasce la misura culturale di questi prescelti, che non conoscono il valore di una teoria, di un’intuizione storica, la quale non risiede nella presenza di una firma autografa, ma nella profondità dell’impronta lasciata sul pensiero, nella coerenza del metodo e nella forza della visione.

La ricerca storica, se onesta, non ha bisogno di firme, ma di occhi capaci di vedere e menti disposte a comprendere per tessere una tela solida.

Siamo ormai ben oltre i limiti del decoro culturale e, i confini dell’apparire hanno superato ogni soglia di decenza immaginabile.

Si parla di borghi, giardini, piazze vicoli, chiese e costumi “arbëreşë” come se bastasse un nome o un’insegna per dare corpo a un’identità.

Si moltiplicano progetti, iniziative e allestimenti “a tema” che, sotto la patina della valorizzazione, nascondono spesso una profonda inconsapevolezza o peggio, una forma di appropriazione priva di rispetto.

La cultura non si improvvisa, la memoria non si mette in scena, lo spazio non è solo circoscritto o volume, ma è storia, lingua, rito, parlato, a cui seguono ascolto e relazioni.

Comunque troppo spesso chi interviene lo fa senza avere il minimo barlume di consapevolezza, senza essersi prima educato all’ascolto, alla complessità, alla responsabilità.

Forse è giunto il momento di rimettere al centro una parola che sembra dimenticata: educazione. Educazione non come formalità, ma come capacità di stare in relazione con ciò che non ci appartiene, con ciò che ci precede, con ciò che si custodisce e non si sfrutta.

Perché non si può parlare di cultura senza cultura, non si può parlare di arbëreşë senza conoscere, almeno, il peso delle radici che si nominano.

Quelle che vediamo sono soltanto apparizioni estive: sagre, eventi, allestimenti temporanei che indossano solo l’etichetta dell’“arbëreşë” come un costume di scena, al fine di passare lasciare qualche foto o immagine e poi svanire.

Ma il vero problema è altrove, perché tutto viene retto da un sottobosco istituzionale, opaco e silenzioso, che preferisce non illuminare, ma continuare a produrre e spesso a diffondere contenuti, narrazioni e azioni prive di ragione, contesto o fondamento.

Nessuno ne rileva la portata, nessuno ha un metro per misurare il danno e, mentre tutto ciò accade, giorno dopo giorno, le comunità e le loro pertinenze, linguistiche, simboliche, territoriali, restano sempre più isolate, più marginali, più sole.

Non si tratta solo di disattenzione ma di un lento svuotamento, si parla di cultura senza vivere nella cultura; si nominano le tradizioni senza custodirne il senso.

In questa deriva, l’“apparire” vince sull’essere, e l’istituzione abdica al suo ruolo di guida, diventando essa stessa parte del problema.

Chi è nato ascoltando il parlare con saggezza, in famiglia, per strada e, nelle occasioni solenni, conosce ogni inflessione, ogni variazione di pronuncia, ogni sfumatura di significato che la lingua custodisce.

Sa distinguere non solo le parole, ma il modo in cui si dicono, perché questo parlato antico non è solo comunicazione, ma una memoria incarnata, nella relazione e la postura del pensiero.

Oggi, invece, basta ascoltare una canzone “tradizionale”, un racconto ricostruito, un rituale di vestizione per provare un senso profondo di spaesamento.

Non per nostalgia, ma per coscienza, perché in quelle forme che si vorrebbero rappresentative si avverte, troppo spesso, l’assenza di una formazione e, la mancanza di radici vere e, se a questo si aggiunge il vedere la leggerezza con cui si maneggia qualcosa che richiederebbe cura, studio, ascolto lungo si vorrebbe diventare, sordi muti e ciechi.

E allora viene meno anche la voglia di aprire un dibattito, perché parlare con chi non ha mai davvero imparato ad ascoltare, rischia di diventare un esercizio sterile.

Resta soltanto una filiera ristretta di “restanti”, sprovvista di strumenti e, priva della profondità necessaria a dare senso a ciò che fa o dice.

L’arbëreşë, come ogni cultura viva, ha bisogno di conoscenza, non di imitazione, non di spettacolo, ma di studio che deve venire dall’ascolto e non dai depositi scrittografici del potere indigeno.

Se escludiamo figure come i fratelli Giura e Vincenzo Torelli, ci troviamo di fronte a un vuoto reale, non solo di contenuti ma di coscienza.

Giura fu quel pensiero arbëreşë, capace di concepire il primo ponte a catenarie al mondo; oggi è l’orgoglio di chi sogna di unire il continente nella punta Reggina con l’isola di Messina.

Vincenzo Torelli, arbëreşë originario di Barile, è noto per aver fondato riviste come Indipendente e Omnibus all’inizio dell’Ottocento.

Ha svolto un ruolo nell’aprire lo spazio culturale, criticando alfabeti troppo elitari e promuovendo una scrittura più accessibile.

Il suo approccio si inseriva effettivamente in un’idea di fare cultura dal basso, rendendo accessibili testi, alfabeti, e riviste a comunità linguistiche e culturali meno rappresentate.

I suoi discendenti hanno introdotto diverse innovazioni editoriali, rubriche e ampliamento del numero di pagine, passando anche a edizioni domenicali più ricche.

Tuttavia, queste erano rubriche interne al giornale, non inserti staccabili o supplementi autonomi in stile mode.

Un modello difficile da raccontare perché è fatto proprio di assenza e trovare ad oggi le voci giuste per costruire pensiero, di generare visione, di dare forma all’arbëreşë, non solo come passato, ma come progetto condiviso tra parlanti che sanno ascoltare e comprendere quel pensiero di vicinato lasciatoci in eredità dalle nostre sagge madri.

E se proviamo a guardare oltre le apparenze, a cercare chi oggi davvero produce pensiero rigoroso, fondato, utile alla collettività, ci troviamo di fronte a una verità difficile da accettare.

La desertificazione non è solo linguistica, ma intellettuale, scientifica, sociale e, manca un pensiero articolato, mancano strumenti critici, manca un progetto di lungo respiro.

Mentre ciò che resta, sono frammenti di lingua, folclore riciclato, rappresentazioni spesso inconsistenti che si trasformano o sono intese come vaneggiamenti inutile, incomprensibile, sterili.

Raccontare tutto questo è difficile, scriverlo, ancora di più e la sensazione di parlare nel vuoto è quella che più si avverte.

Eppure, è proprio da qui che bisognerebbe ripartire, la consapevolezza di questo vuoto, per non continuare a riempirlo solo con rumore a parlato incomprensibile che nessuno sa ascoltare.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-19

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STORIE E TEMI D’AMORE INIZIATI E MAI TERMINATI IN TERRA DI SOFIA doitë ishja gnë sòghë e gnë vùlatë e bëja thë kiarmidètë e malitë dojtë veja

STORIE E TEMI D’AMORE INIZIATI E MAI TERMINATI IN TERRA DI SOFIA doitë ishja gnë sòghë e gnë vùlatë e bëja thë kiarmidètë e malitë dojtë veja

Posted on 17 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tra i vicoli silenziosi colmi di lamenti, dove le pietre parlano e ascoltano arbëreşë e, il tempo sembra essersi fermato,  le passioni segrete sono transitate, sussurrate tra le ombre di tegole, finestre e balconi.

Amori ostacolati in codice d’onore, perché storie mai raccontate o trascritte, i cui frammenti restano impresse nella memoria collettiva, poche  diffusamente accennate.

Questo breve diplomatica raccoglie frammenti certi di quegli amori impossibili, vissuti nel cuore di un mondo sospeso tra appartenenza e desiderio in Terre di Sofia.

A tal proposito è opportuni iniziare parlando del  giovane Orlando che cresceva in silenzio tra i vicoli pietrosi e muri senza intonaci dove non si riverberava il parlato in due lingue, ma taceva le verità più intime delle amate in pena.

Osservando la zia Clementina, seduta davanti la porta di casa col fazzoletto nero annodato sul capo, mirando lo sguardo verso quel lavinaio in salita oltre la fontana, aspettando invano.

Non il ritorno di suo marito, morto da anni in guerra, ma del figlio, che da settimane non dava notizie dopo l’ultimo appuntamento chiarificatore con quella ragazza ‘nel pascolo di montagna’ lo stesso che mai nessuno da allora ha mai più nominato e ne visto un lieto ritorno.

L’amore, tra quelle mura antiche, era un lusso per pochi e, per gli altri, era una lotta contro il sangue, la lingua, e l’onore delle famiglie.

E Orlando, che ascoltava e imparava a comporre e cantare, intonando frasi segreta da far capire come si deve amare, in un paese che custodisce se stesso come si custodisce un segreto e, siccome cantava piano per la sua amata, tra i campi e le viuzze del Katundë, immaginava di essere un passerotto.

Un piccolo uccello leggero, capace di volare sul tetto della casa dove lei dormiva, figlia del fabbro, promessa a un altro e, da lassù guardarla senza essere visto.

Diceva che il tetto sarebbe stata l’unica frontiera tra i loro mondi, ma siccome lui era un passerotto, avrebbe potuto costruire lì il suo nido.

E restare per sempre con lei, vicino ma libero, piccolo ma tenace, mentre il resto del paese continuava a fingere di non sapere.

Un altro episodio, mai raccontato ad alta voce, ma rimasto impresso come una cicatrice sottile, era quello di Maria, la quale quando incontrava gennaro che sapeva e, sapeva tutto dell’accaduto, non lo salutava con le parole vuote di oggi, in forma di Mirë-ditë o Mirë-natë, ma con gesti rapidi e senza guardarlo, gli diceva:
«Vivo ancora con il cuore strappato come lo è stato per il cuore del  mio amato, senza altro poi aggiungere.

Una frase che non era né un saluto né un addio, ma qualcosa a metà tra una preghiera e un lamento e, Bastava quello per rendere partecipe mio padre alla perdita di un suo fratello mancato.

Il dolore non ha mai avuto bisogno di essere spiegato  nel vivere di questo Katundë, tra quelle case strette e quelle famiglie attente, l’amore proibito non si urlava, perché si portava in volto per lasciarlo intorno con i battiti del cuore e degli occhi e, nulla più.

C’era anche Adelcisa, che tutti chiamavano la zitella, ma che in verità aveva amato più profondamente di chiunque altro.

Il suo amore abitava a pochi metri da lei, prima vicino di casa, poi dirimpettaio, separato solo da una depressione torrentizia e da anni di silenzi imposti.

Per Adalcisa l’artista non fu mai il suo amore dirimpettaio, perché egli rivesti solo il ruolo di fumista, di una storia immaginata e, che non ebbe mai inizio nella realtà, in quanto il ruolo di regista venne rivestito da fratello, l’insensibile.

Non si erano mai toccati, ma promessi con le parole giuste e da allora null’altro poteva servire a quella promessa data.

Ma ogni giorno, con una fedeltà più tenace del tempo che scorreva, Adalcisa stendeva i suoi panni bianchi sul balcone: fazzoletti, lenzuola, camicie mai indossate.

Era il suo modo per dire «Ti ricordo», «Ti amo ancora», «Il mio amore è rimasto candido come queste stoffe».

Nessuno nel vicinato osava commentare, ma tutti capivano, quello che rappresentavano quei panni stesi al sole che tramonta e, c’era più verità che in mille parole.

E lui, dall’altra parte, apriva la finestra ogni volta per dare la risposta, anche quando non faceva caldo.

Lei, che per amore si era inchinata al volere dell’insensibile, non per debolezza, ma per scelta, con la forza di chi sa amare senza essere riamata come merita.

Aveva accettato tutto, anche di pulire le stalle di famiglia, chinandosi ogni mattina nel fango, senza mai sporcare il proprio cuore.

Non lo faceva per sottomissione, ma per un sogno tenace: che un giorno, la morale fraterna, quella legge non scritta che decide chi è degno e chi no, le concedesse di camminare, finalmente, al fianco di quell’amore negato, come una moglie, ma senza anello, come una regina, ma senza trono, come una donna, piena di dignità, che ha scelto di non fuggire.

Non da meno è la conseguenza denigratori ancora oggi in atto dopo, subita da chi non ho mai potuto approvare, né tacere, la sottrazione dell’amata Maria ad un fraterno amico, presa non per amore da un insensibile, ma per interesse e, per garantire una probabile solidità economica.

Eppure, il futuro, quello stesso futuro tanto calcolato, per lei fu disastroso e, colmo di dispiaceri, delusioni e pene come vivere nell’inferno per finire poi di essere attratta.

All’inizio tutto sembrava promettente, benedetto forse dal denaro o dalle apparenze, ma ben presto il tutto si rivelò peggio di un serpente, silenzioso ma pronto a mordere al cuore.

E quel serpente, ci fu chi lo disse, lo vide, lo riconobbe e, non sbagliava bersaglio.

La previsione fu precisa cosi come la ragione e, in certi patimenti di cuore, non perdona, specialmente quando svela quella le verità che tutti preferirono ignorare.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            2025-08-17

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TEMI DEI DICTA IN: ARBËRIA, BORGO, VICINATO E MUZEU, LE PENE INFINITE ARBËREŞË (i vunë edè bërlcunë bjbilljavetë)

TEMI DEI DICTA IN: ARBËRIA, BORGO, VICINATO E MUZEU, LE PENE INFINITE ARBËREŞË (i vunë edè bërlcunë bjbilljavetë)

Posted on 13 agosto 2025 by admin

aaaaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel dibattito pubblico e nei discorsi divulgativi, in conferenze e lezioni scolastiche dalle elementari sino ai capitoli di tesi, sono continuamente riportati elementi di conoscenza sommaria o da intenti elementari con gli arbëreşë protagonisti di sonorità linguistici e concettuali inopportuni.

I termini ricorrenti come: Arberia, Borgo, Vicinato, Muzeu, sono con ostinazione utilizzati come emblemi identitari, ma svuotati di ogni genere di contesto storico, culturale a loro attribuibile.

Il ripetersi e il susseguirsi di queste parole, presentati in ogni dove come “marcatori dell’appartenenza etnico-linguistica”, produce una narrazione con una forte deriva degenerante, a tratti infantilizzante, che riduce una complessa vicenda di migrazione, resistenza culturale, trasformazione e stratificazione storica a un racconto edulcorato, stereotipato e sin anche irrispettoso.

Il rischio di queste semplificazioni non è solo quello di alimentare un’immagine distorta della minoranza arbëreşë, ma anche quello di tradire il senso profondo della sua memoria storica brillante e irripetibile.

Infatti, parlare oggi di “Arberia” come se fosse un’entità omogenea, atemporale e quasi mitologica, significa ignorare le profonde differenze territoriali, linguistiche, storiche e politiche che attraversano i gruppi arbëreşë delle sedici macroaree diffuse del meridione Italiano.

Significa anche sorvolare sul fatto che l’identità è stata, fin dalle origini, il risultato di processi di adattamento, conflitto, conservazione e mediazione culturale molto distesa e diffusa.

Allo stesso modo, l’abuso di termini come Borgo e Muzeu, riduce la vitalità di queste comunità a una rappresentazione da cartolina o da esposizione museale, congelando la loro storia in un eterno presente turistico e spettacolarizzato.

Il “borgo arbëreşë” diventa, in questo contesto, non un luogo vivo, ma una scenografia senza il suo tempo e, il “museo” si trasforma da strumento di documentazione e riflessione storica a vetrina statica di “tradizioni” selezionate e decontestualizzate specie quando millanta la conservazione della consuetudine di vestizione.

Questa premessa vuole dunque aprire un discorso critico e storicamente fondato sull’identità di una specifica minoranza e sulle modalità con cui essa viene rappresentata e deve essere raccontata nel presente.

È necessario liberarsi da un certo linguaggio appiattito, figlio dell’ignoranza o del marketing identitario, della prostrazione moderna alla terra di appartenenza, da cui gli arbëreşë si dissociarono per conservare e sostenere la semplice radice storica, divenendo oggi realtà che, per secoli, ha saputo resistere, ibridarsi, ridefinirsi e trasformarsi in linea con il suo passato.

Nel linguaggio comune, “Arbëria” viene spesso utilizzata per indicare genericamente “il mondo arbëreshë”, come se esistesse una regione riconoscibile, coerente, geograficamente delimitata e culturalmente unitaria.

Questa espressione, però, porta con sé un’ambiguità di fondo, che da un lato aspira a dare coesione a comunità sparse, dall’altro rischia di costruire una mitologia semplificata e, per certi versi, autocommiserante.

Il termine “Arbëria”, nella sua attuale accezione popolare o “promozionale linguistica”, è figlio più della nostalgia che della storia.

Non è un toponimo antico, ma una costruzione recente, spesso impiegata in chiave promozionale o turistica e, nel peggiore dei casi, è un contenitore identitario ad uso e consumo di una retorica autoreferenziale e, produce un effetto contrario, perché, invece di emancipare, infantilizza, invece di aprire al confronto, chiude nella comfort zone di una memoria idealizzata che non è altro che una egocentrica menzogna.

Il paradosso è che “Arbëria” viene spesso brandita come emblema di orgoglio identitario, ma funziona, nei fatti, come una categoria riduttiva, quasi dispregiativa, perché colloca le comunità arbëreşë in una specie di “isola linguistico-culturale”, separata dal mondo reale, che non poteva generare una storia così forte e complessa.

È un po’ come dire “sono di Arbëria”, allo stesso modo in cui un italiano all’estero potrebbe essere etichettato con lo stereotipo “Polentone”, definizione spoglia di contesto, semplificante, e spesso utilizzata con ironia o condiscendenza.

L’ironia, però, qui si ritorce verso l’interno, è l’autoritratto che lascia immaginare riferisce solo di una parte della comunità, privandola cosi di ogni consapevolezza identificativa.

Parlare di “Arbëria” come se fosse un luogo reale che univa un popolo, un’entità organica o una “nazione culturale” compatta, è una forma di autoesotizzazione.

Rende i discorsi sull’identità arbëreşë accattivanti per l’esterno, ma sterili all’interno e, soprattutto, impedisce di vedere la reale condizione di queste comunità, che oggi vive la marginalità sociale, decadenza demografica, perdita linguistica, e un profondo scollamento tra narrazione e vissuto.

Lo studio della geografia umana ci insegna che i luoghi abitati dall’uomo possono essere classificati secondo diverse categorie, ovvero: Regioni Storiche, Regioni Ambientali e Regioni Politiche.

Questa tripartizione è fondamentale quando si cerca di definire lo spazio che occupano, o che hanno occupato le comunità caratterizzate da specifiche identità linguistiche, ambientali culturali e storiche.

Nel caso degli arbëreşë, il ricorso generico al termine “Arbëria” risulta, da questo punto di vista, inadeguato e impreciso.

Esso non corrisponde a nessuna delle tre tipologie canoniche di regione, non essendo riconosciuta politicamente, non ha coerenza ambientale, e storicamente è una finzione narrativa costruita a posteriori.

Al contrario, il concetto di regione storica diffusa arbëreşë può rappresentare in modo molto più coerente e fedele alla realtà.

Si tratta di un insieme di comunità che, sebbene dislocate in territori non contigui, sono accomunate da un’origine storica condivisa (la migrazione di popolazioni albanesi tra il XIV e il XV secolo), da una lingua comune (l’arbëreşë), da pratiche religiose specifiche (rito bizantino-greco), e da elementi culturali riconoscibili.

Il termine diffusa è qui essenziale, come avviene per le fratrie (gruppi parentali presenti in più luoghi ma legati da memoria, tradizione e origine), la regione storica arbëreshë non si definisce per continuità spaziale ma per coerenza culturale e per relazioni storiche profonde.

I Katundë sono sparsi tra la Calabria, la Sicilia, la Basilicata, la Campania, l’Abruzzo, il Molise e la Puglia, eppure condividono un patrimonio immateriale e del costruito storico che li unisce oltre la frammentazione territoriale.

Infine, questa regione storica diffusa è sostenuta nella lingua arbëreşë non è solo un codice di comunicazione, ma anche un sistema simbolico che lega i luoghi alla memoria parallela e all’identità.

La lingua arbëreşë, pur con le sue varianti, funge da collante e da infrastruttura immateriale che tiene insieme l’intero “arcipelago delle comunità”.

È nel linguaggio che la regione storica si fa viva, resistente, resistente alla dispersione e alla dimenticanza.

L’intera regione storica è legata da una radice linguistica essenziale, che affonda le sue origini nell’Arbëreşë.

Questa lingua, tramandata oralmente per secoli, descrive il corpo umano, i suoi bisogni primari, e tutto ciò  che l’ambiente offre attraverso la natura per garantirne la sopravvivenza.

Ogni parola è intrisa di un sapere arcaico, strettamente connesso alla terra, agli elementi, e al vivere quotidiano in equilibrio con il mondo naturale, in tutto è una lingua che non solo comunica, ma custodisce un’identità profonda e resistente che rende tutti i parlati uguali.

Per questo motivo, parlare oggi di regione storica diffusa arbëreşë

, e non genericamente di Arbëria, non è solo un’esercitazione terminologica, ma un atto di rigore concettuale e di rispetto verso una realtà storica complessa, che ha bisogno di categorie adeguate, per essere compresa e rappresentata.

Aprire una diplomatica sulle pene della Gjitonia paragonata impropriamente dai non parlanti, al semplice “vicinato” rivela il baratro culturale in cui, dal 1990, sono stati proiettati i meno adatti dal promontorio del sordo.

Una deriva che rappresenta la pena storica senza eguali, sintomo della perdita di un tessuto sociale profondo, comunitario e solidale, sostituito da legami deboli e da un lessico spogliato di memoria.

Un altro termine ricorrente, usato spesso in modo acritico nelle narrazioni sui paesi arbëreşë, è borgo, parola, oggi largamente impiegata in ambito turistico, mediatico e, porta con sé una connotazione romantica, ma anche una precisa stratificazione storica ed etimologica.

Borgo, infatti, ha radici germaniche (burg), e indica originariamente un luogo fortificato, gerarchico, organizzato secondo una logica di difesa e controllo, una sorta di centro chiuso, definito da una struttura piramidale, con un chiaro ordine sociale e spaziale.

Il borgo nasce e si sviluppa come espressione del potere feudale e urbano medievale, e in Italia è spesso associato a contesti etnici o culturali molto diversi da quelli degli arbëreşë.

Applicare questo termine alle minoranze in senso generale, significa compiere un’operazione di cancellazione simbolica e culturale.

Le comunità minoritarie non si sono insediate in “borghi”, ma hanno costruito, o ricostruito,villaggi che nella loro lingua e struttura socio-economica si chiamano katund, Hora e Civitas.

Essi non sono solo un sinonimo di “villaggio” o un modello antropologico, ma una forma di insediamento aperta, partecipativa, legata strettamente all’agro circostante, dove i rapporti tra gli abitanti non erano definiti da rigide gerarchie feudali, ma da reti di collaborazione, solidarietà e parità relativa.

Questi centri antichi, non sono un insieme chiuso e isolato, ma una comunità in dialogo con la terra, il paesaggio e gli indigeni.

Le minoranze nel meridione, non giunsero per fare guerre, sopraffare e dominare, ma solo per convivere parimente con gli indigeni.

Nel katund, le relazioni sociali e familiari erano fluide, spesso organizzate secondo logiche di mutualità tra generi, famiglie estese e confraternite religiose.

Il sistema comunitario, almeno nelle sue forme originarie, rifiutava la verticalità del potere tipica del borgo feudale, promuovendo invece un modello di convivenza basato sul consenso, sul confronto, sull’equilibrio tra individualità e collettività.

Questo rende ancora più stridente l’adozione del termine borgo nel parlare corrente e istituzionale, un termine che oggi viene usato per promuovere un’immagine turistica ed estetizzante, ma che è, nei fatti, l’esatto opposto della realtà storica, sociale e dei principi delle comunità arbëreşë.

Recuperare il Katundë, o quantomeno riconoscere la differenza strutturale tra borgo e Katundë, non è un vezzo linguistico, ma un atto di rigenerazione culturale.

Serve a rimettere al centro una visione dei Katundë descritti per ciò che sono stati e, in parte sono ancora, in tutto una continuità resiliente, aperta, solida, agricola e, paritarie; l’opposto della visione chiusa e verticalizzata che il termine borgo implicitamente richiama e ricorda.

Chiudiamo questo percorso critico con l’ultimo termine della retorica più abusata e diffusa nelle narrazioni dell’identità arbëreşë: ovvero il Museo, spesso trascritto come Muzeu in un tentativo di “traduzione” pseudo-linguistica, molto ma molto elementare.

Si tratta, ancora una volta, di un uso meccanico e inconsapevole del linguaggio e, la parola Muzeu, così com’è usata, in numerosi e continui contesti locali, non è frutto di un’elaborazione culturale autonoma o di un adattamento linguistico profondo, ma una semplice copiatura fonetica dell’italiano, svuotata di pensiero (pà mendjë, direbbero gli stessi arbëreşë che fanno memoria storica).

Il museo, per definizione, dovrebbe essere uno spazio di conservazione critica, di interrogazione della memoria, di trasmissione dinamica della cultura.

Ma nella realtà di molti contesti, il Muzeu, si riduce spesso a vetrina, a contenitore di oggetti “tipici” esposti senza contesto, a una galleria dell’ovvio o racconto a dir poco, irreale se non addirittura elementare e, per questo sin anche sgrammaticato.

Non racconta la storia, la semplifica, non interroga il passato, lo imbalsama e, ogni cosa esposta è il contrario di quello che servirebbe a una cultura minoritaria.

Da ciò si deduce che esso non è un momento di memoria che resiste e fa autoriflessione, ma una cartolina per turisti distratti o per discorsi istituzionali autoreferenziali.

In più, il Muzeu è raramente un luogo vissuto, perché non è inserito nel tessuto attivo della comunità, non parla con la scuola, non dialoga con i giovani, non si connette alla lingua e con le cose che qui hanno sostenuto la storia.

È spesso una struttura statica, decorativa, che separa il passato dal presente invece di tenerli in tensione creativa, per questo, il Muzeu è la prova finale di quanto sia debole, e per certi versi inconsapevole, la gestione della memoria di un luogo specie se di minoranza ancora oggi, un’archeologia dell’apparenza, più che un archivio critico del vissuto.

Come per Arbëria e Borgo, anche qui l’abuso del termine (e del concetto) produce l’effetto contrario a quello desiderato e, invece di rafforzare l’identità, la cristallizza, invece di formare coscienza, costruisce una rappresentazione.

Il Muzeu dovrebbe essere mente, pensiero, costruzione collettiva, ridotto a semplice etichetta, in tutto è l’ennesima occasione perduta per trasformare la memoria in progetto.

Se in questi elevati trovano esposizione allestimenti in forma di sposa, festa, mezza festa, giornaliero, di lutto e di mezzo lutto, si può da questi temi, cogliere la mancanza di ogni ragionevole atto di esposizione che termini nel fatuo più velato e polveroso posto sotto vento e, quindi senza un domani.

Cosa che troverebbe più ragionevole il percorso che porta la donna a percorrere il percorso tra casa chiesa secondo il protocollo Olivetano che la vuole; Donna, Sposa, Regina della casa e del fuoco, Vedova in certa e Vedova, secondo il volere di nostro Signore, sino alla fine dei suoi giorni e, sempre in rappresentanza di vestizione.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-13

 

 

 

 

 

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LA RESTANZA DI GHIANDE NON È COME CHICCHI D’UVA CHE FANNO BUON VINO  llihëdjà nënghë, bën verënë e mjrë

LA RESTANZA DI GHIANDE NON È COME CHICCHI D’UVA CHE FANNO BUON VINO llihëdjà nënghë, bën verënë e mjrë

Posted on 12 agosto 2025 by admin

Uva e GhiandeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tra una figura di rilievo e una più modesta c’è la stessa differenza che passa tra un chicco d’uva e una ghianda, il primo nasce pronto, dolce, apprezzato subito, colmo di succo e attenzione; l’altra è dura, grezza, passa inosservata, ma se lasciata al tempo giusto può rifiorire ma sempre identica e quercia.

Ad oggi, le figure che si muovono nello scenario culturale di minoranze storiche, sono diffusamente associabili a ghiande mentre, quanti sono e meritano considerazione come si fa con un chicco d’uva, sono identificati come germoglio di un aceto possibile.

Ci sono uomini il cui valore si manifesta con chiarezza, come un chicco d’uva maturo, dolce, pronto, lucente, capace di portare gioia e nutrimento con la sola presenza è, poi ci sono gli altri, che, pur avendo forma, condividono ben poco con quel percorso naturale che fa il vino buono.

Mentre le ghiande, dure, grezze, e utili a scopi ben più modesti, fanno restanza per essere cibo dei suini.

Ora, non si vuole negare che anche la ghianda abbia un ruolo nel ciclo della natura, ma confonderla con un frutto di vigna è un insulto senza precedenti fatto alla ai generi naturali.

Non è superbia riconoscere il proprio valore, è solo lucidità e, se qualcuno si offende sentendosi chiamato per ciò che è veramente, dovrebbe preoccuparsi meno del paragone, e un po’ di più del proprio contenuto o prestanza verso la società.

Tuttavia, va detto che proprio i più modesti, quelli senza spina dorsale, né idee proprie, sono spesso i primi a farsi eleggere.

E non per merito, bensì perché funzionali, innocui, docili e, predisposti ad essere manovrati, sollevati non dal popolo, ma dai poteri forti o, da chi muove i fili nell’ombra e, poi infondo tanto, si sa, non comanderanno mai davvero, perché inclini ad eseguire e obbedire.

E così, il chicco d’uva che avrebbe potuto portare dolcezza si trasforma in aceto, ma non un aceto nobile, da tavola raffinata, no, uno aspro, torbido, che corrode e guasta.

E chi paga il prezzo di questa trasformazione, sempre i soliti, i meno abbienti, gli ultimi, quelli che con fiducia hanno riposto speranza in un frutto che si è rivelato marcio dentro che in apparenza sembrava buono ma il suo animo nasceva per fare aceto.

Il paradosso è crudele, chi non ha il coraggio di decidere, finisce a decidere per tutti, specie chi non sa comandare, governa, non per sé, ma per conto dei terzi è sicuramente il più dannoso.

Come una marionetta lucidata per sembrare statista, in questo gioco, la ghianda non diventa quercia, ma maschera, e il popolo, continua a raccogliere frutti avvelenati, illudendosi che vengano dalla vigna.

Oggi, viviamo in un tempo in cui la forma conta più della sostanza, e l’obbedienza viene premiata più della competenza, in tutto, i modesti, i mediocri, si fanno strada non per visione o capacità, ma perché si rendono utili a chi il potere lo esercita davvero, dietro le quinte.

Sono proprio questi, i più accomodanti, a farsi eleggere con l’appoggio silenzioso dei poteri forti, perché tanto non decideranno nulla in fondo essi non guidano, non pensano, non producono domani, ma eseguono fatuo, ed è proprio per questo che vengono scelti.

Non perché brillano, ma perché non disturbano l’ombra di chi comanda e, così, quello che poteva essere un chicco d’uva, simbolo di dolcezza, speranza e maturità, si trasforma in aceto aspro, che invece di arricchire, rovina l’intero apparato sociale.

E chi ne paga il prezzo, purtroppo sono i cittadini fragili, quelli che da quel chicco aspettavano un nutrimento culturale come fa la fonte lungo la via dopo i tempi del lavoro

Ma purtroppo a rimetterci, come sempre, quanti subiscono le decisioni senza aver mai davvero potuto partecipare o esprimere pareri di tema fondamentali per la nostra cultura.

Oggi deve avere termine la stagione dei giullari travestiti e lucidati per sembrare statisti, siamo stanchi di ghiande travestite da frutti nobili, è giunto il tempo di smettere di premiare l’obbedienza cieca e, iniziare finalmente a scegliere chi ha il coraggio di decidere, chi ha visione aperta delle cose, chi non deve dire ‘sì’ per forza a chi lo ha innalzato in quello scanno che va sol a vento.

La democrazia non può essere una vetrina dove si espongono pupazzi, ma un abbraccio dove fare accoglienza la stessa che fa un luogo di verità, di responsabilità e, soprattutto, di dignità culturale.

È inutile esaltare ciò che, per sua natura, non può evolvere in qualcosa di valido o fruttuoso, proprio come una ghianda, che pur potendo crescere in una quercia, non darà mai un frutto commestibile, non ha senso attribuirle un valore che non le appartiene, né biasimarla come si farebbe con un chicco d’uva diventato aceto.

Le cose vanno giudicate per ciò che sono e per ciò che possono realmente diventare, non per ciò che si vorrebbe che fossero.

Non ha senso esaltare la ghianda ancora verde come se fosse un frutto di pregio, né attribuirle la colpa che si dà a un chicco d’uva diventato aceto: la ghianda, per quanto ci si ostini a volerla nobilitare, resterà sempre ciò che è, incapace di diventare un frutto da cui trarre piacere o nutrimento.

Al contrario, un vero chicco d’uva che parte e, al ritorno non porta restanza, ma trasformazione, non è mai aceto, ma parte viva di un vino che tutti sanno riconoscere come eccellenza.

E se lo stupore locale inizialmente lo rifiuta, dovrà presto ricredersi, perché, appena quella bottiglia verrà stappata e i suoi aromi invaderanno l’aria, ogni dubbio cadrà, lasciando solo il segno di una vite buona, capace di parlare a chi sa ascoltare.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-12

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LE CLASSI ALTE DALLE BASSE DISTINE COME LE ACQUE DI LEVANTE E DI PONENTE katundi hëştë i bëne me drelljàrti i dreshjmi, stà-ngòj e morj-itë

LE CLASSI ALTE DALLE BASSE DISTINE COME LE ACQUE DI LEVANTE E DI PONENTE katundi hëştë i bëne me drelljàrti i dreshjmi, stà-ngòj e morj-itë

Posted on 09 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel tempo in cui la Storia ancora si scriveva col passo lento delle alleanze e le promesse solenni, il cuore dell’antico Katundë cresceva e prendeva forma secondo un equilibrio pacifico.

I capitoli tra i migranti e i principi trovavano agio e modo per essere trascritti e, il centro antico poté essere spartito secondo un ordine nuovo, ma profondamente radicato alla memoria di uomini, alla ricerca di un nuovo futuro di convivenza.

Il centro antico, a quel tempo ancora non proprio concepito solidamente, si distese come un ramo a memoria dei due pensieri: la parte alta, rivolta a nord, fu concessa ai nobili e alle famiglie di sangue antico pronto ad essere garanzia; la parte bassa, che volgeva a sud, ai meno abbienti tra cui, artigiani, mercanti e a chi della nobiltà non conservava che il ricordo nei racconti e il contatto con l’agro produttivo.

Ma era lì steso un altro confine, più sottile e più potente, che attraversava entrambe le parti, ovvero un antico limite segnato dalla natura e, da una promessa, quella di non procedere oltre la linea invisibile che divideva l’oriente dall’occidente, perché lì un tempo si disponeva il canale sacro delle acque potabili.

Questo confine, trovava il suo baricentro proprio dove oggi si apre la il Largo davanti alla antica scuola estiva dei Vescovi, il luogo di silenziosa memoria studio e credenza, ma anche di autorità spirituale, come se la promessa originaria, affidata alla custodia delle più alte figure delle scuole di formazione del Katundë.

Fu lì che i padri fondatori, si strinsero le mani, giurarono davanti al cielo con testimone il solco immaginario tracciato sulla terra, che divenne invalicabile e, avrebbe determinato il destino delle genti unite per un comune ideale di rispetto e solidità sociale.

A est, l’acqua era limpida, abbondante, e con essa, le case si intersecavano tutte sulla via per l’acqua, da allora in avanti risorsa nota come stà-ngòj.

Tutti i tetti del centro antico erano ben inclinati, e indirizzati per sanificare la soglia di casa con le aque meteoriche e le strade riflettevano luce della fontana pertinenziale.

Chi abitava ad est era cresciuto nel rispetto di quel confine invisibile, non per paura, né per legge scritta, ma per fedeltà a una parola data.

E proprio nella fedeltà alla promessa si sviluppò un senso dell’ordine e dell’equilibrio che diventò cultura, costume, identità qui ad ovest denominato morj-itë.

Così, anno dopo anno, secolo dopo secolo, il baricentro del patto, oggi calpestato da passi ignari nel Largo dei Vescovi, continuò a pulsare nel cuore, nascosto nel centro antico, come un punto d’equilibrio che non può essere spostato senza che tutto, prima o poi, si spezzi.

Fu nel 1919 che la strada provinciale, fece scivolare verso il basso quell’antico confine, tracciando il suo corso nuovo e deciso, cancellò l’antico, che per secoli aveva separato gli abitanti dell’alto da quelli del basso.

Eppure, proprio lì, tra le due fontane, quel limite parve resistere, saldo e immutato sino agli anni trenta del secolo scorso quando un nuovo modo di attingere acqua si unifico nella nascente prospettiva politica e religioso del ventennio in atto.

Il confine dell’acqua piovana che scendeva dal tetto della casa dei Bugliari di sopra e questa nobile acqua scendendo verso il basso del paese, attraversava la pizzetta sottostante, l’orto botanico antico, dei Bugliari passando di fianco al palazzo arcivescovile e da qui sempre verso il basso raggiungeva l’antica parerà, dove gli abitanti di sopra e di sotto attingevano la sabia per fare cose con calce arena e pietre, nel rispetto dei capitoli condivisi.

In sostanza il luogo dove gli arbëreşë si disponevano per vivere e abitare e innalzare Katundë era attraversato da due direttrici fondamentali che ne condizionavano profondamente l’organizzazione sociale e ambientale: una asse Nord-Sud, legata alla struttura sociale, e una Est-Ovest, definita da caratteristiche geologiche e dalla disponibilità d’acqua.

Sul piano sociale, la direttrice Nord-Sud segnava una distinzione netta tra due gruppi fondamentali della popolazione: da un lato, i letterati, custodi della lingua, della religione greco-bizantina e della memoria culturale arbëreşë; dall’altro, la manovalanza agricola, dedita al lavoro dei campi e alla sopravvivenza quotidiana.
I letterati, spesso formatisi nei collegi religiosi o in contesti urbani, rappresentavano l’élite culturale della comunità. Vivevano generalmente nei nuclei più stabili dei paesi, dove si trovavano le chiese, le scuole e le case più antiche.

La manovalanza, invece, occupava zone più periferiche o collinari, spesso in condizioni precarie, legate a un’economia di sussistenza e a una vita scandita dal ritmo delle stagioni e del lavoro manuale.

Questa divisione non era solo economica o culturale, ma aveva anche risvolti simbolici: la lingua albanese, ad esempio, veniva preservata nei canti liturgici e nelle scritture dei letterati, mentre rischiava di essere trascurata nel linguaggio quotidiano del popolo, più esposto all’influenza italiana.

In senso Est-Ovest, il territorio arbëreshë era attraversato da una seconda linea di frattura, questa volta geologica e ambientale.

La fascia orientale presentava una maggiore instabilità del terreno: frane, smottamenti e cambiamenti nel corso dei fiumi erano eventi frequenti, alimentati da una presenza abbondante ma caotica dell’acqua.
L’acqua, infatti, era una risorsa tanto preziosa quanto difficile da gestire e, la sua abbondanza, se non incanalata, poteva trasformarsi in minaccia, rendendo il terreno instabile e le abitazioni vulnerabili.

Il costruito degli arbëreshë dovevano quindi confrontarsi continuamente con il problema dell’equilibrio: costruire sistemi di canalizzazione, spostare insediamenti, adattare la vita quotidiana a un ambiente mutevole.

Al contrario, nella zona occidentale, la presenza dell’acqua era più razionale e controllabile. Ciò permetteva una maggiore stabilità insediativa e una gestione più efficiente delle risorse agricole. Questo assetto influenzava anche il modo in cui le comunità si organizzavano: laddove l’acqua era meno minacciosa, si potevano sviluppare strutture più durature e pianificate.

Queste due direttrici, sociale (Nord-Sud) e ambientale (Est-Ovest), tracciavano una mappa invisibile ma potentemente determinante nella vita dei paesi arbëreshë.

La storia di queste comunità non può essere compresa senza tener conto di come la geografia e la struttura sociale abbiano dialogato, a volte in armonia, altre in contrasto, nella costruzione della loro identità.

Gli arbëreşë, insediate nell’Italia meridionale tra il XIV e XV secolo, hanno abitato i margini geografici e culturali trasformandoli in centri di resistenza e intelligenza collettiva.

Attraverso una sapienza tramandata oralmente e vissuta in gesti concreti, hanno costruito sistemi sociali e ambientali fondati su una logica armonica, quasi matematica.

Oggi, questi sistemi abitativi di iunctura familiare, se opportunamente riletti, indagati con sovrapposizioni cartografiche della storia, con strumenti critici e scientifici, evidenzierebbero i teoremi vellati di grande attualità.

Specie di quando tramandato dal consuetudinario, secondo il teorema del cortile, che risulta esse molto più di uno spazio fisico circoscritto, perché se osservato dal punto di vista relazionale, esso denota uno spazio di negoziazione tra intimità familiare e apertura comunitaria, in tutto il fondamentale teorema, di natura sociale, che può essere così formulato: coesione sociale di un sistema chiuso, mantenuto stabile da uno spazio ideale intermedio, di permeabilità regolata tra individuo e collettività.

Poi è il cortile che risulta essere sempre aperto, ma custodito, condiviso ma definito, rappresenta questa zona di equilibrio dinamico.

Luogo di scambio di cibo, racconti, gesti di cura, è anche spazio di trasmissione culturale informale, dove si codificano i ruoli, si educa con l’esempio, si misura il tempo umano.

Matematicamente, il cortile è la soglia costante, l’unità semipermeabile che consente il flusso tra sistemi (casa/famiglia – villaggio/comunità), regolandone gli atti, affinché l’equilibrio non venga dissipato.

Il secondo teorema, di natura ambientale, si incarna nella relazione tra casa e orto botanico e, qui ogni casa, anche modesta, si accompagna spesso a un orto curato come giardino di sussistenza, biodiversità e memoria.

Un ecosistema domestico è sostenibile quando la produzione è funzione diretta della diversità, e il consumo si adatta ai ritmi della rigenerazione naturale.

L’orto botanico non è solo spazio di coltivazione alimentare, ma archivio vivente, dove sono conservati i semi antichi, rimedi, erbe medicinali, varietà locali pronte a diventare innesti delle primizie o purpignera come era un tempo.

Lì si manifesta la matematica ambientale fondata sulla ciclicità, sulla proporzione tra bisogno e disponibilità, e sulla non-linearità della cura e, non tutto produce ogni stagione, ma ogni elemento è parte del disegno complessivo.

La casa, in questo modello, è centro operativo e sensoriale: riceve dall’orto e vi restituisce, con gli scarti, le acque, l’attenzione quotidiana.

È una macchina di equilibrio tra interno ed esterno, tra naturale e costruito, in tutto la “matematica direttiva” di cui parliamo, ma non è fatta di cifre, in quanto esse sono relazioni strutturate, uno schema invisibile che regola il vivere. Cortile, casa e orto costituiscono una triade funzionale e, questo si pone alla base di una visione più estesa e razionale dello spazio abitato che contempla.

Una fitta coltre sembra essersi posata, negli ultimi decenni, sui centri antichi arbëreshë dell’età moderna, e non si tratta solo di oblio, ma di una forma più sottile e pericolosa di smarrimento dove a rimetterci è stato l’antico ideale di sviluppo che un tempo informava la struttura stessa dei paesi, la loro coesione sociale, il senso profondo dell’abitare.

Quel disegno, non tracciato, ma tramandato attraverso consuetudini, linguaggi, gesti e ascolto, ha ceduto il passo a una razionalizzazione estranea, spesso imposta da logiche urbanistiche uniformanti, incapaci di leggere l’anima dei luoghi.

Un Katundë arbëreşë non nacque mai come “centro storico” nel senso moderno del termine, ma “centro antico” quest’ultimo un termine coerente da conservare, perché organismo lucido e vivo, in costante evoluzione all’interno di regole comunitarie che rispondevano a un equilibrio preciso tra l’uomo, la terra e la memoria “antica”.

I patti di consuetudine giuridiche orali e rituali civili, regolavano non solo le relazioni sociali, ma anche l’uso dello spazio.

Ogni cortile, ogni vicolo portava impresso una funzione che travalicava la sua mera utilità, perché era simbolo, di un linguaggio condiviso.

Con l’illusione del “progresso” e la rincorsa a modelli urbanistici eterodiretti, molti di questi centri hanno visto incrinarsi le loro fondamenta culturali.

Non parliamo solo di materiali e, della pietra sostituita dal cemento, del legno soppiantato dall’alluminio, dei tetti con pigmenti moderni, ma di princìpi.

Salendo al livello di “centro storico razionale”, secondo la retorica amministrativa degli anni settanta e ottanta, si è smarrito ogni riferimento a quei codici antichi che facevano della disposizione degli spazi, un’estensione del vivere condiviso.

La pianificazione ha velato, anziché valorizzare e spianato le differenze in nome di un’omogeneità estetica e funzionale.

I centri storici riscrivono e non conoscono nemmeno la lingua parlata tra quelle pietre; i tracciati, rettificati; gli spazi condivisi, privatizzati o abbandonati.

Si è introdotto il concetto di “centro da tutelare” al posto del “luogo da vivere” e, così nella tutela, si è consumata la separazione definitiva tra la vita e il luogo.

I patti di consuetudine, che non erano mera norma etica relazionale, sono oggi quasi del tutto dimenticati, coperti da regolamenti edilizi e piani regolatori che parlano una lingua altra.

I vecchi codici dell’abitare, basati sulla prossimità, sull’accoglienza e sulla cura reciproca, sono diventati incomprensibili anche agli stessi eredi di quelle culture.

Questo scollamento tra struttura fisica e struttura sociale ha creato una crisi identitaria profonda e, i giovani abbandonano, gli anziani resistono, i nuovi arrivati non leggono più il territorio come testo culturale ma come spazio da consumare.

Il risultato è un paesaggio svuotato, nonostante gli interventi di restauro, le pietre parlano meno, le voci si disperdono.

Rimane da chiederci se questa trasformazione sia davvero irreversibile, oppure se, scavando tra i ruderi delle consuetudini, tra i frammenti di lingua e rito ancora vivi, sia possibile ritrovare almeno il sentiero che riporti all’antico ideale di sviluppo.

Non per ricostruire il passato, ma per trarne radici più profonde da cui possa rinascere un modello nuovo, non imposto ma emerso, in tutto un’architettura dell’anima, prima che della pietra.

Oggi chi conosce e sa di questi confini dei centri antichi sa dove cercarli e come trovarli, ma questa una storia infinita, la stessa che pone gli arbëreşë al centro dell’infinito culturale che non è fatto di mero parlato di radice albanistico o albanese, dirsi voglia e diffuso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-08-09

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TROVATA LA CHIAVE DELLA SCUOLA IN TERRA DI SOFIA ORA RICOMINCIA LA STORIA thë shiurbiaritë me crundie the mirë pà mielë

TROVATA LA CHIAVE DELLA SCUOLA IN TERRA DI SOFIA ORA RICOMINCIA LA STORIA thë shiurbiaritë me crundie the mirë pà mielë

Posted on 07 agosto 2025 by admin

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le Terre di Sofia storicamente famose per le scuole che qui formavano i più solidi cultori arbëreşë di Calabria citeriore, secondo pensieri avveniristici e di formazione, greca, latina in solido progetto sociale e paritario.

Un centro del sapere unico e indivisibile, capace di formare figure secondo parlato, ascolto, religione, società e identità in tessitura educativa, profonda e duratura, che ebbero il loro risultato con le generazioni in grado di segnare indelebilmente la storia.

Ma dal 1799, e poi nel successivo decennio francese, si persero le chiavi di questa scuola e, la sua fiamma, iniziò ad affievolirsi, intraprendendo una lenta china e, da allora, solo un ristretto numero di figure hanno saputo distinguersi con dignità e nobiltà, avendo modo di tenere alta una tradizione meritava ben altra sorte.

Si giunge così al 1994, anno in cui la pena si fa ancor più pregnante e, la gestione di ciò che restava fu affidata ai meno adatti, ispirati dal vento e le movenze Albanistiche, le stesse prive di memoria e consapevolezza del ruolo affidatole.

Senza radici né visione, ogni legame autentico con la cultura arbëreşë venne dissipato, lasciando dietro di sé un vuoto difficile da colmare.

Una china che ha ridotto la memoria a ridicole attività, svuotate di senso, che non trovano agio né in casa né sulla strada e, sin anche nella chiesa, dove le processioni, un tempo sacre, si sono trasformate in manifestazioni a dir poco egocentriche, lontane da ogni spirito di credenza.

Il dato più allarmante è che tutto ciò denota una profonda mancanza di formazione, in ogni genere di conduzione: scolastica, culturale, religiosa, ma soprattutto civile, che denota non solo la esile competenza, ma anche la perdita del senso del rispetto verso la collettività.

Gli appuntamenti storici, oggi, esaltano i vili e dimenticano i pionieri, celebrando chi resta e fa “restanza”, ignorando ed ostacolando chi prova a fare formazione, chi costruisce o semina arando la terra buona per il futuro.

Eppure la prospettiva che fa intravedere un barlume di luce potrebbe far nascere un’inversione di rotta, quella capace di dare senso alla consuetudine, alla credenza, al parlato e alla cultura, perché ogni identità, se non opportunamente studiata termina per essere esclusivamente caricatura.

In questi Katundë dove il sole batte su pietre antiche e lingue spezzate, si celebra l’effimero,
come fosse verità scolpita.

Si vestono giorni di maschere nuove, di riti copiati, svuotati, inventati, mentre la memoria vera, quella dei padri, muore si accantona dopo pur se grida le memorie diventa e trasforma tutto in silenzio.

Chi tiene le chiavi della cultura non ascolta le voci dei nonni, ma costruisce castelli d’aria, con parole estranee al sangue.

Tradizioni ridotte a spettacolo, costumi indossati senza storia, nomi cambiati, usanze ricreate da chi non sa, ma comanda.

E la regione storica si sfalda, come un tessuto lasciato al vento, perché chi dovrebbe custodirla la riscrive senza conoscerla.

Ma c’è chi ancora, nel cuore, ricorda canti mai scritti, gesti antichi come la terra, e li serba, lontano dal clamore.

Ogni estate, nei paesi è un mercato d’ombre colorate, di suoni finti, di danze scollegate dalla linfa che un tempo le nutriva.

È una festa per chi passa e non resta, per il turista della breve sosta, per il viandante distratto che applaude, ma non capisce.

Non è più rito, è spettacolo da locandina, la cultura svenduta a buon prezzo perché l’applauso vale più della verità.

Le parole non trovano palco né microfono, mentre chi dirige la “tradizione” ne conosce solo la superficie.

Tutto questo per fare solo vetrina, di un’eco lontana truccata per fare scena, mentre chi ricorda davvero, viene zittito, o peggio: ignorato e lasciato in un angolo mentre riceve abbracci materni da madre cultura.

E onde evitare il continuo ripetersi lo stato di fatto è opportuno precisare che la memoria non si compra, non si ricama su un abito nuovo, e tanto memo si può assegnare a nome e per conto di improvvisate associazioni di faccendieri culturali senza alcun titolo o merito di studio che si nutrono di falsa cultura travestita per nascondere la verità e quando tutto appare evidente palesano tutte le nudità di vergogna.

Per conto e per nome della cultura, parla chi non ha mai ascoltato, dirige chi non è maestro, racconta la storia chi non sa nemmeno dove inizia e scrivono con l’inchiostro del sudore altrui.

Si riempiono i palchi di finzioni travestite da tradizione, mentre i sapienti tacciono, tenuti fuori, esclusi, dimenticati e tenuti fuori dall’agro della cultura sin anche con gli abbai dei cani randagi loro amici.

Ogni cosa è fatta da chi meno dovrebbe farla, e intanto si spengono le fioche luci del passato, perché non serve sapere, basta apparire, non serve custodire, basta vendere basta onorare gli ultimi per avere voti e preferenza al tempo delle elezioni.

Altra pena infinita è l’allestire musei del costume e biblioteche a opera di figure che non sanno tessere cucire o riconoscere colori, gli stessi che non conoscono il postulato dell’ascolto del parlato e non sanno sin anche leggere gli scritti in italiano corrente.

Soggetti privi di competenze specifiche si improvvisano esperti, continuando a fare danni alla cultura locale, pur non conoscendo né pratiche tradizionali né lingua né storia.

È urgente fermare questa tendenza e restituire valore alla competenza autentica, al sapere tramandato e a chi davvero custodisce l’eredità arbëreşë.

Questa è una prassi fortemente diffusa per la quale si moltiplicano musei del costume e biblioteche allestiti da chi non sa tessere, non sa leggere e, soprattutto, non conosce la tradizione che pretende di rappresentare.
Così facendo, si diffondono concetti inopportuni, ricostruzioni inventate e fatti mai avvenuti, snaturando il senso autentico della cultura della regione storica diffusa e sostenuta dai suoi abitanti formati.

Il costume femminile, di sovente, viene ridotto a un modello scenografico, un abito che appare all’improvviso davanti all’altare per il matrimonio, e il tempo che verrà, come se fino ad allora fosse stato sotto sale sia la stoffa e sia la figura che lo indossa di genere femminile, stella appena caduta dal cielo, perché chiamata dal divino a fare matrimonio sull’altare.

Una visione folkloristica e fuorviante che cancella il vissuto quotidiano e la crescita paritari dei generai, sino ad allora inesistenti e, il significato dei simboli, e il valore profondo che questi elementi avevano nella vita reale delle comunità.

È necessario difendere la memoria vera, ascoltare chi conosce davvero, e impedire che l’arbitrio e l’improvvisazione si sostituiscano alla storia e alla competenza.

A tal proposito è bene sottolineare che non è sufficiente recarsi in archivi e biblioteche per acquisire quella tessitura solida che dà sostanza alla storia.

Il lavoro dello storico non si esaurisce nella raccolta diligente di documenti o nella consultazione di fonti, giacché, queste sono condizioni necessarie, ma non ancora sufficienti.

Fare storia significa saper interrogare criticamente le tracce del passato, riconoscere ciò che le fonti dicono e, soprattutto, ciò che tacciono e, questo significa connettere indizi dispersi, contestualizzare, interpretare, e talvolta contraddire la voce stessa dei documenti.

Solo attraverso questa operazione intellettuale, che richiede metodo, sensibilità e capacità di sintesi, si costruisce quella trama complessa che trasforma i dati in conoscenza storica.

Senza questo passaggio fondamentale, la ricerca rischia di ridursi a un accumulo di informazioni, priva di respiro e di senso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                          Napoli 2024-08-07

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NEMO PROPHETA IN PATRIA nà u mbiodë zotë

NEMO PROPHETA IN PATRIA nà u mbiodë zotë

Posted on 06 agosto 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – E va bene, tutti lo sappiamo e lo conosciamo, ma quando la patria si ostina a ignorare il proprio profeta, il danno non ricade solo su di lui: è la patria stessa a condannarsi.

Una nazione che rifiuta la voce fuori dal coro, che emargina chi vede oltre, si condanna a vivere nella miseria culturale e, con essa, tutti i suoi addetti, servi fedeli di un sistema cieco, si nutrono di vuoto e mediocrità, così, mentre il profeta cade nel silenzio, il declino diventa destino.

E se poi il profeta è cieco in un occhio, la patria che da decenni non lo riconosce è cieca in entrambi.

Perché chi vede anche solo a metà, vede comunque più lontano di chi si ostina a non guardare e, la patria, che lo ignora, non fa che scavarsi la fossa con le proprie mani, confondendo la voce lucida del dissenso con rumore da zittire. Ma è proprio quel rumore che le manca: il suono della coscienza che ha smesso di parlare.

Infatti, una patria che vive grazie a chi non ha il coraggio di partire, e resta dentro i suoi confini senza mai formarsi altrove, cade nell’ignoranza più buia.

Un buio che è già stato visto e, vissuto da chi è partito, ma quando chi è partito torna, portando con sé la luce lunga della formazione, trova porte chiuse, sguardi spenti, o peggio, indifferenti e così, la sua presenza diventa inutile.

Perché in una patria che non accetta la luce, anche la verità più limpida viene rigettata e, chi resta, resta cieco, per scelta.

E quando il rifiuto non viene solo dal popolo, ma da chi ne assume la guida civile o religiosa, allora la pena si fa duplice e, profonda.

Perché chi ha il compito di indicare la via, se sceglie deliberatamente il buio, condanna l’intera comunità a inciampare.

Non c’è ignoranza più pericolosa di quella benedetta dall’autorità e, così, chi è partito, chi ha visto e appreso, tornando trova non solo ostilità, ma un sistema che si è fatto sordo per scelta, cieco per potere. Una patria che rifiuta i suoi profeti, soprattutto se uno di loro ha anche solo un occhio aperto, si condanna alla sterilità del pensiero. E alla miseria dell’anima.

Lui è tornato, non per nostalgia, né per gloria, ma per una promessa data, decenni addietro a un saggio del paese, uno degli ultimi a vedere lontano, chiedendogli di tornare un giorno e, portare conoscenza, per rendere noto il valore delle pietre, dei vuoti, delle ferite e dei silenzi del centro antico.

Le pietre non parlano da sole, aveva detto il saggio, servono occhi che le abbiano viste da fuori per ridare loro voce e valore.

E lui, quella promessa, l’ha tenuta viva per anni, ha studiato, osservato, custodito ciò che qui era stato dimenticato, ora vorrebbe condividerlo, restituire senso a ciò che è sempre stato sotto gli occhi di tutti ma mai veramente visto per essere con cura e saggezza valorizzato.

Ma la patria, come allora, tace e, chi la guidato dall’istituto civile e il sacro, volta lo sguardo, perché preferiscono il rumore del consenso alla voce del ritorno.

Così, ancora una volta, il profeta rischia di restare solo, ma questa volta non per andarsene, ma per restare. Nonostante tutto, lui parla piano, non per timidezza, ma per rispetto.

Ha imparato a farlo da piccolo, quando camminava accanto a un vecchio saggio del paese, un uomo che non alzava mai la voce, ma che pesava ogni parola come fosse pietra da fondazione.

I saggi di terra parlano piano, gli diceva e, chi strilla viene da altrove, da quel paese là, dove veleggia l’ignoranza più infernale.

E lui il piccolo profeta, ancora in patria ascoltava, assorbiva, cresceva nel silenzio fertile del sapere, lui aveva capito che non aveva bisogno di farsi sentire per forza.

Perché sapeva vedere. E ciò che vedeva lo portava lontano; ma ora è tornato, con uno sguardo pieno e una voce ancora bassa, ma densa di anni di studio, esperienza, visioni, è pronto per diffondere ciò che le pietre del centro antico, gli hanno detto in silenzio, e che il saggio gli aveva insegnato a tradurre.

Ma qui il paese è cambiato poco, anzi, forse non è cambiato affatto e, chi urla ancora e non sa cantare dirige orchestra, comanda, di contro chi ascolta ancora tace ed è felice.

E chi vede davvero viene tenuto ai margini, perché il sapere vero fa paura, fa luce e, la luce acceca chi ha vissuto troppo a lungo al buio la ritiene fastidiosa.

Lui non parla per comandare, non alza la voce per spaventare, parla piano, con garbo silenzioso, come fa la terra, quando accoglie il seme buono.

Ha imparato che le parole vere non si impongono, si seminano e, si affidano al tempo, alle stagioni, al vento.
Proprio come fa la terra: non grida, ma accoglie e avvolge il chicco, lo custodisce nel buio fertile,
e lo lascia germogliare con pazienza, così è il suo parlare, un atto d’amore, non di potere, ma un dono, non un vanto.

E se oggi è tornato, non è per farsi ascoltare, ma per seminare ancora, anche se intorno regna il rumore, anche se pochi sanno vedere ciò che lui ha visto e continua.

Perché sa che un buon raccolto, non arriva mai per caso, ma nasce dal silenzio della terra e dalla fedeltà di chi semina senza pretendere.

Vera resta il dato che quando la negazione non resta isolata, quando si fa prassi condivisa, quando si allarga come nebbia su una provincia intera, su una curia, su una fratria, il problema si fa profondo, radicato e invisibile e per questo pericoloso per la comunità intera.

Non è più solo un rifiuto, è una scelta di non voler sapere, una comodità del non conoscere, una volontà passiva di restare immobili.

Perché conoscere vuol dire cambiare, e cambiare costa, impegno, coraggio e memoria, per avere una visione ampia.

Ma qui, spesso, si resta fermi, in un silenzio denso che non è rispetto, ma rinuncia, in tutto un silenzio che dice: Meglio non sapere chi siamo, meglio non ricordare da dove veniamo, meglio non chiederci dove vogliamo andare.

Lui conosce il senso delle parole perché da piccolo ha saputo ascoltarle prima ancora di pronunciarle e, faceva tanto ascolto, che ci fu un tempo in cui tutti lo credevano muto.

Non parlava mai, ma osservava tutti i gesti degli anziani, il fruscio delle foglie, le crepe nei muri, i silenzi tra le frasi.

Un giorno, un viandante si fermò in paese, lo guardò, seduto com’era in disparte, gli occhi attenti e la bocca chiusa.
Disse, con tono di commiserazione, povero figlio, questo è muto, il paese rise come si ride delle cose che non si capiscono.

Come si ride per coprire l’imbarazzo, perché quel silenzio faceva domande che nessuno voleva sentire.

Ma lui, anche quel giorno, non disse nulla, non per timidezza, ma per scelta, sapeva già allora che le parole devono maturare dentro prima di uscire.

E quando, col tempo, cominciò a parlare, le sue parole avevano radici, erano poche, ma pesavano e sapevano affrontare anche il vento.

Non urlava mai, ogni frase era come una pietra posata per costruire qualcosa è tornato tra quelle stesse pietre, di cui conosce il valore di ciò che dicono perché ha imparato il silenzio prima della voce, consapevole che quanti non hanno ascoltato, non potranno mai davvero parlare.

E così, i giorni passano, le pietre si consumano, le storie si perdono e, chi torna con un seme da innestare viene lasciato fuori dal campo.

E intanto si celebra la mediocrità come fosse saggezza, si chiama prudenza quella che è solo paura travestita.

Ma lui no, il profeta non arretra e, parla ancora piano, come il vento tra i rami antichi, sperando che almeno una foglia tremi, che almeno un orecchio si apra, che almeno una coscienza si desti, perché anche nel deserto più arido, una goccia può fare primavera.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-06

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IUNCTURA IL SISTEMA CHE PULSA INVISIBILE NEI KATUNDË  Jiaku jonë su hharùa

IUNCTURA IL SISTEMA CHE PULSA INVISIBILE NEI KATUNDË Jiaku jonë su hharùa

Posted on 03 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Iunctura è un’espressione che denota l’atto del congiungere, formata da due o più parole che, insieme, assumono un significato unitario, spesso diverso dalla somma dei significati delle singole parole.

Il termine era molto usato nell’antichità per esprimere concetti complessi con eleganza e precisione.

Nel cuore dei centri antichi, specie in ogni Katundë arbëreşë, lontano dalle piazze luminose e dalle strade carrabili, esiste questo sistema poco noto o quasi, invisibile agli occhi dei forestieri.

Esso rappresenta insiemi urbani articolati e diretti dalla iunctura, fatta di vicoli tortuosi, archi incrostati da secoli, vichi ciechi, che si piegano su sé stessi, come vene di un corpo dimenticato.

A tenerlo insieme questo ricamo irregolare, non è la logica geometrica dell’urbanistica moderna, ma una “iunctura familiare”, in tutto una rete di legami invisibili che unisce case, cortili, orti e destini di generi tutti uguali.

Ogni pietra di questi sistemi, paragonabile alle radici in terreno fertile, custodisce una storia muta e, ogni arco che unisce due muri porta il peso di generazioni che qui passavano sotto.

Non si tratta solo di costruzioni materiali, ma di architetture colme con ideali, in relazionali geometrie, di voci che si rincorrono tra lenzuola stese.

Nel sistema organico, lo spazio non è pubblico né privato, ma condiviso e, i cortili si aprono solo a chi ne conosce le consuetudini, la chiave o meglio il codice per aprire ogni porta; i vicoli sono custodi della memoria collettiva; e gli orti botanici, sono tessitura odorosa di basilico e terra umida, in tutto piccoli polmoni di una città che respira piano, in silenzio, per dare al tempo un modo per riposare.

Questo mondo non è costruito con mattoni ma con gesti ripetuti, sguardi discreti, rituali quotidiani e, qui le madri si parlano di porta in porta, le nonne raccontano storie che nessun libro contiene e, i bambini imparano a camminare su pietre vive, scivolose e colme di storia parlata.

Qui, la famiglia non è solo sangue ma prossimità fisica, interdipendenza, tempo condiviso, un mondo che si difende e cresce i figli senza preferenze.

L’accoglienza non è diretta, perché segue e si proteggersi dietro curve strette e silenzi antichi, qui l’estraneo può passare, ma non restare perché novità.

Questo è un sistema chiuso non per ostilità, ma per necessità, perché l’equilibrio interno è fragile, come quello di un orto segreto, in quanto troppa luce lo brucia e troppo rumore lo spezza.

Nel tempo dell’apertura, della connessione perpetua, del tutto visibile e disponibile, questo sistema chiuso appare anacronistico.

Ma forse è proprio lì che risiede la sua forza segreta di questo popolo, non moderno, non lineare, non espanso e, in una parola: resistente.

È ancora oggi l’antico centro abitato, pulsa energia sotto l’asfalto, le beole di livellamento moderne o gli intonaci e i tetti inopportuni, che non hanno forza di cancellare l’antico tessuto di pietra, linfa e relazioni.

Una iunctura, appunto, dove l’umano non è un individuo, ma un nodo, di una rete stretta come i suoi vicoli, che continuano a vivere.

Cosi come i microcosmi familiari all’interno delle architetture urbane, oggi diventate il cuore delle città storiche del Mediterraneo, dove si sviluppano sistemi urbani che sfuggono alle logiche moderne della pianificazione aperta, funzionale e trasparente.

Si tratta di strutture dense e, stratificate, in cui lo spazio urbano si intreccia indissolubilmente con i legami familiari, le pratiche quotidiane che batte moneta di memoria collettiva.

Questo breve, intende esplorare il concetto di iunctura, inteso come metafora di una connessione sociale e spaziale, che si manifesta in vicoli ciechi, archi, cortili e orti nascosti delle sedici macro aree premoderne prese in esame.

L’obiettivo è analizzare queste forme urbane come, microcosmi autosufficienti, in cui l’individuo è parte di un corpo più grande, relazionale e stratificato.

Gli agglomerati storici che dal Levante dell’antica Grecia, sino al Portogallo, tra il diciannovesimo e il quarantaduesimo parallelo, condividono tratti urbanistici comuni, con la presenza di vicoli stretti, passaggi coperti, cortili interni e una separazione fluida tra spazio privato e pubblico, una metrica nota come modello vernacolare del bisogno.

Lungi dall’essere un limite, perché questa chiusura morfologica costituisce una strategia di sopravvivenza climatica, sociale e simbolica.

Come osservano diversi autori, che studiarono questa macroarea simile ad un organismo vivente e, costruito “dal basso” dai suoi abitanti, e non progettato “dall’alto” con protagonisti tecnocrati o pianificatori verticali.

In questo contesto, l’architettura non è neutra, ma il riflesso di un sistema di relazioni che protegge, seleziona e regola l’accesso delle cose.

Qui l’architettura non parla non si mostra e, non fa rappresentanza di apparenza, perché partecipa all’insieme dove non è protagonista prima, ma elemento sostenuto e diretto dalla solidità petrografica dalla morale locale che parla canta e fa consuetudine senza emettere fumo dal camino.

Ogni curva, ogni arco, ogni chiusura è anche una forma di memoria collettiva e di difesa culturale e, il termine latino iunctura, che indica un’unione, una connessione stretta tra elementi distinti, è qui utilizzato per descrivere non solo la configurazione urbana, ma anche la struttura sociale di questi ambienti.

Le famiglie estese, spesso organizzate attorno a cortili comuni, formano reti dense di interdipendenza economica, affettiva, simbolica secondo un manuale di consuetudini trasmesso con gesta e parlato.

Questo tipo di coesione non si limita all’ambito domestico, infatti permea la configurazione stessa della città, dove il passaggio da un vico all’altro richiede conoscenza dei codici locali e accettazione sociale. L’infrastruttura è, in questo senso, anche infrastruttura morale e, chi non a parte della rete, passa automaticamente ai margini, fisici e simbolici.

I vicoli ciechi e gli orti botanici, sono i simboli di resistenza e cura, qui questi adempimenti popolari non sono un’anomalia, ma una forma di resilienza spaziale e speziale.

I vicoli ciechi non sono meri errori della viabilità urbana, ma spazi liminali dove si concentrano pratiche di cura, ritualità e controllo comunitario, che non possono sfuggire.

Essi permettono una sorveglianza dal basso, un filtro sociale e un senso di intimità che l’apertura moderna spesso dissolve.

Gli orti botanici, termine usato in senso evocativo per indicare piccoli giardini chiusi, spesso nascosti dietro mura domestiche, per essere metafore viventi della sopravvivenza culturale.

In essi si coltivano non solo piante, ma anche saperi, abitudini alimentari, e forme di relazione con il tempo e con la terra.

Sono spazi non mercificati, sottratti alla logica produttivista, che riflettono una etica della sussistenza e della memoria.

Il concetto di sistema chiuso può assumere una connotazione negativa, associata a chiusura identitaria, esclusione sociale o resistenza al cambiamento.

Tuttavia, in questo contesto, la chiusura non è difensiva ma protettiva e, diventa equilibrio interno di una comunità complessa, spesso marginalizzate dai processi moderni di gentrificazione e globalizzazione.

La chiusura è, in questo senso, una strategia adattiva e, consente di conservare risorse, memorie, forme di reciprocità che altrove si sono dissolte.

È anche uno spazio di negoziazione quotidiana, dove le relazioni sono regolate da norme implicite, più che da contratti o dispositivi tecnologici.

Tutto questo mira ad evidenziare che le forme urbane chiuse, dense e relazionali, qui ancora pulsanti e pronte a rigenerarsi, trovano agio nei centri storici arbëreşë del Mediterraneo, non sono residui del passato da cancellare o riqualificare, ma radice antica che fiorisce futuro per le società in fermento.

Perché, esse rappresentano modelli alternativi di coesistenza, basati su legami, memoria e prossimità e, la iunctura che li tiene insieme è fatta di pietra, affetti, ritualità, in memoria dove si stabilisce che l’urbano è prima di tutto una costruzione a misura dell’uomo.

In un’epoca in cui lo spazio tende a essere disgregato, connesso ma fragile, questi sistemi chiusi ci offrono un insegnamento prezioso sancito, che ricorda con forza la metafora dell’abitare che include anche l’appartenere a un luogo fisico e morale.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-03

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