Posted on 21 ottobre 2024 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: GJITONIA PER CHI HA E SOSTIENE NEL CUORE E NELLA MENTE I CINQUE SENSI (Gjitonia ku ritëcinë billë bashëk)
Posted on 14 ottobre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono due regimi totalitari, che vorrebbero gestire le cose della Regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë:
Ma noi che siamo sagge figure Arbëreşë, cresciute ascoltando le direttive del Governo delle donne, poi in età post adolescenziale, nelle botteghe dei saggi Padri, guardando le gesta intersecarsi con il parlato, per questo, non ci facciamo intimorire, adoperandoci a ripetere, le parlate del governo, dove sedeva nostra Madre e, le attività a impronta di nostro Padre.
Il resto delle cose le lasciamo fare ai comuni viandanti indigeni, che non potranno mai ascoltare e capire cosa vuole dire ed essere, una figura nato/a e cresciuto/a Thë Gjitonia Arbëreşë.
Per usare una frase storica riferita a Roma, da un saggio prelato Ullanese, ovvero: è inutile rimesciare aceto, perché l’aspirazione che diventi vino, non vedrà mai né il sole e ne la luna.
Come non è un bel gesto di garbo o saggezza, vedere adolescenti addobbati come fa la sposa o lo sposo, perché è bene sapere che la nostra cultura rispetta le generazioni e specie i piccoli, quando hanno bisogni di guide solide, che non le portano al mercato o frequentare i cattivi lavinai che in genere non sono Gjitonia.
Per gli Arbëreşë, ogni cosa ha un suo tempo e una sua dimensione sociale a cui avvicinarsi per farne parte con ordine di tempo e di ruoli, il resto delle cose sono di altre civiltà più anomale e, per questo, le discipline citate, non rientrano nelle cose materiali ed il materiale o regola non scritta, ben impresse e memorizzare, sia del Governo delle donne e di quello degli Uomini.
Quando agli inizi degli anni sessanta venne richiesto a mia madre, una delle sagge sarte, capace di realizzare un vestito da sposa tipico o restaurarlo, di comporre un vestito completo per una bambina, che avrebbe fatto da figurante in chiesa, nel corso di un matrimonio, che avrebbe avuto luogo a Bergamo, con garbo e saggezza rispose, che per dovere di parentela lo avrebbe sicuramente fatto.
Tuttavia, certamente non per una ragazzina, infatti si recò al mercato e acquistò una bambola e, assieme a tutte le altre sarte del paese, compose dopo infinite e continuate riunioni; con dovizia di particolari quella bambolina, che divenne poi l’esempio, sommariamente imitato in seguito e, ripetuto, diffuso come emblema identitario della minoranza.
Questa piccola nota di avvenimenti del passato vuole risvegliare alle giovani generazioni, almeno il senso della vestizione, che non è da sposa, mezza sposa, festa, mezza festa, lutto e mezzo lutto, come se le cose e sensazioni della minoranza, che vive di parlato e consuetudine, si possono apprendere o comprare, di misura con la stadera nel mercato a, kili e mezzo kilo o a quarto di kilo.
Le cose degli Arbëreşë si apprendono ascoltando, nulla è immaginario comune per questo o le si conosce o si fa meglio rimanere a casa e pulire la polvere rubata e, magari dopo aver pulito recarsi da una madre, una nonna o una zia, almeno settantenne anche se in prestito, per farsi illuminare e rendere almeno partecipe al rigido protocollo che fa consuetudine, la stessa che distribuisce saggezza e credenza, preferita e più comoda, alla meno saggia globale.
Finalmente, da un po’ di tempo i campanili tacciono e i minareti si sono esaltati, immaginando che facendo matrimonio, si possa affrontare meglio, quanti si sono formati sotto l’attenzione del governo delle madri e poi frequentato le botteghe dei saggi padri, diventare il nocciolo duro della consuetudine, il parlato e il credere più profondo degli Arbëreşë.
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Posted on 13 ottobre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Bozza dei temi indispensabili per allestire progetti, sulla disponibilità di tutela secondo le leggi Regionali, Nazionali e le direttive Europee rivolte alla tutela delle minoranze storiche.
Il progetto da finanziare, vuole finalizzare quanto qui esposto per essere attuato secondo gli intenti di un gruppo, multidisciplinare, sulla base di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologiche, Storiche, Sociologiche, Psichiatriche, Architettonico e Urbanistico, includendo altre discipline per finalizzare il buon esito dell’opera, con ricerche e relazioni specifiche per le mire qui elencate:
Commenti disabilitati su EQUIPOLLENZA INDISPONSABILE PER ESSERE UN PAESE DI RADICE ARBËREŞË (Satë mos thë jemj Skiptarë)
Posted on 08 ottobre 2024 by admin
Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il costume arbëreşë è la testimonianza visiva della storia, della cultura, della fede e delle tradizioni, in tutto la rappresentazione della perseveranza indissolubile con la quale segnare identicamente lo scorrere dei secoli.
Per questo il passaggio di testimone da una generazione all’altra è un rito fondamentale, che consolida il proseguimento della propria identità nel corso della storia, con l’ausilio delle consuetudini e tutte le tradizionali credenze solidamente radicate.
Se questo poi avviene per popolazioni che tramandano esclusivamente attraverso la forma di gesta e parlato, avendo quale prioritaria la metrica del canto, l’evento diventa codice delicatissimo al pari di un’oggetto di cristallo lavorato e, mal riposto nella “credenza “quando fa terremoto.
Quanti utilizzano la storia, quale mezzo per confermare messaggi senza alcuna fondatezza di luogo, di tempo e persone, produce danno, specie quando si vogliono piegare i ricorsi per il mero fine di apparire, con atti notarili o editi cattivamente interpretati.
Storicamente sono molteplici i casi che per glorificare private falsità, usano satinare miti, eroi e avvenimenti, senza luogo e tempo.
Il sistema si può raffigurare come una frana che nella sua greve corsa verso il basso, amalgama ogni cosa e, il ricordo a questo punto, diventa il protagonista grazie alle figure più inesperte, giovani in tutto le meno adatte per riferire memoria di tempo.
Questi atteggiamenti sono il frutto di una cattiva morale culturale e, già nel passato remoto, era uso formulare specifiche richieste (a degenerati scrittori) che tramandavano avvenimenti ereditati da memorie false, costruite a misura, con l’ausilio di documenti apocrifi creati ad arte.
Allo scopo si ritiene adoperarsi per realizzare la “diplomatica” adatta che si analizza e studia i documenti ufficiali, in particolare dei documenti storici prodotti, e il nostro compito rimane quello di analizzare la forma, la struttura e il contenuto di tali documenti verificandone l’autenticità, interpretarne il significato e studiarne il contesto di produzione.
Certamente concentrandoci sui documenti scritti in epoca medievale e moderna, come pergamene, lettere, privilegi, diplomi, e contratti.
Questo dato consente alla minoranza arbëreşë di riconoscere i trattati storici originali e differirli dalla “isola felice”, dove ogni cosa appare esclusivamente candida, meravigliosa e sempre positiva.
Tuttavia a devastare ogni cosa, non sono le menzogne prodotte dai falsi finanziatori, giacché il danno reale è prodotto dalla mancanza di volontà dei dotti, o preposti, i quali sanno e scientemente non separano i falsi dai veri avvenimenti, anzi assistito divertiti alla riproposizione degli ottimi prodotti taroccati on puro fatuo.
Sono proprio queste narrazioni, addirittura poste in stampa, che contribuiscono a rendere celebri, per cattiva conoscenza/coscienza, gli annali della storia, dove la rotta punta a ottenere un’icona di rilievo e non garantire la logica narrazione di fatti, persone e cose.
Come affermava Michele Baffi, figlio del più noto Pasquale originario di Santa Sofia d’Epiro in una sua diplomatica riferita a quanto pubblicato della storia dei romani: “mescolavano le divine con le umane cose, per rendere più augusti i cominciamenti e tanto andò avanti questa confusione, che nessuno fu in grado di comprendere cosa fosse vero e cosa era mescolanza di fatti mai avvenuti”.
Furono gli stessi storici che in seguito ebbero a trarre la conclusione che: in questo modo nacquero gli annali delle prime nazioni, usciti dalle tenebre dell’antichità e dalla stoltezza delle malfondate tradizioni.
Dopo questa breve introduzione gli scenari che si presentano vanno e devono essere analizzati avendo consapevolezza di cosa si potrebbe produrre se attratti dai frutti di pura e più conveniente stoltezza.
La ricerca storica quindi va fatta comparando costantemente gli elementi finiti con quelli indefiniti e la propria capacità di interpretare e affiancare fatti, uomini e cose, avendo capacità di comprendere cosa è storia possibili e cosa no!
Un esempio che qui riporto valga per tutte le cose che banalmente si raccontano: come l’esser giunti i Kalabanon nelle rive dell’adriatico e dello jonio, allocandosi nelle colline del meridione con i loro bauli colmi di costumi, trascinati dalle colline dell’antica illiria, sino ai porti delle rive adriatiche ad est, caricate nelle navi, scaricati poi nei porti pugliesi a ovest e in seguito trascinati per la Puglia, la Basilicata e la Calabria; un gesto a cui sicuramente agli arbëreşë va dato merito della loro proverbiale caparbietà, ma, pare così a dir poco di esagerato e palese ritenerla una storia senza alcun senso.
Se a ciò si aggiunge il dato che questi bauli spariscono nel XV secolo, dato che il Rodotà li descrive nudi al papa a cui si rivalse per trovare soluzione cristiana.
Nasce spontanea la domanda, a meno che non si tratti di un miracolo come fanno ad apparire nel XVII secolo e, in quale località climatizzata con tecnologie ultra moderne di quell’epoca sono stati custoditi?
In questo mio breve, per questo si vuole affrontare la disanima del contenuto di questi bauli mai esistiti, il cui contenuto teoricamente nasce all’inizio dell’era industriale europea, quando gli esuli posero in essere, ovvero, realizzarono la bandiera identificativa di macro area della cinta Sanseverinese, ovvero, “il Costume Arbëreşë”, memoria riassuntiva laica e clericale di un’identità forte e mai dismessa nella provincia citeriore presilana.
Va a tal proposito sottolineato che il costume arbëreşë, completo, che identifica area e luogo; scaturisce da una solida e coerente narrazione storica, allocata nelle sub aree della Pre Sila arbëreşë.
Rappresenta il Componimento unico, solo, primo ad essere considerato narrazione storica e, da cui sono stati poi estratti frammenti, della macro area delle Miniere e del Pollino.
Questi costumi dal primo che ha come emblema la Sposa, all’ultimo di Vedova Incerta, vanno perdendo il senso originario cosi come i cerchi concentrici di una pietra buttata nell’acqua, si attenuano quando si allontana dal centro di caduta.
I costumi identificati come: da Sposa, moglie e Regina della casa, Giornaliero o del fuoco, di Vedova e Vedova Incerta, sono i fondamentali, gli altri, seguono una rotta che è affine più alle genti autoctone che al consuetudinario arbëreşë di radice e credenza.
Alla raffinatezza del costume si accosta la dualità dell’impegno storico, sociale e clericale degli arbëreşë; ciò nonostante serve un’attenta analisi per comprendere movenze e significato, il che restituisce uno scenario artistico che aumenta, in quei centri in cui la valorizzazione, la tutela identitaria, l’idioma, la consuetudine, la metrica e la religione Bizantina, rendendo il legame tra casa e chiesa, ovvero, il valore civile e religioso forte, solido e completo.
Tutti gli altri centri dove uno di questi elementi o componenti, che compongono il costume, dovessero variare o mancare, restando il costume sintesi o addirittura segno per altra identità, se non addirittura tradizione popolare indigena o llitirë dirsi voglia.
Alla luce degli avvenimenti cadenzati dall’ultima decade del secolo appena terminato, dove a segnare il passo della vestizione dei preziosi componimenti sartoriali, sono inesperte/i giovinette/i, i quali, pericolosamente tralasciano il senso non scritto, custodito nel ricordo di donne adulte, che vengono e sono perentoriamente ignorate se non rinnegate.
Va in oltre marcato il concetto secondo il quale il costume è un testamento, un trattato non scritto; e per questo deve essere letto o interpretato da artigiani/artisti in grado di avvertire vibrazioni molto profonde e colme di significato, nei colori nei ricami, nelle pieghe clericali e di laica credenza.
Coprire il corpo il giorno della nascita, durante la crescita, quando si diventa donne, il giorno del matrimonio, durante l’invecchiamento e al termine della propria esistenza, fa sentire il genere femminile protagonista del mondo arbëreshë, dal primo vagito sino all’ultimo sospiro della vita e, simboleggiano tutto ciò i colori qui in elenco:
Il bianco: associato alla luce alla purezza;
il rosso: associato al sangue e alla fedeltà;
il giallo: associato al sole;
il verde: associato alla vegetazione il lavoro nei campi;
il blu: associato al cielo alla ricerca del termine;
l’oro e l’argento: associato alla ricchezza;
il porpora: associato alla luce del fuoco sempre acceso;
Il raso: associato alla luce della credenza;
il marrone: associato alla terra;
Il nero: associato alla negazione assoluta, come la notte, o buio di termine;
Tutto questo va difeso con forza ed energia culturale solidamente radicato nelle cose del trapasso generazionale, affinché non termini tutto per continuare ad essere inculturazione e trasmette, riproducendo le proprie “tradizioni” all’interno di tutte le macro aree; evitando l’acculturazione ovvero l’invasione dei tratti culturali provenienti dall’esterno, da altre aree geografiche-culturali che possono terminare con il modificare i valori del manuale sartoriale indivisibili.
L’analisi per questo inizia naturalmente citando il significato di ogni singolo colore: la pigmentazione delle stoffe che non è casuale ma mira mai casuale, anzi ognuno di essi e il relativo accostamento inviano messaggi chiari, univoci, il cui fine e legato a un messaggio di onestà, prosperità dell’unione e la relativa discendenza.
Il costume, è il sunto dei travagli di operosità onesta sociale, etnica, religiosa e di credenza all’interno della Regione storica diffusa, sostenuta in parlato e movenze Arbëreşë; esso racchiude antiche gesta e messaggi, codice identitario, rappresenta l’unica forma figurata in senso generale di un’etnia che si è avvalsa per secoli della sola forma del parlato.
L’atto della vestizione, diviene codice di arte, massaggi figurati e di comportamento, discipline o protocollo figurativi tramandato oralmente e con gesta di segni; esso rappresenta e valorizza credenze e pratiche condivise da generazioni, in tutto, il codice che diventa arte.
Esso rappresenta l’anello che lega l’apparire femminile con il territorio, mille pieghe di rinforzo calettate su un basamento dorato, la radice fondale e, ogni piega difende solidamente le cose più intime del genere Arbëreşë, in senso generale e generazionale.
Quattro strati inferiori di vestizioni in colore diverso, la prima indica la natalità, quella più a contatto con il corpo, la seconda la purezza e la fede, la genuinità giovanile e la terza il padre, per arrivare a quella più estrema o pubblica che rappresenta il marito, per generare specie, ovvero il sacrificio.
Fede e sacrificio sono sostenute e regolate dalle rotondità della vita, ma nella connessione con il gallone dorato del basamento assumono andamento rettilineo come segno di rispetto verso il territorio in ogni direzione.
Il costume rappresenta la sintesi dei rituali condivisi, in sintonia con la vita e i rapporti che essi hanno avuto con gli indigeni.
Tutto questo qui riassunto diventa espressione delle diverse macro aree, insiemi di usanze e, in certi casi vere e proprie tradizioni, tramandate attraverso i trattati liturgici come ad esempio le pergamene a doppia faccia, lette dal clericale nella parte rivolta a esso e nelle immagini riferite al Vangelo, volte ai credenti.
Oggi indossare un costume Arbëreşë non deve essere solo occasione per esaltarsi a gesti e referenze senza avere cognizione culturale e linguistica del ruolo che si assume, né bisogna indossarlo sinteticamente, sciattamente o addirittura volgarmente, in quanto, il costume rappresenta un simbolo che deve inviare messaggi dell’appartenenza di un popolo e del suo territorio.
Indossare il costume vuol dire avere rispetto di ogni suo elemento e caratteristica estetica perché quando è esposto, diventa vessillo di un popolo ben identificato.
Come lo sono le dorature del Xhipùni che non deve essere sintesi del generare prole, ma vestizione coerente con il senso del matrimonio che genera prole, imbibendosi prima nella fontana della vita e poi in quella dell’intellighenzia matriarcale, del governo delle donne
Il rito ha inizio con la pettinatura këshètë, messa in atto della tipica forma, entro cui raccogliere i capelli saldamente avvolti dalla candida fettuccia bianca.
Per poi essere il supporto della corona dogale del matrimonio solidamente invalicabile dalla vista delle intimità femminili più esposte.
La stiratura del ricco merletto, linjë che va impostato prima dell’uso, con la giusta rigidezza dosando acqua e amido e, fornire solidità alla preziosa trama che genera la fonte della vita.
A questo punto si dà avvio al rito dell’apposizione xhipùntëi i còha e sotto còha, dal cassetto appositamente attrezzato, seguita la rimozione dei lacci che garantiscono la postura di riposo e la svelatura degli altri elementi conservati e avvolti dalle apposite stoffe di cotone.
Ogni cosa in seguito va prima indossata, calibrata e in fine fissata con raffinata perizia, manualità e dedizione; il costume richiede regole precise, per questo indossate le vestizioni intime e la linjë si continua con sutànini, poi sutàna me raset e in fine la còha, tutte queste una volta indossate vanno calibrate al fine di raggiungere la vestizione che deve essere un’armonia di linee che sul davanti è lineare da sotto il seno fino all’estremità inferiore della còha; sui fianchi e il di dietro, deve essere arrotondata nella parte iniziale per poi allinearsi subito con andamento verticale dettato dalla parte rinforzata da cui partono le bretelle; il contorno inferiore, Gagluni deve risultare perfettamente livellato e il davanti sfiorare la punta delle scarpe, la cui regola è garantita dall’altezza del tacco.
La parte superiore dalla base del collo sino al seno, deve descrivere un piano inclinato che poi s’innesta con la linea curva della prominenza sulla linea verticale su citata.
Xhipùni, deve aderire perfettamente sulle spalle e allinearsi alle rotondità del seno cui deve rimanere aderente persino nei piccoli movimenti delle braccia sollevate.
A seguito di tutto ciò e dopo continue verifiche si fanno gli ultimi rintocchi rivolti alla vestizione degli ori (orecchini e collana con diadema) con l’apposizione della kesa che copre këshètë, rappresentazione dogale della corona della regina del fuoco e della casa.
Poi segue il tocco finale con l’apposizione sul capo o piegata ordinatamente sul braccio del velo dorato da sposa o di quello porporati di regina della casa e del fuoco domestico sempre acceso e diretto.
Poi arriva il tempo dello sfilare o l’apparire, momenti in cui, chi si assume la responsabilità di rappresentare con il raro vessillo un gruppo ben identificato, deve saper trasmettere secoli di storia riassunti in quei preziosi filamenti di porpora e oro; l’atto di apparire e attirare con quei movimenti di grazia e coerenza, deve ricordare che una favela diversa nel sud dell’Italia ancora vive nella più completa sana e onorata integrazione.
Va in fine sottolineato che i tempi e le modalità di mettersi in mostra a casa, negli ambiti di Gjitonia e, negli ambiti diffusi del Katundë, sono momenti in cui, la ruota, la coda e ogni sorta di pendaglio o elemento indossato o portato per essere esposti, ha un luogo, un tempo e un momento di riverbero per essere reso pubblico, altrimenti si perde il senso della vestizione, che non ha né segreti e né tasche, dove celare o nascondere sgradevolezze di unione e condivisione familiare.
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Posted on 06 ottobre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi nasce nel mentre la madre si adopera a tenere vivo il fuoco dell’antico camino di casa, educando parimente i suoi figli e quelli della Gjitonia, crescerà avendo nel suo cuore, nel suo animo e nella sua mente, impresse indelebilmente le consuetudini storiche del governo delle donne, in ascolto e gesta Arbëreşë.
Diversamente dagli indigeni o “llitirë”, dirsi voglia, che sono allevati in recinti alloctoni secondo i percorsi gestiti da “fattori e massaie” e non dal governo delle donne Arbëreshë, qui comparati in breve:
Invece si è preferito esaltare campanili, limitando il valore per il fine di elemosinare merito, alle tradizioni locali più immediate, banali e senza una radice unitaria.
La combinazione di questi fattori ha probabilmente portato ad allestire identità frammentate, della stessa comunità che tende a concentrarsi sui singoli campanili, piuttosto che rafforzare una storia condivisa, ampia e unitaria.
A tal fine e senza perdere l’orientamento originario, la mia Gjitonia da adulto è diventata Napoli e gli ambiti degli antichi Olivetari dove Bizantini, Arabi, Alessandrini e Longobardi, hanno seminato e fatto crescere la cultura Arbëreşë, un vero e proprio banco si scuola con numerosi editi da apprendere, come abituato da piccolo a fare, nel governo delle donne. dove ho avuto il mio natalizio.
Questo mi consente di affermare che nessuno, dico nessuno! si deve permettere o azzardare a venire in Napoli, per fare affermazioni incaute o inopportune, specie se proviene delle torbide acque del torrente Cupo e, poi formatosi nell’agro del Surdo e del Settimo, secondo le direttive della moderna Albania dei Beg.
La meno cauta discendenza Albanofona, in tutto l’inesorabile deriva verso l’infero della cultura, allestita negli anni settanta del secolo scorso, per fare danno al parlato, alla consuetudine, al costume e alla credenza, del “Governo delle donne Arbëreşë”.
Leggo con interesse, tesi di laurea, editi e ogni sorta di scoperta archivistico e bibliotecario riversate e ritrite, che hanno come scenario i luoghi e le vicende degli esuli della diaspora, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota.
Le tematiche in genere servono a delineare il progetto di accoglienza, unico e indivisibile, predisposto dal su citato eroe dopo la sua morte 1468 sino al 1506, distinguendo questo intervallo dalle altre migrazioni, sia concentrate e siano esse diffuse, a partire dalla nascita di Cristo, sino ai giorni nostri; ma questa è un’altra storia che non parla e gesticola in Arbëreshë.
Dagli Stradioti, sino alla diaspora degli Arbëreshë, non sono tutte figure storiche con identiche mire e volontà o interessi di dialogo pacifico, anche se la storia preferisce unificarli, onde evitare di dare spazio a temi militari, politiche, sociali e religiosi preferendo così di, uniformare ogni cosa e fine di provenienza, tutte caparbiamente disposte ad est del mare Adriatico, sino dove finisce lo Jonio.
Tuttavia quello che manca è il valore rivolto alle necessità di questa popolazione in continuo inchinarsi e rendersi disponibili ed allestiti in luoghi di continuo fermento sociale e di credenza.
Queste popolazioni, infatti, hanno saputo rispondere, nel corso dei millenni alle esigenze di Romani, Veneziani, Mussulmani, Papati, Francofoni, Ispanici e, solo dopo la morte dello stratega buono, quando era nuovamente Giorgio Castriota, “il suo popolo” fu protagonista primo, del modello di integrazione più solido e duraturo tra popoli con differenti identità e credenza, oggi denominati Arbëreşë, senza in alcun modo colpo ferire.
Per questo definire tutti con lo stesso identificativo, si perde il tempo, il momento sociale in fermento e la necessità degli Arbëreşë di salvare la propria identità.
Confondere e fare di tutte queste genti un fascio, non da merito al periodo storico in cui gli eventi sono avvenuti, oltre gli scopi per i quali, questi furono indirizzati ad emigrare e insediarsi, secondo la nota diaspora balcanica.
Tutto questo è avvenuto con il fine di rendere un giusto supporto all’identità, che altrimenti sarebbe stata compromessa, come e successo a quanti hanno preferito seminare quelle terre e, non seguire agli Arbëreşë che si trasferirono nelle terre parallele ritrovate, oggi noti per le vicende storiche vissute come i fondamenti o riferimento antropologico del vecchio continente denominato Europa.
Questi fondamentali trascorsi storici, riassumerli in banalissime migrazioni, cavalleresche, militari, di bottega, per allevare e dissodare terre è la più grande offesa, che si possa fare al genere umano, specialmente quando si confondono le necessità dei richiedenti e quelli degli arbëreşë, pronti ad essere sottomessi e resi schiavi non solo del proprio fisico ma del loro pensiero e delle future generazioni, quelle che oggi restano e sono i più evoluti di quelle terre antiche e colme di consuetudini inarrivabili, nonostante il perpetuo ideologismo islamico imperante e mai in quiete.
Questo fa capire quanta responsabilità, hanno oggi quanti sono nati negli ambiti illuminati dal camino gestito dal ministro della casa, una dei componenti del Governo delle donne Arbëreşë, che allevano i propri figli con gli ingredienti dei cinque sensi con misura e garbo.
Quindi, quando sentite parlare, disquisire, pubblicare o editare di questo popolo, bisogna essere molto attenti nell’ascoltare cosa viene riferito, sulla base di quale esperienza del bisogno di tutelare e sostenere un antico protocollo, che nessuno è riuscito a scrivere, disegnare su fogli, muri e terra, perché fatto di movenze e parlato armonico tipico del Governo delle Donne e, compreso dalla sola discendenza a cui viene o è indirizzato.
Commenti disabilitati su IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)
Posted on 29 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel comune disquisire dei capitoli a riferimento della minoranza storica degli Arbëreşë, è diventato un continuo dire, fare e primeggiare in ogni cosa e in ogni ambito del globo, quando le cose degli uomini hanno avuto un luogo, un momento e una stagione per essere rese fattibili, da ciò si deduce facilmente che la minoranza storica, proprio per questo, non poteva essere in ogni dove e in tutte le epoche presente.
Certamente le cose fatte e attuate dagli Arbëreşë, se oggi le volessimo analizzare con dovizia di particolari per esporle, dovrebbero essere collocate di diritto negli scenari dell’intelligenza artificiale, mediatici e del giornalismo additando e raccontando con seria disinvoltura i risultati inarrivabili ancora oggi.
Ormai il senso dei valori di cui gli Arbëreşë sono stati protagonisti in prima linea, nell’evoluzione delle terre ospitati e, poi via via come cerchi concentrici sempre più laghi, in tutto il vecchio e i nuovi continenti.
I temi dove essi primeggiarono sono state le politiche sociali, l’interpretare antichi editi, il genio di luogo per collegare e bonificare terre, la diffusione di notizia per le masse meno abbienti e cosa più fondamentale per, aver avuto il merito di integrarsi senza infliggere pene per quanti li accoglievano, realizzando per questo il modello storico dell’integrazione più solido del mediterraneo.
Questi sono i temi che al giorno d’oggi, non hanno bisogno di condimenti, salse, pietanze, battaglie e danze, senza citare inutili figure, per far emergere gli stati di fatto dove gli Arbëreshë restano e sono inarrivabili in tutto il globo.
Se solo chi si espone sapesse parlare di Giorgio Castriota, Pasquale Baffi, Luigi Giura e Vincenzo Torelli, potrebbe lasciare una scia indelebile della necessità che la politica Italiana Europea e di tutto il vecchio continente vanno predicando in forte affanno e, non trovare agio o metrica risolutiva, in nessuno dei fronti politici e di credenza in forte contradizione.
Basterebbe conoscere le dinamiche storiche e gli eventi dove queste figure sono state protagonisti e, si troverebbe senza tanto patire risposte o soluzioni per:
– una risposta al conflitto Palestinese, Israeliano o, trovare soluzione alle masse migratorie di cui si riferiscono e non si sopportano le male fatte;
– Uguaglianza tra generi, come la stessa istituita millenni addietro dove i gruppi erano sostenuti dal governo delle donne e da quello degli uomini, presidenza del consiglio e quello della repubblica.
– dare una risposta alle inquietudini delle minoranze in continuo affanno, di parità sociale;
– costruire ponti dove servono e quando sono indispensabili con tecnologie innovative;
– diffondere l’intelligenza artificiale dove contribuisce a fare scuola in atti costruttivi, senza prevaricazioni sociali o di genere;
Questi esempi esposti in maniera riassuntiva, se analizzati nelle pieghe più profonde, sicuramente diverrebbero temi molto più interessanti e utili del fare politica per dare risposte alle numerose domande senza risposta, che ogni sono stese alle antenne radio televisive o sui cablaggi delle fibre ottiche non al sole come:
– coloriture improprie su pareti e porte storiche, allestire esponendosi a cucinare in pubblico, riferire di case e di chiese che parlano e chissà a quante altre diavolerie sono pronte ad essere inaugurate nei vutti storici a forma di croce:
– istruire nuove generazioni secondo protocolli indigeni, non è certo un bel vedere, specie se i protocolli giungono da est dove credono ancora alla leggenda del capretto che allevo Giove;
– allestire manifestazioni, toponomastiche e rievocative di un passato colmo di soprusi sangue e danze, sopra i corpi dei vinti.
-titolare, tradurre e tramandare toponomastica, in maniera a dir poco infantile se non inopportuna, specie per chi non ha titolo e formazione, ma veste fasce e abiti istituzionali
– allestire storia secondo l’antico manuale dei potenti che riteneva il popolo fatto di ignoranza e chi governa può dire e fare tutto.
Gli esempi da sottoporre e non diffondere sono molteplici, quindi è meglio fermarsi per attendere che chi comanda sappia cambiare idea o abbiano più fiducia, di che non si sporge pericolosamente dai campanili, preferendo restare con i piedi a terra e parlare pino, in Arbëreşë.
Non per essere ascoltato da comuni viandanti distratti o di chi cerca opera di cultura fatua, per fare spettacoli radio televisivi o notizia.
Oggi è il tempo di seguire quanti con operosità traducono e interpretano ogni cosa, per tracciare in maniera indelebile la storia dai tempi del Kanun, seguendo il solco strategico da Giorgio Castriota, seminato di grano buono, dai su citati eccellenti di genio Arbëreşë.
Tre è il numero perfetto e Baffi, Giura e Torelli il modello da seguire e imitare, gli altri…. riversano aceto sperando un giorno, diventi vino buono.
Commenti disabilitati su LE COSE BUONE NATE NELLE TERRE NOSTRE ARBËREŞË (Sà thë Mira u Lljènë Nde deratë Tonà Arbëreşë)
Posted on 24 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La popolazione Arbëreşë prevalentemente allocata all’interno nell’antico circoscritto un tempo regno delle due Sicilie, la cui parte più consistente, ha trovato agio e riferimento orografico a nord di Cosenza nelle colline che vedono scorrere Crati e Coscile.
E in questi anfratti naturali che dimorano, perché trovarono senso dei luoghi paralleli, della terra di origine, fatti di strada romana, clima mite, presidi idrici, pascoli e, frutti dalla generosa terra.
I comuni o Katundë nei quali ancor oggi si può ascoltare il riecheggiare della parlata arbëreshë, sono ubicati a sud dell’Appennino Lucano e l’altopiano Silano, ed elencando da nord verso sud troviamo i centri storici di: Castroregio Plataci, Civita, Frascineto, San Basile, Firmo, Lungro, Acquaformosa; continuando più a sud, sulla Catena della Mula abbiamo: Santa Caterina Albanese, Cerzeto, San Benedetto Ullano, Cervicati, Mongrassano, Cavallerizzo, San Giacomo, San Martino di Finita, Rota Greca e, chiude; il sistema abitativo sulle pendici della catena Falconara Albanese, quest’ultima, l’unica ad affacciare a mo’ di vedetta sul mar Tirreno; al centro di questo singolare sistema comunitario, si stendono i centri di Spezzano Albanese e San Lorenzo del Vallo; a destra della Valle del Crati e precisamente a nord della Sila Greca risiede la comunità più ricca di tradizioni storiche e culturali, ne fanno parte: Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio C., Macchia A., San Cosmo A., Vaccarizzo A. e San Giorgio A.;
È in queste terre che gli arbëreshë assolsero con onore gli impegni assunti nelle capitolazioni, abbarbicandosi e trovando il giusto equilibrio nei valori religiosi, e nelle tradizionali consuetudini di memoria del parlato e del canto.
Dopo due secoli e le note vicende di scontro e confronto vennero posti all’attenzione Vaticane, poiché i valori di genere, avevano perso ogni decoro e, non trovando alcun dialogo la credenza di Roma, una nuova opportunità andava predisposta per non isolarli completamente.
Fu allestita pe questo la struttura del collegio Corsini affinché garantisse l’idonea formazione dei religiosi di rito Greco Bizantina, parlanti in Arbëreşë, ma purtroppo, sia la struttura che la gestione non diede i risultati attesi, abbarbicandosi per diversi decenni ai soliti, ristretti referenziati.
Il rilancio della istituzione religiosa la si deve alla intelligenza ed alla caparbietà del “Letterato e il Vescovo”, i quali intuito che la struttura doveva avere una idonea sede, una oasi culturale in grado di consentire la forza economica e logistica a formare un numero adeguato di ecclesiasti, con docenti capaci di elevare culturalmente le popolazioni Arbëreşë e del relativo bacino indigeno della Calabria Citeriore.
Per lungo tempo queste due figure sono state esposte in secondo ordine, preferendo personaggi privi di autorevolezza, culturale, religiosa e sociale, arrivati dopo che la tempesta di rinnovamento si era placata e, la traccia nella storia del regno di Napoli era stata definita indissolubilmente, per divenire Italia Unita.
Il fautore di questa traccia epocale furono, Pasquale Baffi e Monsignor Francesco Bugliari, ai quali va dato atto che oltre ad aver trovato al Collegio Corsini l’ideale oasi di tranquillità economica, strategica, architettonica e, per essa, donato sin anche la vita.
L’evento dell’assassinio fu celato dietro la rivoluzione del 1799 a Napoli e, il saccheggio di Santa Sofia d’Epiro l’agosto del 1806.
Il meridione d’Italia è salito spesso agli onori delle cronache per i delitti di mafia, ma volendone tracciare un macabro elenco, tra i primi figurerebbe quelli di Baffi e Monsignor Francesco Bugliari da Santa Sofia D’Epiro, i più efferati e privi di adeguate indagini storiche, se non per uno, che a breve renderà misura e luce alle prove e i motivi che ne causarono il vile maltolto, lo stesso che nella astoria è diventato regola culturale, che non fa migliorare e progredire gli Arbëreşë.
L’oasi o fabbrica di cultura, di pensiero morale e liberale, realizzato ha dato l’idoneo impulso per poter mantenere viva la religione, la lingua e tramandare precisamente le suggestive tradizioni Arbëreşë.
L’isola di sant’Adriano, venne più volte depredata, messa in vendita e data alle fiamme dalle popolazioni con essa confinanti; non essendo in grado, tutti di cogliere il valore sociale, considerandola solo come un gioiello utile per essere defraudato.
Nel collegio di Sant’Adriano ha avuto modo di formarsi quella classe di maestri che hanno dato avvio a quel processo di alfabetizzazione tanto agognato dal Baffi, il quale nei salotti culturali della Napoli capitale, indicava nell’analfabetismo uno dei mali che affliggeva il meridione.
I contesti in Arbëreşë se ancor oggi resistono e, hanno la possibilità di esprimere valori propri comuni, lo devono agli ecclesiasti e ai maestri che ebbero modo per dissetarsi culturalmente nell’oasi di sant’Adriano, da qui uscirono quei preti di religione Greco Bizantina che seppero tenere in vita i riti e le tradizioni dell’antica terra oggi Albania, oltre i maestri che con il loro sapere, diedero la svolta epocale alle province calabresi perfettamente integrare con gli esuli.
Se per gli ecclesiasti il compito avveniva in contesti religiosi ritrovati, per i maestri il compito si presentava molto più arduo, infatti essi dovevano fungere da perno tra la lingua Italiana e quella Arbëreşë, comunque il processo di scolarizzazione era inizio, innescando il processo formativo diffuso, del XIX secolo.
Agli inizi del 1900 maestri che alfabetizzarono le comunità albanofone provenivano anche dai centri Calabresi, assoggettati chiaramente alla legge degli alloglotti, creando non pochi dissidi tra il corpo docente indigeno con quello locale.
A Santa Sofia D’Epiro tutti riconoscono sia l’utilità degli ecclesiasti e sia quella dei maestri che si sono avvicendati nel corso di più di due secoli, ed entrambi hanno preservato la religione e la lingua, avviando il sistema scolastico Italiano con l’adeguata preparazione, assolvendo così l’antico impegno che il collegio Corsini gli aveva lasciato in eredità.
Oggi purtroppo i sistemi di scolarizzazione religiosa e culturale non è più riferimento, perché non più svolto con lo stesso senso di abnegazione e responsabilità dei vecchi pionieri.
Nella scuola la vecchia legge degli alloglotti ormai decaduta, perché considerata discriminante o addirittura razzista, provocando così la naturale perdita di riferimenti della lingua Arbëreşë, non avendo più idonea solidità per attingere sapere e certezze linguistiche e religiose.
La cosa che più duole è che nulla si prospetta all’orizzonte, sia esso un progetto, un’idea o un sistema, che possa univocamente preservare gli antichi riferimenti ugualitari definiti dalla “Kesa Arbëreşë”.
Gli ecclesiasti che conoscono tradizione, lingua e precise cadenze religiose non sono in numero sufficiente e motivati al mantenimento di esse, i maestri di un tempo sono stati sostituiti con professori che si dedicano a problemi sociali, psicologici, sociologici, oltre ad una miriade di aggettivi che fanno dimenticare l’antico mestiere, il quale doveva assolvere al semplice compito di legare i riferiti linguistici e, vocali alla parlata Arbëreşë.
Tutti i paesi albanofoni hanno avuto due generazioni di maestri, in grado di sollevare vertiginosamente il livello di alfabetizzazione in questi centri, a cominciare dagli anni 40; Santa Sofia d’Epiro ha avuto il suo gruppo formato da Baffa P., Pizzi V., Becci V., Becci R., Rizzuti F., Mendicino A., d’Auria G., Mazziotti I. o dagli anni cinquanta e sessanta, le generazione che li ha idoneamente sostituiti di cui facevano parte: Baldini R., Rosini G., Miracco P,, Sanseverino U., Baffa M., Caccuri F., de Luca A., Mazziotti A. maestri che con l’idonea formazione del parlato Arbëreşë, seppero preparare adeguatamente intere generazioni di giovani sofioti, per affrontare gli studi delle scuole Italiane, senza smarrire il senso dell’idioma originario.
Anche così è stato per i prelati che si sono succeduti alla guida delle chiese dei comuni albanofoni, i quali oltre a impartire le regole della religione, dovettero difendersi dal prevaricamento continuo che veniva dalla chiesa latina, la quale non ha mai visto di buon grado la presenza nel territorio Greco Bizantini, con la piena consapevolezza del mandato che avevano ricevuto, essi si sono fatti rispettare ed apprezzare per i risultati a cui sono addivenuti.
Oggi purtroppo e nonostante più attestazioni generiche, tutto dipende dalle stagioni che attendono di essere riproposte per continuare l’antica consuetudine, fatta di poche essenziali cose, condotte dai vecchi e sapienti maestri parlanti l’Arbëreşë senza attingere dalla moderna terra madre che si è resa finalmente conto che fa parte dell’Europa strategica.
Posted on 15 settembre 2024 by admin
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Posted on 13 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I costumi Arbëreşë sono veri e propri manuali, un componimento sartoriale, cucito e rifinito dal XVII secolo, seguendo le direttive, di credenza e contenuti.
Essi per questo assumono un ruolo culturale solido e continuativo, il più colmo di memoria delle origini e quanti hanno modo di osservarli, avendo sempre a fianco un illustratore adeguatamente formato, ne possono cogliere i valori di appartenenza.
Il costume per questo rappresenta un vero protocollo figurativo, fatto di contenuti depositati con garbo, in quelle innumerevoli cuciture e pieghe, come si fa con i libri o, quando si dipingono paesaggi per memoria.
Essi rappresentano la traccia dell’antica civiltà mediterranea Arbëreşë Bizantini, attraverso cui sono stati inseriti, concetti generali delle civiltà Indo-Europee.
Si riconoscono per il percorso che svolge la donna nell’ambito del governo delle donne nel corso della vita, in ruolo di: Sposa; Regina della Casa; Giornaliero; Vedova; Vedova Incerta.
Le stoffe di questi vestiti tra le pieghe, i ricami e colori sin anche in doratura clericale, contengono le tracce del cammino di noi arbëreşë, per questo il costume, indossato in maniera superficiale e con poca gradevole devozione, denota tutto il disprezzo verso le pene dei nostri avi, i quali, riverberarono sudore e sangue, per lo sviluppo economico e sociale delle discendenze in quelle sante terre parallele ritrovate.
Come i costumi e, del resto altre cose di dominio generale materiale e immateriale, contengono strati multisecolari, facilmente leggibili con figure titolate o con memorie storiche locali, con i quali e per i quali, confrontando le cose con quelle della odierna Albania, lasciano emergerebbe quanta differenza culturale sia stata introdotta nelle cose parallele portate dalla terra di origine, oggi, moderna storia Albanese, e mi riferisco a quella oltre Adriatico istituita agli inizi del secolo scorso, dove sono attinte atti e movenze, da quell’est, che agli avi Arbëreşë mirava ad incuneare amaro e pena islamica.
Da non confondere, con i legami della civiltà dei nostri antenati dell’antichità di quelle terre, con quanti, oggi con movenze ignobili femminili, arrivano per ricordare i primi venticinque anni del nostro eroe Giorgi Castriota, dipingendolo di “beg” e non d’azzurro dell’Atleti di Cristo.
Nessuno cita le vicende di mutuo soccorso, quello, sano e indissolubile del Drago, che è raffigurato, nella Capitale Napoli dal XV secolo, lo stesso che ha consentito ai nostri avi, di essere accolti e considerati come profughi buoni e, non da invasori violenti e malvagi, un costume, che nessun genere di radice Arbëreşë, ha mai indossato.
Nonostante nel quindicesimo secolo sia stato fuso in materiale bronzeo l’apporto dell’atleta Giorgio oggi lo si espone senza attenzione alcuna come quando lui era ricattato e costretto a fare gli interessi delle cupole con terminali caprini di corna difformi e, simulare luna crescente
Infatti le coloriture dello storico costume, sono di Azzurro: il Cielo la credenza; Rosso: la Fedeltà; il Verde: il Lavoro della terra; l’Oro la solidità o fondamenta economica; l’Argento: il Lavoro in miniera, Il Bianco Ricamo; il Marrone, la non conferma del marito scomparso; il Nero, il lutto; Il Nero sul Bianco, il lavoro di casa: Il Bianco ricamato la fonte per sostenere i generi.
Queste vesti, che passano di generazione in generazione, alcune volte sono state anche prestito, per avere misura di nuove confezioni, tuttavia se la conformità fisica o meglio l’anatomia della ragazza prescelta ad essere sposa, moglie, madre e, se le vesti non collimavano secondo un preciso protocollo di vestizione per la rappresentazione finale, con quella della modella in studio di vestizione finale, si preferiva non imprestare quelle vesti.
La misura che le sagge indossatrici del passato erano proporzione fondamentale si riferivano ai fianchi, i glutei, i seni e il rapporto dal giro vita, sino alla cima dei capelli, con quella di estensione sempre dal giro vita di gambe sino al tallone del piede, due armonie fisiche, che se non riconosciute o individuate, dalle sagge madri indossatrici, a misura d’occhio, non davano agio di accoglienza per la prescelta, la quale dimessa con garbo, si doveva rivolgere ad altre sagge locali, che possedevano vestizioni per un fisico, poco armonico e con volumi che andavano altre la tolleranza da sposa.
Il manuale completo di vestizione è molto articolato e, in questo breve non è il caso di espandere in tutte le sue parti, Tuttavia esso abbraccia tutti gli elementi compositivi, i quali se non adeguatamente aderenti e coprenti con saggezza le parti femminili della procreazione con garbo e misura per il genere femminile che si espone a procreare, diventano mera esposizione senza volto o valore femminile, come purtroppo frequentemente accade senza alcun garbo e rispetto, in musei e feste di rappresentanza.
Il protocollo è ancor più articolato e consistente, fornendo l’indelebile e unico protocollo di vestizione, che unisce il camino della Casa, con l’altare della Chiesa, tuttavia, forse è meglio rimandare ad altre attività compilative della nostra storia e, qui, non distrarre troppo i comuni viandanti.
Tuttavia è meglio non esagerare con temi e diplomatiche di lume veritiero, altrimenti si finisce per alterare troppo la realtà allestita da e per viandanti, i quali affermano e dicono di aver studiato ogni cosa, non avendone e lume per farlo, in specie come quello rilasciato dagli Olivetani moderni per esporre cose lette, riverse e definite da altri.
Resta un dato, ovvero, che nonostante l’intellighenzia artificiale, ringrazia e accoglie tutti i cultori di spessore che collaborano con lei e gli offrono nuove diplomatiche di conoscenza, quella degli umani fatta di Istituti, Istituzioni, Amministratori titolati da comuni studiosi o topi di archivio, biblioteche e musei senza muse di memoria compiuta, discriminano quanti si distinguono in discipline specifiche, lasciandoli penare come è successo ad Adelina Pizzi, che non le e stato dato neanche l’agio di essere anagrafica.
Ed è lei che oggi osserva misura, disapprova quanto di parallelo e vile, le sia stato reso, per negarle sin anche la vita a lei e agio per quanti donato tutto per il bene della R.s.d.s.A., lei essendo consapevole che il cielo è colmo di pianeti buoni, con una Luna e un Sole, questi “ultimi” mai assenti e sempre pronti a dare visibilità a tutti gli uomini che istituirono, inventano, promuovono e distribuiscono senza mai riposare il male assoluto e fine a sé stesso.
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Posted on 04 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.
I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.
In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.
I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.
Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.
Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.
La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.
Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.
Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.
Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.
Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.
Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.
Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.
Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.
La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.
A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.
Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.
Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.
Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.
Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.
I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.
Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.
Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.
Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.
Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.
Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.
Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.
Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.
Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.
Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.
Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.
Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.
Commenti disabilitati su I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)