Archive | luglio, 2025

ARBERJA E IL GAMBERO ROSSO CHE CALPESTA LE ORME DEL PASSATO

ARBERJA E IL GAMBERO ROSSO CHE CALPESTA LE ORME DEL PASSATO

Posted on 16 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi ha la fortuna di avere natali nella capitale culturale degli arbëreşë, eredita gli elementi fondanti della formazione intellettuale e riveste il ruolo notevole per tutelare le tradizioni i valori materiali e immateriali di questa storica popolazione indo europea.

Se poi il prescelto, intraprende i percorsi di crescita e formazione Olivetana si comprende in modo determinante e senza dubbio alcuno, la riuscita di questo protocollo infallibile.

La conferma si palesa nell’osservare quali strumenti si utilizzano per interpretare, ricostruire e valorizzare la regione storica diffusa e sostenuta dal geniale protocollo del parlato senza scrittura arbëreşë.

Da oltre due decenni si producono ricerche e studi volti a dare valore a una storia fatta di avvenimenti cruciali del passato, riferibili a una comunità che continua a esistere ai margini della memoria collettiva.

Questo progetto, nasce dal desiderio profondo di ricostruire la radice unica e indivisibile di questa minoranza, non inseguendo il parlato da tradurre per essere scritto, ma associando a questa i costumi e, la memoria rivolte al vernacolare del costruito in tessitura, secondo i canoni paralleli di un popolo diasporico.

Tuttavia e bene precisare che tutto ebbe inizio nel largo dello storico “Trapesò”, in Terra di Sofia, per una promessa data e, che doveva essere sortire con il ritorno trionfale in quel luogo e spiegare cosa fossero gli elementi che circoscrivono quella prospettiva antica

Da quel giorno, senza soluzione di continuità la caparbietà del portatore sano, è stato circondato da ostacoli invisibili da superare, negazioni fraterne da ingoiare, ostilità diffuse da schivare e sin anche il mormorio alto da valicare.

Raccontare degli Arbëreşë, non è solo un esercizio di ricostruzione storica di un parlato o la vestizione di mezza festa e mezzo lutto, come largamente viene diffuso sin anche dai musei, ma un atto di resistenza culturale contro l’oblio dei tanti dottorati.

Interessarsi dei discendenti giunti in Italia tra il XV e il XVI secolo, in fuga strategica dall’avanzata ottomana, ad est del fiume adriatico, ha consentito il preservare nei secoli il senso di una forte identità, e nel contempo ha tessuto le maglie dell’integrazione con le genti d’Italia.

E nonostante questa storia sia ai più, ignorata, sottovalutata o relegata ad essere note a piè di pagina nei manuali ufficiali, il tutto denota la sottrazione di un popolo protagonista, che spinge a non si arrende, nonostante il tempo e le difficoltà della storia e delle istituzioni tutte che non la menzionano, neanche in una giornata, come fanno con tutte le cose.

Questo progetto è il tentativo di restituire dignità, visibilità e futuro a una memoria viva, ma sempre più fragile e, non si tratta solo di una ricerca storica, in quanto atto di giustizia e responsabilità verso un’eredità ad oggi di memoria che rischia di scomparire.

Uno degli aspetti più frustranti di questo lungo cammino è stato constatare che a spegnere, spesso, gli entusiasmi diffusi e profusi non siano stati i grandi ostacoli strutturali, né la mancanza di fonti o materiali, ma piuttosto l’atteggiamento di chi, pur non avendo titoli né metodo, si erge a custode della memoria per semplice frequentazione di archivi o biblioteche.

Sono stati proprio questi “passeggiatori sulle carte”, spesso animati più dal bisogno di protagonismo che da rigore o rispetto, a rendere difficile un solido percorso, trasformando la ricerca in un terreno minato da giudizi sommari, gelosie, superficialità e ignoranza da pidocchio che si crede mugnaio.

Vedere un patrimonio così prezioso come quello arbëreşë trattato con leggerezza, o addirittura usato per fini personali, è doloroso.

Ancor più doloroso è dover giustificare la serietà del proprio lavoro a chi non ha strumenti né volontà per comprendere la profondità di una ricerca autentica. Eppure, malgrado tutto, continuo.

Perché il mio impegno nasce da un senso di responsabilità, generato da titoli e confronto solido, con i padri della storia, del restauro, dei musei e dell’architettura nelle varie epoche della storia e, non da un bisogno di approvazione.

A tal proposito è opportuno precisare che non è sufficiente limitarsi alla semplice ricerca e lettura delle fonti, in quanto si ritiene fondamentale saperle interpretare e collegare tra loro, per tracciare una visione d’insieme coerente e approfondita d’argomento di studio.

Se la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë si ostinano ad appellarla “Arbërja” (?), una incomprensione storica radicata in chi ha provato a fare storia ci deve essere, ed è ancora gravemente abbarbicata nella mente dei liberi “passeggiatori dormienti e lagrimosi sulle carte”.

Nel film “I cento pass i” lo scontro tra generazioni nasce, perché il genitore imponeva silenzio e, il figlio, gridava consolidando così, un conflitto chiaro, frontale e, a volte persino eroico, tra passato e presente.

Nei Katundë oggi succede il contrario, in quanto i figli credono di sapere e distruggono, vendono e palesano cose di penosa vergogna, mettendo i genitori saggi, in condizioni di non parlare e non consentire loro di respirare speranzosi che possano soffocare.

Non è più lo scontro tra generazioni a segnare il tempo, negli ambiti paralleli ritrovati del sud Italia, dove oggi, non sono più i padri severi e figli ribelli, ma si palesa un mondo al contrario.

Ora il silenzio arriva dalla memoria più profonda, serpeggia tra coetanei tutti uguali, volti giovani che gridano senza ascoltare emulando canti senza ragione, con radice di musicanti.

Non c’è un’autorità che impone il silenzio, non c’è censura, non ci sono minacce, non ci sono mamme che consigliano, ma un parlato che spezza questi luoghi prima ancora di essere parola.

Il tutto si traduce e viene diffuso, in pensiero che muore nella distrazione collettiva, mentre si cresce tra schermi e slogan, condivisi senza alcuna forma di rispetto delle cose del passato.

Ogni frase è un’eco che si perde prima di trovare un orecchio, ogni opinione si dissolve tra altre mille incomprensioni, tutte uguali, tutte urlate e senza una cognizione di causa o bisogno che sia di quel luogo.

Il dialogo non è negato, ma dimenticato, il confronto non è vietato ma deriso e quanti provano a costruire e dare senso alle cose del passato, si trovano a parlare in una piazza vuota, piena solo di urla e rumori riverberati dai distratti viandanti della breve sosta.

Non serve più zittire, oggi è più comodo non ascoltare e, il silenzio non trova più un colpevole, ma solo testimoni muti o complici volontari che avranno compenso di poco conto.

Questo è il quadro o l’immagine del un nuovo silenzio, non generato dalla paura, ma dalla resa solidale di tutte le generazioni in crescita che non sanno cosa dire.

Le stesse che preferiscono ballare in costume non per festa, ma per scoprirsi e dimostrare di appartenere a un genere alternativo che ancora non esiste.

Il tutto si palesa in maschere colorate, per non guardarsi negli occhi e fare in modo che le ferite prodotte possano diventare spettacolo moderno.

Essi non cantano, ma gridano forte e, certamente non per passione, ma per farsi sentire sopra il rumore che loro stessi creano battendo i piedi a terra senza ritmo.

Ogni suono è amplificato, distorto, vuoto e la melodia ha ceduto il posto all’effetto riverberato che si protrae oltre il tempo dello spettacolo.

I muri non raccontano più storie, non portano più voci ribelli o sapienza del bisogno, ora sono solo superfici da imbrattare, con firme che non dicono nulla e pigmenti che non sono tipici della natura circostante.

La memoria è un archivio copiato secondo i ritmi di un meme, ridotto a nostalgia da svendere per like.
I nomi si dimenticano, le date si confondono, le lotte diventano travestimenti da sfilare in qualche evento, che ricorda atti di vergogna.

Non c’è più eredità, solo consumo, non più silenzio, solo rumore, non più ascolto, solo riflessi che diventano una forzatura dei cinque sensi.

E in tutto questo chi prova a parlare resta fuori dal coro, e ogni cosa si trasforma in un sussurro che riecheggia sterile un mondo che urla senza dire o fare nulla.

“il fatuo vince e la memoria si accantona”, il fatuo vince, perché luccica, perché dura un attimo e non pesa, esso non chiede impegno, solo ascolto dei più distratti, perché è leggero, ma fa rumore.

E mentre il fatuo trionfa, la memoria si accantona, si piega, si nasconde, si dimentica e, diventa un oggetto fuori moda, una cosa da vecchi, un ingombro inutile che deve essere velato perché richiede troppo impegno per essere sostenuto.

I racconti si sbiadiscono, le lotte si riducono a frasi da stampare su magliette, i nomi si perdono e ogni cosa diventa buona per diventare spettacolo come si fa nel circo equestre.

La storia scivola via e non fa più memoria, il presente brucia tutto per bene e, quel poco di cenere che resta, viene spazzata e spenta dal vento, terminando per non illuminare ma adombrare quelle prospettive che attendono di essere osservate.

Vince il mediocre e, quanti non hanno nulla da dire, ma s’impongono con la minaccia di escludere per essere ascoltati, il tutto si risolve nel protagonismo del fatuo, dove non conta il contenuto, basta esserci, basta un volto, un costume o una fascia nera, una frase che suoni bene per dieci secondi, per poi subito dopo non fare più memoria.

A parlare, progettare e appore momenti di storia non sono più i prescelti natii, non i più giusti, non i più profondi, ma parlano tutti, e chi urla più forte diventa verità di ascolto musicata.

I peggiori non stanno più ai margini, hanno conquistato il centro del palcoscenico, infatti erano ultimi non perché esclusi, ma perché vuoti e non capaci di primeggiare in nulla, neanche per spogliatura di aglio.

Essi non sono mai diventati primi ad apparire, primi a essere visti perché la mediocrità non si nasconde più, ma va esibita, monetizzata e applaudita.

Diversamente dalla memoria che si accantona, tanto non serve a niente nel regno dell’istante e del lento progredire, perché essa è pesante, scomoda, in tutto il contrario del presente che brucia ogni cosa con il crepitio del pensiero che diventa cenere, nel mentre la verità tace e il mediocre vince.

Tutto diventa Katundë del gambero, dove si inizia a combatte il bene, per terminare con il deriderlo, isolarlo e umiliarlo per principio.

Il bene è diventato debolezza, ingenuità da correggere, zavorra da togliere di mezzo e, quanti provano ad essere giusti sono schiacciati dal cinismo degli ultimi.

In questi luoghi di memoria chi cerca il silenzio per pensare o ricordare viene sommerso dal rumore, se non addirittura accusato di nostalgia, come se ricordare fosse una colpa.

E mentre il bene viene cacciato, il male si esalta, non vive più rintanato e, non teme più vergogna.
ma applaudito, vestito a festa, decorato sin anche a bërlok.

Il violento fa spettacolo, l’arrogante viene seguito, il volgare diventa modello crudele è chiamato “autentico”.

Il fatuo vince, il mediocre trionfa, la memoria si accantona e i pensieri si spengono, questo fa diventare ogni cosa Katundë del gambero, che marcia di spalle senza vergogna, calpesta ogni cosa e quello che distrugge lo vede poi da lontano quando non è più in grado di ricostruirlo mentalmente e ne saperlo leggere perché è miope dalla nascita.

In un mondo che spesso appare rovesciato nei suoi valori e nella sua coerenza storica, le comunità rappresentano un esempio di resistenza culturale e custodia identitaria.

La loro capacità di preservare lingua, memoria e tradizioni si configura non come un anacronismo, ma come un atto consapevole di dignità e futuro.

In questo senso, ciò che altrove è marginalità, qui diventa centro, un ribaltamento che non è disordine, ma nuova prospettiva.

La chiusura, utilizza un registro alto e riflessivo, adatto a un pubblico colto o istituzionale e, valorizzare il concetto del “contrario” come chiave interpretativa, sottolinea il valore esemplare della cultura, legandola a temi come memoria, resistenza e prospettiva.

La memoria che ho ereditato da Eleda, oggi festeggia i suoi primi cento e nove anni a cui vanno sommati quelli di nonna Francesca, la vostra radice di fatuo quanti giorni segna?

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-07-16

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LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË  Mendja i Ghëravetë thona

Protetto: LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË Mendja i Ghëravetë thona

Posted on 14 luglio 2025 by admin

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ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

Posted on 12 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il vernacolare del costruito, la toponomastica e i soprannomi all’interno delle pertinenze territoriali e del costruito di un Katundë Arbëreşë sono gli uffici, stesi alla luce del sole in forma sociale e condivisa, che fanno archivio e anagrafe di questi luoghi colmi di storici confronti di operosità.

Per questo l’insegnamento della scrittura di una lingua storicamente parlata può risultare inopportuno, quando non si tiene conto del suo contesto sociolinguistico e culturale.

Le lingue orali, spesso sono legate a tradizioni popolari, di comunità locali o minoranze, che sviluppano nel tempo forme espressive, non sempre adattabili ai modelli dello scritto standard.

Per questo imporre una codificazione scritta può snaturare la ricchezza della lingua, ridurne la spontaneità ed escludere coloro che non si riconoscono in una norma obbligatoria, senza un reale consenso o coinvolgimento della comunità parlante, innescando così processi di trasformare di un patrimonio vivo innestando artifici scolastici, ben distanti dall’uso autentico e quotidiano.

Codificare una lingua parlata spesso significa selezionare una varietà prestigiosa o centrale a scapito delle altre periferiche o di confine non parallelo.

Questo può portare all’emarginazione delle varianti, che sono la parte integrante dell’identità culturale di una comunità.

La standardizzazione scritta tende a sopprimere la ricchezza interna del parlato, privilegiando le lingue più diffuse e comunque altre, innescando la conseguente omologazione che conduce alla perdita di biodiversità linguistica di uno specifico intorno storico.

Quando una lingua parlata diventa oggetto di insegnamento scritto, può assumere tratti formali, normativi e comunque non in linea con la realtà d’uso.

Questo può scoraggiare l’uso spontaneo della lingua, specialmente tra i parlanti nativi, che si trovano oltremodo disorientati dalla nascita.

L’insegnamento scolastico della lingua scritta non deve mirare a trasformare il mezzo di comunicazione naturale in ogni ambito di studio rigido, allontanando i giovani dalla sua pratica quotidiana.

Specie oggi dove ogni settore di studio si espande verso la conoscenza del parlato più diffuso, a scapito delle minori che rimangono nicchia da sottomettere, come lo fu per gli Arbëreşë sei secoli orsono.

Allo stato delle cose odierne è possibile valorizzare una lingua orale senza forzarne la scrittura, facendo uso della documentazione audio e video, l’insegnamento orale, la promozione culturale attraverso canzoni, e narrazioni, come lo fu per i germanofoni nel 1871.

La trasmissione orale, se sostenuta da strumenti moderni e digitali, può garantire vitalità e trasmissione intergenerazionale della lingua senza bisogno di forzarla in una forma scritta.

Una lingua è patrimonio di chi la parla e, qualsiasi iniziativa di normazione o insegnamento dovrebbe partire da un processo partecipativo e condiviso, non da decisioni calate dall’alto.

È fondamentale la comunità coinvolta sia protagonista del processo e, ogni forma di standardizzazione deve nascere da un consenso collettivo, non da esigenze accademiche o istituzionali di parallelismi territoriali ormai omologate ad altri dinamismi.

Tra queste valga di esempio la comunità arbëreşë, che rappresenta un prezioso mosaico culturale, dove si tessono e si intreccia storia, lingua, religione, canto, gastronomia e sapere di radice esclusivamente consuetudinaria.

Tuttavia, spesso la tutela delle minoranze si è concentrata quasi esclusivamente sulla salvaguardia del parlato promosso e diretto in forma ostinatamente scritta, rischiando di ridurre la complessità di queste identità a un solo elemento, scollegato dal vissuto quotidiano.

Misura ne sono le attività dipartimentali orientate in tal senso, lasciando solo piccoli episodi senza ascolto per chi si dirige o previlegia altre strutture, in grado di sostenere questi miracoli di resilienza culturale.

Da questa premessa e per evitare che la minoranza arbëreşë venga percepita come “folclore statico” o come un’eredità “fuori tempo”, è necessario adottare un approccio integrato che valorizzi non solo la lingua, ma l’intero ecosistema culturale e sociale.

Ciò significa sostenere pratiche vive, come l’artigianato, i cunei agrari e della trasformazione, le tradizioni religiose, il sistema vernacola che fa iunctura, la cucina tipica, il canto e le narrazioni orali, il tutto secondo un dialogo aperto con la contemporaneità e con le nuove generazioni.

Valorizzare una minoranza oggi non significa conservarla in una teca, ma attivarne il potenziale culturale, educativo ed economico, rendendola parte dinamica del tessuto sociale.

Solo così la cultura arbëreşë potrà continuare ad essere, non solo memoria del passato, ma risorsa viva in grado di riverberarsi con forza nel futuro.

Nel paesaggio delle macro aree arbëreşë, se si osserva l’architettura vernacolare si ha la misura che essa non è solo estetica, ma tradizione materiale di un sapere antico, nato dal bisogno e affinato dalla convivenza con l’ambiente naturali e la forza dell’uomo che cambia con lo scorrere del tempo.

Case in pietra locale, cortili interni, forni comuni, strade strette e piazze raccolte, raccontano una storia fatta di adattamento, resilienza e senso della comunità.

Questi spazi, spesso trascurati o minacciati dall’abbandono, non sono solo testimonianze del passato, ma strumenti attivi di continuità culturale.

Essi parlano una lingua silenziosa ma potente, quella dell’abitare collettivo, della sostenibilità spontanea, dell’uso sapiente delle risorse.

Da ciò si dedurre che rappresentano il punto d’incontro tra identità e territorio, tra cultura materiale e visione del mondo che segna il suo progredire.

Valorizzare l’architettura vernacolare arbëreşë, quindi, non è un’operazione nostalgica, ma un atto di rinnovata consapevolezza e il dato restituisce dignità a forme di sapere legate al costruire con intelligenza, al vivere con misura e abitare con senso, ma soprattutto riconoscere che la cultura non si conserva o si scrive, ma si abita confrontandosi e parlando.

L’architettura posta in essere dagli Arbëreşë, le comunità insediate in sedici macro aree del meridione Italiano a partire dal XV secolo, rappresentano un esempio significativo di adattamento culturale e ambientale.

Essa si sviluppa su più livelli, rispecchiando le esigenze sociali, economiche e simboliche delle diverse epoche.

La base del paesaggio costruito arbëreshë è l’architettura vernacolare, realizzata con materiali locali come pietra, legno e laterizi crudi.

Le abitazioni tradizionali erano semplici case a uno livello, spesso con tetti a falde ricoperti di coppi, disposte lungo tracciati irregolari che seguivano la morfologia del terreno.

Le stanze erano distribuite in maniera funzionale, e solo in tempi di stabilità abitativa organizzate con stalle o magazzini al piano terra e l’abitazione vera e propria al piano superiore.

Gli spazi domestici fuori l’uscio della porta, erano condivisi tra più nuclei familiari, a testimonianza di una cultura fortemente comunitaria o meglio di iunctura familiare.

Con l’evolversi degli insediamenti e l’incremento dei rapporti l’agro che diventava piò solido e generando fioriture di certezza, l’architettura arbëreshë iniziò ad assumere un carattere più urbano.

Si svilupparono così tipologie edilizie “a profferlo”, ovvero costruzioni addossate lungo le strade principali, con affacci direttamente sullo spazio pubblico.

Queste case, più compatte e articolate, presentavano spesso piccoli balconi, ingressi monumentali e talvolta decorazioni modeste, segnando un passaggio verso una maggiore rappresentatività sociale, pur mantenendo una forte coerenza con l’ambiente e le tecniche tradizionali.

A partire dal XVIII secolo, con la nascita di una piccola élite locale e l’integrazione nel tessuto politico e amministrativo del Regno di Napoli, emersero anche edifici di rango superiore, ovvero i palazzotti nobiliari. Questi edifici, spesso ubicati nei punti più visibili o centrali del centro antico, si distinguevano per la monumentalità della facciata, l’uso di portali in pietra scolpita, lo stemma familiare e la presenza di corti interne o loggiati.

Pur riprendendo modelli architettonici del barocco meridionale, molti di questi palazzi conservano elementi legati alla cultura mediterranea tipica delle coline degli appennini, talvolta visibili nei simboli, nelle iscrizioni o nella disposizione degli spazi interni.

Altro aspetto fondamentale è la toponomastica storica, infatti essa rappresenta un archivio invisibile ma essenziale steso al sole e, i nomi di luoghi, strade, fonti, campi, boschi, alture e distese si custodisce la memoria profonda di una comunità.

Per gli arbëreşë, la sopravvivenza di antichi toponimi, purtroppo molto spesso alterati e incompresi, anche se a volte sorprendentemente intatti, testimoniano o meglio tracciano una geografia emotiva e culturale che resiste al tempo.

Questi nomi raccontano origini, migrazioni, legami con la terra e con il sacro e, non devono essere recepite come sterili etichette, ma frammenti di una narrazione collettiva, radicata nel paesaggio e tramandata oralmente.

Salvaguardare la toponomastica storica significa quindi proteggere una mappa identitaria, capace di rivelare molto più di quanto un semplice cartello possa dire.

Recuperarla, studiarla e restituirla alla comunità e, magari integrandola nei percorsi turistici o nei sistemi di segnaletica, vuol dire dare voce a un territorio che ha ancora molto da raccontare.

Nei paesaggi rurali, la toponomastica dei cunei agrari (frazioni di terre coltivate, appezzamenti, coltivi, confini) rappresenta molto più che indicazioni catastali, in quanto essa è storica, funzionale e culturale. Questi cunei agrari e della trasformazione prendono spesso nomi descrittivi, legati alla forma del terreno, alla qualità del suolo, alla presenza di acqua, all’esposizione o al coltivo praticato, all’uso o il confine sociale che rappresentarono e costituiscono un’autentica “mappa orale” della quotidianità contadina.

Ad esempio, toponimi come “pratj”, “lljmë lljtir”, o “mallj” descrivono rispettivamente pendii ampi, declivi o limiti di utilizzo, mentre nomi come “Kotà”, “kjusà” o “rashi” indicano caratteristiche specifiche di terreno o posizione topografica, in tutto il Catasto ambulante e, gli agricoltori o contadini conoscevano perfettamente la toponomastica dei cunei, identificando i confini e la destinazione dei terreni senza strumenti cartografici o documenti ufficiali.

Il paesaggio per questo, narra e i nomi raccontano non solo aspetti fisici, come pendenza e suolo, ma riflettono anche pratiche agricole, come le coltivazioni prevalenti o l’uso del suolo.

Per questo, individuare il sapere locale, quasi sempre trasmessi oralmente, testimonia un patrimonio di conoscenze geografiche, agrarie e sociali, radicato nella memoria collettiva.

Il tutto poi diventa identità territoriale che serve ad integrare la toponomastica rurale nei progetti culturali e turistici, contribuendo così a costruire una mappa identitaria che parla di come si lavora e si viveva la terra parallela ritrovata dagli Arbëreşë.

A tal fine servirebbe allestire forme in didattica territoriale o laboratori sul campo, cartellonistica naturalistica o app geolocalizzate che possano divulgare agli studenti e ai visitatori i nomi originari e le storie legate ai campi.

Il fine mira a conservare la memoria digitalizzando sia il mappare segnala i luoghi dei cunei agrari con i loro toponimi significa preservandone la visioni del paesaggio altrimenti destinate a scomparire.

La toponomastica dei cunei agrari è una memoria attiva del territorio, un patrimonio simbolico e pratico di relazioni, saperi e lavoro.

Inserirla in un progetto di valorizzazione significa rendere visibile la cultura contadina e, dunque l’identità non solo nelle piazze o nelle chiese, ma anche e soprattutto nei campi, nei muretti a secco e nelle pietre di confine.

In una comunità parlante priva di forma scritta, fanno parte di questo patrimonio di memoria anche i soprannomi non sono semplici etichette: sono parte viva della memoria collettiva. Spesso custodiscono storie, legami familiari, tratti distintivi o episodi che hanno segnato l’identità di una persona. In assenza di documenti ufficiali, un soprannome può diventare l’unico segno duraturo del passaggio di un individuo nella storia della comunità.

Per questo, è fondamentale tutelarli: conservare i soprannomi significa proteggere la lingua orale, le relazioni sociali e la cultura locale nella sua forma più autentica.

I soprannomi sono spesso espressione di creatività linguistica e ironia popolare, possono rivelare dinamiche sociali, gerarchie implicite, ruoli nella comunità o tratti del territorio.

Studiarli e conservarli aiuta a comprendere l’identità collettiva e i meccanismi con cui una comunità si racconta nel tempo e nella storia.

In comunità senza scrittura, i soprannomi aiutano a distinguere tra individui con nomi simili o identici innescando certezze senza sovrapposizioni o margini di errore.

Sono strumenti di memoria viva, tramandati oralmente, che contribuiscono alla trasmissione delle storie locali.
Con il declino della lingua orale, della trasmissione intergenerazionale e con l’omologazione culturale, molti soprannomi rischiano di scomparire e, diviene fondamentale tutelarli, perché oggi significa proteggere un patrimonio che domani potrebbe non esistere più.

Il soprannome crea appartenenza, anche se in forma palesemente scherzosa o ironica, tuttavia rafforza i legami tra le persone e spesso identifica il ruolo di ciascuno gruppo nel tessuto comunitario.

Anche in assenza di scrittura formale, i soprannomi possono essere raccolti e trascritti oralmente, in registrazioni o archivi sonori, valorizzandoli come parte del patrimonio immateriale, a tal fine il consiglio di un “passionato”: cosa aspettate ad iniziare ad archiviare anagrafare e registrare il vernacolare, la toponomastica e i soprannomi?

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025 – 07 – 12

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PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

Posted on 11 luglio 2025 by admin


NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era l’11 Luglio di 276 anni fa che a Santa Sofia d’Epiro, tra le colline della Calabria citeriore presilana, nasceva da Giovanni Andrea e Serafina Baffa, il loro figliuolo “Pasquale”.

In quell’anno Serafina, non  poté provvedere a imbiancare la sua Kalljva, dalla fumigine dell’inverno appena trascorso come aveva fatto di consuetudine  altri anni.

Perché in quella Gjitonia, del “Rione dei Baffa di Sotto”, dovettero tutte le vicine provvedere alla nascita del piccolo Pasquale e, come spesso avveniva l’imbiancare i muri era secondario alla nascita e il battesimo di un nascituro.

Le prime conoscenze linguistiche e di ascolto il Baffa le acquisì in questo luogo, che poi diverrà il palcoscenico di interessi privati, storia di tradimenti, sparse per lavoro di altre figure senza agio culturale, oggi divenuti gli interessi ancora da vantare per numerose figure che in paese non portarono mai avere, un valore come lo fu per Pasquale.

Lo dimostra la poca attenzione con cui sono stati allestiti, poco tempo addietro in questo luogo, additandolo di memoria storica, da quanti per la poca formazione non sanno cosa rappresenta questa Gjitonia.

Allo stato valgono due emblemi di vergogna storica che beffeggiano e deridono questo luogo di onore e dedizione per la crescita del Katundë.

Nel suo diario Münter scrisse: «Non è un napoletano, non è un calabrese, è un albanese, membro di quella colonia che più di trecento anni fa si stanziò nel Regno, e il suo spirito è nutrito in tutto dallo spirito degli antichi e in modo particolare da quello dei Greci.

È un uomo onesto e nobile, incapace di qualsiasi atto che lo possa svilire e, il suo sguardo sfiora dall’alto la plebaglia cortigiana, che ovunque gli frappone degli ostacoli.

L’opinione dei contemporanei era unanime, infatti non solo Baffi era giudicato un famoso filologo, un “Bibliotecario Dottissimo”, un paleografo espertissimo, ma e soprattutto, egli era dovunque ammirato per la «profondità del pensiero», «l’indole mite», il suo «carattere aureo», la sua «dolcezza incredibile» e la sua «infinita modestia, incapace di ambizione veruna».

Ma quella stessa modestia è anche stata la causa del fatto che molti dei suoi scritti non furono mai pubblicati e che oggi questo martire della libertà è pressoché sconosciuto.

Nella brevissima descrizione del suo paese nativo, la «Guida d’Italia» del TCI non fa cenno a Baffi, l’enciclopedia UTET non lo menziona, nel capoluogo Cosenza non vi è una strada che lo ricorda, ed addirittura molti dei suoi «connazionali» Arbëreşë della Calabria non hanno mai sentito parlare di lui.

Poco conosciuta anche l’eccellente biografia,  apparsa sull’Almanacco Calabrese del 1959, dove l’autore, si lamenta della scarsità delle fonti, e si è largamente servito delle «carte Baffi», conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

A nostro turno faremo uso di quella biografia, inserendovi vari dati che ovviamente non potevano essere a conoscenza di un qualsiasi studioso moderno, che si dovesse cimentare nella definizione di questo pilastro della cultura arbëreşë e italiana.

La Gjitonia di crescita per P. B. non durò più di dieci anni, infatti rimasto orfano venne affidato alla famiglia dei Bugliari di sopra, loro parenti e, qui inizia il suo percorso formativo colmo di valori di conoscenza e credenza sociale, oltre che religiosa.

 A cui segui la breve parentesi del collegio Corsini di San Benedetto Ullano dove, già da studente Pasquale scalpitava per salire in cattedra, perché già all’epoca era un elevato conoscenza del latino e del greco, sin anche in ogni forma dialettale e, per il suo elevato valore, il maestro dalla cattedra senza onore, lo fece espellere dal secondario istituto, perché pasquale lo corteggiava di tutte ilarità che il cattedratico diffondeva.

Nonostante ciò il giovane Pasquale, sicuro dello spessore culturale, non si perse d’animo e continuò i suoi studi nella storica università di Salerno, dove ebbe modo di essere conosciuto sin anche tra le mura ecclesiastiche di Cava dei Tirreni, dove sorgeva un importante monastero benedettino, nota come “Abbazia territoriale della Santissima Trinità”, fondata nel 1011 da San Alferio e attiva da secoli come centro spirituale – culturale.

A Salerno si laurea con lode per il suo alto valore e quando i gesuiti furono allontanati dal regno, il Baffa fu chiamato a insegnare il greco nelle scuole pubbliche Universitarie di Salerno e di Avellino.

Nel 1773, con l’autorità del suo nome a ottenere il posto d’insegnante a Portici nella nascente Guardia Marina del Regno; altre vicende lo vedono protagonista sino all’11 novembre del 1799 alle ore 17.30, come quella di essere stato il primo arbëreşë a fare un testo di comparazione linguistica del nostro parlato nel 1776, ma questa e altre vicende sono di competenza degli intellettuali , i preposti accademici che avrebbero dovuto farlo brillare, a tal fine, perché qui dovrei renderle note infondo chi scrive è solo un architetto che segue lo stesso percorso culturale del Baffi e quindi non regala ma fa solo memoria.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-11

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L'ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

L’ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

Posted on 10 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Disquisire, palare o esprimere pareri relativi a una minoranze storica non deve essere finalizzato semplicemente nel difendere una lingua, un canto, un costume tradizionale o trascrivere inadatti abecedari, ma riaffermare il principio secondo cui l’identità culturale non si esaurisce nelle parole che pronunciamo o negli atti di semplice apparizione folcloristica, perché si radica in un modo di essere, in una visione del mondo, in una trama invisibile, fatta di valori, gesti, memoria di un been identificato luogo.

Essere parte di una minoranza, come quella presente da secoli, appellata Arbëreşë, non significa solo parlare un idioma diverso, tramandare melodie antiche, accompagnate dal suono di inadatti strumenti a mantice o corda.

Il che non giustifica adagiare nel presente una storia sensibile di un’etica e relazioni che resistono al tempo e si riverbera senza mai distorcersi, perché una minoranza è uno stile di vita che rispetta la terra abbandonata e, nel contempo valorizza quella parallela ritrovata, in tutto il principio antico, della parola data.

La stessa che diventa forma di pensiero che valorizza il legame tra le generazioni, il senso del limite, il valore delle donne e l’operato degli uomini, i due governi che fanno l’ospitalità più genuina del vecchio continente.

Difendere questa minoranza non è dunque un atto nostalgico, ma un gesto di giustizia culturale, e riconoscere che la vera ricchezza di una società non sta nell’omologazione, ma nella pluralità.

Dato che non esistono “culture piccole”, ma solo sguardi superficiali e, ogni cultura diviene universo, storia, o insegnamento che può essere radicata o aperta, ma fedele a sé stessi per dialogare.

In un tempo in cui tutto corre verso l’uniformità, riaffermare la dignità di una minoranza che resiste è un atto rivoluzionario, o messaggio, in quanto non sono solo ciò che producono o consumano, ma anche memoria e ricordo, di ciò che si sceglie di custodire.

E allora, oggi, non chiediamo solo protezione o riconoscimento, chiediamo ascolto, chiediamo che la nostra presenza sia considerata una risorsa, non un residuo della nostra differenza, in tutto una forma di valore, non una distanza da colmare.

Perché, in fondo, difendere una minoranza significa difendere il diritto di ogni essere umano a essere sé stesso, in modo pieno, libero, umano.

Vale per questo anche la vestizione tradizionale delle donne, che in molte culture e in particolare nelle comunità storiche come quella Arbëreşë, non è semplice modello estetico o folklorico.

Esso rappresenta un codice simbolico profondo, che racchiude valori familiari, religiosi e identitari, che non possono essere stilizzati nell’inadatto adempimento di mezza festa o mezzo lutto, come se questi appuntamenti non fossero un tutt’uno con il sole e la luna che fanno giorni solidi.

In ragione di ciò in questo scenario identitario ritrovato la tradizione commessa all’abito diventa una dichiarazione silenziosa di appartenenza, di rispetto e di sacralità.

La vestizione tradizionale femminile è spesso ispirata a un senso di pudore e di bellezza sobria che rimanda direttamente ai valori della chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa, ma come centro spirituale della comunità.

L’atto stesso di indossare certi capi in determinati momenti come: feste religiose, matrimoni, processioni è un rituale che unisce il quotidiano al trascendente.

Nel modo in cui una donna si veste per la festa, si legge il rispetto per ciò che è sacro, per il tempo lento, per il significato profondo delle cose.

La cura con cui si tramandano gli abiti cuciti, ricamati, aggiustati, conservati, parla di una cultura della casa come spazio di trasmissione dei valori.

Ogni dettaglio, ogni filo, ogni gesto di vestizione racconta una storia: di madri, figlie, nonne.

Ed è nella casa che si impara a portare quell’abito con rispetto, e a comprenderne il valore.

“L’abito non è solo indossato, ma deve essere anche saperlo vivere, tramandare, ereditato, perché esso rappresenta un modo di essere e fare famiglia.”

Nelle culture tradizionali, la donna è ponte tra la casa e la chiesa, tra il quotidiano e il sacro e, l’abito, rappresenta la sintesi visibile di questa alleanza.

Non è limitazione, ma espressione identitaria, consapevolezza di un ruolo che è custode, guida e presenza silenziosa solidamente connessa alla consuetudine della storica radice delle terre gli Arbëreşë furono costretti a migrare con dolore.

Nel silenzio dell’abito c’è una dichiarazione potente, in quanto con esso palesiamo ciò che onoriamo, e onoriamo ciò che amiamo.

Nella vestizione tradizionale delle donne di Arbëreşë non c’è solo tessuto, ma casa, fede e storia. Ogni abito portato con rispetto è un atto di memoria e di futuro, il gesto non vuole essere mero conservare un costume, ma di proteggere un codice etico, un modo di vivere che tiene insieme il sacro e l’intimo, la comunità e la persona e, oggi conoscere per difendere questi segni significa rimanere civiltà inarrivabile.

Che l’Arbëreşë non sia soltanto una lingua è dimostrato da una lunga e profonda tradizione culturale, religiosa e intellettuale che attraversa i secoli e le generazioni.

Parlare di arbëreshë significa parlare di un’identità viva, che ha saputo resistere e rinnovarsi, portando con sé non solo parole, ma anche valori, pensieri, simboli e gesti.

Lo dimostrano, in primo luogo, figure come Giuseppe Bugliari prelato, il cui pensiero lucido e coerente ha rappresentato un faro nella difesa della specificità culturale e spirituale del popolo arbëreshë. Con lui, Pasquale Baffi ha incarnato una forma di impegno civile e culturale che ha saputo unire la fedeltà alla tradizione con l’apertura al dialogo moderno, dimostrando come l’identità non sia una gabbia, ma una radice da cui crescere.

Non si può dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai vescovi Bugliari, custodi della fede bizantina e interpreti di un’autonomia religiosa che ha rappresentato, nei secoli, un baluardo contro l’assimilazione forzata e una forma alta di resistenza culturale.

Il genio di Luigi Giura, figura simbolica di creatività e pensiero, testimonia come il pensare e immaginare in Arbëreşë abbia saputo produrre visioni e opere capaci di parlare ben oltre i confini delle comunità diasporiche.

La giustizia secondo Rosario Giura, che non la misurava in favore dei regnati di turno, che volevano vendetta di ogni gesto che non erano mai reato.

La lealtà di Pasquale Scura, espressione concreta di un legame profondo con le proprie origini e con la propria gente, richiama il valore della memoria condivisa e della responsabilità collettiva.

Infine, l’opera editoriale di Vincenzo Torelli, attento e instancabile nel dare voce e visibilità a una cultura spesso marginalizzata, ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e alla valorizzazione dell’identità Arbëreşë che preferiva il canto alla musica nel panorama culturale italiano ed europeo.

Tutto questo dimostra che l’Arbëreşë non è solo un codice linguistico da preservare, ma un sistema complesso di saperi, pratiche e valori che continuano a vivere grazie al contributo di donne e uomini che, con passione e dedizione, hanno saputo trasformare la memoria in futuro.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                             Napoli 2025-07-10

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LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI'

Protetto: LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI’

Posted on 04 luglio 2025 by admin

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