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LA CALABRIA IL LUOGO DEI BORGHI MA SONO SOLO MONETE DI TARI FALSE (Harràssù na sërèsenë lljtirë e jò katundarë)

Posted on 30 luglio 2025 by admin

DSC_1139NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un tempo, ogni discussione o confronto storico culturale diretto e condotto nei luoghi più comuni, si chiudevano terminavano con il rito dei “tarallucci e vino”.

Era il segno di un’epoca che, tra mille contraddizioni, sapeva ancora trovare un terreno comune, per definire le cose del futuro, in che forma e solidità si lascia al lettore la più poetica conclusione.

Oggi invece, sembra che ogni questione debba inevitabilmente passare per “il borgo” e, tutto mira a un’idea idealizzata di comunità, tradizione e identità perduta.

Ma dietro questa nuova retorica, resta il dubbio, ovvero, stiamo davvero riscoprendo le radici o solo è un moderno fare per svolgere lo stesso copione?

A tal proposito è bene precisare che “il borgo” è un tipo di insediamento abitativo, tipico del medioevo, si sviluppa con perno un emblema costruito che ne domina la via e il luogo.

Si tratta di centri, fortificati, che non raggiungono le dimensioni di una città ma che si distinguono dai Villaggi, Paesi, Contrade, Katundë, Hora, Civitas, Castrum, Porti e Vichi comunque forme di insieme abitativo di epoca post medioevale di radice non germanofona per la loro struttura urbana, comunque di sostanza sociale aperta e solare, senza mura e con la comunità non organizzata in forma piramidale ma diffusamente piana.

Diversamente dai Borghi che sono  sistemi chiusi abitati dal potere e non svolgono attività con l’ambiente circostante, se non quella del comando, diversamente sono gli appellativi, latini greci o italiano che indicano il luogo, un centro aperto in comune convivenza dell’agro che li avvolge e attraverso il quale trovano le vie del confronto e i cunei agrari della produzione degli abitanti qui residenti che li valorizzano.

Infatti il termine “borgo” ha origini germaniche e deriva dal latino burgus, a sua volta dal germanico burg, che indicava un luogo fortificato.

Essi nascono storicamente nel Medioevo e, spesso fuori dalle mura cittadine, come agglomerati di case sorte attorno castelli, come centri di scambio, artigianato e vita comunitaria, spesso in zone strategiche e se fuori dalle mura erano dove i residenti erano i bovari.

Tuttavia negli ultimi anni, “borgo” è diventato una parola simbolo, usata comunemente in chiave politica, mediatica, pubblicitaria per evocare un meridione “da svelare”, fatta di tradizioni, buon cibo, relazioni umane genuine.

Terminando nel diffondere più un’idea idealizzata che una realtà vissuta infatti, in specie il meridione che ha avuto varie epoche di pena diffusa non è certo nel medioevo ha avuto un rilancio progressivo e in particolar modo la Calabria.

A tal fine va precisato che le comunità calabresi affondano le radici in un tempo anteriore e ancora più floride dopo il buio del Medioevo.

Non a caso la Calabria fu uno dei cuori pulsanti della Magna Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., i Greci fondarono città e villaggi lungo la costa e nell’entroterra dell’appennino calabrese, portando con sé un modello urbano aperto, partecipativo e agricolo, legato alla “polis” e alla vita comunitaria.

In questo senso, la vita di comunità nei centri collinari o di pianura calabresi ha origini greche, non certo germaniche.

I Greci valorizzavano il territorio, coltivavano le pianure e fondavano insediamenti dove si poteva vivere e commerciare in armonia con l’ambiente e tra cittadini liberi, rimanendo così sempre all’interno delle logiche solari dell’epoca, ovviamente.

Quando arrivarono le popolazioni germaniche, prima i Goti, poi i Longobardi e via via altri, portarono con sé una visione più chiusa e gerarchica della società, come castelli, feudi, strutture piramidali, controllo militare fortificato e, i “borghi” medievali nascono proprio in questo contesto, ma spesso in opposizione o in sovrapposizione ai nuclei già esistenti.

Quando oggi si parla di “borgo” calabrese attribuendo l’appellativo a specifici centri antichi come se fosse una miniatura medievale in stile nordico, creando così una realtà storica distorta e priva di identità vera.

I nuclei abitati calabresi sono piuttosto l’esito di una stratificazione greco-bizantina e poi arbëreşë, non certo del modello germanico-feudale, che non certo contemplava lavoro e sudore nei campi.

In Calabria “borghi” non nascono tra le nebbie gotiche o nei castelli longobardi, ma sulle colline dove i il sole che passava prima dalla Grecia dialogava con la terra, dove i Bizantini costruivano chiese rupestri, e dove gli Arbëreşë hanno conservato riti e lingue che raccontano storie ben più complesse della favola buie medievale.

I paesi della Calabria nascono perché il luogo era parte viva e pulsante della Magna Grecia, in tutto una sorta di terra parallela e diretta dalla madre Ateniese.

Qui i centri abitati si formano come polis, costruite attorno alla terra, ai riti, alla parola condivisa e, con l’arrivo dei Bizantini, quella radice si rafforza spiritualmente e nasce la cristiana credenza colma di riti, che si diffonde nei villaggi, tra le montagne e i santuari rupestri.

Questa cultura bizantina, minacciata dai Longobardi, sopravvive proprio grazie all’isolamento geografico e alla resistenza delle popolazioni locali.

Poi, nel cuore del Medioevo, giungono i monaci operosi e pragmatici francofoni, che introducono nuove tecniche agricole come le grance, per l’uso del territorio, e in parte contribuiscono a dare forma a un tessuto economico più stabile.

Ma la vera ricchezza della Calabria arriva con le minoranze, grecaniche, francofone giunti al seguito degli angioini e soprattutto gli arbëreşë, che con la loro lingua, i loro riti e l’orgoglio della diaspora, ridanno vita a territori marginalizzati.

Così si compone il vero mosaico calabrese, che non è un sistema di borghi chiusi, ma una rete di comunità aperte, stratificate, resistenti e multietniche.

E in fondo, va detto con chiarezza che furono proprio coloro che vivevano in strutture aperte e diversificate o meglio contrarie al teorema del “borgo” struttura non di potere locale, che non  lo sviluppo della Calabria, chiudendola in logiche feudali, che qui era fissato nel culto del l’uguaglianza e tutti erano liberi di crescere.

Oggi che tutto si appella al “borgo”, serve ricordare che la Calabria ha sempre prodotto cultura, accoglienza e visione, non nei centri fortificati, ma nei margini, nelle minoranze, nelle resistenze e nella continua evoluzione culturale.

In molte zone del Sud, il modello “borgo” non attecchì, proprio perché le popolazioni locali (greche, romanizzate, bizantine) avevano modelli comunitari diversi, spesso più orizzontali e legati a una gestione collettiva della terra.

Oggi, quando si parla di “borgo” anche in Calabria, si rischia di appiattire un’identità molto più antica e ricca su un cliché medievaleggiante, utile per il turismo o il marketing, ma storicamente parziale.

La rinascita di molti paesi calabresi, oggi definiti “borghi”, non è figlia del Medioevo, ma spesso di una riscoperta moderna delle radici greche, bizantine e contadine operose, di un senso di comunità che precede o segue di secoli il modello germanico, che qui non ha mai trovato agio e prosperità alcuna.

La Calabria non ha mai goduto di una rete viaria estesa o ben articolata e per secoli ha avuto una sola grande via di comunicazione, spesso faticosa, precaria, soggetta alle frane e ai dislivelli.

Eppure, sono sorte oltre quattrocento comunità, disseminate tra colline, altopiani, vallate e coste, queste non si sono sviluppate “lungo una strada”, come nei modelli urbani classici, ma attorno a risorse locali, culture specifiche, equilibri sociali interni fatto da uomini credenza e natura.

Non era il commercio a tenere unite queste realtà, ma l’accoglienza, la custodia del sapere, la forza dell’identità locale le risorse agro alimentari.

E ognuna di queste comunità era, ed è ancora, un mondo a sé, che non è mai rimasto isolato, ma interconnesso nella diversità.

Più che da un’infrastruttura, la Calabria è stata tenuta insieme dalla memoria, dalla lingua, dalla spiritualità, dai riti grazie all’operosità dell’uomo sostenuto dalla natura.

Ecco perché parlare di “borgo”, nel senso moderno e uniforme del termine, non basta, giacché ogni paese calabrese non è solo un “centro antico minore”, ma una costellazione autonoma di storia e cultura, nata non da una strada, ma da un paesaggio condiviso e da una necessità di resistere.

Paradossalmente, proprio chi viveva di “borgo” traeva forza da sistemi chiusi, feudali, gerarchici e autoreferenziali, è stato spesso tra i principali antagonisti dello sviluppo calabrese.

Mentre la regione cercava faticosamente di costruire ponti, reti, identità collettive, i borghi intesi come microcosmi autosufficienti spesso hanno coltivato isolamento, rendita e conservazione del potere.

Non è il borgo in sé il problema, ma la sua idealizzazione fuorviante, oggi viene dipinte e innalzata come emblema di comunità e accoglienza, ma in verità è stato strumento di controllo sociale, di immobilismo, di chiusura al cambiamento.

E così, mentre si continua a parlare di “borghi da salvare”, si dimentica che la vera Calabria da valorizzare è quella che ha sempre guardato oltre la sua unica strada, oltre la collina, oltre il confine del proprio campanile.

Se l’individuazione dei centri antichi si basa su nomi attribuiti o mal interpretati come borgo, allora ciò che sappiamo di quei luoghi rischia di essere una costruzione arbitraria.

Il nome, spesso assunto come chiave d’accesso alla memoria del territorio, può diventare un filtro che distorce la prospettiva storica.

In tal caso, ogni studio puntiforme che pretenda di svelare l’identità profonda di un sito, si fonda su un presupposto fragile, in quanto se si sbaglia il nome, come possiamo fidarci di ciò che crediamo di sapere dell’anima intima o del passato di quel luogo?

P.S. a margine e per chiarezza di titolo:

I tari erano monete d’oro e d’argento utilizzate nel Regno di Sicilia e poi nel Regno di Napoli, a partire dall’Alto Medioevo fino all’età moderna.

Il nome “tari” deriva dall’arabo “ṭarī”  che significa “fresco”, “nuovo”, ed era il nome dato a una moneta d’oro araba molto diffusa, chiamata dinaro.

Durante la dominazione islamica della Sicilia (IX-XI secolo), le autorità musulmane coniarono monete simili a quelle arabe.

Quando poi i Normanni conquistarono la Sicilia (XI secolo), continuarono a coniare monete d’oro con caratteristiche simili, mantenendo il nome tari.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                           NAPOLI 2024-07-30

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IL LAGRIMOSO CAMMINO DEGLI ARBËREŞË VERSO LA TERRA PROMESSA  Si u lljeva si sotë nenghë thë pèe

IL LAGRIMOSO CAMMINO DEGLI ARBËREŞË VERSO LA TERRA PROMESSA Si u lljeva si sotë nenghë thë pèe

Posted on 29 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso del XIV secolo, gli Arbëreşë seguirono il percorso per raggiungere la terra promessa dal principe Giorgio, che non porta emblemi di tradimento né sul capo e né sul cuore.

L’eroe diffuse e rese pubbliche le direttive par raggiungere queste terre, come un profeta fa, nel predisporre ogni cosa per l’indispensabile accoglienza, e come fare quando sarebbe giunto il momento di incamminarsi per lasciare, le antiche terre con il cuore e la mente colmi di principi di credenza a fraterna solidarietà.

Una vera e propria” terra promessa” che doveva essere  una nuova patria, su cui elevare i principi di credenza senza compromettere gli altrui o dare l’idea di essere invasori.

Il confine solido e facile da individuare era, il mare Adriatico dove solidamente indica la via di giorno al sole e all’imbrunire anche alla luna buona entrambi che vano verso il sud dell’Italia.

Per loro, questa regione buona divenne “terra promessa”, come lo fu per i popoli che segnarono e segnano la storia tutti alla ricerca di, un rifugio dove poter vivere in pace, mantenendo viva l’identità della terra di origine parallela colmi di ambiti collinari, qui ritrovati.

Ancora oggi, i loro discendenti custodiscono con orgoglio quella memoria di coraggio e speranza di cui ricordano e tramandano gesta credenza e consuetudini.

Una volta individuati i luoghi più adatti nelle regioni del Meridione, in particolare in Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Sicilia, Abruzzo e Molise, gli Arbëreshë si distinsero per la loro laboriosa arte nel bonificare terre e renderle parte attiva della dieta mediterranea, vino, olio, cereali e pastorizia.

Riuscirono a rendere produttive terre abbandonate e a riportare in vita numerosi centri rurali ormai spopolati o in decadenza.

Fondarono villaggi, costruirono chiese, coltivarono i campi e contribuirono attivamente alla rinascita economica e culturale di quelle aree, intrecciando il loro destino con quello delle comunità locali, pur rimanendo fieri custodi della loro identità.

Con il loro lavoro, la loro fede e la capacità di integrarsi senza perdere le proprie radici, crearono uno dei modelli più solidi e duraturi di integrazione mediterranea, senza soluzione di continuità tra cultura ospitante e tradizione arbëreşë.

Tutto questo fu possibile grazie al loro codice linguistico orale, mai formalizzato in scrittura, che tramandava storie, valori e memorie. Le loro gesta rimasero così un fatto intimo, custodito nella memoria collettiva ma ignorato dalla grande storia, e tutt’oggi assente negli archivi e nelle biblioteche.

Oggi, variegate istituzioni religiose, politiche e culturali cercano inutilmente di attribuire a loro uno scritto ufficiale, tuttavia il penoso ardire non è stato mai coerente con la loro natura, che sistematicamente riconsegnano agli illustri mittenti.

Per questo motivo viene caparbiamente e giustamente rifiutata, perché non può essere compresa lo sforzo fatto da chi lavora, da quanti siedono e osservano il tempo che scorre lento e, segna profondamente il radicato di un popolo operoso.

Quando gli Arbëreshë giunsero nel Sud Italia, trovarono villaggi abitati da poche anime, comunità isolate e terre quasi abbandonate, convertendo da subito questi stati di fatto con fraternità ritrovata, costruendo ponti e strade e dando meta a un nuovo modo di abitare ed accogliere.

Con spirito solidale e profondo senso del territorio, si affiancarono fraternamente agli abitanti locali, portando nuova forza e vitalità. Insieme resero quei luoghi nuovamente vivi, coltivando la terra, ricostruendo legami e rafforzando l’identità delle comunità.

La loro presenza non fu invasiva, ma rigeneratrice: un incontro silenzioso che cambiò il destino di interi territori.

Tuttavia, dovettero affrontare ogni sorta di avversità, con determinazione e sacrificio, riuscendo ad averne ragione, innestando radici e custodire la loro identità.

Ma, dalla loro terra d’origine, gli echi della sottomissione non hanno mai cessato di farsi sentire, arrivando fino a qui come un richiamo un ronzio silenzioso in memoria di quella fuga che per i dominatori doveva essere un giorno portata a buon fine.

Gli Arbëreshë, approdati oltre l’Adriatico in cerca di libertà, affrontarono ogni genere di avversità. Nemmeno nella “terra promessa” fu loro concesso di pregare liberamente: la fede, che li aveva sostenuti nell’esilio, venne ostacolata. Eppure, nonostante tutto, divennero protagonisti di unione e custodi di una cultura viva, resistendo al tempo e alle imposizioni. Ma dalla loro terra natia, gli echi della sottomissione continuano a riverberare, giungendo fino a noi come monito e memoria.

La fuga degli Arbëreshë dalle loro terre storiche, alla ricerca di una terra di credenza e libertà, non è mai stata davvero perdonata. Né dai dominatori che li videro partire, né da coloro che li accolsero con diffidenza. Profughi e custodi di una fede antica, affrontarono il peso dell’esilio e il silenzio dell’incomprensione. Eppure resistettero, costruendo ponti tra memoria e identità, tra radici spezzate e nuovi orizzonti.

Se all’inizio fu la diffidenza ad accogliere gli Arbëreshë, ma poi sottoscritti i patti seguirono la forma di credenza a cui si scelsero i patti bizantini, poi formalmente garantita dagli atti dell’Unità.

Ma dal XIX secolo in poi cominciò ispirati dal ventennio Italiano inizia una nuova fase, con cui si e dato avvia allo sminuire e il parlato, sulla scorta del principio che voleva legare la terra promessa e l’antica terra di pena con il filo nero dell’inchiostro.

Ha cosi inizio la progressiva perdita della lingua parlata, e con essa la smitizzazione della figura di Giorgio Castriota volgarizzandolo come uno Scanderbeg.

Un’azione lenta e silenziosa, che oggi transita indisturbata attraverso letterati e governi, senza consapevolezza né memoria alcuna, nel comprendere quanto male si faccia a questo popolo da oltre un millennio.

Così, ciò che era stato rifugio e resistenza rischia di dissolversi nell’indifferenza del presente, a giudicare dai viandanti che qui giungono come turisti della breve sosta.

Si potrebbero fare esempi, offrire certezze, indicare fonti. Ma chissà quanti oggi hanno davvero gli strumenti per comprendere. La verità è che la conquista ottomana, e con essa la repressione delle credenze degli Arbëreshë, non ha mai smesso di esercitare la sua ombra. Anche dopo l’esilio, anche dopo l’approdo oltre l’Adriatico, quella sottomissione si è perpetuata — prima nella diffidenza, poi nella concessione formale, infine nell’oblio. Oggi, tra istituzioni distratte e memorie spezzate, la loro identità continua a resistere, ma senza il riconoscimento che meriterebbe. La storia degli Arbëreshë non è solo una storia passata: è una domanda ancora aperta sul presente.

Difficilmente ci sarà mai spazio per un confronto pubblico autentico, perché i cosiddetti “prescelti” nella nostra terra, pur consapevoli del gioco perverso che si consuma, non hanno né la forza culturale né la conoscenza storica per misurarsi con chi, come i primi Olivetani di Napoli, portavano sulle spalle secoli di pensiero e e credenza da diffondere a chi ignorava sin anche credenza.

La rappresentanza ad oggi è diventata vuota, sterile, e incapace di affrontare le vere domande e, nel silenzio perpetuo che non nasce dall’ignoranza del popolo, ma dalla rinuncia colpevole di chi avrebbe il dovere e l’opportunità di parlare con lealtà verità e competenza.

E tutto si cela dietro i libri, i manuali, i tentativi di formalizzare l’alfabeto arbëreshë, che, in verità, non è mai esistito davvero, o non ha mai avuto un’alba piena, nonostante viene evocato come segno di dignità linguistica, ma è spesso solo una vetrina vuota, costruita per rassicurare coscienze istituzionali, non per custodire davvero una voce viva, sicura e pronta ad essere ascoltata.

L’identità, quella autentica, non sta nei caratteri tipografici, ma nei suoni che resistono nel parlato e il cantare degli anziani, nelle preghiere sussurrate, nei silenzi non tradotti e, finché si continuerà a nascondere la realtà dietro simulacri cartacei, nessuna rinascita sarà possibile.

Quello che resta sono i fatti che dimostrano che essi divennero esempio di ingegno e lungimiranza e, costruirono ponti e strade, divulgarono temi moderati per unire religioni e culturali e, divennero portatori di conoscenza tra le masse prive di istruzione.

La loro presenza contribuì a trasformare territori marginali in centri di sviluppo e, oggi sono un modello di integrazione e progresso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-07-29

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IL GENIO DEL BISOGNO ARBËREŞË A CONFRONTO CON L’IRA DELLE ARCHE VERTICALI  Kalljva e mallj i shëtrëmburë

IL GENIO DEL BISOGNO ARBËREŞË A CONFRONTO CON L’IRA DELLE ARCHE VERTICALI Kalljva e mallj i shëtrëmburë

Posted on 28 luglio 2025 by admin

Bosco arberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il genio Vernacolare arbëreşë nasce perché radicato nel territorio, opera del bisogno, a misura del clima, fatto con materiali locali in sudore quotidiano operoso.

Tutto questo per realizzare un’architettura umile, sostenibile, necessaria e, capace di espandersi nell’ambiente del quale rifletteva e riflette l’identità collettiva, per quanti e di quanti avevano necessità di risiedere, in confronto con l’ambiente naturale e dare vita al luogo parallelo ritrovato.

Ad oggi si contrappongono a questa storica metodica opere in elevato di cunei multiformi appellati “Boschivi Verticali”, dove l’arte dell’apparire, adombra ambiente, natura e genio dell’uomo.

Pur ispirandosi alla natura, essi trovano agio nell’apparire verticale come un tempo facevano i cunei che spaccavano la legna del bosco o le pietre dei monti e, oggi si vogliono sovvertire ruoli, forma e sostanza.

In tutto sono una metrica di sostenibilità esclusivamente estetizzata, pensata per stupire, in quanto simbolo di una nuova ecologia di facciata, dove il verde è puro, semplice travestimento di immagine privo di utile sostanza.

E mentre un tempo l’architettura vernacolare univa, perché linguaggio comune, tessendo filamenti di paesaggio, nature e vita, il verticalismo edilizio dei cunei divide i componimenti naturali unitari.

Nei trascorsi dell’architettura del bisogno non c’era utopia di necessità, ma convivenza, equilibrio tra uomo e territorio, con i suoi ritmi nella stagione lunga fuori la porta di casa e, nella stagione corta, all’interno del volume misurato di necessità per gli uomini.

Ogni casa era un frammento di paesaggio, ogni Katundë un’estensione del bosco di collina, che forniva acqua limpida, che scorreva silenzioso.

Il Bosco Verticale, è utopia senza domani, un’immagine potente, sospesa nel vuoto più estremo e per questo in grado di dialogare solo con il vento.

Non è più un abitare, ma una vetrina, dove il verde apparisce abbarbicato lungo lo scorrere del cemento e, diventa solo il componente di una quinta innaturale, perché il monte che è verticale, non è mai verde ma colmo di grigiore.

Nonostante tutti sanno che, i boschi non sono in verticale, ma sono gli alberi a crescere e, le foreste vere non si arrampicano sulle montuosità granitiche, dove regna solo il gelo e la neve.

Perché i Boschi nascono e si estendono lungo le colline, dove le radici, si allargano e vivono nel tempo, abbracciati dal sole e, mai lo fanno nelle rocce montuose sempre pronte a disgregarsi per il gelo.

Questi edifici non uniscono ma dividono, in quanto sono cunei, identici simili o equipollenti a quelli che un tempo si usavano per spaccare il legno o dividere il marmo, essi si elevano nei luoghi di confronto e  movimento (Katundë) per dividere e formare due fronti fraterni, chi può abitarli o chi li osserva dal basso, tra natura e realtà, avverte subito che esse sono prodotto di una natura impossibile.

Non siamo più nel regno dell’abitare, ma in quello della rappresentazione da palcoscenico, infatti, pur essendo rivestiti di piante, questi giganti verticali, in attesa di essere fumosi, non saranno mai un ponte, ma solo ed esclusivamente cunei, notoriamente strumenti che nell’immaginario collettivo dividono solidi frammenti unitari.

Come un tempo si usavano per spaccare i tronchi nei boschi, oggi si infilano nello spazio urbano, marcando distanza tra abitanti e natura, in tutto una vita sospesa non più con i piedi per terra.

Questi boschi innaturali, non sono gesto d’unione, ma frattura, tra l’idea di abitare, desiderio di apparire, diversamente all’architettura vernacolare che tesseva relazione, di radice.

Notoriamente al giorno d’oggi queste canne al vento, che simulano una perenne primavera, si ergono come simboli di esclusione, scollegati dal contesto che li circonda, a cui viene vietato di espandersi perché devono solo apparire nella prospettiva innaturale creata ad arte.

Diversamente dall’architettura vernacolare che nasceva per espandersi come organismo vivo, capace di crescere assieme alla comunità per, adattarsi a tempo e stagioni.

Ampliandosi come fa un centro antico o un bosco vero, lentamente, facendo crescere le sue radici orizzontali, nella terra sempre uguale.

Il Bosco Verticale, invece, nasce già compiuto, senza possibilità di evoluzione, è già alto, ma non lascia passare il vento e non consente al alcun che, neanche il pascolare tra ombra e luce, ponendosi più come un cancello e non certo come via luminosa e libera.

È rappresenta un oggetto, una figura e sin anche una cassaforte chiusa, che non cresce, non si espande, non dialoga, ma natura imprigionata in un perimetro, una verticalità che non appartiene al bosco, ma alla visione dell’apparire.

In natura, i boschi crescono sulle colline, si diffondono in orizzontale, erano accarezzati dal sole, dalla luna che indicava la via all’acqua e al vento.

Nessun bosco nasce in verticale, le radici non si arrampicano, cercano profondità, la narrazione del Bosco Verticale è una illusione prospettica, una scena che si esaurisce nello sguardo, senza un futuro di reale trasformazione.

L’architettura vernacolare era fatta con ciò che il luogo offriva, pietra, legno, terra, paglia, divenendo emblema o espressione spontanea di un equilibrio tra uomo, natura e ambiente.

Non emulava la natura, ma ne faceva parte e, cresceva come un organismo collettivo, lentamente, seguendo le esigenze delle stagioni, i limiti del territorio e dell’uomo.

Il Bosco Verticale, al contrario, porta il bosco dove esso non può vivere e tutto si trasforma in un gesto estetico potente, ma innaturale anzi oserei dire devastante.

Vero restano gli atti e i fatti, perché, inserire un frammento di foresta dentro un quartiere urbano è come sradicare un animale dal suo habitat, lo si toglie dal suo recinto per trasformarlo in simbolo per abbellire il centrotavola, o il pappagallo che ripete cose inconsulte.

Un bosco non nasce tra vetro e acciaio, non vive appeso ad altezze di cime tempestose e, non cresce in luoghi innaturali respirando, traffico e seminando cemento.

Il bisogno dell’uomo è fatto di terra, di umidità, sole, e vento silenzioso, qui invece, ogni cosa risulta essere isolata, contenuta, ingabbiata, non più come fa la natura e, la rappresentazione o meglio la sceneggiata vuole salire di prepotenza sul palco della natura.

Il vernacolare univa, perché parlava la lingua del luogo, diversamente da questo verde urbano, che invece, non parla con ciò che lo circonda, rimanendo solitaria immagine sradicata, una principessa che ha perso la via maestra e qu diventa estranea, inutile, terminando nel bacino dell’estetica che una storia che non gli appartiene.

I Katundë che vivono alla giornata, non cercano simboli, ma sono alla ricerca di sé stessi e, restano imbibiti di senso e garbo, non hanno bisogno di sfoghi fumosi e verticali, ma di spazi che li rappresentano, e fanno ascolto, in tutto un bisogno di architetture che parli la loro lingua, non di icone e simboli privi di credo.

Il Bosco Verticale è un’immagine potente, ma effimera, infatti apparisce, stupisce e violenta l’immaginario. Non crea legami, non espande radice, perché è solo in camino che non funziona, ma emana e riempie di fumo il vernacolare abitato, lo si guarda, lo si fotografa, lo si celebra e, poi svanisce nella routine della città, senza lasciare alcuna traccia nell’anima del luogo, se non la fumigine, che ci costa imbiancare nel corso della stagione lunga.

L’architettura vernacolare, invece, non aveva e non ha bisogno di stupire, perché fuoco vivo nel tempo e nello spazio, si costruiva per avvicinare generi, ed era fatta per essere usata, trasformata, tramandata in quanto gesto collettivo, non mero spettacolo.

Oggi più che mai, serve tornare a un’architettura che non isoli, che non si elevi per separare, ma che si radichi per unire.

Un’architettura che non venga ammirata e poi essere dimenticata, o segnare fastidiosamente l’immaginario collettivo senza essere mai potuta abitata, riconosciuta o vissuta.

Nei Katundë, le prospettive sono libere, non si impedisce di guardare il sole né la luna, qui si alza lo sguardo per contemplare simboli di credenza reali.

L’orizzonte resta aperto, perché abitare è anche poter vedere lontano, condividere la luce, il vento, il tempo.

Là dove l’architettura diventa monumento o fine a sé stessa, lo spazio si chiude, le prospettive imposte diventano teatrali, pittoriche, da rivista e distraggono lo stare insieme.

Ci si perde nell’immagine, si dimentica la relazione, non fanno il bene del vivere comune, ma del mercato senza uno scopo per il bene della comunità ma del singolo o dichi lo rappresenta.

I Katundë non hanno bisogno di stupire, ma bisogno di durare e continuare a vivere per dare agio sociale all’uomo e alla natura, offrendo spazi semplici, ma profondi, dove la bellezza è nella misura, nel ritmo, nel dialogo con ciò che è intorno e, l’abitare non è consumo, ma condivisione.

L’architettura vernacolare nasceva per unire, fatta con ciò che il luogo offriva: pietra, legno, terra, essa cresceva lentamente, come i Katundë, e tutti gli insediamenti umani radicati nella terra, nella collettività, nel ritmo delle stagioni.

Ogni casa era parte del paesaggio, mai sua negazione. Non imitava la natura: ne faceva parte.

Il vernacolare era espansione, adattamento, linguaggio vivo, si costruiva con il tempo e con la gente, senza utopie, senza spettacoli.

Nascevano per svilupparsi e crescere, per essere tramandato e, senza apparire, ma appartenere a chi doveva conservare memoria.

Oggi invece si alzano totem. Il Bosco Verticale, per quanto ricco di suggestione, non unisce, ma divide. È un’immagine potente, ma isolata. Un bosco appeso al cielo, che non nasce dalla terra, che non può espandersi né trasformarsi. Non ha prospettiva di futuro, solo quella dell’apparizione, è utopia senza domani.

Un tempo si usavano i cunei per spaccare il legno dei boschi e, oggi, questi grattacieli verdi sono cunei urbani: si insinuano nella città non per tessere relazioni, ma per tagliare, per separare. Tra chi abita e chi guarda. Tra natura e imitazione. Tra reale e simbolico.

Il bosco, quello vero, cresce sulle colline, orizzontale, espanso, radicato e, non vive sospeso e mirando verso il vuoto, in vetro e acciaio, non è balcone irrigato da fontane e, sradicarlo dal suo ambiente per allestirlo in verticale privandolo della sua anima naturale.

I Katundë di oggi hanno bisogno di essere ascoltati, non coperti da icone, senza storia o credenza, ma abbisognano di spazi che lascino vedere il sole e la luna, che non impongano prospettive pittoriche o narrazioni di un mercato che non consente confronto.

Il buon abitare non si costruisce sull’immagine, ma sulla relazione, che non distragga, ma accompagni, che non celebri sé stessa, ma custodisca il vivere comune.

Il vernacolare era presenza silenziosa e necessaria, diversamente, dalle canne fumarie travestite di oggi, per quanto verdi, appaiono per essere subito dimenticati e fanno paura per il fumo che quanto prima spargeranno nell’aria.

È tempo di tornare a costruire per durare, non per stupire, per radicare storia, non per cancellare un modo antico dell’abitare, che non è solo apparire ma memoria e rispetto del passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-07-27

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KATUNDË PER CHI NASCE ASCOLTA CRESCE E PARLA ARBËREŞË

KATUNDË PER CHI NASCE ASCOLTA CRESCE E PARLA ARBËREŞË

Posted on 25 luglio 2025 by admin

librandi Sica

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad iniziare dalla metà del secolo scorso e in tutto quello ad oggi trascorso, si snodano Katundë arbëreşë dove si usa disgregare in misura progressiva, il valore demografico, culturale oltre i valori paralleli innestati così come importati dalla terra di origine.

L’abbandono dei centri antichi in generale e le pertinenze storiche in particolare, estese sin anche all’agro ormai non più produttive, sono nelle disponibilità e in favore di politiche che non hanno alcun riguardo del patrimonio storico qui depositato.

Vera resta il dato che, gli addetti preposti, trovano più idonee erodere senza impegno o rispetto le storiche località, sulla scorta del dato che essendo scarsamente formati, violentano con arroganza e pressapochismo, lo svolgersi di questa pena ogni stagione e, qui in questo breve si vogliono evidenziare le ragioni riferire ai Katundë arbëreşë.

Il processo penoso fortemente sostenuto e in atto, mette a rischio non solo la sopravvivenza di intere comunità, ma anche la ricchezza dell’insieme culturale che, rappresentano nel cosmatesco mosaico di tradizioni e storia delle colline d’Italia.

In specie le minoranze storiche studiate e indagate in numerosissimi dipartimenti non per l’edilizia tradizionale del bisogno, non per le consuetudini storiche notoriamente mai trascritte, ma per fare esperimenti variopinti senza fonte specifica del pigmento.

Il tutto si concretizza nel dato che non si propone o si predispone alcuna formazione, in favore delle nuove generazioni prima che esse partano, per raggiungere le università più eccellenti d’Europa.

Questa mancanza si traduce nel dato che, una volta formati, non scelgono di tornare, né tantomeno sono mai invitati a partecipare, nonostante i titoli e curricula acquisiti, che potrebbero essere fondamentali per il futuro di questi luoghi di memoria .

Ne si organizzano dibattiti, confronti o seminari formativi, utili per i liberi pensatori restanti locali, che  si presentano sul palcoscenico come unica forza interpretativa e culturale per leggere e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale, qui ancora resiliente.

Il tutto si traduce in una diaspora che si rinnova ciclicamente in ogni stagione, impoverendo ulteriormente il tessuto sociale e culturale delle comunità, di ben oltre cento Katundë del meridionale e, questo dato è attribuibile solo agli arbëreşë.

Il protocollo di preparazione locale, connesso che le attività di formazione dipartimentale, potrebbero essere un laboratorio per architetti, antropologi, sociologi, psichiatri, legislatori, urbanisti titolati di storia, visti gli echi qui ancora abbarbicati, in precario riverbero.

Tuttavia si preferisce esaltare il genio degli ultimi o, chi non ha formazione curriculare, competenza e genio locale, esaltando pubblicamente e istituzionalmente l’incompetenza, che ignora il canto muto dei vicoli brevi, intrisi di contenuti in memoria antica.

E solo chi ha titoli e forza per conservare memoria o, vedere, ascoltare, luce di queste fiammelle ondeggianti lungo i cunicoli di vita sociale potrà avvertire quel vento soffice che li sfiora maternamente.

Gli stessi vicoli che se opportunamente osservati e ascoltati, potrebbero fornire spunto per temi di sviluppo, in forma di concorso per giovani titolati, al fine di far rivivere senza soluzione di continuità, quell’antico parlato di operosa arte del bisogno.

Il valore dell’architettura vernacolare ad oggi, è incastonato identicamente, in attesa di essere il punto di forza da cui trarre ispirazione, per annaffiare quella radice stesa al sole, che va dal centro antico, sino ai cunei dell’agro di confine.

Il tutto dovrebbe essere finalizzato a risvegliare il senso di appartenenza, lo stesso dove si nasce e si cresce in solidità familiare, che con caparbietà attende di essere rigenerato, perché identità di luogo, poco nota alle nuove generazioni, ai canali turistici e dei media, che vanno alla spasmodica ricerca delle origini dell’uomo.

Tuttavia questo non deve sfociare nel produrre enormi flussi di rifugiati culturali, affamati di notizie per fare tenerezza, moda per quanti qui approdano in cerca di un palco, non avendone avuto agio nei loro luoghi natii, deturpando la filiera storica di confronto in radice Greca, Bizantina, Longobarda, Cistercense, Arbëreşë, Francofona, Ispanica e molto altro ancora.

Naturalmente gli addetti preposti devono essere molto cauti e non terminare nella ‘turbinosa-manomissione edilizia’, ovvero un’architettura post-vernacolare, in cui si ignorano le tessiture della storia fatte da filamenti di politica, identità, cultura e territorio.

A tal fine è bene precisare che ‘turbinoso’ è di per sé un termine violento per definizione e, questo crea situazioni che non implica una qualità che garantisce tutela, ma potrebbe devastante ciò che esiste già in dormienza secolare.

Se poi il protocollo si applica anche ‘in forma turbinosa all’architettura’ ogni cosa si piega, si torce, si vela e si denuda, disgregando ogni possibile espressione del costruito legato al tempo, perdendo la diritta via che unisce ogni forma indispensabile.

Lo sviluppo dell’architettura dei Katundë, deve essere intesa come un’esperienza virtuosa o a dir poco originale, specie quando si cerca con pennelli inopportuni ‘cromatismi’ di vestire in costume inopportuno luoghi e cose del passato, sin anche dove sono riconosciuti ruoli di memoria storica immateriale, la stessa che purtroppo rimane poco noto a quanti trovano palco per apparire.

Dopo il caos edilizio, dovuto alle risorse qui riversate dagli emigranti, e del bum economico, ha avuto inizio un processo di regolazione urbanistica voluta dal bisogno di imitare tutti le metropoli.

Da allora in questi ambiti vennero riversati e realizzare spazi, per aprire nuove vie veicolari, compromettendo, sin anche i toni di luce genuina smarriti.

Tuttavia anche se il passato poteva sembrare o apparire dittatoriale o intoccabile, esso si riflette nel dato che si voleva mutare le cose, ma quella che ancora prevale è la povertà culturale da palcoscenico, perché si continua ad essere incapaci di valorizzare alcun che, del patrimonio cittadino e, sin anche quello che fa parte dello storico confronto tra generi e natura.

Dalle pietre delle murature, ai selciati, sono tutti sottoposti a cementificazione terminando con l’avere, strade ed edifici trasformati a misura di una passeggiata multicolore, per soddisfare una richiesta assurda e inventata senza alcuna ragione storica.

Ridisegnando così una sorta di nuovo centro antico, camuffando e dando pena alle forme che in questi vicoli hanno riverberato storia e ascolto.

Vale lo stesso principio per la memoria della toponomastica storica, uno degli strumenti fondamentali per la conservazione dell’identità linguistica di uno specifico punto in ogni Katundë.

E quando questa viene trascurata o sostituita da nomi moderni, generici o “italianizzati”, si compromette un patrimonio immateriale che raccontava pene e ricorda momenti, cose, figure e famiglie di una migrazione storica per il bisogno di tutelare la propria identita.

In assenza di un riconoscimento toponomastico ufficiale, già ad oggi compromessi dal rotacismo linguistico, rimane solo la memoria di singoli o prescelti.

Ad oggi, non resta che ridare spazio e scena agli specifici tratti di storia, gli stessi che giorno dopo giorno diventano più difficili da interpretare, tutelare e promuovere in azioni di salvaguardia coerente.

Il rischio è la graduale scomparsa delle tracce visibili e non, della presenza arbëreşë, rendendo più vulnerabili le tradizioni linguistiche, di credenza e architettura che hanno caratterizzato questi luoghi.

Un’efficace politica di tutela dovrebbe, quindi includere il recupero e la valorizzazione della toponomastica storica, come segno tangibile di continuità identitaria e come strumento di riconoscimento giuridico e culturale delle minoranze storiche.

Non solo per rendere la giusta memoria ai suoi abitanti, ma per tracciare e disegnare le linee principali secondo cui il centro storico ha preso forma e consistenza, nel corso di almeno sei secoli.

Ogni Katundë è diventato oggi il palcoscenico da cui offendere, manomettere o affondare la memoria con emblema il formalismo, fatto di intonaci coloriture e informali adempimenti, che ne violano continuamente le prospettive sin anche dall’alto.

Accanto a questo tipo di “Urbanismo Bulico”, sono sorti edificati in sostanza di muri e finestre con vetrate senza senso, sicuramente al contrario della misura discreta come era un tempo fare.

La rinascita evidente a tutti, resta sospesa tra modernità e tradizione, tra caos e disordine, tra colore e monocromia sempre più sfuggente.

Una sintesi del paesaggio urbano, che va dalla qualificata vernacolare del bisogno alla più recente dell’apparire dei boschi verticali, disegnati in progetti dove manca la volontà diffusa di costruire per i cittadini e, renderli indistintamente partecipi al processo di falsa memoria.

O meglio attirarli nel percorso di queste nuove ‘scalfitture’ urbane affasciate con tecnologie che vivono del protocollo del profitto a ogni costo, per generare illusorie gesta instabili e comunque volti soprattutto a illudere quanti si apprestano ad animare Katundjnë.

Tutto questo trova anche conferma con le attività poste in essere dal dopoguerra, segnalando un punto di svolta non solo sul piano politico ed economico, ma anche in ambito culturale e spirituale.

Con la ricostruzione e la progressiva secolarizzazione delle società, le chiese, intese sia come edifici fisici sia come luoghi simbolici del sacro, sono spesso divenute oggetto di, riconversione e, in alcuni casi, di vera e propria manomissione.

La crescente industrializzazione e urbanizzazione ha comportato, in molte aree, la distruzione o lo snaturamento di edifici religiosi per far posto a nuove infrastrutture senza orientamento di credenza.

In lungo e in largo in ogni Katundë, molte chiese sono state modificate radicalmente per ragioni “funzionali”, spesso senza il rispetto del valore storico, artistico e spirituale che esse racchiudevano e, con esse anche i luoghi di sepoltura storica.

A seguito del Concilio Vaticano II, si assiste inoltre a una trasformazione interna alla Chiesa e, molte liturgie cambiarono, gli interni vengono manomessi del loro antico valore e le opere d’arte vengono rimosse, accantonate per essere sostituite.

Questo fenomeno, giustificato come aggiornamento pastorale, ha però spesso portato a una “spoliazione” delle chiese, svuotandole di elementi che ne raccontavano la storia e l’identità.

E la questione assume toni più duri in luoghi di culto, profanati senza alcuna attenzione consapevole di memoria, non quella più antica che e complicata da interpretare, ma almeno delle vicende de tardo secolo scorso.

Qui la manomissione è solo fisica ma ideologica, parte di un più ampio tentativo di cancellare la credenza dalla vita pubblica, per una più moderna e imbiancata.

Negli ultimi decenni del Novecento, l’emergere di una nuova sensibilità per la conservazione del patrimonio culturale ha portato, almeno in parte, a un rinnovamento di questi luoghi.

Tuttavia, l’abbandono spirituale da parte delle comunità, rimane un segno tangibile della chiesa che non è stata solo un luogo sacro, ma anche un centro identitario e comunitario, da ciò la spogliazione, in molti casi, ha significato lo sradicamento di memorie collettive e radici profonde estrapolate per lasciare spazio a piantumati ad uliveto.

Altra manomissione storica inconsapevole è stato il rifacimento dei palazzi realizzati dopo il terremoto del 1783 che devastò la Calabria e la Sicilia orientale, il Regno di Napoli promosse un’imponente opera di ricostruzione nel corso del decennio francese.

I nuovi palazzi, edifici pubblici e abitazioni vennero progettati secondo precise regole regie antisismiche, un raro esempio di prevenzione pensata nel Settecento e realizzato nei primi decenni dell’ottocento.

Le norme imponevano fondazioni su terreni solidi, strutture in muratura con incroci di legno la cosiddetta tecnica del “baraccato”, proporzioni geometriche ben studiate e altezze contenute.

Molti dei centri storici dell’area arbëreşë furono ricostruiti seguendo queste direttive, dando vita a insediamenti armoniosi, funzionali e soprattutto sicuri, con un cuore antico che lì, al centro dell’edificato pulsa senza tregua.

Tuttavia, nei secoli successivi queste architetture furono progressivamente manomesse e non furono più emblema solido della memoria delle famiglie che hanno fatto la storia, ma utilizzate a fini razionali di edilizia popolare.

L’aggiunta di sopraelevazioni, la sostituzione di materiali originari, la manomissione di cortili, il rifacimento delle facciate e l’uso di cemento armato per i numerosi interventi impropri, hanno compromesso l’integrità sismica e quella storica degli edifici.

Le logiche speculative a fini abitativi, unite a un diffuso disinteresse per la memoria costruttiva, hanno cancellato o nascosto gran parte di quell’ingegnoso equilibrio tra forma e sicurezza.

Oggi, molti di questi edifici sono in parte, svuotati del valore di genio costruttivo, in cui furono innestate tutte le conoscenze dell’epoca, ragion per la quale, se idoneamente analizzati, potrebbero fornire elementi fondamentali dello sviluppo e la conoscenza di ogni epoca, da quando vennero realizzati e, tutte le volte che sono stati espansi o arricchiti di superfetazioni.

Essi sono memoria di regole regie antisismiche, in tutto manufatti all’avanguardia, resi visibili solo dove il tempo, la cura e il caso hanno preservato l’autenticità delle strutture.

Oggi non resta altro che ricordare, per fare riferimento alla toponomastica storica l’unica forza in grado di tramandare memoria.

I nomi delle piazze, delle vie, dei vicoli, delle porte di case e le contrade, raccontano ancora oggi, silenziosamente, la visione urbanistica di quei tempi e, riconoscerli per poterli custodire diventa un atto di rispetto verso il passato che si deve imparentare con il futuro.

Diventa un dovere per quanti conoscono e hanno consapevolezza della storia, tramandare concetti, atti di memoria, spece a quanti prendono titoli secondari e si apprestano a formarsi fuori dagli ambiti locali, avendo cosi, un patrimonio storico come base da cui elevare le nuove cognizioni colturali e, costruire una solida diplomatica del luogo natio, a impronta dell’Olivetano, che detiene la memoria storica di Terre di Sofia e del suo agro.

Teoremi che hanno consentito di dare misura storica al protocollo del delocalizzare in età moderna, con cui le istituzioni di potere dal 2014, hanno smesso di adombrare luoghi adagiando nel cassetto più basso del comò il protocollo per smarrire poi la memoria.

Questa è una certezza che nasce dai consigli e i dibattiti solitari dell’Olivetano con le istituzioni del tempo, invitando sin anche chi ascoltava dal camino di Milano, di evitare violenza gratuita in futuro, per chi si trova a confrontarsi con le cose della natura, interpretate male e allestite peggio, in tutto scenari desertici del mediterraneo, scambiati per colline del meridione Italiano.

Storicamente chi per eventi naturali, vive la tragedia di essere delocalizzato, viene per così dire avviato, con promessa da condividere e, per un Katundë arbëreşë quale vale più ne sentire di dover abitare Gjitonia, che al giorno d’oggi equivale a promettere miracoli, ma non quelli buoni che fanno i santi, ma gli intrugli realizzati sotto il noce dai Iannari di ponente.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                              Napoli 2025-07-24

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MODULOR DEL PARLATO IN VESTE FEMMINILE (ghjuga me dulùrëi thë crjatë tona)

Posted on 22 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – il Modulor è un sistema di proporzioni armoniche basato sull’altezza media del genere umano in forma aurea, ideato negli anni quaranta del secolo orso, in radice del Partenone, La Gioconda, e in epoca più moderna spunto delle architetture razionali.

Esso si sviluppa e nasce con lo scopo di creare uno standard universale per progettare spazi architettonici che fossero misura, funzionali ed estetica di equilibrio.

Il tutto mira a combinare matematica, antropometria e arte, al fine di guidare il progetto con proporzioni “naturali” e armoniche.

Utilizzato in molte opere di architettura razionale, il Modulor, parte dalle proporzioni del corpo (altezza, proporzioni, movimenti) come base per organizzare lo spazio di vita in modo armonico.

E siccome la lingua arbëreşë, secondo dati storici linguistici estetici e antropologici, usa nomi e radici che derivano da parti del corpo o azioni umane fondamentali per costruire significato formale (Leggi i Fratelli Grimm e le loro favole).

Così anche il Modulor usa creare una scala di proporzioni universali, che poi sono la radice della lingua albanese, dove si utilizzano concetti come “dorë” (mano) “sy” (occhio) “veshë” (orecchio) o “ghjughë” (lingua) come base metaforica o etimologica per costruire altri significati, dando al corpo umano un ruolo strutturale, come il Modulor, lo dà all’architettura razionale.

La visione abbraccia una concezione antropocentrica, dove l’essere umano si ritiene sia il concetto fondamentale e misura della realtà, sia nella costruzione dello spazio architettonico, nella costruzione del linguaggio e le cose di vestizione arbëreşë.

È lecito chiedersi perché, pur avendo una lingua come l’arbëreşë con radici profondamente legate al corpo umano e, quindi a un sistema universale, non si sia sfruttato questo legame per consolidare una lingua che storicamente nasce come un codice essenziale e coeso.

Nonostante questa base antropocentrica potesse offrire un fondamento comune e naturale, l’arbëreşë si è frammentato nel tempo in numerosi dialetti locali, come il riferito degli esperti che la legano alle tipiche parlate di oltre cento Katundë, allo stato delle cose palesate oggi, in competizione tra loro.

Le cause sono storiche e politiche e, l’assenza di una istituzione solida e unitaria mancata a tutt’oggi e per secoli, ha consentito, mentre gli intellettuali si ostinavano a scriverla, la dominazione o le infiltrazioni straniere, hanno sortito alle divisioni geografiche che impediscono lo sviluppo di una norma linguistica unificante basata su principi “organici” come quelli che il corpo umano, con il Modulor, rappresentano.

Tutto questo avviene nonostante l’arbëreşë avesse in sé tutte le forze del luogo natio e di quello parallelo ritrovato per dare linfa buona a una lingua unitaria fondata sul corpo umano, quindi sul comune denominatore dell’esperienza o del bisogno di fratellanza che conferma il valore di appartenenza, concetto che non ha trovato è colto l’occasione di usarli come strumento di standardizzazione.

 Il risultato è una lingua ricca, ma ancora segnata da profonde fratture dialettali almeno a detta dei poco attenti e che non hanno una base colturale come quella dell’architetto che in maniera razionale e precisa, garantisce case a misura per il bisogno locativo.

Se si parte dal teorema secondo cui l’arbëreşë rappresenta la radice storica e linguistica del moderno albanese, come il latino e il greco lo sono per l’italiano, allora è legittimo interrogarsi sul perché molti teoretici albanesi sembrano negare o sminuire questo legame.

Nonostante gli arbëreşë conservino tratti linguistici, arcaici  puri, anteriori alle trasformazioni sociopolitiche avvenute nei Balcani, di sovente vengono relegati a una posizione marginale nel discorso ufficiale sull’identità linguistica albanese.

Questo può derivare da un approccio ideologico, costruire una lingua standard “nazionale” finalizzata a privilegiare forme moderne, più legate al sud di quelle terre oltre adriatico, considerate le più nobili dal punto divista linguistico alle esigenze moderno dello Stato Albanese, piuttosto che riconoscere la continuità storica, custodita nella diaspora arbëreşë.

In breve, se l’arbëreşë è l’antico tronco da cui si è evoluto l’albanese moderno, allora l’attuale negazione accademica di questo legame, si potrebbe paragonare ad ignorare il latino nella storia dell’italiano e, il tutto si trasforma in una rimozione culturale, più che una scelta scientifica.

Il Congresso di Monastir, tenutosi nel novembre 1908, fu un momento cruciale per la definizione dell’alfabeto unificato della lingua albanese, e più in generale per l’identità linguistica e culturale della futura nazione.

Tuttavia, un dato spesso trascurato è racchiuso nel dato che nessuna figura intellettuale arbëreşë, venne invitata, coinvolta o ben accolta nei lavori del congresso, nonostante gli arbëreşë avessero avuto per secoli un ruolo fondamentale nella conservazione e nella trasmissione della lingua, della cultura e dell’identità fuori dai Balcani.

Gli intellettuali arbëreshë dell’Ottocento, dai tempi di Giuseppe Schirò a quelli più fondamentali e di confronto di Pasquale Baffi, tra i primi intellettuali con specifica formazione in grado di studiare, scrivere e codificare l’arbëreşë, molto prima della rinascita nazionale nei territori dell’attuale Albania.

Eppure, al momento di decidere l’orientamento linguistico ufficiale, la loro esperienza fu ignorata escludendo in toto la parlata storica, forse per ragioni politiche e ideologiche, che miravano a costruire una lingua che riflettesse le esigenze immediate di uno Stato moderno nei Balcani, lasciando ai margini la fondamentale diaspora storica, considerata troppo distante o legata a forme linguistiche “antiquate” e, cosi sfuggendo al principio della radice linguistica, che è alla base di ogni parlato solido.

In sintesi, l’assenza di intellettuali arbëreşë o la lettura dei loro postulati al Congresso di Monastir non fu una semplice dimenticanza, ma una scelta storica e politica, che mirava a fondare la lingua moderna senza riconoscere chi e cosa, per secoli l’aveva tenuta viva lontano dalla compromessa e dominata terra dalle altrui patrie.

Esistono poi anche Spazi domestici e specifico femminile, che seguono le tracce di “Zognë i Modulor, rivolto e messo a punto dal governo delle donne in relazione a come vive lo spazio domestico della propria abitazione del vestire.

Questo si traduce in uno strumento per adeguare lo spazio e le cose di un progetto in relazione alle dimensioni delle esigenze tradotte e sostenute al femminile.

Sebbene concepito come riferimenti più a misura, questo schema si potrebbe ipotizzare che trae le sue radici e, influenza anche la moda o la vestizione delle donne arbëreşë.

Qui, le sue proporzioni diventano un codice silenzioso, un protocollo non scritto ma rappresentato, che guida il modo di cucire e allestire abito e vestizione della donna, negli intervalli della vita, con proporzione rispettosa delle consuetudini che fanno il genere femminile, adolescente, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta, con i giusti colori, per ogni luogo e stagione.

Infatti, ogni parte del corpo coperto tende ad armonizzarsi e rendersi silenziose proporzioni di quella figura disegnata dalla natura con discepolo l’uomo, come se il corpo stesso cercasse una corrispondenza ideale tra misura, colori e bellezza.

In tutto proporzioni del corpo umano che fanno la vestizione regale delle donne senza produrre valenze predominanti, ma atto in cui il corpo umano diventa rappresentanza e orgoglio di appartenenza incontaminata.

Per questo esso diventa non più solo misura dell’uomo, ma misura del mondo attraverso il corpo della donna.
Il Modulor al femminile non riduce, non impone, ma ascolta la curva, l’asimmetria, la vita e, proporzione che accoglie, ritmo che si fa pelle, geometria che non comanda ma danza con garbo regale.

Nel corpo femminile, la verticalità si piega in carezza, la sezione aurea si apre come fiore, e la misura diventa linguaggio d’appartenenza e non dominio.

Non è gerarchia, standard, ma simbolo di vestizione, che non costringe, ma riconosce, definisce, con il Modulor al femminile, il corpo sovrano, non come potere, ma come presenza materna.

Esso diventa orgoglio di forma intatta, rappresentanza di un’essenza libera, incontaminata dal calcolo che esclude, perché ogni spazio generato da questo sguardo non sarà mai solo costruito, ma nato per essere abbraccio dalla sua matrice.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                              Napoli 2025-07-22

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Olivetano

UN ARBËREŞË NON È UN GIULLARE CHE DANZA CANTA E VESTE IN ALBANESE

Posted on 20 luglio 2025 by admin

OlivetanoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi piange non raccoglie mai le sue lacrime, perché le lascia cadere senza neanche contarle, come fanno gli alberi d’autunno con le proprie foglie.

Le lacrime scivolano lungo le guance, come perle mute in dolore e, brillando solo per chi non vede, mentre il lacrimante tiene una mano per stringere il cuore, e con l’altra frena il respiro o cerca un appiglio dello scenario nebbioso.

Gocce di sale amaro di un’anima nuda, che scendono libere, non per essere raccolte, ma per raccontare ciò che le parole non osano dire.

Questa è simile alla metafora del fabbro che opera nell’ombra e costruisce il palco, dove l’attore primo, sotto i riflettori, fa la storia e il fabbro nell’ombra, batte ferro rovente tra silenzi e sudore che plasmano il tempo con le mani colme di ferite e, non si ode nessuno applaudire per tanta operosità.

E mentre sul palcoscenico sale l’attore, che non ha forgiato nulla, ma solo indossato l’armatura costruita da altri e, pur se brilla sotto luci che non ha acceso, recita un copione scritto con l’inchiostro dei lagrimosi sacrifici altrui.

Queste sono metafore che mirano a palesare lo stato, in cui versa il patrimonio degli Arbëreshë, lo stesso che non può e non deve esaurirsi nella esclusiva tutela della inopportuna vestizione Albanistica del parlato.

Sebbene l’idioma costituisca un elemento fondante dell’identità di un popolo, limitarne il rilancio solo ed esclusivamente all’aspetto che contempla il mero parlato, significa ridurre una civiltà complessa e stratificata a un solo codice espressivo.

La filologia è veicolo, ma ciò che trasporta la memoria collettiva, sono i simboli, le pratiche sociali, i codici etici, che hanno bisogno di essere altrettanto custoditi, vissuti e rinnovati a misura.

Titolarsi di forme generiche o accademiche dirsi voglia, per poi fare un mestiere complesso, non fa che innalzare gli errori del passato, ripeterli e rendere tutto l’insieme al pari di un palco pericolante, forgiato dai generici o praticanti attori.

Infatti le lacrime di un pianto non sono mai una ma tante, come qui di seguito si darà agio a tutte le altre lacrime Arbëreşë, dimenticate o non ritenute valide perché seconde alla prima.

È notoriamente diffuso che il genere umano, in ogni tempo e latitudine, ha bisogno di molti espedienti per sopravvivere, resistere, durare e completare il suo impegno di integrazione e convivenza con la natura e il tempo.

Tra queste si potrebbero contare le lacrime: dell’arte, dei riti, del lavoro, della terra, dell’architettura, il modo di alimentarsi, le vestizioni, la narrazione e, poi l’insieme di supporto, formano gli attori di palcoscenico, che in diverse regioni italiane con la narrazione lacrimosa seminano da secoli il patrimonio storico arbëreşë.

E così facendo innalzano germoglio o microcosmo culturale, in cui la lingua è solo uno dei tanti fili lacrimosi che intrecciano il tessuto dell’identità.

Di questi un ruolo centrale spetta al rito bizantino, ancora oggi presente nelle comunità arbereshe e, le sue forme liturgiche e simboliche, che non sono solo mera professione di fede, ma storia che mantiene viva una visione del mondo, una sensibilità spirituale radicata nell’Oriente cristiano.

Proteggere questi riti, formarne nuovi officianti, farli comprendere alle giovani generazioni, è parte essenziale dell’essere minoranza arbëreşë.

Poi sono i costumi tradizionali che non sono semplici ornamenti di pigmento in piega, ma codice complesso di appartenenza, genere, status sociale, legame con la comunità, che delineano quel percorso viario che unisce il fuoco domestico della casa, con l’altare quando si illumina di sole nella chiesa.

La postura, i gesti rituali, le danze, raccontano storie, tramandano valori e rafforzano i legami tra questi due emblemi civili e religioso ovvero casa e chiesa.

Riscoprire questi elementi, attraverso momenti condivisi e ragionati, permette di valorizzare il corpo come veicolo di continuità culturale dei generi che rendono viva questa realtà.

Una popolazione per resistere alle varie epoche deve maturare il concetto di accoglienza attorno a una a un fuoco domestico, e qui entrano in gioco le arti di cose prodotte a memoria dal parallelo, conservato difeso in un vero e proprio archivio di memoria.

Non solo perché porta con sé le tracce di una migrazione secolare, ma anche perché rappresenta il legame affettivo tra le generazioni e luoghi paralleli tutti sostenuti dallo stesso sole e la identica luna.

Valorizzare il patrimonio in senso generale degli arbëreşë significa documentare, raccontare, insegnare, recuperare, comprendere i rituali legati al passato, per essere lasciati intatti alle nuove generazioni, specie a quanti si apprettano a partire per conoscere e confrontarsi con nuovi orizzonti, per confrontarsi e migliorare il patrimonio ricevuto.

Prima che ciò avvenga essi devono conoscere il lavoro manuale, la produzione tessile, l’artigianato ligneo, le tecniche agricole locali e tutto ciò appartiene a un sapere che rischia l’oblio.

Sono questi gli elementi che danno concretezza all’identità e, incentivare il ritorno, dopo essersi formai in buoni artigiani, apre prospettive culturali non solo per preservare la cultura, ma anche per dare dignità economica a chi la vive.

Sino ad oggi hanno tenuto banco le fiabe, le leggende, le storie tramandate oralmente, immaginando che la lingua è veicolo per i contenuti emotivi.

Si è ritenuto fondamentale che attraverso le storie che si costruisce l’orgoglio, si rinsalda l’appartenenza, si affrontano le paure del cambiamento, ma purtroppo oggi in questa società globalizzata non è più così. Raccontare oggi cosa a scuola, in un libro, in un film, è un atto di resa e non serve per affrontare il futuro.

Oggi quella che si deve preservare e saper leggere è la struttura urbana dei centri antichi, perché è in essi che germogliano il frutto di una logica che ha poco a che fare con la speculazione edilizia moderna e molto con la coesione sociale, difesa e adattamento al territorio, che poi diventa la sacralità funzionale della vita quotidiana.

Sebbene ogni Katundë abbia le identiche specificità o tratti comuni che uniscono tutti assieme i centri storici delle culture di radice agro-pastorale, come quella arbëreşë, nessuno forma e sostiene le generazioni che partono per formarsi avendo come bagaglio il sussurrare delle memorie storiche locali.

Ogni centro antico ha un cuore simbolico e funzionale, che nasce secondo i canoni della iunctura fatta di chiesa, piazza e vichi che diventano le sorgenti naturali dove far dissetare le nuove generazioni.

Questi elementi non sono solo spazi pubblici, ma punti di riferimento identitario che se opportunamente analizzati, possono essere intesi e ascoltati come il battito del fabbro e non come lacrime che non vede nessuno perché silenziose.

I Katundë non si sono sviluppati con la logica Cartesiana o di Mileto, infatti vie e i vicoli si snodano come vene che partono dal cuore e raggiungono gli arti, adattandosi al luogo e alle necessità dell’uomo.

Le case sono incastonate come partorite da questa terra, un’architettura che parla di comunità, vicinanza e protezione reciproca come fa una madre con il nascituro che si sente a in famiglia.

Le strade strette non sono un limite, ma un modo per difendersi dal vento che come il passante che corre qui deve passare lento, per diventa anche esso di famiglia.

Nel sistema urbano antico di un Katundë, la soglia tra casa e strada non ha dogana, cosi come il gradino, si controlla dalla piccola panca in muratura lì di fianco allestita, sotto la finestrella di controllo gemellata, dove tutto diventa luogo dell’orizzonte familiare.

La vita, qui in questi vichi irregolari, si svolge all’aperto sotto gli occhi dei vicini e, tutto diventa dimensione di uno spazio urbano condiviso, più sicuro di ogni dove e, il controllo sociale, la solidarietà si esercitano senza stonature conviviali.

Un altro elemento che accomuna i centri antichi dei Katundë, è la libera interazione tra il centro abitato e la campagna lavorata, il simbolo delle città aperte e non chiuse, a modo di recinto borgataro.

La casa non è mai troppo distante dall’orto, dalla stalla, dalle fontane e, i confini tra l’urbano e il rurale sono permeabili senza limiti innalzati.

Questo rapporto diretto con la terra, si riflette anche nella presenza di magazzini, cantine, forni comuni, mulini, frantoi e, fontane di accoglienza, il tutto diventa spazio produttivo che unisce la pertinenza urbana e l’agro, senza murazioni o limiti fisici divisori.

Le abitazioni storiche dell’agro, si sviluppate in altezza, su due o tre livelli, con funzioni distribuite verticalmente: al piano terra la stalla o il magazzino, al primo piano la cucina e la zona giorno, sopra le camere, e poi una lamia di copertura, che ha uno spazio di accumulo per mitigare meglio il clima all’interno dell’elevato in forma di fortilizio, dove le attività primarie sono produttive, di spogliatura secondo i ritmi del continuo giornaliero di sole.

I centri antichi, per via della loro compattezza edilizia, sono esempi straordinari di resilienza climatica, si difendono dal freddo invernale, grazie alla prossimità tra edifici, e si proteggono dal caldo estivo con strettoie ombreggiate e muri spessi, che si trasforma in un sistema urbano sostenibile che non viene mai abbandonato.

Molti centri antichi sono orientati secondo logiche sacre o astronomiche, la chiesa spesso guarda a est, e tutte le tappe di preghiere sono ad essa rivolte, le strade seguono le curve del sole, la casa tiene conto dei venti dominanti, nulla è casuale, ma sapienza che ha guidato la costruzione dello spazio.

Capire i sistemi urbani dei centri antichi in forma di Katundë, significa anche interrogarsi su come conservarli e viverli oggi quegli storici e ripetitivi sette rioni.

E difendere questi spazi non vuol dire musealizzarli, ma dare loro nuova funzione senza snaturarne l’identità, così come quella di tanti paesi, villaggi, frazioni, contrade, dove ancora molto rimane incontaminato e steso al sole per essere interpretalo adeguato rispetto.

Il tutto per essere tramandato in termini di sostenibilità, socialità, bellezza e resilienza, alle nuove generazioni, che in questa stagione sono pronte a partire e, se consapevoli del tesoro che qui in casa li attende, potranno formarsi seguendo la memoria dei luoghi natii.

E quando un giorno saranno richiamati potranno valorizzarli, iniziando dalla conoscenza profonda delle logiche millenarie, le stesse che hanno saputo creare spazi adatti e utili per l’essere umano, nella sua vita operosa.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-19

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GLI ARBËREŞË NON HANNO MAI TUTELATO SECONDO UN CSTRUTTIVO INIZIO (nà nënghë bëmi pishjalljoka ne rèdhë pà butë)

GLI ARBËREŞË NON HANNO MAI TUTELATO SECONDO UN CSTRUTTIVO INIZIO (nà nënghë bëmi pishjalljoka ne rèdhë pà butë)

Posted on 18 luglio 2025 by admin

CASA

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Puoi guardare una montagna per ore, pregustando l’arrivo in cima, tuttavia nessuna vetta si avrà modo di raggiungere e vivere con il pensiero, se non per azioni mirate allo scopo.

È come una porta che appare chiusa finché non fai il primo passo e, scoprire dalla nuova prospettiva che la rende aperta.

Ogni minoranza storica rappresenta un patrimonio culturale, linguistico e identitario di valore inestimabile. Tuttavia, nel corso di almeno due secoli, molte di queste macro aree hanno subito fenomeni di marginalizzazione, assimilazione forzata o perdita progressiva delle proprie radici di germoglio e fioritura.

Un progetto di tutela dovrebbe partire dal riconoscimento del ruolo fondamentale che queste minoranze hanno svolto e assumono oggi nei processi sociali, che attendono attuazione per la sostenibilità della memoria collettiva e della diversità culturale del Paese Italia.

L’obiettivo principale è promuovere la salvaguardia e la valorizzazione di questo patrimonio, attraverso interventi concreti che ne sostengano la lingua, la cultura, i diritti e la piena partecipazione alla vita sociale, di cui possono essere radice.

La prima fase del progetto dovrebbe perseguire il principio di un’attenta analisi dei bisogni fondamentali per questa comunità, in ascolto diretto con i suoi membri, con i quali delineare in condivisione i percorsi di tutela della propria fioritura sostenibile.

Le idee sono importanti, ma senza l’azione restano sogni chiusi in un cassetto e, se all’idea non si dà seguito con azioni razionali e non di impeto, resta solo teoria, buona forse a parole ma sterile nei fatti.

Certamente avendo cura di non avere discepoli o praticanti politici, con mente e mani non libere ma intrise di colori e prospettive disegnate per ambire a fini che tradiscono l’essenza stessa del pensiero libero e della responsabilità civile.

La via intrapresa secondo cui la sola sostenere il parlato affiancandolo a inadatti alfabetari in grado di sostenere la memoria e la forza di un popolo, storicamente radicato in abitudini durature, si dimostra oggi più un’aspirazione idealistica che una via concreta da promuovere e caparbiamente proseguire.

Eppure, proprio lì, nelle parole tramandate, nei canti, nei racconti pronunciati in una lingua antica, si cela il codice o meglio la chiave della storica resistenza culturale.

Oggi, quel teorema largamente diffuso rende più precario l’equilibrio e la tutela di questo esempio di integrazione mediterraneo ritenuto unico e irripetibile, visti i tempi per maturare.

L’attività in senso generale è un gesto che non guarda solo al passato, ma costruisce un futuro dove la diversità non è debolezza, ma radice fatta di luoghi fatti, cose e generi.

Gli arbëreşë non sono i soliti giullari che parlano una lingua strana per intrattenere il padrone o prelato di turno.

Appartenere a una minoranza storica è paragonabile a uno scrigno o un baule antico che pulsa ragioni di vita, in cui si conserva un valore inestimabile, una memoria collettiva, una visione del mondo, una storia di resistenza, un progetto antico ancora applicabile alla società moderna.

Il suono del parlato non è un’opera musicale esotica, ma un codice identitario, un ponte che può unire tempo, genere umano e natura.

Difendere un simile protocollo non è nostalgia, ma un atto di cultura, un gesto di giustizia verso un popolo che, senza gridare o manifestare, ha custodito un’eredità preziosa per loro stessi e per tutti i popoli maggiori ad essa confinanti.

Quando non si è mai viaggiato lungo questi ambiti con mira specifica perché non si è mai dato senso ad un inizio o essere mai partiti mai partiti.

È una riflessione che può avere anche un senso metaforico, che conferma che a volte non realizziamo nulla perché non facciamo nemmeno il primo passo.

L’analisi dei modelli abitativi vernacolari rappresenta un punto di partenza fondamentale per un progetto di tutela delle minoranze storiche, in quanto rivela l’intimo legame tra cultura, ambiente e organizzazione sociale. Le tipologie edilizie tradizionali, spesso costruite con materiali locali e secondo tecniche tramandate oralmente, non sono semplici strutture abitative, ma testimonianze tangibili dell’identità culturale di una comunità.

Emblematico, in questo senso, è l’interesse mostrato da Le Corbusier, il padre dell’architettura razionalista europea, che durante i suoi viaggi in Italia studiò con attenzione l’architettura rurale e popolare e monastica, da cui trasse spunti fondamentali per il suo linguaggio formale.

Questo denota come anche le espressioni architettoniche più moderne riconoscano il valore e la sapienza insiti nell’abitare tradizionale.

L’indagine sui modelli abitativi vernacolari, attraverso rilievi, documentazioni, interviste e presa visione dello stato attuale, consente dunque non solo di salvaguardare un patrimonio, ma anche di costruire ponti tra passato e futuro, tra tradizione, che analizzata secondo protocolli annoverati diventa innovazione, in chiave sostenibile e partecipata.

Per questo il progetto di analisi condotto e diretto dall’Olivetaro Partenopeo rappresenta un pilastro essenziale di tutela della comunità minoritaria storica arbëreşë.

Questo approccio parte dallo studio delle tipologie edilizie tradizionali, costruite con materiali locali e tecniche tramandate di padre in figlio, capaci di riflettere la cultura, le condizioni ambientali e le esigenze della vita quotidiana delle macro aree in esame.

Le risultanze abitative tradizionali quali Turàtë, Kallivetë e Shëpitë, immersi nei modelli di iunctura, consentono di cogliere la relazione tra spazio domestico, identità culturale e sostenibilità ambientale. Integrando un’analisi tipologico‑funzionale, esempio secondo il metodo sviluppato nelle macro aree collinari o pre montane si può contestualizzare ogni abitazione dentro una logica comunitaria e ambientale, costruendo una base solida per interventi di recupero, valorizzazione o didattica territoriale che ad oggi non ha mai avuto attenzione istituzionale, non avendo la legge di tutela delle minoranze, ovvero la legge 482/99, alcun riferimento nei meriti dell’articolo nove della costituzione.

In virtù delle testimonianze raccolte e per volontà del cuore che custodisce il sapere delle madri,
si decreta e si rende noto che il matrimonio, così come tramandato nelle Terre di Sofia,
non fu mai semplice accordo tra famiglie, ma rito sacro, vestito di silenzio e cucito con pazienza.

Per mano di donne sagge, tra cui si annovera la stimata sarta di questo paese, mia madre il cui ago non fu mai strumento di mestiere soltanto, ma penna con cui ricamare la storia degli affetti, gli stessi che furono mantenuti vivi in gesti antichi, che davano al giorno delle nozze il valore d’un’incoronazione.

Il corredo non era ostentazione, ma promessa e, ogni lenzuolo, ogni fazzoletto, ogni bordo d’abito,
raccontava la storia della sposa e della sua casa dove il bianco candore della stagione lunga non era vuoto, ma pieno di attese, il pane, spezzato a tavola, era vincolo più saldo dell’anello.

Si ricorda dunque, e si tramanda, che l’amore non nasce nell’abbondanza ma nella cura;
che le nozze vere non risuonano in clamore, ma in silenzi condivisi secondo l’antica voce,
quando vi era chi sapeva disporsi per ascoltare.

In omaggio a chi ha saputo serbare queste verità nelle mani e nei giorni, e affinché la memoria non si perda tra le mode, venga questo Editto custodito, non nei libri soltanto, ma nei gesti che si ripetono,
come aghi che passano il filo tra generazioni.

Dato oggi, in spirito e in affetto, da chi porta nel sangue e nel cuore l’arte antica del matrimonio vissuto.

Tra le pieghe del tempo e il silenzio delle colline dove sorge Terra di Sofia, vive ancora la voce degli antenati.

È una voce che senza soluzione di continuità parla una lingua antica, che racconta memoria, pregando rivolgendosi a Dio nella forma più intima dell’identità arbëreşë.

In ogni gesto quotidiano, in ogni rito familiare, in ogni festa di paese, si rinnova il legame profondo con le radici di un popolo fiero, venuto da lontano ma radicato con forza nella terra che oggi chiama casa.

Il passaggio generazionale delle consuetudini non è solo trasmissione di usanze o custodia dell’anima.

Perché nei racconti dei nonni, le figlie le nipoti e le pronipoti davanti le case in pietra, i più giovani scoprono chi sono.

È nelle ricette tramandate, nei costumi tradizionali indossati con orgoglio, nella lingua parlata ancora oggi in alcune case e chiese, che si intrecciano memoria e futuro.

Ogni generazione che accoglie, rinnova e trasmette le consuetudini del mondo arbëreşë diventa anello di una catena preziosa, che resiste all’omologazione e tiene viva una cultura minoritaria, ma straordinariamente ricca.

Non si tratta di semplice folklore, ma di identità viva, che si evolve senza mai dimenticare le proprie origini, quando si tramandano tradizioni.

In tutto questo c’è un atto d’amore che vuole onorare la storia, dei padri, della comunità, in esso c’è un senso di responsabilità che non pesa, ma nobilita e oggi significa essere ponte tra passato e futuro, custodi del tempo, e chi si assume questa responsabile arte viene eletto dalla storia narratore di una bellezza che ancora ha molto da dire.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-07-18

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ARBERJA E IL GAMBERO ROSSO CHE CALPESTA LE ORME DEL PASSATO

ARBERJA E IL GAMBERO ROSSO CHE CALPESTA LE ORME DEL PASSATO

Posted on 16 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi ha la fortuna di avere natali nella capitale culturale degli arbëreşë, eredita gli elementi fondanti della formazione intellettuale e riveste il ruolo notevole per tutelare le tradizioni i valori materiali e immateriali di questa storica popolazione indo europea.

Se poi il prescelto, intraprende i percorsi di crescita e formazione Olivetana si comprende in modo determinante e senza dubbio alcuno, la riuscita di questo protocollo infallibile.

La conferma si palesa nell’osservare quali strumenti si utilizzano per interpretare, ricostruire e valorizzare la regione storica diffusa e sostenuta dal geniale protocollo del parlato senza scrittura arbëreşë.

Da oltre due decenni si producono ricerche e studi volti a dare valore a una storia fatta di avvenimenti cruciali del passato, riferibili a una comunità che continua a esistere ai margini della memoria collettiva.

Questo progetto, nasce dal desiderio profondo di ricostruire la radice unica e indivisibile di questa minoranza, non inseguendo il parlato da tradurre per essere scritto, ma associando a questa i costumi e, la memoria rivolte al vernacolare del costruito in tessitura, secondo i canoni paralleli di un popolo diasporico.

Tuttavia e bene precisare che tutto ebbe inizio nel largo dello storico “Trapesò”, in Terra di Sofia, per una promessa data e, che doveva essere sortire con il ritorno trionfale in quel luogo e spiegare cosa fossero gli elementi che circoscrivono quella prospettiva antica

Da quel giorno, senza soluzione di continuità la caparbietà del portatore sano, è stato circondato da ostacoli invisibili da superare, negazioni fraterne da ingoiare, ostilità diffuse da schivare e sin anche il mormorio alto da valicare.

Raccontare degli Arbëreşë, non è solo un esercizio di ricostruzione storica di un parlato o la vestizione di mezza festa e mezzo lutto, come largamente viene diffuso sin anche dai musei, ma un atto di resistenza culturale contro l’oblio dei tanti dottorati.

Interessarsi dei discendenti giunti in Italia tra il XV e il XVI secolo, in fuga strategica dall’avanzata ottomana, ad est del fiume adriatico, ha consentito il preservare nei secoli il senso di una forte identità, e nel contempo ha tessuto le maglie dell’integrazione con le genti d’Italia.

E nonostante questa storia sia ai più, ignorata, sottovalutata o relegata ad essere note a piè di pagina nei manuali ufficiali, il tutto denota la sottrazione di un popolo protagonista, che spinge a non si arrende, nonostante il tempo e le difficoltà della storia e delle istituzioni tutte che non la menzionano, neanche in una giornata, come fanno con tutte le cose.

Questo progetto è il tentativo di restituire dignità, visibilità e futuro a una memoria viva, ma sempre più fragile e, non si tratta solo di una ricerca storica, in quanto atto di giustizia e responsabilità verso un’eredità ad oggi di memoria che rischia di scomparire.

Uno degli aspetti più frustranti di questo lungo cammino è stato constatare che a spegnere, spesso, gli entusiasmi diffusi e profusi non siano stati i grandi ostacoli strutturali, né la mancanza di fonti o materiali, ma piuttosto l’atteggiamento di chi, pur non avendo titoli né metodo, si erge a custode della memoria per semplice frequentazione di archivi o biblioteche.

Sono stati proprio questi “passeggiatori sulle carte”, spesso animati più dal bisogno di protagonismo che da rigore o rispetto, a rendere difficile un solido percorso, trasformando la ricerca in un terreno minato da giudizi sommari, gelosie, superficialità e ignoranza da pidocchio che si crede mugnaio.

Vedere un patrimonio così prezioso come quello arbëreşë trattato con leggerezza, o addirittura usato per fini personali, è doloroso.

Ancor più doloroso è dover giustificare la serietà del proprio lavoro a chi non ha strumenti né volontà per comprendere la profondità di una ricerca autentica. Eppure, malgrado tutto, continuo.

Perché il mio impegno nasce da un senso di responsabilità, generato da titoli e confronto solido, con i padri della storia, del restauro, dei musei e dell’architettura nelle varie epoche della storia e, non da un bisogno di approvazione.

A tal proposito è opportuno precisare che non è sufficiente limitarsi alla semplice ricerca e lettura delle fonti, in quanto si ritiene fondamentale saperle interpretare e collegare tra loro, per tracciare una visione d’insieme coerente e approfondita d’argomento di studio.

Se la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë si ostinano ad appellarla “Arbërja” (?), una incomprensione storica radicata in chi ha provato a fare storia ci deve essere, ed è ancora gravemente abbarbicata nella mente dei liberi “passeggiatori dormienti e lagrimosi sulle carte”.

Nel film “I cento pass i” lo scontro tra generazioni nasce, perché il genitore imponeva silenzio e, il figlio, gridava consolidando così, un conflitto chiaro, frontale e, a volte persino eroico, tra passato e presente.

Nei Katundë oggi succede il contrario, in quanto i figli credono di sapere e distruggono, vendono e palesano cose di penosa vergogna, mettendo i genitori saggi, in condizioni di non parlare e non consentire loro di respirare speranzosi che possano soffocare.

Non è più lo scontro tra generazioni a segnare il tempo, negli ambiti paralleli ritrovati del sud Italia, dove oggi, non sono più i padri severi e figli ribelli, ma si palesa un mondo al contrario.

Ora il silenzio arriva dalla memoria più profonda, serpeggia tra coetanei tutti uguali, volti giovani che gridano senza ascoltare emulando canti senza ragione, con radice di musicanti.

Non c’è un’autorità che impone il silenzio, non c’è censura, non ci sono minacce, non ci sono mamme che consigliano, ma un parlato che spezza questi luoghi prima ancora di essere parola.

Il tutto si traduce e viene diffuso, in pensiero che muore nella distrazione collettiva, mentre si cresce tra schermi e slogan, condivisi senza alcuna forma di rispetto delle cose del passato.

Ogni frase è un’eco che si perde prima di trovare un orecchio, ogni opinione si dissolve tra altre mille incomprensioni, tutte uguali, tutte urlate e senza una cognizione di causa o bisogno che sia di quel luogo.

Il dialogo non è negato, ma dimenticato, il confronto non è vietato ma deriso e quanti provano a costruire e dare senso alle cose del passato, si trovano a parlare in una piazza vuota, piena solo di urla e rumori riverberati dai distratti viandanti della breve sosta.

Non serve più zittire, oggi è più comodo non ascoltare e, il silenzio non trova più un colpevole, ma solo testimoni muti o complici volontari che avranno compenso di poco conto.

Questo è il quadro o l’immagine del un nuovo silenzio, non generato dalla paura, ma dalla resa solidale di tutte le generazioni in crescita che non sanno cosa dire.

Le stesse che preferiscono ballare in costume non per festa, ma per scoprirsi e dimostrare di appartenere a un genere alternativo che ancora non esiste.

Il tutto si palesa in maschere colorate, per non guardarsi negli occhi e fare in modo che le ferite prodotte possano diventare spettacolo moderno.

Essi non cantano, ma gridano forte e, certamente non per passione, ma per farsi sentire sopra il rumore che loro stessi creano battendo i piedi a terra senza ritmo.

Ogni suono è amplificato, distorto, vuoto e la melodia ha ceduto il posto all’effetto riverberato che si protrae oltre il tempo dello spettacolo.

I muri non raccontano più storie, non portano più voci ribelli o sapienza del bisogno, ora sono solo superfici da imbrattare, con firme che non dicono nulla e pigmenti che non sono tipici della natura circostante.

La memoria è un archivio copiato secondo i ritmi di un meme, ridotto a nostalgia da svendere per like.
I nomi si dimenticano, le date si confondono, le lotte diventano travestimenti da sfilare in qualche evento, che ricorda atti di vergogna.

Non c’è più eredità, solo consumo, non più silenzio, solo rumore, non più ascolto, solo riflessi che diventano una forzatura dei cinque sensi.

E in tutto questo chi prova a parlare resta fuori dal coro, e ogni cosa si trasforma in un sussurro che riecheggia sterile un mondo che urla senza dire o fare nulla.

“il fatuo vince e la memoria si accantona”, il fatuo vince, perché luccica, perché dura un attimo e non pesa, esso non chiede impegno, solo ascolto dei più distratti, perché è leggero, ma fa rumore.

E mentre il fatuo trionfa, la memoria si accantona, si piega, si nasconde, si dimentica e, diventa un oggetto fuori moda, una cosa da vecchi, un ingombro inutile che deve essere velato perché richiede troppo impegno per essere sostenuto.

I racconti si sbiadiscono, le lotte si riducono a frasi da stampare su magliette, i nomi si perdono e ogni cosa diventa buona per diventare spettacolo come si fa nel circo equestre.

La storia scivola via e non fa più memoria, il presente brucia tutto per bene e, quel poco di cenere che resta, viene spazzata e spenta dal vento, terminando per non illuminare ma adombrare quelle prospettive che attendono di essere osservate.

Vince il mediocre e, quanti non hanno nulla da dire, ma s’impongono con la minaccia di escludere per essere ascoltati, il tutto si risolve nel protagonismo del fatuo, dove non conta il contenuto, basta esserci, basta un volto, un costume o una fascia nera, una frase che suoni bene per dieci secondi, per poi subito dopo non fare più memoria.

A parlare, progettare e appore momenti di storia non sono più i prescelti natii, non i più giusti, non i più profondi, ma parlano tutti, e chi urla più forte diventa verità di ascolto musicata.

I peggiori non stanno più ai margini, hanno conquistato il centro del palcoscenico, infatti erano ultimi non perché esclusi, ma perché vuoti e non capaci di primeggiare in nulla, neanche per spogliatura di aglio.

Essi non sono mai diventati primi ad apparire, primi a essere visti perché la mediocrità non si nasconde più, ma va esibita, monetizzata e applaudita.

Diversamente dalla memoria che si accantona, tanto non serve a niente nel regno dell’istante e del lento progredire, perché essa è pesante, scomoda, in tutto il contrario del presente che brucia ogni cosa con il crepitio del pensiero che diventa cenere, nel mentre la verità tace e il mediocre vince.

Tutto diventa Katundë del gambero, dove si inizia a combatte il bene, per terminare con il deriderlo, isolarlo e umiliarlo per principio.

Il bene è diventato debolezza, ingenuità da correggere, zavorra da togliere di mezzo e, quanti provano ad essere giusti sono schiacciati dal cinismo degli ultimi.

In questi luoghi di memoria chi cerca il silenzio per pensare o ricordare viene sommerso dal rumore, se non addirittura accusato di nostalgia, come se ricordare fosse una colpa.

E mentre il bene viene cacciato, il male si esalta, non vive più rintanato e, non teme più vergogna.
ma applaudito, vestito a festa, decorato sin anche a bërlok.

Il violento fa spettacolo, l’arrogante viene seguito, il volgare diventa modello crudele è chiamato “autentico”.

Il fatuo vince, il mediocre trionfa, la memoria si accantona e i pensieri si spengono, questo fa diventare ogni cosa Katundë del gambero, che marcia di spalle senza vergogna, calpesta ogni cosa e quello che distrugge lo vede poi da lontano quando non è più in grado di ricostruirlo mentalmente e ne saperlo leggere perché è miope dalla nascita.

In un mondo che spesso appare rovesciato nei suoi valori e nella sua coerenza storica, le comunità rappresentano un esempio di resistenza culturale e custodia identitaria.

La loro capacità di preservare lingua, memoria e tradizioni si configura non come un anacronismo, ma come un atto consapevole di dignità e futuro.

In questo senso, ciò che altrove è marginalità, qui diventa centro, un ribaltamento che non è disordine, ma nuova prospettiva.

La chiusura, utilizza un registro alto e riflessivo, adatto a un pubblico colto o istituzionale e, valorizzare il concetto del “contrario” come chiave interpretativa, sottolinea il valore esemplare della cultura, legandola a temi come memoria, resistenza e prospettiva.

La memoria che ho ereditato da Eleda, oggi festeggia i suoi primi cento e nove anni a cui vanno sommati quelli di nonna Francesca, la vostra radice di fatuo quanti giorni segna?

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-07-16

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LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË  Mendja i Ghëravetë thona

Protetto: LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË Mendja i Ghëravetë thona

Posted on 14 luglio 2025 by admin

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ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

Posted on 12 luglio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il vernacolare del costruito, la toponomastica e i soprannomi all’interno delle pertinenze territoriali e del costruito di un Katundë Arbëreşë sono gli uffici, stesi alla luce del sole in forma sociale e condivisa, che fanno archivio e anagrafe di questi luoghi colmi di storici confronti di operosità.

Per questo l’insegnamento della scrittura di una lingua storicamente parlata può risultare inopportuno, quando non si tiene conto del suo contesto sociolinguistico e culturale.

Le lingue orali, spesso sono legate a tradizioni popolari, di comunità locali o minoranze, che sviluppano nel tempo forme espressive, non sempre adattabili ai modelli dello scritto standard.

Per questo imporre una codificazione scritta può snaturare la ricchezza della lingua, ridurne la spontaneità ed escludere coloro che non si riconoscono in una norma obbligatoria, senza un reale consenso o coinvolgimento della comunità parlante, innescando così processi di trasformare di un patrimonio vivo innestando artifici scolastici, ben distanti dall’uso autentico e quotidiano.

Codificare una lingua parlata spesso significa selezionare una varietà prestigiosa o centrale a scapito delle altre periferiche o di confine non parallelo.

Questo può portare all’emarginazione delle varianti, che sono la parte integrante dell’identità culturale di una comunità.

La standardizzazione scritta tende a sopprimere la ricchezza interna del parlato, privilegiando le lingue più diffuse e comunque altre, innescando la conseguente omologazione che conduce alla perdita di biodiversità linguistica di uno specifico intorno storico.

Quando una lingua parlata diventa oggetto di insegnamento scritto, può assumere tratti formali, normativi e comunque non in linea con la realtà d’uso.

Questo può scoraggiare l’uso spontaneo della lingua, specialmente tra i parlanti nativi, che si trovano oltremodo disorientati dalla nascita.

L’insegnamento scolastico della lingua scritta non deve mirare a trasformare il mezzo di comunicazione naturale in ogni ambito di studio rigido, allontanando i giovani dalla sua pratica quotidiana.

Specie oggi dove ogni settore di studio si espande verso la conoscenza del parlato più diffuso, a scapito delle minori che rimangono nicchia da sottomettere, come lo fu per gli Arbëreşë sei secoli orsono.

Allo stato delle cose odierne è possibile valorizzare una lingua orale senza forzarne la scrittura, facendo uso della documentazione audio e video, l’insegnamento orale, la promozione culturale attraverso canzoni, e narrazioni, come lo fu per i germanofoni nel 1871.

La trasmissione orale, se sostenuta da strumenti moderni e digitali, può garantire vitalità e trasmissione intergenerazionale della lingua senza bisogno di forzarla in una forma scritta.

Una lingua è patrimonio di chi la parla e, qualsiasi iniziativa di normazione o insegnamento dovrebbe partire da un processo partecipativo e condiviso, non da decisioni calate dall’alto.

È fondamentale la comunità coinvolta sia protagonista del processo e, ogni forma di standardizzazione deve nascere da un consenso collettivo, non da esigenze accademiche o istituzionali di parallelismi territoriali ormai omologate ad altri dinamismi.

Tra queste valga di esempio la comunità arbëreşë, che rappresenta un prezioso mosaico culturale, dove si tessono e si intreccia storia, lingua, religione, canto, gastronomia e sapere di radice esclusivamente consuetudinaria.

Tuttavia, spesso la tutela delle minoranze si è concentrata quasi esclusivamente sulla salvaguardia del parlato promosso e diretto in forma ostinatamente scritta, rischiando di ridurre la complessità di queste identità a un solo elemento, scollegato dal vissuto quotidiano.

Misura ne sono le attività dipartimentali orientate in tal senso, lasciando solo piccoli episodi senza ascolto per chi si dirige o previlegia altre strutture, in grado di sostenere questi miracoli di resilienza culturale.

Da questa premessa e per evitare che la minoranza arbëreşë venga percepita come “folclore statico” o come un’eredità “fuori tempo”, è necessario adottare un approccio integrato che valorizzi non solo la lingua, ma l’intero ecosistema culturale e sociale.

Ciò significa sostenere pratiche vive, come l’artigianato, i cunei agrari e della trasformazione, le tradizioni religiose, il sistema vernacola che fa iunctura, la cucina tipica, il canto e le narrazioni orali, il tutto secondo un dialogo aperto con la contemporaneità e con le nuove generazioni.

Valorizzare una minoranza oggi non significa conservarla in una teca, ma attivarne il potenziale culturale, educativo ed economico, rendendola parte dinamica del tessuto sociale.

Solo così la cultura arbëreşë potrà continuare ad essere, non solo memoria del passato, ma risorsa viva in grado di riverberarsi con forza nel futuro.

Nel paesaggio delle macro aree arbëreşë, se si osserva l’architettura vernacolare si ha la misura che essa non è solo estetica, ma tradizione materiale di un sapere antico, nato dal bisogno e affinato dalla convivenza con l’ambiente naturali e la forza dell’uomo che cambia con lo scorrere del tempo.

Case in pietra locale, cortili interni, forni comuni, strade strette e piazze raccolte, raccontano una storia fatta di adattamento, resilienza e senso della comunità.

Questi spazi, spesso trascurati o minacciati dall’abbandono, non sono solo testimonianze del passato, ma strumenti attivi di continuità culturale.

Essi parlano una lingua silenziosa ma potente, quella dell’abitare collettivo, della sostenibilità spontanea, dell’uso sapiente delle risorse.

Da ciò si dedurre che rappresentano il punto d’incontro tra identità e territorio, tra cultura materiale e visione del mondo che segna il suo progredire.

Valorizzare l’architettura vernacolare arbëreşë, quindi, non è un’operazione nostalgica, ma un atto di rinnovata consapevolezza e il dato restituisce dignità a forme di sapere legate al costruire con intelligenza, al vivere con misura e abitare con senso, ma soprattutto riconoscere che la cultura non si conserva o si scrive, ma si abita confrontandosi e parlando.

L’architettura posta in essere dagli Arbëreşë, le comunità insediate in sedici macro aree del meridione Italiano a partire dal XV secolo, rappresentano un esempio significativo di adattamento culturale e ambientale.

Essa si sviluppa su più livelli, rispecchiando le esigenze sociali, economiche e simboliche delle diverse epoche.

La base del paesaggio costruito arbëreshë è l’architettura vernacolare, realizzata con materiali locali come pietra, legno e laterizi crudi.

Le abitazioni tradizionali erano semplici case a uno livello, spesso con tetti a falde ricoperti di coppi, disposte lungo tracciati irregolari che seguivano la morfologia del terreno.

Le stanze erano distribuite in maniera funzionale, e solo in tempi di stabilità abitativa organizzate con stalle o magazzini al piano terra e l’abitazione vera e propria al piano superiore.

Gli spazi domestici fuori l’uscio della porta, erano condivisi tra più nuclei familiari, a testimonianza di una cultura fortemente comunitaria o meglio di iunctura familiare.

Con l’evolversi degli insediamenti e l’incremento dei rapporti l’agro che diventava piò solido e generando fioriture di certezza, l’architettura arbëreshë iniziò ad assumere un carattere più urbano.

Si svilupparono così tipologie edilizie “a profferlo”, ovvero costruzioni addossate lungo le strade principali, con affacci direttamente sullo spazio pubblico.

Queste case, più compatte e articolate, presentavano spesso piccoli balconi, ingressi monumentali e talvolta decorazioni modeste, segnando un passaggio verso una maggiore rappresentatività sociale, pur mantenendo una forte coerenza con l’ambiente e le tecniche tradizionali.

A partire dal XVIII secolo, con la nascita di una piccola élite locale e l’integrazione nel tessuto politico e amministrativo del Regno di Napoli, emersero anche edifici di rango superiore, ovvero i palazzotti nobiliari. Questi edifici, spesso ubicati nei punti più visibili o centrali del centro antico, si distinguevano per la monumentalità della facciata, l’uso di portali in pietra scolpita, lo stemma familiare e la presenza di corti interne o loggiati.

Pur riprendendo modelli architettonici del barocco meridionale, molti di questi palazzi conservano elementi legati alla cultura mediterranea tipica delle coline degli appennini, talvolta visibili nei simboli, nelle iscrizioni o nella disposizione degli spazi interni.

Altro aspetto fondamentale è la toponomastica storica, infatti essa rappresenta un archivio invisibile ma essenziale steso al sole e, i nomi di luoghi, strade, fonti, campi, boschi, alture e distese si custodisce la memoria profonda di una comunità.

Per gli arbëreşë, la sopravvivenza di antichi toponimi, purtroppo molto spesso alterati e incompresi, anche se a volte sorprendentemente intatti, testimoniano o meglio tracciano una geografia emotiva e culturale che resiste al tempo.

Questi nomi raccontano origini, migrazioni, legami con la terra e con il sacro e, non devono essere recepite come sterili etichette, ma frammenti di una narrazione collettiva, radicata nel paesaggio e tramandata oralmente.

Salvaguardare la toponomastica storica significa quindi proteggere una mappa identitaria, capace di rivelare molto più di quanto un semplice cartello possa dire.

Recuperarla, studiarla e restituirla alla comunità e, magari integrandola nei percorsi turistici o nei sistemi di segnaletica, vuol dire dare voce a un territorio che ha ancora molto da raccontare.

Nei paesaggi rurali, la toponomastica dei cunei agrari (frazioni di terre coltivate, appezzamenti, coltivi, confini) rappresenta molto più che indicazioni catastali, in quanto essa è storica, funzionale e culturale. Questi cunei agrari e della trasformazione prendono spesso nomi descrittivi, legati alla forma del terreno, alla qualità del suolo, alla presenza di acqua, all’esposizione o al coltivo praticato, all’uso o il confine sociale che rappresentarono e costituiscono un’autentica “mappa orale” della quotidianità contadina.

Ad esempio, toponimi come “pratj”, “lljmë lljtir”, o “mallj” descrivono rispettivamente pendii ampi, declivi o limiti di utilizzo, mentre nomi come “Kotà”, “kjusà” o “rashi” indicano caratteristiche specifiche di terreno o posizione topografica, in tutto il Catasto ambulante e, gli agricoltori o contadini conoscevano perfettamente la toponomastica dei cunei, identificando i confini e la destinazione dei terreni senza strumenti cartografici o documenti ufficiali.

Il paesaggio per questo, narra e i nomi raccontano non solo aspetti fisici, come pendenza e suolo, ma riflettono anche pratiche agricole, come le coltivazioni prevalenti o l’uso del suolo.

Per questo, individuare il sapere locale, quasi sempre trasmessi oralmente, testimonia un patrimonio di conoscenze geografiche, agrarie e sociali, radicato nella memoria collettiva.

Il tutto poi diventa identità territoriale che serve ad integrare la toponomastica rurale nei progetti culturali e turistici, contribuendo così a costruire una mappa identitaria che parla di come si lavora e si viveva la terra parallela ritrovata dagli Arbëreşë.

A tal fine servirebbe allestire forme in didattica territoriale o laboratori sul campo, cartellonistica naturalistica o app geolocalizzate che possano divulgare agli studenti e ai visitatori i nomi originari e le storie legate ai campi.

Il fine mira a conservare la memoria digitalizzando sia il mappare segnala i luoghi dei cunei agrari con i loro toponimi significa preservandone la visioni del paesaggio altrimenti destinate a scomparire.

La toponomastica dei cunei agrari è una memoria attiva del territorio, un patrimonio simbolico e pratico di relazioni, saperi e lavoro.

Inserirla in un progetto di valorizzazione significa rendere visibile la cultura contadina e, dunque l’identità non solo nelle piazze o nelle chiese, ma anche e soprattutto nei campi, nei muretti a secco e nelle pietre di confine.

In una comunità parlante priva di forma scritta, fanno parte di questo patrimonio di memoria anche i soprannomi non sono semplici etichette: sono parte viva della memoria collettiva. Spesso custodiscono storie, legami familiari, tratti distintivi o episodi che hanno segnato l’identità di una persona. In assenza di documenti ufficiali, un soprannome può diventare l’unico segno duraturo del passaggio di un individuo nella storia della comunità.

Per questo, è fondamentale tutelarli: conservare i soprannomi significa proteggere la lingua orale, le relazioni sociali e la cultura locale nella sua forma più autentica.

I soprannomi sono spesso espressione di creatività linguistica e ironia popolare, possono rivelare dinamiche sociali, gerarchie implicite, ruoli nella comunità o tratti del territorio.

Studiarli e conservarli aiuta a comprendere l’identità collettiva e i meccanismi con cui una comunità si racconta nel tempo e nella storia.

In comunità senza scrittura, i soprannomi aiutano a distinguere tra individui con nomi simili o identici innescando certezze senza sovrapposizioni o margini di errore.

Sono strumenti di memoria viva, tramandati oralmente, che contribuiscono alla trasmissione delle storie locali.
Con il declino della lingua orale, della trasmissione intergenerazionale e con l’omologazione culturale, molti soprannomi rischiano di scomparire e, diviene fondamentale tutelarli, perché oggi significa proteggere un patrimonio che domani potrebbe non esistere più.

Il soprannome crea appartenenza, anche se in forma palesemente scherzosa o ironica, tuttavia rafforza i legami tra le persone e spesso identifica il ruolo di ciascuno gruppo nel tessuto comunitario.

Anche in assenza di scrittura formale, i soprannomi possono essere raccolti e trascritti oralmente, in registrazioni o archivi sonori, valorizzandoli come parte del patrimonio immateriale, a tal fine il consiglio di un “passionato”: cosa aspettate ad iniziare ad archiviare anagrafare e registrare il vernacolare, la toponomastica e i soprannomi?

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025 – 07 – 12

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