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RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO  INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

Posted on 28 gennaio 2025 by admin

ARberia

Dal diciotto di gennai del 1977 la distanza che ha visto espandere la “Radicanza di cuore tra Terra di Sofia e Napoli”, mantenendo solide pulsazioni di luogo nel confino a 228 chilometro, pari a 141 miglia, esponendosi nel tempo sino a 230 chilometri paria a144 miglia, nel circoscritto della città di Napoli.

Da quel giorno senza mai smettere di studiare e fare memoria di tutelare, nel prodigarsi per diventare portatore sano di fatti della storia avuto luogo in Terra di Sofia equiparati, in seguito ai cento e più centri antichi di simili origini e diventata la missione della Radicanza senza soluzione di continuità.

Il luogo emblematico dove tutto ebbe inizio, è il Giardino che un tempo fu Orto Botanico dei Bugliari di sotto, quando Vescovo era il figlio di Anna Maria Pizzi.

A Napoli cosi ogni cosa lasciata nella Radicanza in Terra di Sofia, divenne misura e studio in: Sedil Capuano, poi dopo il terremoto del 1980, in Via Leopardi e, dopo il termine di febbrai del 1985 lungo la Via del Sole e della Luna, per poi approdare nella storica Salita della Sapienza, li dive era il noto giardino botanico civile, dell’antica Capo Napoli; e in fine oggi, accanto alla fratria un tempo frequentata da Pasquale Baffi.

Tornare oggi nel luogo natio, si dovrebbero allestire, per lungo tempo, fuochi di candelora per fare cenere di tutti gli editi, favole e ogni sorta di compilazione, esclusi il “Discorso degli Arbëreşë del 1776 di Baffi e le vicende che rinforzarono i valori Arbëreşë con i fratelli Giura e il Torelli”.

Tutto il resto andrebbe distrutto e , reso cenere, cosi come i riversi allestiti e riverberati, dalle pecore al pascolo, nel promontorio tra il Surdo e il Settimo dagli anni settanta del secolo scorso, da un pastore senza titolo.

Allo scopo, non bisogna distrarsi e perdere misura, degli errori e le malefatte nel corso dei trascorsi del Corsini, quando era in Sant’Adriano, a iniziare dalla pena inflitta al primo Vescovo Francesco, alle lacrime del secondo Bugliari, che lo dismise per pena infinita.

Una delle prime azioni posta in essere una volta a Napoli è stato di reperire tutti gli atti che del centro di Sofia che risultavano essere conservati nell’archivio di Napoli e, poi nel corso dell’esperienza universitaria, confrontare e lette con l’ausilio di docenti eccelsi, ed ecco che carte, fotografate e amaramente pagate divennero la guida, o meglio la cometa da seguire.

Nel corso del 1983, la ormai certezza del titolo accademico, quasi acquisito, diede spazio alla volontà di tornare nel luogo natio e fare famiglia, ma le istituzioni tutte, pubbliche clericali e germaniche, dirsi voglia, fecero tanto male di termine il 28 febbraio del 1985, che nell’aprile dello stesso anno, rifiorì la volontà di “Radicanza senza più termine”.

Inizia adesso un solido percorso di formazione nel loco di Napoli noto come la Salita della Sapienza, e non a caso, dopo numerose esperienze lavorative con istituti, istituzioni e docenti che hanno preteso che dovessi ritenermi un loro pari con titolo.

La Radicanza nel frattempo aveva germogliato e dato frutti molto genuini, con misura Solanizzata e, quel titolo accademico che sino ad allora era stato lasciato nel cassetto, perché ritenevo non più utile da conseguire, risveglio la promessa data che non poteva avere patto chiuso.

Ma i continui spasmi di quanti non immaginavano senza titolo “l’Olivetaro Arbëreşë”, fecero tanto per far ritornare sui suoi passi e, sostenere quell’esame mancante, nella primavera del 1984, per conseguire il titolo di laurea, il giorno prima dei suoi primi cinque decenni di memoria storica, studio compilativo e, di analisi inarrivabile per ogni pascolante o pascolatore, nel promontorio che circoscritto dal Surdo e dal Settimo.

Se sino al giorno del titolo di laurea, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo il Molise e la Puglia erano stati luoghi di rilievo, ricerca e progetto, dopo la data, del venti di ottobre del 2004, la Radicanza ebbe a dare frutti a dismisura, a  Potenza, Roma Firenze, Valentia e in numerose Università d’Europa dove l’esperienza applicata alla valorizzazione della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, trovò nuovi solchi dove germogliare frutti sino ad alloro sconosciuti o comunemente trattati.

Nascono così le Inchieste di Servizio e Formazione per gli Adulti, questi ultimi rimasti attaccati ancora alle antiche derive culturali poste in essere da non formati senza alcuna preparazione dell’ascolto e del parlare Arbëreşë scambiato per Albanese moderno.

Sono da ciò indagati centri i antichi e come essi si siano sviluppati, quali sono gli adeguati sostantivi per identificarli e quale percorso storico vernacolare abbiano seguito per restituirci gli storici odierni.

È stata identificata la valenza storica di che unisce Casa, Gjitonie e Cunei della produzione della trasformazione, Agro Silvicola e Pastorale, mai posta in analisi sino agli studi posti in essere dall’Olivetaro Arbëreşë, se non per fenomeni marginali che non potevano suggerire la leva del sostentamento.

Sono stati descritti i costumi e il valore sociale di tutti i costumi delle Oltre venti macro aree che compongono la Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Lo studio poi è stato interamente riversato nelle vicende delocativa del 2009, ottenendo attenzione da alte istituzioni e politici oltre della reggenza del sistema che si occupa della prevenzione, gestione a situazioni di emergenza.

Questa ultima in particolare dal 2014, a fine delle udienze si è astenuta dal proporre ancora modelli di ricostruzione per quanti subiscono calamità o sono colpiti da eventi sismici.

Va in oltre sottolineato che si aggiungono a tutto questo, studi mirati di numerose macro aree che sino ad oggi non conoscevano il senso della Iunctura urbana, fatta di elementi ripetitivi, costruiti e sociali, che solo chi ha studiato al fianco di eccellenze della storia, della geologia, della psichiatria e valorizzazione del territorio in quanto ambiente naturale, dell’antropologia saggia, senza dimenticare i grandi maestri dell’architettura, dell’urbanistica, della storia e del buon vicinato giovanile, che hanno saputo seminare bene.

Il rilievo, ricerca e progetto di edifici storici tutelati da rendere funzionali, ha fatto sì che la formazione venisse a consolidarsi al punto tale che sin anche la presa visione dell’analisi grano metrica, di murature o elevati crollati e spogliati delle intonacature, comparati in loco con eventi tellurici della storia, comparati al vernacolare del bisogno, diano certezza storica, di temo luogo e uomini.

Gli studi condotti a Napoli nel loco denominato Salita della Sapienza con la perfetta pronunzia dei vocaboli fondamentali, di una Lingua che non ha poesie o forme scritto grafiche, come definita dai fratelli Grimm.

In tutto una lingua che fonda il suo essenziale e ristretto uso orale, secondo una grammatica di pronunzia fondamentale, che non vanno oltre la definizione del corpo umano dei due generi e, gli elementi naturali ad esso prossimi o stellari, gli stessi che contribuiscono al suo progredire e rigenerarsi.

In tutto una Lingua razionale, che per essere tramandata, fa uso della canzone e delle movenze del corpo, al fine di fissare memoria da tramandare.

La lingua Arbëreşë non conosce la scrittura, non conosce libri né lavagne o terreno verticale dove disegnare o tracciare alfabeti.

Nessuno di noi ha preso fratria con questa lingua, studiando, leggendo o traducendo vocaboli in arbëreşë, a cui è affiancata una parola italiana, questa lingua prima diventa pensiero e poi diventa pronunzia e, mai succederà in alcun luogo che un pensiero italiano possa essere pronunziato in Arbëreşë, in quanto non avrebbe né senso e né valore.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Sino a quando gli organi decisionali dirsi voglia, si orienteranno nel non accogliere l’Olivetaro Arbëreşë o figura in grado di rispondere sulla secolare tradizione, indispensabile a dare resilienza a, “un Katundë o Contrada”, si continuerà a riverberare ricerca storica, con le numerose figure mitiche degli scribi e, siccome gli arbëreshë, sono una minoranza radicata nella sola forma orale a voi la conclusione del tema in analisi.

È indubbio che si possano innescare, scelte progettuali inadeguate, come ad esempio, scambiare la Gjitonia, con il vicinato o addirittura con un Quartiere, e ancor peggio un Katundë rinascimentale per un Borgo medioevale

A tal Fine è spontaneo chiedersi a questo punto, se si esegue prima il rilievo e l’indagine storica dello stato dei luoghi e dei moduli abitativi, ovvero gli Sheshi denominati, Kishia, Bregu Kaliva, e dell’insieme toponomastico ereditato oralmente dei sistemi aggregativi sia articolate e di quello più recenti lineari.

Così anche per i sistemi viari, riportati con patire storico  circolare riferito in forma e costume d’inferno Dantesco.

Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia sottovalutato il modello arbëreshë.

Tuttavia un’analisi conoscitiva e di confronto di quanto messo a dimora in località Katun o Kontrada specifica, indicherebbe che studi mirati sino ad oggi, alcun istituto ha condotto escludendo l’Olivetaro Arbëreşë in ambiti mediterranei, scambiando le dinamiche urbanistiche e architettoniche arbëreshë, stravolgendone completamente lo scenario delle volumetrie rinascimentali e dei tempi che seguirono.

È bene rilevare che un paese minoritario non è soltanto affare meramente politico, ma è anche affare volto al patrimonio immateriale radicato nell’idioma degli arbëreshë che non sono mai stati il vero obiettivo da salvaguardia nelle discipline dei dieci comandamenti; Architettonica, Urbanistica, Antropologica, Geologica, Psichiatrica, Storca, Idiomatica, Sociale, Religiosa e della solida Consuetudine, rimaste tutte e sempre ignote.

 

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COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

Posted on 26 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La gestione dei centri storici Arbëreşë, come quello di tutti i piccoli agglomerati urbani collinari, non identificabili come borghi, secondo le analisi di antropologi, linguisti, urbanisti, e istituzioni variegate, sono la non saggia espressione significativa dello stato attuale in cui vaga, la cultura degli adulti, ma è anche un esempio di come non si debba agire in tutte quelle nicchie culturali, che non sono allocate nei pressi di industrie, dove nulla di sostenibile hanno avuto alcun germoglio.

Con questo studio si vuole evidenziare previ esami specifici, uno dei problemi meridionali e, in dettaglio, cosa abbia spento i cunei agrari della produzione crescita e trasformazione, raramente tema dai su citati analisti che ritenevano fosse mero urgenza abitativa.

E i su indicati argomenti ogni volta che sono stati temi, di congressi o pubblicazioni, i contributi più interessanti sono venuti generalmente da organismi, con mira sociale di un ben identificato luogo abitativo da valorizzare.

Le massime istituzioni preposte di luogo, hanno finora praticamente ignorato l’argomento, salvo che per studi come quanto qui trattato sulla distribuzione della popolazione della regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë; valgano di esempio le eccellenze dei cunei agro silvo pastorale dell’antichità seicentesca, dove restano stese al sole le pene incompiute, in forma radicale, specie dalle istituzioni che hanno sempre sperato di edulcorare l’argomento, con il semplice diktat “Fare Katundë con le Gjitonie tralasciando le cose relative all’agro”.

Siamo perennemente, di fronte a scritti e contributi di studiosi che possono essere qualificati solo in senso estremamente lato, senza mai unire le risorse umane dei luoghi dal punto di vista del bisogno vernacolare più ampio e, le risorse messe in campo dalla natura.

Viene allora spontaneo chiedersi: di che cosa si occupano i professionisti delegati dalle istituzioni, dal momento che non gli interessi il maggiore dei nostri problemi, quello che condiziona tutta la vita sociale, economica e politica, a partire dal cento antico e, poi riverberandosi lungo i cunei agrari della produzione, germogliando economia e produzione sostenibile.

È senz’altro un sintomo assai interessante, è racchiuso nella più semplice risposta, infatti, mentre il trittico di specialisti coadiuvati da istituti locali, che non sentono l’esigenza di una questione che dia unità, scambiata come un piede deforme al posto di un organico e omogeneo sviluppo del Katundë, mentre, i cui sopra, non ne hanno ancora afferrato l’importanza, e soprattutto la drammaticità nel momento attuale, rimanendo imperterriti a formalismi ambientali o linguistici, visto che trattano l’argomento di minoranze, con forti dubbi di autentica analisi economica e sociale.

Il tutto viene inteso come problema marginale, visti secondo gli schemi astratti di una indiscriminata applicazione di uno “standard” culturalmente prefabbricato per altri luoghi e, sempre meno radicato alla dipendenza del territorio, più incline all’industria moderna, che spera nel sole e nel vento, quale risorsa energetica e non di indirizzamento dell’agio agro, silvico e pastorale.

Gran parte delle attenzioni, infatti, sembrano concentrate sul piano regolatore urbano e, la pianificazione regionale; vista esclusivamente da una ampia prospettiva di una maglia di accreditamento, sia come espansione del territorio (decentramento urbano) sia come espansione di rapporti comuni(zona unitarie di ambientali equipollenti).

Prevalgono così, nei piani regolatori esigenze di una civiltà industrializzata, anche in questi ambiti l’industria ha evitato di transitare o fare sosta per fatica inutile, neanche con minimali misure, creando  ulteriori accadimenti senza controllo e, formalmente, il malinteso entusiasmo fa aprire il Mezzogiorno una inesauribile “architettura solitaria che imita, senza speranza, le prospettive naturali” e con essa ogni speranza di insediare attività o filiere corte e specifiche di un determinato ambiente naturale, con specifiche produttive irripetibili.

E così nei vari Katundë, villaggi o centri storici recentemente manomessi o svuotati, possiamo trovare, accanto all’influenza di ricreare un “ambiente” che formalmente assomigli all’ambiente delle città metropolitane, ma che inizia e termina nel circoscritto fatto per dormire vegetando.

Da qui nascono le entusiastiche prose elogiative del colore, le rappresentazioni schematiche di vita, le prospettive equipollenti, la cancellazione dei veicolare anfratti, dove si svolgeva la vita all’aperto, e la scuola della consuetudine antica, non trova luogo per formare chi dovrebbe essere parte attiva di una filiera che si riverberava da camino di casa sino dove erano i germogli e le attività agroalimentare senza eguali.

Quando parliamo di Gjitonia in genere fermiamo il discorso nei circoscritti ambiti ameni in memoria della nostra giovinezza, senza avere alcuna consapevolezza del valore iniziatico del lavoro che in questi ambiti nasceva per riverberarsi, sino alla destinazione più recondita dei cunei agrari della produzione solanesca.

Queste osservazioni preliminari sono necessarie, per introdurci ad un breve esame dei comuni piani regolatori che hanno invaso i centri di radice Arbëreşë, i più significativi e interessanti saggi mai resi noti dello stato attuale della cultura, che raccontano gli atteggiamenti meridionali, tra i più vulnerabili, perché consuetudine conservata nel cuore e nella mente del governo delle donne meridionali.

Infatti troviamo nel decentramento suburbani, i contadini che non vivono la Gjitonia, forma fondamentale per allevare nuove generazioni, in tutto che rappresenta il ricambio continuo della stessa e identica attività, una filiera breve che nasce nella proto industria intorno al camino, dove le donne, panificavano e producevano insaccati e derivati della filiera di suini e dei bovini, oltre alla selezione di sorta o esperimenti conserviero alimentare di filiera casalinga.

Il camino della casa il forno comune della Gjitonia, rappresentano la proto industria che attendeva, nei vicoli e nei recinti propri, i prodotti della produzione che poi diventavano sostentamento per l’intera società circostante.

Il cui obiettivo di vita doveva essere infinitamente parallelo alle vecchie abitazioni, secondo cui è lecito chiedersi, quale nuova vita potranno impostarsi e su quale attività rinnovate per sostenere questa storica filiera fatta dal governo delle donne e degli uomini sempre in sintonia tra casa e agro diffuso che la natura qui poneva in essere.

Salvo questo esempio di decentramento, e l’altro di trasferimento delle attività nell’agro, ogni cosa  fatta dal nuovo trittico di specialisti, appena abbozzato; né è possibile vedervi la ricerca di una evoluzione per un problema esemplare riassuntiva di tutta la situazione meridionale, unitaria e praticamente spaccata in due, ma che respirano, e vivono fianco a fianco, gli uni alle spalle degli altri, ignorandosi, ma a ben vedere sono cerchi che nascono dallo stesso centro che poi li richiama e li sostiene

Negli odierni paini regolatori, perciò è possibile scorgere soltanto l’applicazione di alcuni schemi astratti, buoni forse per altri luoghi, ma non certo per questi centri che sono stati capitale di contadini e allevatori.

Sono numerosi i casi dove si possono riconoscere le manchevolezze, sottolineate dal fenomeno della fretta demagogica, e nell’impreparazione dei preposti: e noi siamo infatti certi che l’impostazione politica abbiamo un’importanza fondamentale per l’efficienza di un’opera urbanistica che parte dal centro e descrive un’ansa circolare sostenibile.

Ma, nel caso che stiamo esaminando, fino a qual punto le manchevolezze che si riscontreranno nel tempo, come la trasformeranno i nuovi quartieri creati per i cittadini sotto la spinta e l’esigenza della prepotente vitalità o fretta dei politici, e quanto invece dalla mancanza di una preparazione specifica di tutta la cultura urbanistica “ufficiale”, ad affrontare, i problemi concentrici del Sud, non di un meccanico decentramento urbano, ma della saldatura della campagna alla Gjitonia, della liberazione delle campagne, per trasformare nei suoi rapporti sociali, e non soltanto con un cambiamento di casa, un contadino e un cittadino, con uguali possibilità.

Per queste ragioni un piano che regoli e dia forza a ogni cosa va attuato nelle parti che richiedono un intervento dall’alto; non radicato nella situazione meridionale, senza la partecipazione della popolazione da cui è praticamente ignorato, il programma Gjitonia esaurendo le risorse in un’ennesima collezione di lavori pubblici, da fotografare per i manifesti murali.

Anziché elevarsi a strumento cosciente di una nuova vita, che risolve le ansie dei cittadini, i quali non devono solo avere un tetto per la notte, ma anche l’incarico di non avere nulla da fare durante tutto il giorno.

Questo è la peggiore deriva che l’urbanista, segue quando non si rende neanche conto del fallimento di un vero Piano Regolatore.

E l’ostacolo maggiore ad una inefficiente pianificazione è appunto questa volontà di separare le attività che legano la casa La Gjitonia o Vicinato e le attività di scuola dell’agro che attende ancora oggi uomini formati e prescelti, non intesi come docili strumenti o forze negative deboli, ma risorsa unica strumenti per nuove rinnovare innescare processi produttivi e valorizzare territorio natura e la salute degli uomini.

E cioè impostare anzitutto per una coscienza politica in grado di leggere capire e promuovere la partecipazione collettiva della popolazione.

Il Piano casa Gjitonia e agro, avvenire, se si conoscono le cose eccellenti del territorio che compone il Mezzogiorno; un esempio di quel paternalismo che, con l’abituare le popolazioni meridionali a vivere nelle case riverberando processi sociali nella Gjitonia troverà gli strumenti sociali adeguati o la soluzione dei problemi, che tenta di nascondere a se stessa sotto una maschera di ottimismo, sotto il desiderio di evasione fra balconi per rompere l’isolamento feroce che lo lega alla sua vita ormai desolata e senza futuro.

Il concetto di quartiere post industriale si è allontanata dalla scala umana che non è più luogo dove si viva bene, immaginando di andare, tranquillamente al mercato senza sapere come e cosa comprare.

E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria, l’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli inaspettata che non trova agio sociale attraverso una economia possibile.

Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare è imprevista, può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia urbana.

Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene unito, e senza una memoria dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.

Se tra il modulo abitativo e il luogo di lavoro tipico del meridione italiano non interponi la Gjitonia, tutto si perde nelle pieghe della disperazione politica dualista o sociale disorientata

I “razionalisti” si riferiscono a una corrente di pensiero che ha avuto grande influenza nell’architettura e nell’urbanistica del XX secolo, particolarmente legata ai movimenti modernisti come l’architettura funzionalista che mirava a fare una casa per tutti, ma poi come adempiere alle esigenze aconomiche non è stato mai posto rimedi se non la scuola nelle sue pieghe più politicizzate.

Tuttavia, oggi appare evidente vi fossero errori storici o critiche che sono stati mossi nei confronti di queste figure, che copiavano come far rientrare il gatto in casa o ventilare il volume senza progettare e formare o realizzare aspettative di accoglienza economica, che dimettessero in relazione con il territorio e le opportunità li in attesa.

Gli errori storici sono innumerevoli ma basta citare i temi qui di seguito illustrati:

  • Eccessivo distacco dalla tradizione e dalla cultura locale:

I razionalisti, nel loro desiderio di creare un’architettura universale, hanno spesso trascurato il legame con la cultura locale e le tradizioni del territorio, mirando esclusivamente industria che in tutti i luoghi di salvaguardia non erano e ne sono ad oggi presenti, realizzando così dormitori diffusi, che di giorno, diventano un modo moderno per delinquere in quanto luoghi di facile e comodo movimento.

Questo approccio ha portato alla costruzione di edifici che, pur essendo funzionali, talvolta risultano freddi, impersonali e disconnessi dal contesto sociale e culturale in cui avrebbero dovuto essere inseriti.

  • Semplificazione eccessiva delle forme:

I razionalisti cercavano di ridurre la forma architettonica alla sua essenza, enfatizzando la geometria e la funzionalità. Tuttavia, molti architetti e critici hanno sostenuto che questa semplificazione eccessiva ha portato a edifici che, pur essendo funzionali, risultavano privi di identità che il governo delle donne poteva innestare nelle nuove generazioni.

La ricerca della purezza formale ha talvolta sacrificato l’estetica e la bellezza, portando a edifici che sembrano privi di ogni minimale calore umano infatti mancano tutti sono sprovvisti di forni e camini domestici.

  • Negligenza del contesto urbano e sociale:

I razionalisti si concentravano principalmente sull’architettura in quanto tale, spesso senza considerare il contesto sociale o urbano, era il 1978 quando rivolsi la seguente domanda a un mio cattedratico professore: ma a che serve fare case se non si crea una filiera produttiva, queste genti a breve cosa faranno? Mi rispose dicendo mi che ero un semplice allievo e che se non avessi cambiato idea non mi sarei mai laureato; gli risposi che non avevo bisogno di una laurea per essere per fare l’architetto.    

  • Funzionalismo senza considerare la qualità della vita:

La visione razionalista enfatizzava il “funzionalismo”, ovvero l’idea che ogni elemento architettonico dovesse avere una funzione chiara e fine all’abitare.

Ignorando, in alcuni casi, il benessere psicologico e sociale degli abitanti, come nel caso delle “torri residenziali” progettate senza considerare adeguatamente gli spazi pubblici, la socialità tra i residenti e i luoghi di un eventuale lavoro di filiera corta.

Le abitazioni moderne, prive di un legame con il contesto sociale, hanno spesso creato ambienti impersonali e alienanti di odio e malessere.

  • Realizzazione di progetti irrealizzabili o difficili da mantenere:

Alcuni progetti razionalisti si sono dimostrati poco praticabili o difficili da realizzare nella realtà., dove la visione della, città completamente rinnovate, immaginava spazi per la vita non sempre tecnicamente sostenibili. L’ideale del “macchina per abitare” ha spesso trascurato le necessità quotidiane degli utenti, risultando in spazi difficili da mantenere o da adattare per dare agio alla macchina del lavoro di ogni individuo.

  • Impatto ambientale e sostenibilità:

Un altro aspetto che i razionalisti non avevano considerato in modo adeguato è stato l’impatto ambientale delle loro costruzioni.

I modernisti, pur cercando di adottare tecnologie innovative, non si preoccupavano in maniera sufficiente della sostenibilità a lungo termine degli edifici, che in moti casi dopo qualche decennio hanno terminato di essere vivibili e delle soluzioni razionaliste hanno avuto un impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità ecologica, che oggi deve correre ai ripari con spese non sostenibili.

In sintesi, sebbene il razionalismo abbia portato un contributo dell’abitare, molte delle sue realizzazioni hanno sollevato critiche che riguardano la disconnessione tra contesto sociale e, rigidità funzionale verso gli aspetti emotivi estetici ed economici che qui non sono mai stati tema di dialogo a lungo termine.

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CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË - UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA  Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

Posted on 23 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Un luogo tranquilla costruito dalla natura e sostenuto dal genere umano, dove portare sedie e fare conversazione, lavoro di cucito, ricamo e spogliature dei Solanizzati ancora da maturare, mentre i bambini giocano in sicura spensieratezza, crescendo in compagnia dei loro coetanei.

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato e non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Quei luoghi dove il genere uomo hanno tempi brevi per la sosta e le notizie di rito del governo; ecco qui esposto l’esempio di «fatti generi e cose» di un’ambiente riconducibile ai trascorsi di Gjitonia.

Il perché di questa breve è presto detto: esso rappresenta la cellula o unità elementare di convivenza organizzata, che unisce le famiglie, sfugge ad una definizione puramente urbanistica, così come ad una sociologia o antropologia pura, anzi si impenna a qualsiasi precisa teorizzazione spaziale, forse ancor più di altri organismi di maggiore complessità.

Gjitonia infatti va piuttosto interpretato come rapporto umano risultante da svariate condizioni sociali, e non come particolare circoscrizione di un intorno fisico o numerico di radice catastale.  

Preferibile dunque, anziché tentare di schematizzarlo o emularlo pubblicamente per forza di un circoscritto serve, cercare attraverso esempi vivi i caratteri che intervengono a formare questo modello di urbanistica e società di ristretti atti e attività da diffondere.

L’idea stessa di Gjitonia fa immediatamente correre il pensiero alla vita dei piccoli e dei piccolissimi centri o di quelle parti di città che meno hanno risentito i profondi mutamenti dei tempi più recenti con palazzotti razionali o unità abitative dirsi voglia.

In altre parole, sembra più facile capirsi guardando ciò che è avvenuto ed avviene in quegli insediamenti talvolta plurisecolari che ancor’oggi continuano a vivere ed a funzionare nei modi loro originari: e si può risalire tranquillamente fino al medioevo.

L’abitazione   medioevale   ignora l’esistenza   di numerosi funzioni e servizi, e non concepisce tale mancanza come un limite, perché è implicito che il soddisfacimento dei bisogni relativi nasca da una integrazione realizzata fuori dalla casa, sull’aia, sulla piazza, così come sulla strada o nel soleggiato anfratto sottovento.

Sono questi elemento che si modellano in favore della famiglia e l’anfratto, là dove il clima lo esige, si modella per il consenso degli edifici più notevoli o le fontane, i lavinai, le gradinate, che finiscono per diventare teatro dove il pubblico partecipante attivo si ritrova ad osservare e criticare ciò che avviene ai suoi piedi, avvolte soleggiati, bagnati e altre volte ventilati ad asciugare.

Il concetto di una integrazione che avviene fuori dalla casa ci illumina subito su alcuni caratteri; principalmente la mancanza di certi servizi individuali e il sussistere di bisogni che possono venir soddisfatti per il singolo solo in quanto lo siano per la collettività, mentre la necessità di comunicazione con il vicino si può specchiare in una riduzione dell’intimità, da tutti riaspettata.

Come si vede, si tratta di caratteri decisamente negativi, i quali per essere superati devono intervenire fatti positivo, il tutto poi diviene constatazione di matematica elementare di adizione e sottrazione.

Sembra dunque difficile ammettere che il permanere di determinati lineamenti urbanistici, una volta soddisfatti i bisogni di cui si è detto, basti da solo ad assicurare la continuità dei rapporti umani di mero vicinato.

Se ci portiamo più a vanti nel tempo ad osservare abitati che risalgono al sei settecento, notiamo che determinati caratteri si spostano, dalla struttura interna delle abitazioni e, si affina, differenziando i locali destinati alle funzioni fondamentali.

Ed ecco che dalla strada, di cui si va impadronendo il traffico, il punto di incontro si sposta più vicino all’abitazione del singolo, quando non addirittura all’interno di essa, come è avvenuto in molti Katundë arbëreşë per vocalizzare ogni anfratto, strada o slargo dirsi voglia. 

Se ne deve dedurre che i confini del vicinato si restringono, e non è difficile controllare come in effetti la partecipazione corale alla comunità si affievolisca col finire delle forme di vita che qui avevano avuto origine.

Un altro elemento da notare è il passaggio dal prevalere della casa unifamiliare alla diffusione del fabbricato collettivo: nel primo caso la vita di vicinato si svolge necessariamente all’esterno, e perciò stesso può dilatarsi in una continuità a catena di cellule successive.

Nell’altro caso è naturale che un collegamento nasca anzitutto tra gli abitanti di uno stesso edificio e che le persone si incontrino sulle scale, o che comunichino da una finestra all’altra, e questo denta l’isolarsi della cellula che diventa casa o appartamento comune.

La città del secolo scorso si è favolosamente moltiplicata senza avvertire la presenza di valori paragonabili alla Gjitonia.

Pur se essa ha cercato di rispondere a dei bisogni quantitativi, graduandone il soddisfacimento secondo criteri di opportunità sociale o politica. 

Nei grandi tagli edilizi che hanno caratterizzato le città d’Europa essi si fregiano di imponenti edifici dove il singolo individuo può anche vivere ignorando il suo vicino; ma dietro a questa sottile cortina si addensano le vecchie case e le straducole impraticabili alle carrozze, dove ognuno sente la presenza di un intorno umano che gli è notoriamente comune.

Contemporaneamente si allungano nelle interminabili periferie i quartieri amorfi del feudalesimo industriale; qui non soltanto l’uomo non può più costruire la propria casa, ma nemmeno può sceglierla, perché una vale l’altra, essa gli viene assegnata come una divisa unica, è tutto l’insieme fa parte di uno stato di necessità, identico a quello in cui tutti si trovano attorno a lui senza alcuna necessità dei valori racchiusi nel bisogno di vicinato. 

Così, la casa diventa qualcosa di sordo e di estraneo, dove si spengono quei fermenti che da essa nascevano: la strada della felicità implica necessariamente una evasione, né si può guardare con amore il prossimo che fa da sfondo alla scena di ogni giorno.

La rapidità e la vastità con cui si sono espansi i centri antichi, del secolo scorso, hanno moltiplicato il numero delle abitazioni prive di ogni sorta di personalità, la stessa che l’uomo non può e non riesce ad amare.

Quale sia il volto di un centro antico odierno lo sappiamo bene: sotto il segno di una stridente disarmonia, assistiamo al sopravvivere di strutture secolari, così come alle profezie di ideali centri che mirano al futuro, mentre va sfuggendo il senso stesso della nostra dimensione di generi che attende un luogo ideale per esprimere se stesso.

Rintracciare adesso elementi positivi comuni entro un intorno fisico anche limitato, sembra impresa senza uscita. 

Questo edito nella sua breve esposizione porta a concludere che una vita di Gjitonia si associa a condizioni di basso tenore di vita e nel corso di questa indagine, gli elementi favorevoli, sono stati evidenziati così come segue:

–  abitazioni che rispondono a bisogni minimali;

– attrezzature e spazio in comune a seconda le ragioni pulsanti;

– l’assenza di alcune comodità (case sprovviste di

acque, mancanza forno, in tutto cellule densamente abitate);

–  molti bambini e spazi, adatti per i giochi, comuni sempre sotto il vigile governo delle donne;

–  un numero sufficiente, ma limitato di attività sempre fuori dal perimetro di Gjitonia (il tutto contribuisce a un numero scarso, di spostamenti delle massaie se non per la via dell’agro);

– un livello di vita laborioso e semplice, che permetta di comunicare e partecipare con il prossimo, a differenza di quanto avviene in condizioni di agiatezza anche modesta, entro le quali si riscontrano atteggiamenti più individualistici.

Per contro l’esperienza di stimolare la socialità tra Gjitoni con l’ausilio di servizi comuni, espresso con un tenore di vita ragionevole, risolvendo numerosi insuccessi.

Qui divengono fondamentali i valori tipicamente domestici si tutelavano ad oltranza diversamente dai nuovi ambiti più moderni, senza che le persone riescano a conoscersi più che in qualsiasi altro tipo di abitazione collettiva.

È, una volta di più, il fallimento di una urbanistica moderna che pretenda di agire sugli uomini, anziché partire dagli uomini per dare loro le condizioni ambientali più adatte.

Così è evidentemente impossibile enunciare qualsiasi concetto urbanistico generale capace di ricreare nei nuovi aggregati la vita di vicinato: solamente dove particolari circostanze segnalino la possibilità, sia pure latente, di un più caldo rapporto umano, l’dovrà porre ogni cura per scegliere anzitutto la dimensione da assegnare all’elemento urbanistico adeguata a ll’ intensità di quel rapporto.

Si può dire che la maggior parte delle famiglie sono scontente dei vicini che hanno, pur sapendo bene di poter contare su loro in caso di necessità urgente.

Il dovere dell’aiuto reciproco, il senso di solidarietà umana sono infatti ancora vivi tra queste famiglie; il piacere di stare insieme a conversare o divertirsi costituisce tuttora lo spunto per un avvicinamento frequente ed amichevole.

Ma è raro il caso di qualcuna che, pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente.

Per quanto tali risultati siano sconcertanti, ed ammettendo che la ricerca successiva li confermi, riteniamo sia utile tenerli presenti considerando il problema dal punto di vista pratico.

Dalla nostra ricerca appare chiaro che l’esasperazione dei rapporti tra le famiglie del vicinato ha delle motivazioni abbastanza logiche accanto ad altre meno facilmente ponderabili.

Innanzitutto l’eccessiva vicinanza fisica: i rapporti sono peggiori infatti quanto più le case sono vicine; in secondo luogo il livello economico molto basso che, oltre a creare inevitabilmente in ciascuno uno stato di tensione continuamente in cerca di occasioni per scaricarsi, fa sì che ogni piccola differenza acquisti un valore sproporzionato e crei invidie e rancori.

La maggiore mobilità economico-sociale verificatasi in questi ultimi anni ha aggiunto motivi di dissenso in un mondo fermo per secoli in una greve uniformità di livello, in un mondo in cui «lavoro e sacrificio» erano le leggi comuni della vita, e «contentarsi di poco» il necessario sostegno della dignità individuale.

I valori della vita sono piuttosto espressi in sentimenti che in termini razionali, ed è quindi difficile acquistarne conoscenza dal rimanendone al di fuori.              

I l vicinato possono essere considerati, senza cadere in affermazioni arbitra rie, non soltanto come una unità di cultura, di civiltà, ma come unita di cultura consapevole, e capace i tra smettersi e fondersi in quella più va sta cultura che sta alla base di tutta una società democratica.

I l primo o m mezzo di trasmissione dei v a lo r i culturali è costituito dalla famiglia, m a nessuna di esse è oggi isolata, per quanto possa aspirare a provvedere a sé stessa con i suoi soli mezzi.   

Un   agglomerato occasionale di famiglie con tutti i legami e le fo rm e di associazione che sorgono appunto dal loro vicinato.  

In ogni fa miglia il padre, recandosi al lavoro, è espo­sto a contatti sociali con i compagni di lavoro e alle norme   di vita che regolano l’ambiente dell’officina   o dell’agro 

Entrambi i genitori possono essere membri di associazioni religiose, politiche, sindacali o ricreative, nelle   quali confluiscono punti di vista ed opinioni comuni su interessi   particolari.  

S i incontrano nei negozi, e le varie questioni relative al modo di comportarsi – dovere, civismo, cor­rettezza -vengono in superficie attraverso la discussione e l’esercizio della critica.

I bambini, fino a ll’ età di almeno 11 anni, frequentano una scuola situata nelle immediate vicinanze; giocano insieme nelle strade o nei camp i da gioco, vanno e vengono nelle case dei compagni smi­stando notizie da casa a casa e fornendo occasioni   e   confronti   tra i diversi metodi di educazione.  

I l vicinato è quindi un insieme di «ten­sioni» –tra individui, tra famiglie, tra casa e scuola, tra casa e lavoro, tra opinioni e gruppi i di interesse; le tensioni possono essere importanti e di peso decisivo, le relazioni per­sonali possono degenerare in lite e persino in violenze; ma da tutti que­sti fatti l’insieme, emerge un modo di v iv e r e, con la cultura del vicino.

L a m a gg io r parte della gente che lavora v iv e all’interno di questi limiti ideali, in un Katundë; ma esiste la consapevolezza, ed essi appaiono ben chiarie distintivi, quando accade che antichi legami si spezzino in occasione di spostamenti verso nuove abitazioni o altri siti.

T r e aspetti principali della cultura di Gjitonia sono degni di nota: prima di tutto i detti rapporti di buon vicinato, cioè la premura e solidarietà che si manifestano quando si verificano disgrazie: c’è una regola di vita nei confronti di coloro che sono colpiti verso i quali i diritti non sono rispettati e dove il livello generale è molto basso. 

Il secondo aspetto talvolta si rivela come un tratto spiacevole, a seconda se si abbia o meno qualche cosa da nascondere: è la curiosità.

Se ci è indifferente parlare dei fatti nostri sul pianerottolo o dalla fine­stra, non la condanneremo; ma se desideriamo la riservatezza, ci risentiremo verso i vicini curiosi. 

L’inte­resse che tanta gente prova per gli affari degli altri – le loro fortune disgrazie, le operazioni, le nascite, i matrimoni, le morti – crea nel vicino, una   conoscenza perfetta anche di quello che accade dietro porte chiuse o ambiti aperti. 

Può rappre­sentare un motivo di fastidio, ma può talvolta   impedire   sofferenze   e tragedie, può contribuire in modo po­sitivo a creare più strette relazioni umane, in modo particolare per coloro che sono soli od isolati.

Il terzo aspetto è l’accettazione di un tipo   riconosciuto   di   apparenze esteriori, ossia della così detta «rispettabilità».

Sono i frutti dell’in­nato spirito di conservazione, che si aggrappa a tutto quello che si ritine ne possa essere definito «ciò che è be­ne», e si preoccupa di trasmettere le norme e i principi delle generazioni più vecchie a quelle più giovani.

È un fatto prepotente della vita fa ­ migliorare, perché ogni membro di una fa mig lia ha il dovere, nei confronti degli altri membri, di non lasciare che essi scadano a gli occhi dei vicini.

«L’uccello che insudicia il nido è l’uc­cello cattivo», dice un proverbio; e l’uomo che vuole in frangere il codice riconosciuto va via, verso altri luoghi, dove, vivendo anonimo, può allonta­nare da sé ogni responsabilità.

La rispettabilità indica il tono e definisce la cultura di un vicinato.

Le norme di rispettabilità naturalmente variano, e in certi quartieri non sarebbe consi­derato rispettabile essere in rapporti amichevoli con la polizia.

Attraverso comuni interessi e un comune sentire, tra gli abitanti del vicinato   si   stabiliscono   delle   rela­zioni, e attraverso   regole   general­mente, se non universalmente, accet­tate, il vicinato si rivela come una unità di importanti   valori   morali, intellettuali ed estetici chiaramente individuabili, diventa qualche   cosa su cui è possibile costruire.

 

Queste ed altre ragioni plausibili di tensione, che non staremo qui a considerare, ci sembra siano sufficienti per non farci concludere troppo semplicisticamente che queste famiglie preferirebbero vivere isolate (come del resto qualche

donna ha affermato in un impeto d’ira), o – peggio ancora – che meglio sarebbe far in modo che stiano lontane una dall’altra, perché «i contadini sono individualisti», perché non sono capaci di vita associativa.

È certo che il vicinato ha avuto una funzione sociale e psicologica importante nella vita di questa piccola comunità come mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale.

I bambini, si può dire, vivono «Gjitonia» più che nella loro famiglia: passano da una casa all’altra, assorbono avidamente tutto quello che possono apprendere osservando i vicini sia direttamente, sia attraverso quello che ne sentono dire in casa nei pochi momenti di isolamento ed intimità familiare.

Quando una madre che non è la propria, commenta col marito o con i figli più grandi i fatti accaduti nel vicinato durante il giorno, l’ultimo scandalo o la lite che ha variato la monotonia della giornata.

Presto imparano anche loro a riferire quello che hanno visto, e l’interesse dei grandi è il migliore stimolo a perfezionare i mezzi di raccolta delle notizie che poi, valutate ed ampiamente interpretate dagli ascoltatori, costituiscono come altrettante lezioni pratiche sulla base delle quali si effettua l’apprendimento degli schemi non solo psicologici e sociali, ma anche morali della comunità.

Quando l’apprendimento è completo, i fatti sono ormai riferiti già deformati dalla valutazione soggettiva che si è intanto perfettamente adeguata al modello della comunità.

È facile immaginare come l’individuo, in tempi in cui saper leggere e scrivere era un lusso di pochi, venisse rigorosamente modellato su schemi difficilmente modificabili dei quali diveniva a sua volta depositario e trasmettitore, non solo nell’ambito della sua famiglia, naturalmente, ma di tutto il vicinato.

Un tale elemento può dunque chiamarsi unità di vicinato, e la sua ampiezza non si esprime con calcoli di uni­ versale validità, ma si affida unicamente alla sensibilità di chi progetta.

Nei casi reali che possono presentarsi oggigiorno, la più forte funzion e di collegamento è forse rappresentata dal lavoro, specie se artico lato in attività complementari; ma attività che si svolgano entro un raggio modesto, dall’artigianato fino alla piccolissima industria, così come si verifica in altre regioni. 

Qui i vari mestieri hanno bisogno uno dell’altro per giungere al prodotto finito; e ciò che si può vedere in qualunque cortile dove si aprono le varie botteghe, può agevolmente tradursi in una forma attuale, senza che l’abbandono di caratteri urbanistici negativi abbia a indebolire la necessità del rapporto umano.

Una tale unità di vicinato può concepirsi di nuovo come una integrazione non astratta, anzi come uno strumento che l’urbanista consegna ai suoi simili perché continuino a realizzare ciò che già in essi esiste.

Resta un dato inconfutabile che unisce Vicinato e Gjitonia, esso consiste nel dato che dalle pieghe più intime della propria casa; riverberandosi come cerchi concentrici sin nelle regioni più amene.

Tutti, in prima linea sin anche chi ti è stato germano a, finire dall’impari più lontano, cercheranno di limitare, sminuire o adombrare il tuo lume, avendo in continua consapevolezza che il confronto non è stato mai possibile.

Tuttavia attuano e mettono in campo tutte le risorse perverse nate in quelle case del bisogno, per limitare la corsa che ancora ti lega e, non ti libera dall’essere speciale e impareggiabile Gjitonë o fratello dirsi voglia.

P.S. a mio padre

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                      Napoli 2024-01-22

Commenti disabilitati su CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

Posted on 20 gennaio 2025 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Si potrebbe riassumere nel titolo in epigrafe, le storiche ricerche comunemente divulgate con protagonisti gli arbëreşë, i relativi centri antichi e, tutto si dissolverebbe in un nulla di fatto, come avviene con resilienza inopportuna, sostenuta dai Solanizzati, i quali raccolgono ortaggi prima del tempo.

Tuttavia esistono modelli per indagare e studiare, come quelli coadiuvati da Adriano Olivetti, da cui se noti si potrebbe trarre spunto per studi e riflessioni moderne, che dopo i 517 anni dalla venuta degli Arbëreşë, solo Baffi, Bugliari, Giura e Turelli hanno saputo fare.

Immaginare che storia, idioma, consuetudini, costume, architettura, urbanistica, modelli sociali, territorio ed economia, si possano indagare, sulla base di singoli episodi, vagando per gli anfratti della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë è a dir poco un circo, dove si mira alla ricerca di un giullare protagonista, che attragga i viandanti distratti o della breve sosta.

Non è concepibile che figure terze, senza ascolto e parlato in Arbëreşë antico, possano esprimere pareri o analizzare questa emblematica minoranza, oltre modo esempio di integrazione mediterranea grazie alla propria radice identitaria solida, indivisibile espressa in parlato.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura, richiede un approccio metodologico che vada oltre le fonti scrittografiche moderne senza avere consapevolezza del parlato per il trapasso generazionale.

Un metodo molto importante è l’osservazione partecipata, che consiste nel vivere la comunità che si intende studiare per un periodo prolungato avendo ottima conoscenza del parlato e dei tempi dell’ascolto oltre le movenze relative.

Il metodo o meglio il protocollo, permette di comprendere meglio la cultura, le tradizioni, i valori e i costumi identificativi, assieme alle pratiche del vivere quotidiano.

Non ha ragione ne trova rimedio il voler costruire di sana pianta un paese arbereshe che porta con se, oltre cinque secoli di storia avvenimenti e bisogni di epoca luogo e momento storico in forma di regresso o progresso.

Le storie, i miti, le leggende e le tradizioni orali sono fondamentali per comprendere la storia e le credenze di un ben identificato lugo, specie se vissuto dagli Arbëreşë e, a tal fine diventa indispensabile raccogliere narrazioni da persone anziane, che spesso sono i custodi della memoria collettiva locale o, prendere consapevolezza della toponomastica storica.

Un paese non èun semplice componimento di case appartamenti o palazzi, ma la stesura nel temo delle necessità vernacolari dei suoi abitanti, che non cominciano nel caldo di una stanza per terminare nel freddo di un orto retrostante.

Un Paese Arbëreşë contiene e mantiene ambiti coperti e scoperti sostenibili in un ben identificato luogo costruito, non solo per dormire, mangiare e proliferare, ma per conservare memoria, costumi e credenze che non posson essere racchiusi in una stanza o nel circoscritto di una carena rovesciata.

Per questo serve analizzare il costruito con dovizia di particolari, conoscere canto, danza e tutte le forme di espressione utili e indispensabili per addentrarsi all’interno della minoranza che qui comunica e conservi la propria identità.

Le tradizioni o meglio le consuetudini, del tempo lungo e di quello corto, possono rivelare valori, credenze e dinamiche sociali.

L’uso di fotografie, video o altre registrazioni sono un ottimo strumento per documentare le pratiche culturali di una minoranza che non fa uso della scrittura e si affida al parlato e al canto tra generi.

Questo tipo di documentazione permette di inghisare aspetti che altrimenti potrebbero essere persi, come l’uso del linguaggio corporeo, il comportamento sociale e le interazioni quotidiane specie del governo delle donne, le protagoniste della divulgazione di atti e attività sociali.

Collaborare con membri della minoranza allevandole a guide culturali o interpreti, di attività locali, può diventare di fondamentale tutela per quanti appartengono alla comunità, in quando unici addetti per una comprensione profonda dei propri costumi e pratiche di vita, fornendo così insight che un ricercatore esterno potrebbe non cogliere, comprendere o immediatamente recepire.

Se la minoranza ha una lingua orale, è utile studiarla, poiché la lingua è un importante veicolo di conoscenza e cultura e l’analisi attraverso l’uso di registrazioni audio, può svelare significati celati, dalla struttura sociale e modi di esporre difficili da comprendere.

È fondamentale approcciarsi a una minoranza, con rispetto e consapevolezza delle dinamiche che potrebbero emergere tra il ricercatore e la comunità, a questo punto diviene fondamentale l’adoperarsi, per stabilire fiducia e relazioni etiche che permettano una vera comprensione reciproca priva di codici in difesa.

Se possibile, consultare studi etnografici e ricerche precedenti che abbiano trattato la minoranza secondo simili progetti, anche se non esistono documenti o attività in tale direzione.

A tal proposito non sono certo di aiuto le ricerche accademiche basate su interviste e osservazioni eseguite da ricercatori senza formazione e titolo, gli stessi che poi riportano ai docenti editi ed estrapolazioni a dir poco elementari, che se analizzate con dovizia di particolari possono essere rivisitate e dare agio alle ricerche.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura richiede un’attenzione particolare ai metodi e agli strumenti di ricerca, mantenendo sempre una mentalità aperta e rispettosa verso le tradizioni culturali e le modalità di comunicazione o gli atti di attività espressi.

Diventano per questo fondamentali gli esami delle abitazioni e gli edifici storici, senza compromettere l’integrità del paesaggio e della tradizione architettonica di un identificato momento della storia.

Di venta fondamentale per questo l’analisi e l’uso dei materiali nelle diverse epoche, con particolare attenzione alle persone che vi abitavano, e la necessità di preservare le tradizioni culturali del bisogno di ogni epoca.

A tal fine vale il principio di studiare come erano organizzate le diverse aree senza cancellare la sua autenticità, migliorando al contempo la qualità della vita degli abitanti con i nostri tempi.

Approfondire le analisi legate alle problematiche della salute pubblica e le condizioni igieniche, cercando soluzioni per l’approvvigionamento, il trattamento dei rifiuti e il miglioramento dei servizi sanitari.

Altro aspetto fondamentale divine lo studio delle attività economiche tradizionali e le possibilità di sviluppo di nuovi settori, inclusi il turismo, della breve sosta, oltre ad incentivare attività commerciali che promuovono prodotti locali.

promuovere studi specifici relativi ai rioni tipici di ogni Katundë, in tutto i più antichi o del bisogno primario vernacolare poveri e proporre soluzioni che permettessero di recuperare l’area senza distruggere la vita sociale e comunitaria che caratterizzava il rione in tutte le sue parti, specie le prospettive pittoriche.

Il tutto deve essere finalizzato a migliorare le condizioni abitative, con un’attenzione particolare all’edilizia sociale e alla qualità degli spazi pubblici dove poter far esprimere e dare agio all’antico Governo delle donne.

E garantire la sostenibilità ecologica, preservando il paesaggio naturale, migliorandone le condizioni ambientali attraverso soluzioni innovative da sottoporre a una commissione multidisciplinare superiore in tutto il governo unico e indivisibile di generi adeguatamente formati.

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PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

Posted on 17 gennaio 2025 by admin

GIORGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreşë e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.

Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.

La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.

Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.

Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.

Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.

La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano si a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.

Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.

Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.

Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.

L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.

Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord Giovanni Castriota, uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.

Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariati e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.

Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.

Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.

Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare  ad Alessandro Magno.

Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.

Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbër, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.

Portò a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti, sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana di tornare, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.  

Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.

Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.

Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto  di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perché quest’ultimo pare fosse  morto da qualche; entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariati dei Castriota.

Tuttavia l’atteggiamento denotava lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; vero è che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Arbanon a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.

Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.

Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.

Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la“Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica  tipica dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.

I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbëreşë.

E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già comunemente denominato Scanderberg.

Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, così dicendo:

“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbër, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piuttosto mi volgerò a espor, quale sia stata la cagione delle nostre disavventure; acciocché di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.

Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandosi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.

Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’usurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopo di che fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).

E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ove trovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.

Imperciocché: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni degli Arbër restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.

O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.

Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbër, tutti gli Arbër volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura, ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’Arbër la perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi, e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocché si disponga alla necessità de’ rimedi.

L’unione è l’unica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.

L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un, si recente, e un si illustre esempio.

Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo, e insuperabile fiume.

Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.

Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia po alcuna travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.

Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.

 Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento, di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.

La battaglia di Morava (per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi una poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.

Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.

Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Aarbëreşë, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi. Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.

Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiore agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.

L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva la regione arbëreşë, infonda nei Principi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”

La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.

Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreşë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.

Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.

Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.

A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Aarbëreşë era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.

Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbëreşë, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Aarbëreşë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.

Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).

Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove fu accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero.

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Comneno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.

Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso in Palazzo Reale il 27 Agosto del 1469 si pagano un ducato e un tari per far trasportare la roba di Madama Donica, moglie, che fu di Scanderbeg, alle case di Pietro Cola d’Alessandro che qui dimora sino al 1477, per poi tornare a vivere all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le furono affidate finanche le discendenze reali e la giovane figlia di Vlad III affidatale sino a raggiungere l’età per maritarsi.

La vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.

Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.

Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreşë”.

Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comneno, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono a essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.

A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:

i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;

i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.

In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.

Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.

Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreşë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.

Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbëreşë, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreşë.

Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.

Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.

Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene  utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.

Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.

Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.

Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.

Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa,  il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.

Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.

Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.

Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani del XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.

Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di lì a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.

Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.

I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:

“la giornata del risveglio della fratellanza Arbëreşë”

Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).

Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbëreşë “le Vallje”.

 

 

** – Nel Volume II° della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani – quando è tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellati non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo popolo, voleva dire:  “comunemente Scanderberg.

 

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L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

Posted on 14 gennaio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Oggi 18 Gennaio si festeggia il Natalizio di Attanasio Vescovo di Napoli e, per il suo titolo di Vescovo si ritiene minore al Patriarca Atanasio, di cui il Natalizio corre il il Due di Maggio.
Entrambi comunque sono riferimenti di credenza Bizantina, di cui furono forte emblema religioso; chi avesse dubbi in proposito leggesse la storia del Calendario Marmoreo esempio mondiale di credenza religiosa Europea.

La carierà universitaria iniziata a Reggio Calabria nel 1975, perché rimasta solo l’ultima risorsa di casa, a cui si diede seguito poi a Napoli dal 18 gennai del 1977.

E siccome discepolo, diversamente abile, dai due precedenti, l’unica risorsa dell’incancellabile orgoglio materno, quindi, alternativa a un titolo mai mira completa che non si fosse risolta in mercatale soluzione e, dal tramonto del sole il 17 e il sorgere del 18 di gennaio ebbe a germogliare senza veti e impedimenti, questa risorsa familiare, sino ad allora calpestata perché diversa.

Il quadro che venne a delinearsi, con il passare degli anni, non poteva essere di certo considerato un accadimento casuale, e rendere solidali i trascorsi storici di tutti gli Arbëreşë, con lo stupore e la disapprovazione, dei germanici figuranti, finiti a fare mercato.

Furono nel corso dei decenni, numerosi gli avventori che si negavano, per supponenza di una formazione che non avevano e, negavano risposta, celandosi dietro le vestizioni di genere ignoto, le stesse che poi ebbro a smarrirsi per atti di vergogna e, nudità pubblica largamente riconosciute.

Le risposte della Piazza intitolata ad Attanasio e, il 18 gennaio intitolato al vescovo, minore del Patriarca Atanasio, è stato il tempo a renderlo più limpido e chiaro, non certo opera di cattedratici, affrancati per paternità incerta, in quel promontorio che rappresenta la pena degli Arbëreşë.

Di contro la memoria del luogo Piazza, naturale memoria toponomastica, a cui gli esperti che la definirono nel 1929, appellarono lo spazio antistante la chiesa ricordando il Vescovo; e il sacro involucro di devozione al Patriarca, come riportato e inciso su pietra partenopea.

Da allora ogni spunto, ogni citazione è stata debitamente analizzata, non con soliti docenti senza titolo di carriera, come di sovente avviene per antropologia e lingua, ma titolati largamente riconosciuti dalla cultura Olivetara, quella che conta e, rende la storia solido racconto inviolabile.

Qui non si vuole riferire certamente a quella storia che poi abbisogna delle diplomatiche per essere corretta, al pari delle citazioni scritte che sono utilizzate per l’innesco del camino, dove con il fumo non si riscalda l’animo di niente e di nessuno.

Le due date iniziatiche 17- 18, rappresentano la Radice di un itinerario di studio, che non ha eguali e nessun dipartimento istituto o istitutore potrà mai eguagliare, utilizzando il principio di fare e distribuire fotocopie.

Nel corso della ricerca, del prescelto, ogni luogo, figura, fato, cosa o parola è stato analizzato con parsimonia, garbo e debita formazione, avendo alla base un impareggiabile e irraggiungibile ascolto del parlato in Arbëreşë.

Il tutto mirato a rendere eccellenza e, non certo parimente alle direttive dei “Viandante Dipartimentale”, più volte accolto perché forma incerta di cattedratico e, non si comprende come potevano fare cultura se non conoscevano e non conoscono il Parlato e l’Ascoltare Arbëreşë, figuriamoci la storia di un continente.

Se ancora nel 2003, Pasquale Baffi, Luigi, Giura, Pasquale Scura, Vincenzo Torelli e i Vescovi Bugliari, non erano considerate eccellenze Arbëreşë, perché non avevano scritto e prodotto citazioni alfabetari; questo dato fornisce la misura della povertà culturale, a detta di quanti dovevano essere primi, evidenzia il velo di pena culturale, che seguivano i dipartimenti e i preposti, di allora come quelli di oggi che fanno ancora molto ma molto peggio.

Tuttavia divenuto “l’Olivetaro il maestro Prescelto”, il resto, è venuto a galla e, non sono state poche le manchevolezze a dir poco elementari se non in alcuni casi volgari, prive di ogni sorta culturale che sono state dismesse, dal comune parlato Albanese.

Oggi e dopo decenni di studio, pur essendo approdato negli abbracci più solidi e materni del mediterraneo culturale Arbëreşë, restano vive le inquietudini di quanti non hanno saputo approfondire e fare ricerca come ebbe fare: Pasquale Baffi, Luigi, Giura, Pasquale Scura, Vincenzo Torelli, i Vescovi Bugliari e, il fare polemica e denigrazione culturale verso chi è troppo alto per essere compreso, per cui si evidenzia solamente la deriva alla portata dei comuni viandanti economico e culturali, dirsi voglia.

Il saper rilevare ascoltare apprendere per disegnare, cose, natura, fatti e uomini, è l’unico esperimento in grado di dare specie al valore di integrazione più solido del Mediterraneo, ovvero comprendere ed esporre tutte le cose che hanno reso possibile, “la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë”.

Questo ormai è un dato inattaccabile e, non certo opera di istituzioni o istituti con titoli non di scopo, infatti non è il titolo che fa formazione Arbëreşë, ma il naturale evolversi del, mestiere dell’ascolto, che non è di arte, ma educazione e silenzio ascolto, ad opera di quanti sanno fissare le cose indispensabili e fondamentali da tramandare.

Conferma ci viene espressa dalla più alta figura intellettuale che gli arbëreşë abbiano maia avuto, ovvero:” Pasquale Baffi”, il quale pur avendo strumenti idonei per poterlo fare e dire la sua, si è limitato a comparare frammenti linguistici per segnare la storia di questo popolo, avendo cura a mai descrivere o comporre editi senza alcun fondamento alfabetario scritto.

Rispettando questo antico codice, che non è annotato in carte o editi, ma conservato gelosamente nel cuore e nella mente di ogni nuova generazione Arbëreşë.

Naturalmente quando si riferisce dell’educazione e l’ascolto di memoria, si vuole mettere in luce, il saper distinguere le cose buone dalle meno buone e saper distinguere cosa sia utile per il buon esito di una vita di sacrifici immani.

Allo scopo è opportuno precisare che capita spesso di ricevere cattivi consigli, come quelli del 21 Agosto del 1987, alle ore 21.15, davanti al palazzo di Atanasio, dove gli si consigliava di lasciare la via dritta Olivetara, suggerendogli o meglio imposto dal germano fallito, che preferì la via del mercato, diventata poi vergogna per lui e spunto d’invidia verso l’Olivetaro.

Seguirono 18 anni di Sacrificio, ma la mira non venne mai abbandonato e il giorno prima di mezzo secolo la corona ebbe modo di essere esposta, senza che nessuno ne avesse avuto merito, esclusi l’Olivetaro e dei suoi due familiari stretti, che non lo abbandonarono mai.

Inizia così una scalata di studio senza precedenti in ambito Arbëreşë, che nessuno per i secoli a venire e non porta mai essere eguagliare tutto questo che ha avuto luogo non certo per meriti o volontà locali dove dal primo figurante a finire all’ultimo clerico, hanno sempre steso veli pietosi all’avanzare della cultura dell’Olivetaro.

La stessa che oggi solidamente, possiede elementi e principi mai raggiunti da alcuna figura di cultura alfabetica scritta, specie di quanti continuano con le loro pene di trascrizione mussulmana a, cercare di rendere la regione storica, una provincia indegna della odierna insula mediterranea in pena culturale e politica.

“Quando ho imparato ad ascoltare ho visto in Arbëreşë è nato così il mio orgoglio e l’ascolto segnò futuro perché so anche guardare nel passato. Vivere senza è impossibile, in questo mondo colmo di incertezze, perché l’ascolto sostiene il futuro, perché quando lo si vede si incontra il passato e, si vive nel magico mondo del governato dai cinque sensi”.

Commenti disabilitati su L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

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