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CREDENZE ARBËREŞË SOSTENUTE DAI RISONANTI ACUSTICI  (longhelljetë tona)

CREDENZE ARBËREŞË SOSTENUTE DAI RISONANTI ACUSTICI (longhelljetë tona)

Posted on 29 aprile 2025 by admin

photo_2025-04-28_12-36-53eeeeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nell’antichità l’uomo mise a punto dispositivi acustici con forme simili ai contenitori di liquidi e cose, utilizzando materiali quali: pietra, bronzo e ceramica, a seconda delle necessità di amplificare o modulare parola e canto.​

Questi contenitori generalmente trovati vuoti e, simili a urne, servivano a sostenere ed elevare i suoni, opportunamente affossati lungo pavimenti, li elevati murari o nell’intradosso degli orizzontamenti a volta, ottenendo così, un effetto di riverbero indispensabile a migliorare l’acustica dove avevano luogo manifestazioni pubbliche o di preghiera. ​

I contenitori risonanti, noti anche come “echeia” o “salvavoce”, sono stati descritti da Vitruvio già dal 80 a.C. e, sebbene siano una caratteristica distintiva dell’architettura teatrale romana, anche l’antico oriente aveva sviluppato tecniche per amplificare e modulare il suono, utilizzando questi strumenti ceramici, riflettono la comprensione avanzata dell’acustica o applicazione pratica della scienza del suono.

I romani prelevarono come bottino di guerra dai teatri in fiamme delle città greche, questi contenitori che subito dopo ebbero ragione e compresi di non essere vasi comuni, destinati alla conservazione del cibo, ma recipienti particolari che avevano funzione nel sistema dell’acustica di questi luoghi di ascolto.

Collocati in apposite nicchie ricavate nella cavea, la parte del teatro che ospitava il pubblico, i recipienti funzionavano come cassa di risonanza, aumentando la potenza del suono che proveniva dalla scena e consentendo, pertanto, una migliore acustica anche per quegli spettatori che occupavano i posti meno esposti rispetto al luogo dove si svolgeva la rappresentazione in favella.

Appare assai verosimile che questi tipi di recipienti, avessero funzione, a quali toni dovevano corrispondere, adottando la scala tonale del teorico musicale, che divide due ottave in otto toni fissi e dieci toni variabili.

I toni variabili erano selezionati poi per tre diverse modalità e, la modalità per i piccoli teatri rendeva necessaria l’amplificazione di sette toni.

A tal fine, tredici vasi risonanti dovevano essere collocati a intervalli uguali, due vasi per sei toni ciascuno e un vaso al centro per il settimo tono.

Nei teatri di grandi dimensioni, anche i toni delle altre due ottave avrebbero dovuto essere amplificati da altre due file con un numero corrispondente di contenitori risonanti.

Il vaso acustico o vaso sonoro veniva incastonato nelle pareti e sotto il pavimento di alcuni edifici antichi e medievali.

Sebbene la loro finalità non sia del tutto certa, si ritiene che avessero lo scopo di migliorare l’acustica degli edifici riducendo i tempi di riverbero.

I risonanti erano recipienti di metallo, come bronzo o rame, inseriti in nicchie nei gradini della cavea del teatro e, la loro funzione favoriva il diffondersi di specifiche frequenze, migliorando la qualità dell’ascolto per il pubblico.

Disposti in modo da corrispondere alla scala tonale di ben identificati toni della voce o strumenti musicali.​

Nonostante la presenza effettiva di vasi risonanti nei teatri romani è stata oggetto di dibattito tra numerose le figure a ritenere che fossero utilizzati principalmente nei teatri in pietra, mentre in quelli in legno non erano necessari a causa delle proprietà acustiche naturali del legno.​

In sintesi, mentre l’uso dei vasi risonanti nei teatri romani, divenendo un elemento che contribuiva a diffondere le tecniche acustiche dell’epoca.

Diffusamente i vasi si trovano incastonati nelle pareti e, conosciuti come echei o salva voce, si ispiravano alle teorie acustiche dell’epoca, avendo forme di grandi recipienti di rame o bronzo inseriti in apposite nicchie, che aumentavano la risonanza.

Tuttavia, a seconda delle dimensioni del teatro, gli echei potevano essere ospitati in una, o fino a tre file di posti a sedere, questi forma di campana, avevano feritoie sonore aperte verso la platea del pubblico (koilon).

Si riferisce che gli strumenti in metallo erano costosi, cosicché furono sostituiti da vasi di argilla nelle città più piccole e meno ricche.

Tuttavia come già accennato i vasi, si ritennero indispensabili solo nei teatri realizzati in pietra, poiché nelle strutture in lignee non erano necessari a causa delle naturali proprietà di risonanza delle essenze utilizzate.

Nei teatri di grandi dimensioni, anche i toni delle altre due ottave avrebbero dovuto essere amplificati da altre due file con un numero corrispondente di vasi risonanti.

L’efficacia dei vasi incastonati nelle pareti è stata tuttavia messa in dubbio in varie circostanze e, secondo alcuni esperimenti moderni, i vasi incastonati nelle pareti avrebbero, al contrario delle aspettative, peggiorato la qualità dei suoni assorbendo la risonanza di alcune frequenze sonore piuttosto che amplificare i suoni.

Nel suo documento, il cronista di Metz deride il priore per aver creduto che avrebbero potuto migliorare il suono del coro, mentre l’archeologo Ralph Merrifield suggerì che il loro uso sarebbe dovuto molto di più a una tradizione di depositi votivi piuttosto che a una vera e propria credenza alle teorie di Vitruvio.

Nel 2011, durante una conferenza tenutasi a Patrasso, in Grecia, venne dimostrato che la teoria era in effetti corretta e che la ricostruzione di un antico vaso acustico fosse possibile.

I vasi armonici (o vasi risonanti) sono stati utilizzati principalmente tra il Medioevo e il Rinascimento, in particolare dal XII al XVI secolo, anche se ci sono esempi più antichi e alcuni più tardi.

Per controllare la risonanza e migliorare la chiarezza del suono, specialmente nei luoghi con grandi volte r, nelle chiese bizantine, l’uso dei vasi armonici non era particolarmente diffuso come lo sarebbe stato pio nell’architettura romanica e gotica dell’Europa occidentale.

Tuttavia, ci sono alcune tracce e ipotesi che fanno pensare che in alcuni casi selezionati possano essere stati utilizzati anche in contesti bizantini.

E Fonti archeologiche e storiche a differenza del mondo latino-occidentale parlano esplicitamente di vasi armonici, le fonti bizantine non ne parlano in modo chiaro o diretto.

Tuttavia, in alcuni scavi archeologici (ad esempio in Grecia o nei Balcani), sono stati ritrovati vasi incassati nei muri di edifici religiosi bizantini, anche se non è sempre certo che fossero usati a fini acustici e non semplicemente decorativi o strutturali.

Le chiese progettate con una forte attenzione all’acustica, soprattutto per il canto liturgico, pensiamo alla potenza dei cori nella liturgia ortodossa che, preferiva usare elementi architettonici quali cupole, absidi, nicchie, per modellare l’acustica, piuttosto che vasi armonici.

Alcune fonti medievali occidentali raccomandano esplicitamente la loro installazione per migliorare la propagazione del suono nei grandi spazi liturgici.

Nelle chiese bizantine i vasi armonici non erano comuni né sistematici, ma potrebbero essere comparsi in modo sporadico o influenzati da altre culture, specialmente in regioni di confine tra Oriente e Occidente.

Lo schema secondo con cui essi erano disposti, ispirarono le arche dell’architettura, per le quali vennero immaginati spazi monumentale che potesse accogliere fedeli in forma di “abbraccio” simbolicamente i fedeli.

Colonnati o meglio una sorta di nicchia di costruito che fungesse anche da riverbero per la preghiera e, così, diffusa da uno altare baricentrico si potesse cogliere nell’emiciclo di San Pietro e nella Piazza del Plebiscitò a Napoli e in numerosi altri adempimenti architettonici di credenza o luogo di incontro di fedeli o sudditi dirsi voglia, in egual misura.

Infatti sovrapponendo lo schema Vitruviano per la collocazione dei vasi risonanti, agli impianti volumetrici di queste pizze o luoghi di riunione all’aperto, si configura un “progetto antico di ascolto diffuso” o messaggio di preghiera o plebiscito, uniformemente distribuito alla platea di credenti li riunita.

Non da meno sono gli altari le cupole o le navate con le devozioni laterali, se non le navate stesse poste lateralmente alla centrale, tutti questi infatti denotano u e compilano una cassa di risonanza per distribuire meglio la parola dell’apostolo divulgatore.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2024-04-29

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VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË  (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

Posted on 25 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Vernacolo dal latino vernaculus: appartenente ai servi nati in casa, e quindi domestico, paesano, da verna vesna schiavo natio da una schiava in casa, del padrone.

Il parlato deriva dalla radice vas-ana abitare, restare, fermarsi, vas-a, vas-ana abitazione, vas-tu, citta, vas-tu, sito, casa, vas-tya, abitare rimanere stare città, asteios cittadino.

Verna dunque e una di quelle parole portate dall’Asia nel suolo italiano dai primi emigranti, e per questo si trovano isolate dalla lingua latina e non trovano l’interpretarsi con l’aiuto del sanscrito.

Gli antichi perciò la spiegarono con ver-nare germogliare a primavera, lat verë, paragonando i nati dalla schiava locale, ai germogli o frutti di quella terra.    

Oggi la voce Vernacolo rimane solo come attributo, della lingua naturale d’un paese, in quanto si scosta dalla lingua comune, ma la parola sarebbe la Lingua dei Servi, quindi plebe volgare.

In tutto, “vernacolare” significa “nativo di un luogo”, riferendosi, per questo a qualcosa che è proprio di un luogo, di una regione o di un popolo specifico.

Le case vernacolari, o architettura vernacolare da ciò, si riferiscono a edifici che si adattano alle condizioni ambientali, ai materiali disponibili e alle tradizioni locali di un’area geografica specifica.

Esse sono spesso costruzioni semplici, frutto di conoscenze tramandate di generazione in generazione e, si concretizzano nella espressione architettonica spontanea di un popolo specifico.

Con essa si vogliono indicare gli elevati abitativi costruiti secondo le tradizioni bisogni, locali, con materiali del posto, senza utilizzare modelli tipici dell’architettura storica fatta dai professionisti.

Da ciò l’espressione “vernacolare” è semplicemente la tipologia di una cultura locale, non “importata” o “standardizzata” da maestranze specifiche, perché segue il bisogno primo e, quindi, in continua evoluzione.

Ed essa si manifesta negli elevati di un paese o di una regione particolare, a questo va anche aggiunto che l’aggettivo è un sostantivo relativamente recente, nonostante l’etimologia latina e, compare infatti solo a partire dal XVIII secolo. 

L’architettura “vernacolare” è in sostanza, “architettura dell’aria”, come citato da Yves Klein e, questa espressione immaginata pensata e realizzata in funzione delle cose che un determinato ambito sviluppano i suoi abitanti e, in linea con le cose che qui offre la natura.

In tutto, l’edificato è ideato rispetta i tre criteri dello sviluppo sostenibile, ovvero: sociale, economico e ambientale, promuovendo e valorizzando le attività sociali e professionali all’interno di un nucleo abitativo nascente.

Gli immobili o cellule prime, sono costruiti servendosi delle risorse disponibili nella regione e il maggior vantaggio è che resistono meglio alle condizioni metereologiche tipiche di questi luoghi e partecipa alla valorizzazione del patrimonio senza incidere né sulle prospettive naturali e né sull’ambiente che non deve prodigassi a subire alcuna invasione. 

Il costruito per questo si iscrive in un contesto di rispetto dell’ambiente, del clima e occupa un posto importante nella riflessione architettonica, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di temperamento abitativo. 

Alla luce delle cose esponete in questo breve, potremmo definire, il costruito secondo i principi del bisogno locale come “un edificio appartenente ad un patto nato da un movimento di attività locali stipulato dalla natura e dall’uomo con la supervisione del tempo”.

Il sancito denota il fatto che un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca, durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato il realizzato secondo la necessità di bisogno.

Questo antico modo di costruire per necessità è stato uno dei cardini che hanno consentito alla minoranza di radice Arbëreşë, allocatasi nel meridione italiano dal 1469, per addivenire a quel modello di integrazione tra i più solidi e duraturi di tutto il mediterraneo.

Infatti essi una volta definite con gli indigeni locali ambiti e spazi di loro pertinenza hanno dato seguito al costruito sia in agro e sia nei centri antichi dei modelli del bisogno che appellarono “Kalljva e Katoj”, la prima in memoria della terra parallela da cui furo costretti fuggire o luogo del governo del genere maschile, la seconda come luogo dove sostenere la propria consuetudine sociale, grazie al governo delle donne.

Analizzando con dovizia di particolari, il sostantivo kalýva (καλύβα) esso racchiude anche un valore simbolico e culturale profondo, soprattutto in ambito della credenza popolare, in quanto rappresentativo di uno stile di vita umile, essenziale e, sostenuto alla natura, generalmente associata a pastori, contadini o eremiti, queste tutte tipologie in uso o che caratterizzano la vita dell’agro, comunque sempre ben distanti dai centri abitati.

Infatti nei racconti popolari, vivere in una kalýva è segno di modestia, libertà e autenticità e, nei monti Athos, come in in altre aree monastiche, la kalýva è il rifugio degli eremiti, identificabili in piccole celle isolate dove vivono in solitudine e preghiera, infatti sono numerosi i santi ortodossi, ricordati per aver vissuto in kalýves, rinunciando ai beni terreni per dedicarsi alla meditazione e al contatto con Dio.

La kalýva appare anche nella poesia e nelle canzoni popolari come luogo di pace, vedetta, rifugio, o dolore specie quando la mira volge e si affida al ricordo.

L’identificativo “katoi” (κατώι) anche esso deriva di radice greca e riferisce però, generalmente a un piano, seminterrato di una casa tradizionale.

Tuttavia nei contesti tradizionali, il “katoi” è utilizzato per conservare vino, olio, formaggi, o altri generi di necessità alimentare, proprio perché il piano più basso consente temperature lineari e senza picchi di stagione.

Il termine “kato” (κάτω), ha come indicatore un luogo protetto “Basso” o “sotto posto” al livello di campagna e questo proprio per stabilizzare i picchi di temperatura naturali.

Il sostantivo deriva da “katoi” (κατώι in greco) e, riferisce di un piano inferiore, seminterrato di una casa tradizionale di cui è la radice di primo bisogno e su cui si sovrappongono le ere, in opera di miglioramento.

Quindi se disposto all’interno del Centro Antico inquadra e circoscrive l’abitazione vernacolari del bisogno costruite, o meglio innalzate dagli Arbëreşë

A ben rilevare con questa ulteriore premessasi dispone o meglio, si apre una nuova diplomatica, che mai nessuna istituzione ha immaginato di affrontare, per essere idoneamente progettata, realizzata e diffusa, giacché, bisogno vernacolare, puro, semplice e di primo livello.

Tuttavia, chi volesse approfondire questo nuovo discorso delle storiche attività che gli Arbëreşë, giunti nella regione storica, non citando sgrammaticati e riversi concetti, ma atti contenuti nel cuore e nella mente, di chi è cresciuto sotto il governo delle donne e poi seguendo nel pieno rispetto i docenti della medicina empirica, la credenza Olivetara o Federiciana, dell’antichità e del moderno.

Tuttavia non va lasciato alla deriva lo storico concetto di Gjitonia, modello sub urbano tipico degli Arbëreşë; noto come governo delle donne o, luogo dei cinque sensi, in tutto, un ambito costruito e privo di confini fisici, dove storicamente erano sostenute le consuetudini linguistiche fatte di ascolto, allevando tutte le generazioni, senza preferenze di genere alcuno.

Dare nuova linfa a questa scuola antica degli Arbëreşë è un tema da non far sfumare completamente, specie con le moderne tecnologie che non sono fatte di ascolto materno diffuso, ma esperimenti alloctoni che non trovano agio in questi ambiti dove ha avuto origine il modello di integrazione più solido e duraturo, in età moderna.

Il tutto si potrebbe concretizzare nel sostenere ambiti di accoglienza diffusa, ricollocando, o meglio dare vita a tutte qle cellule abitative, ormai in disuso, ma pronte ad essere svelate secondo la metrica dei cinque sensi, che non sono una mera stanza di albergo, ma percorso turistico, in grado di solcare le antiche metriche di accoglienza dove l’ospite sedeva a capotavola, ben riverito per essere condotto lungo i luoghi e le prospettive della storia locale.

Facendolo diventare bandiera di ospitalità pura, indirizzandolo ad accogliere, avvertire tutte le sensazioni che rimangono nella mente di ogni figlio, quando tornava a casa dai genitori.

In tutto ambiti, prospettive, riverberi che riecheggino e fanno cogliere il meglio di queste prospettive corte, ma sempre colme di odori, sapori diffusi di prospettive brevi, di Gjitonia riproposte oggi identicamente.

E sono proprio gli elevati del bisogno vernacolare, che invece di essere musealizzati, saranno rivitalizzati per restituirgli ruolo fondamentale antico, per essere vissuti al pari di come era uso delle nostre madri e dei nostri padri Arbëreşë.

Per poi essere come i figli che una volta partivano da questi luoghi di formazione, per brillare nelle città, in tutti i campi della cultura, della medicina, della scienza esatta e della politica, giacché motivati da una metrica sociale irripetibile che ancora oggi troverebbe modo di riverberarsi in questi ambiti di iunctura familiare che fa sentire tutti a casa.

Un governo delle donne che forma, all’interno della Gjitonia e, quello degli uomini, lungo i cunei agrari e le botteghe artigianali, misurano le capacita in senso generale, lasciando loro in eredita sensazioni specifiche di cui si è persa traccia.

Nasce così, la filiera dei Katundë Arbëreşë, eccellenze e fondamento del trittico alimentare, l’insieme di cunei agro silvo e pastorali, che ancora conservano protocolli di eccellenza, ricercati in ogni dove.

Infatti attivando il protocollo di accoglienza all’interno dei centri antichi, riattivando gli storici abituri, alimentando la filiera ristorativa, con i prodotti locali, si darebbe avvio a un modello antico di accoglienza, sostentamento alimentare e sociale senza pari.

Il tutto compilato secondo cose genuine, prive di additivi, conservanti, che non vanno oltre la manualità della filiera degli orti botanici di casa, ancora presenti all’interno degli articolati sistemi di iunctura urbana denominati “sheshi”.

E quanti volessero approfondire, questi argomenti perché manchevoli di formazione adeguata del bisogno, basta che dialoghino paritariamente con un Arbëreşë, senza aver necessità di salire in cattedra.

Giacché solo chi siede negli Stenopoi e Plateiai, conosce e vive di sensi acquisiti dal governo delle donne, senza prevaricazioni di genere o istituzione alcuna, come fanno quanti siedono in seggioloni ammortizzati e, non hanno lumi per intravedere le prospettive di questo orizzonte fatto di: parlato e di ascolto del bisogno formativo vernacolare, che si trova depositato nei centri antichi vissuti e allestiti dagli Arbëreşë.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-25

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LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

Posted on 24 aprile 2025 by admin

KesaNapoli – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il revisionismo mette in dubbio ogni cosa e, costruire la memoria è un impegno che non deve essere mera memoria tramandata o lasciata nelle diponibilità dei comuni viandanti locali.

Esiste una Terra dove la popolazione oggi vive in dormiente attesa, nel prodigarsi a sviluppare l’inopportuno servilismo di riconoscenza, nei confronti del nero impositore economico di turno.

Ed è così che si smarrisce, si abbandonando e ci si inchina ad ogni, sorta di memoria, compilata con fatui ideali, che rendono gli uomini e un luogo, esempio di sgradevole progresso scambiato per cultura e consuetudine locale condivisa.

L’attuale congiuntura sociale di restrizione, fa emerge con prepotenza il potere o forza strutturata come plasmare attivamente le dinamiche sociali, culturali e persino etiche e di credenza in questa “lunatica società nascente”.

E con sempre più risalto, si manifesta la forza dell’apparire, dell’individualismo egocentrico più estremo, plasmando e modellando sempre di più il paradigma culturale dell’esaltazione del singolo/i a scapito della collettività, vive e sostiene la mente con il fatuo collettivo più degenere, a scapito della farina e della crusca che poi sono gli ingredienti più salutari per tutti i generi, perché risultato dell’operato condiviso di uomo, natura e territorio.

A questo stato di fatti e cose senza alcuna radice riconosciuta, è la deriva più invasiva, che erode progressivamente le coscienze locale, la quale una volta istituita, senza ragione di comune progresso e convivenza, si espande e rende tutti più soli dalla realtà delle cose.

Il risultato della deriva che poi è strutturata nella struttura sociale e di credenza induce a condividere interessi e obiettivi politici, sempre più flebili, indotte dalle logiche del mercato globalizzato e dalla centralità narcisistica a tutti i costi.

Il potere economico e di credenza, nella egocentrica espansione e deregolamentazione, agisce come agente corrosivo e, rende sempre più labili le consuetudinarie barriere di bene comune.

A capo della deriva si dispone il processo che vuole marginalizzare le specificità culturali di luogo, devastando le tradizioni locali e i quei sistemi consuetudinari di antica radice, ritenuti dal potere economico non possibili da allineare con le imperanti logiche del profitto e della non efficienza.

In questo contesto, la sistematica abolizione di ogni figura o atto di classe, non è un effetto collaterale, bensì una condizione funzionale alla perpetuazione di un sistema che prospera sulla competizione individuale e sulla dissoluzione delle identità collettive che sono state storicamente antagoniste a questa nuova deriva imperante, analfabeta e sgrammaticata.

Le istituzioni culturali e sociali, un tempo depositarie e dei solidi modelli culturali egemonici e di paradigmi di pensiero strutturati (siano essi scientifici, filosofici, letterari e di credenza), appaiono oggi in una fase di progressivo adeguamento alla sottocultura di massa, che si espande senza limiti, evitando ogni forma di ascolto tra adulti e giovani in evoluzione.

La Chiesa, la Scuola, l’Università e le Associazioni, un tempo erano o meglio rappresentavano il sole di un’alba che durava il tempo della luce “alta e memorabile” e, oggi cedono alla pressione di una cultura popolare e mediatica che privilegi di “restanza senza ascolto” ma pronte ad essere impotenti divulgatori, inclini alla mera spettacolarizzazione effimera che fa “luna crescente buia e immorale”.

La trazione che un tempo sosteneva la culturale non risiede più nei modelli delle storiche figure intellettuali, oggi genericamente ignote e la “restanza” si mantiene ben distante dall’ascolto dei protocolli tradizionali, colmi di consuetudini e metrica che consente prima di tutto il verificare cose reali dal fatuo.

Infatti lo stato delle cose privilegia l’attrattività pervasiva e la capacità di aggregazione di masse disposte ben lontani dai cunei della cultura che sviluppava i suoi frutti secondo le stagioni del germoglio, la fioritura e i frutti ben maturi da cogliere nel corso della “stagione lunga”.

Tutto questo induce le persone a disporsi perfettamente allineati, pur di non rimanere ai margini di questo “fantasma culturale moderno” che nasce si sviluppa o cresce al buio della “stagione corta” la stessa, facilmente identificabili nel mercato dell’intrattenimento, che ti rende un giullare senza corte o pagliacci senza un circo equestre.

Tuttavia resta un dato, ovvero: se un asino va in una reggia, non è l’asino a diventa re, ma la reggia a diventare stalla; questo è un modo di dire ricco di significato, usato per sottolineare che non basta mettere qualcuno in un contesto prestigioso o elevato perché assuma automaticamente le qualità adatte a quel contesto.

Anzi, spesso accade il contrario: è il contesto stesso a decadere, adattandosi all’inadeguatezza di una ben nota e specifica figura di genere.

In parole povere: se metti una persona rozza, ignorante o incapace in una posizione di prestigio o potere, non sarà lei a migliorarsi, ma sarà l’ambiente stesso a perdere valore.

Tuttavia, allo stato delle cose sono le istituzioni stesse a mostrarsi grandi per una crescente volontà di avvicinare questi modelli culturali “bassi e senza alcuna radice culturale alta”.

Si assiste a un rovesciamento della dinamica tradizionale e, se un tempo la cultura egemone imponeva i propri valori canonici e, la sottocultura rimaneva un fenomeno periferico, oggi, nell’era della globalizzazione e del primato del potere economico, è quest’ultima a dettare la linea di sviluppo secondo la misura che storicamente non genera cultura.

La museificazione, amplificata dalle logiche del sistema economico, si configura come un vento capace di penalizzare cultura/religioni e, pur se la sua azione non sembra di efficacia tale da velare ogni cosa essa è capace di lasciare gli orizzonti liberi, deformandoli con echi e miraggi riverberati e senza regola.

La spinta dell’omologazione di gusti, comportamenti e credenze conduce a un progressivo affossamento di quelle forme di pensiero che storicamente hanno reso migliori gli stati le cose e gli uomini.

In definitiva, il massificare o museificare le cose, alimenta il sistema economico che privilegia l’individuo che fa uso di questi prodotti di materia ed immateria del profondo cambiamento, la stessa che poi si riverbera seguendo la luna piena e mai il sole.

E se prima esisteva un regno dove il sole non tramontava mai, la globalizzazione ha creato un regno dove a non tramontare mai è la flebile luce della luna, che non ha mai fatto giorno.

Tutto questo è facile da intercettare in tutte quelle ricorrenze o momenti condivisi e,  quanti dicono di voler valorizzare la “Regione Storica diffusa e Sostenuta In Arbëreşë” poi termina solo in penosi atti dell’apparire e con messaggi di sottomissione, esponendo cavalli e cavalieri, che non guardano mai dove nasce il sole, ma solo dove la luna si presenta indegna ad illuminare.

A tal proposito valga la citazione secondo cui per globalizzare, appare concretizzando forme delle quali i midia in senso generale è bene elevare i Katundë, tipici della minoranza arbëreşë, cosi come per altre culture, l’identificazione dei luoghi costruiti del bisogno vernacolare, tradotti in Italiano, in Paesi, Contrade, Frazioni, Porti, Approdi e Golfi di accoglienza, oltre ogni genere del costruito di epoche e luoghi.

In tutto quella che venne appellata il tempo del lume in risalita, identificati ed offesi con l’appellativo di “Borgo”, in senso di “bovari medioevali”, ovvero il tempo della luna calante che piegava ogni genere umani in ogni dove.

Il tempo dell’oscurantismo e della società fatta di piramidale gestione, il luogo dove l’uomo veniva misurato per essere collocato nel suo cerchio infernale di pertinenza, in favore solo del principe castellano e la sua discendenza, poteva decidere chi poteva e non doveva progredire.

Solo i media, figli della sottocultura si arrogano il diritto di istituire o allestire, addirittura un festival, dove ed essere privilegiato è solo ed indiscutibile “Borgo dei Borghi” che non ha mai fatto la storia dei generi tutti, preferendo quella di alcuno.

Per concludere si vuole sottolineare le ricostruzioni storiche che si attribuiscono alle ballate tipiche che segnano l’inizio della stagione lunga, il sole che sorge e mette la luna in secondo piano.

Peccato che anche per questa rievocazione che nessuno ha mai relazionato e per questo ignaro del valore linguistico di questi momenti di giubilo comune.

Purtroppo poi tutti terminano in concerti di cornamuse, strumenti a mantice e corde, che tutte assieme, fanno il patibolo delle cantate di genere degli Arbëreşë, che non sono i modernizzati Albanesi o Albanisti dirsi voglia.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                             Napoli 2025-04-24

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STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i  mëmesë pà  redë thë gnë khëmbë)

STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i mëmesë pà redë thë gnë khëmbë)

Posted on 22 aprile 2025 by admin

Arazzo2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mercato della seta, raso e stoffe pregiate in Calabria, conobbe il suo massimo splendore tra il XV e il XVIII secolo.

Con mete di scambio luoghi come Catanzaro, Reggio Calabria, Monteleone (Vibo Valentia) e San Giovanni in Fiore (Cosenza), grazie alla presenza di un pregiato artigianato tessile locale, che faceva largo uso dei filamenti naturali di ginestra, cotone e baco da seta diffusamente in ogni Katundë.

Tuttavia, il declino di questa risorsa locale, ebbe inizio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a causa di vari fattori, innescati dalle vie di scambio Francofone, Anglofone e d’Oriente.

E ancor di più, quando la richiesta in queste terre, venne indirizzata alla produzione di olio per facilitare le rotative industriali britanniche, che demandavano olio e, non più filamenti di tessitura, dando avvio per questo alla estirpazione dei gelseti sostituita da uliveti.

Ben presto lo scambio divenne florido, commerciando olio a misura di “litro” in favore anglosassone che era fatto di quattro pinte.

In otre, incise anche le crisi economiche e politiche legate alla fine del Regno di Napoli e all’unità d’Italia, che mentre industrializzava il Nord, rendeva poco competitiva le produzioni Meridionali in senso generale, dove prevalevano senza soluzione di continuità, le metriche artigianali non competitive, a cui si aggiunse la malattia del baco da seta, come la pebrina, che penalizzarono, non poco, la filiera della produzione serica e dei filamenti.

Possiamo dire che il mercato del tessile di Calabria assume una forma flebile, nella seconda metà dell’Ottocento, anche se alcune attività artigianali residuali continuarono senza sosta, ma non in grado di rispondere al mercato che migra.

Da ciò l’assemblaggio di vestiti nuziali, tipici della regione strica diffusa e sostenuta in arbëreşë, si dovette rivolgere a fornitori partenopei, almeno sino alla seconda decade del secolo XIX, quando le nuove leve che ambivano ai voti clericali, iniziarono a frequentavano il “collegio romano di formazione greco bizantina”, giacché Sant’Adriano aveva trasferito le funzioni, di Vescovato e formazione Clericali, mantenendo esclusivamente la Scuola Collegiale civile.

Furono molti di questi gli aspiranti clerici, a fare da ponte con i Katundë arbëreşë di Calabria citeriore, veicolando stoffe ornamenti e decori, atti a sostenere la vestizione femminile di tradizione locale.

E anche se all’interno della Città del Vaticano, non erano presenti negozi di stoffe o merletti di pubblica vendita, era possibile trovare articoli tessili, per vesti religiose di alta qualità, nelle immediate vicinanze di Roma Capitale.

Restano note la ditta di Gammarelli, Comandini, Galleria San Pietro, Desta e Sartoria, incorniciate dal 1798 nello storico contesto di confine delle due città Capitoline, in tutto una simpatica coincidenza che rappresenta l’armadio di credenze sulla Terra, che va della casa e, lungo la via che unisce tutti gli ideali di credenza.

Tante pieghe di stoffa ben composte, che poi si ritrovano nell’abbigliamento ecclesiale e femminile delle consuetudini degli Arbëreşë.

Sorge dunque spontanea la domanda: le donne Arbëreşë dopo la chiusura della via della seta e in Calabria, escludendo la breve parentesi Partenopea, dove trovavano gli elementi che caratterizzavano il vestito tipico di donna, sposa regina della casa, vedova e vedova incerta di un tempo?

La risposta sorge spontanea o meglio, la risorsa nasce grazie ai giovani che seguirono la via della devozione nelle scuole ecclesiali vaticane e, mia madre nel corso degli anni cinquanta sino alla fine degli anni settanta usava questo canale per reperire merletti e tessiture dorate da sostituire a molti indumenti di vestizione ormai invecchiati.

Non Solo la Sarta Adelina di Santa Sofia ma molte altre, nei centri antichi limitrofi, avevano come riferimento un B. Golia locale, i quali lavorando presso il Vaticano, potevano fornire le stoffe e i merletti secondo la giusta debita misura che solo qui trovavano commercio.

In genere erano persone disponibili, preparata e consapevoli di cosa potesse intendersi per ogni richiesta, che le sarte di ogni Katundë necessitavano e, con tanta perizia e memoria del costume locale, riportavano o inviavano nel Katundë, quei frammenti richiesti e indispensabili a restaurare o in molti casi cucire ex novo, l’indumento di tradizione danneggiato o mancante, per le famiglie più legate alla consuetudine Arbëreşë.

A tal scopo torna in mente il periodo appeno giunto a Napoli per intraprendere i miei studi di architettura e offrivo, continuamente la mia disponibilità a mia madre Adelina, a reperire stoffe e fasce dorate, ma lei riteneva che Napoli non fosse eccellenza, in quanto le misure di sviluppo in altezza delle fasce dorate non avessero la dimensione in misura di palmo napoletano ma solo la meta.

Per questo doveva sovrapporre la stessa trama che non risultava essere un lavoro di mano esperta, perché, ripetizione di trama modesta.

Così anche per altri elementi che chiedeva e dandomi frammenti di tessitura, misura e coloritura, che qui a Napoli non ho mai trovato, mentre richieste a Golia, nel breve i nipoti che frequentavano il Collegio di formazione clericale a Roma portavano, il richiesto in perfetta tessitura, misura e coloritura, quando tornavano nelle festività e in vacanza, ndë Katundë.

Tuttavia al giorno d’oggi rievocare questi epici frammenti della storia del costume danno la misura delle inquietudini e i sacrifici che il governo delle donne arbereshe dovette superare per dare lustro e merito alla vestizione in ogni pregnante momento rappresentativo della loro esistenza.

immaginare che il gusto estetico di vestizione, possa ricomporre, nuove vesti di tale peso, esse non troverebbero vetrina se non in particolari momenti di giusta, falsa e ridicola rievocazione museale, come impunemente avviene.

A tal fine sarebbe il caso di avviare le rotative oleandole con olio di oliva DOP e non con quello dei refusi di lavorazione, per realizzare un’opera epocale che riunisca come facevano le vesti del governo delle donne un tempo, tutta la cultura storica ormai allo sbando e che non trova misura in nulla, se non poetizzando suonando e favoleggiando ogni cosa.

L’unica risorsa che rimane ancora viva e si può riprendere con garbo e senso, è l’arte manuale delle tessitrici Arbëreşë e, allora perché non tessere la storia, dai tempi della nascita del nostro eroe, il parlato, le consuetudini del bisogno e la credenza, senza fare nodi o alcun intreccio irregolarità di politica e cultura irregolare, in tutto “un arazzo Arbëreşë” dove si possa disporre secondo la luna ed il sole, la storia e dove evidenziare chi è dovuto migrare per non dover soccombere alle necessità di credenza di chi rapiva i figli altrui per fare discendenza di minareto.

Il tutto per essere una compilazione ragionata e precisa, a iniziare dalle dimensioni che devono essere contenute in 13 metri, per un’altezza di 89 centimetri: ovvero; la data da cui ha inizio la pena di storia Arbëreşë a cui è sempre stato imposto di fare campanili altrui, ad opera dei prevaricatori di turno e, meno adatti dirsi vogli.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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ANCHE CHI PARTE CRESCE E TORNA SA INTERSECARE LE COSE PER FARE MARCHI ARBËREŞË (Satë mosë birmi palljenë tonë)

Posted on 17 aprile 2025 by admin

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NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Essere Partiti il 18 gennaio del 1977, con la promessa di rendere merito alle cose essenziali del loco natio e, darne valore economico senza il bisogno di museare quell’economia parallela dei suoi storici cunei agrari è una grande promessa data.

Tuttavia quella storica promessa, fatta nella “Somma Trapeza” non è stato semplice da mantenere, sostenere e portare a buon fine, perché le chine da superare e le ire gratuite indirizzate, non trovano, ancora oggi sedici aprile del 2025, fine di continuità.

“Chi parte torna e fa memoria, chi resta ne smarrisce i senso” trasforma questa frase in un tono poetico riflessivo che, lega viaggio esperienze, ritorno, applicazione, e memoria per valorizzare gli antichi luoghi.

La frase è un proverbio che esprime la differenza tra chi vive un’esperienza in prima persona e chi la osserva da lontano, essa non è attribuita a un autore specifico, ma saggezza popolare condivisa in molte culture del vecchio continente.

Un concetto simile è espresso nella frase: “Odiarsi è più facile di quanto si creda, e la grazia consiste nel dimenticarsi”.

Anche se non identica, questa affermazione sottolinea l’importanza del dimenticare, suggerendo che la vera grazia, risiede nel non ostinarsi.

In sintesi, un pensiero condiviso sulla memoria e sull’esperienza, di due aspetti che se opportunamente intersecati posso portare al successo sociale di un ben identificato luogo.

Tuttavia se scomponiamo le fasi, si ha visione chiara di quando possa essere utile allontanarsi dai lenti luoghi natii, per fare esperienza maturare e dinamica al pensiero, mantenendo sempre vivo gli storici principi locali, gli stessi che si possono intravede, in ogni luogo dove si vive l’atto del produrre, fare economia e, quando si torna si ricompongono quelle prospettive di progetto in memoria rinnovata.

Per questo chi si allontana, viaggia, lascia un luogo o condizione di memoria e al ritorno, si ricorda, riflette, rielabora nuove prospettive che possono vantaggiare quelle generazioni spente o prossime ad inginocchiarsi alla globalizzante locale più in auge.

Il distacco permette di vedere le cose da una nuova prospettiva, la stessa che in ogni luogo visitato appare all’orizzonte con emblema le case natie e familiari.

Diversamente da quanti non si muovono e restano legati a dinamismi rigidi lenti o addirittura statici, gli stessi che fanno smarrire il contatto con il significato e il ricordo autentico, forse perché troppo immersi nel buio quotidiano che crea l’isolatamente in forma di riverbero.

Il tutto poi si trasforma e diventa, nenia fastidiosa che ti rende debole e senza prospettiva di rinnovamento o dinamismo alcuno.

Questa potrebbe esse interpretata come una lode al viaggiare, inteso non solo in senso fisico, ma anche interiore, che da agio all’essersi allontanati per comprendere, per ricordare meglio lambito locale intrecciato come una nobile tela con altre realtà produttive semplici e connesse dalle forme agri silvo pastorali, le stesse che hanno dato notorietà agli Arbëreşë nel corso dei secoli.

Tuttavia recuperare un’antica filiera agricola è un processo affascinante, un parallelismo che interseca, cultura, economia locale, territori, natura e, con mira di far coincidere passaggi che contribuiscono a guidare con garbo il recupero.

Questo non è un adempimento semplice, infatti richiede informazioni storiche, documentali, che possano far immaginare prospettive nuove avendo riguardo dei racconti orali di memoria locale.

Tutte quelle consuetudini parallele di tecniche e saperi antichi custodite e non documentate se non nelle vicende sociali che in questi ambiti era espressione indelebile del governo delle donne, sostenute dalle attività di quello degli uomini.

Il tutto per identificare, quali varietà di piante o razze animali venivano utilizzate (es. grani antichi, vitigni autoctoni, razze rustiche).

Studiando le tecniche agricole tradizionali, rotazioni, concimazioni naturali, sistemi di irrigazione antichi, coinvolgendo agricoltori locali, associazioni, scuole, università o istituzioni.

Perseguendo il fine di ricercare per creare una rete di interesse attorno al progetto, intercettando mulini, frantoi, cantine, caseifici o magazzini antichi, realizzando il restauro per il più idoneo riutilizzo.

La dinamica tipologica locale di ogni cuneo agrario o della trasformazione mira a reintrodurre colture/razze autoctone con metodi biologici o rigenerativi.

Poi se la ricerca o meglio la radice del progetto ha come scenario il valorizzare prodotti tipici della Presila Cosentina, come i Grani antichi, nelle varietà locali come il Senatore Cappelli, ma anche altri grani duri e teneri, adattati all’altitudine della collina, il cuneo geografico è di rilevanza strategica, l’insieme renderebbe possibile il recupero della filiera del pane, della pasta e dolci tradizionali.

Se a questo affianchiamo la storia dell’ulivo locali come la Carolea, qui molto diffusa, riattando e facendo rifiorire, gli uliveti storici, eseguendo la raccolta a mano e, riattivare l’antico concetto di olio extravergine di alta qualità, prodotto in loco e senza attesa di macerazione, facendo ruotare gli antichi frantoi a ciclo continuo e del breve tragitto a pietra.

Non da meno sarebbe risvegliare l’antica risorsa, della viticultura e puoi puntare su varietà locali come il Magliocco Dolce, Greco Nero, o il Mantonico, realizzando vitigni resistenti (con l’aiuto di istituti agrari) piantando i roseti come vigilanti naturali dei filari.

Vale cosi anche per i noti allevamenti di pecore e capra, collocando l’antica e onnipresente “mursica” che prima era in ogni famiglia di queste storiche macro aree.

Il tutto darebbe agio alla produzione di caciotte, ricotte fresche e stagionate, butirro, predisponendo e avendo cura di riattivare gli originari pascoli, caseifici artigianali, o piccoli laboratori.

Non da meno sarebbe utile la produzione e selezionare di Fagioli, ceci, lenticchie rustiche, senza dimenticare le patate e della Sila IGP, il tutto commesso a una filiera bio integrata con cucina e trasformazione o punti di accoglienza, racchiuso in una filiera corta o comunitaria.

Una Micro-filiera “Vino, Olio e cereali” di Calabria citeriore degli Arbëreşë a cui affiancare grano antico locale e, oliveti.

Avendo cura di collaborare con mugnaio artigiani locali, in grado di produrre di olio EVO e farina integrale a pietra, con lievito madre, a cui affiancare eventi di degustazione “Bukë e Valljë”

Quello che ad oggi manca è un marchio unico che garantisca il valore di tutti i prodotti naturali che erano la primizia alimentare del Governo delle donne Arbëreşë, cose fatte con continui abbracci di amore e manualità che passava da madre in figlia, le stesse che hanno sostenuto questo popolo antico, a integrarsi ed essere considerati i fautori dell’economia in diverse macroaree delle sette regioni del meridione, oggi identificate come Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë; che non è l’Albanistica Arberia senza radice e solidità che non trova germoglio alcuno.

Se a tutto questo ricordiamo la memoria storica di queste terre ambite, da tutti i popoli europei che le ritemevano le più soleggiate e climaticamente equilibrate, di tutto il mediterraneo.

Infatti il sud dell’Italia di tutte le terre d’Europa, rientrando tra i paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, quindi i più centrali, non sono mai stati mira di popoli che la volevano sottomettere distruggerle, schiavizzare o violentare, ma viverci in comune convivenza con gli indigeni locali, in agio di vita lunga.

Tuttavia resta un dato fondamentale; che a valorizzare il territorio non possono essere le filiere lineari di un mero prodotto solitario, ma la tessitura del genio di chi è partito in concertazione con le forze umane e naturali di un ben identificato luogo, tutto il resto e fatuo, che non fa buona farina associata alla salutare crusca Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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KATUNDI IMË

KATUNDI IMË

Posted on 10 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricercare attorno a un Katundë, vuol dire analizzare le diverse realtà ed indagare sulle figure formali dell’organismo urbano, le morfologie insediative, le diverse tipologie vernacolari e architettoniche, ma soprattutto gli spazi all’interno della trama costruita e prendere forma, senso e tempo, dei sistemi di socializzazione poste in essere nel corso dei secoli.

Infatti gli spazi pubblici di tutto il Mediterraneo costituiscono un patrimonio culturale di rilevanza strategica e, da sempre hanno costituito il fulcro della “centralità” e non la borgatara periferica ridda circolare in difesa.

Il simbolo di questi modelli è la centralità della croce avvolta da cerchi di iunctura familiare e, fin dall’antichità il punto centrale assume ruolo “cruciale” che unisce e fa incontro di ogni Katundë.

I luoghi simboli dell’incontro sono gli spazio pubblici, il luogo di relazione tra i cittadini e, l’uso pubblico diventa il primo governo di questi luoghi liberi.

Lo spazio di relazione è costituito da elementi urbani, territoriali e sociali, in relazione alla forma, la storia e la struttura del Katundë, con i suoi fondamentali quattro sheshi, dove le funzioni sociali e culturali, sono i recinti ideali in cui si allevano le nuove generazioni con le quali la civis, progredisce in ogni cosa insieme.

Gli spazi di relazione rappresentano Gjitonia, il modello ideale senza spazi di confino, per questo non è individuabile alla pari di Katundë.

Questi agglomerati urbani del bisogno, sono ancora oggi, scrigni ricchi di storie, ricordi, simboli, tuttavia negli ultimi anni sono avvolti da una miriade di nuove costruzioni che ne hanno cambiato il profilo e la forma e sin anche la misura delle strade.

I centri storici dei Katundë sono patrimonio dell’umanità, e dovevano essere considerati, “delicati organismi” da, estrapolare dai canali e le pressioni del turismo di libero accesso, rimanendo immensi nell’inutile traffico che senza tregua, stravolge le reali prospettive che non erano fatte per parcheggiare.

Difendere i centri antichi di questi agglomerati in forma di Katundë, non vuole dire imbalsamarli o impedirne ogni adattamento a nuovi stili di vita, perché in questo modo si darebbe agio a tematiche ancora più pericolose desertificandole e, trasformando ogni cosa in scenari nostalgici e comunque indebolendone il valore abitativo che diverrebbero al pari di un parco o banale osservatorio di un tempo senza vita.

Per questo valorizzare i modelli abitativo del mediterraneo, che non sono assolutamente paragonabili a borghi, bisogna saper coglierne la straordinaria capacità di assorbire e reinventare spazi di vita endogena, in conviviale integrazione esogeni.

Da sempre questi centri antichi collinari e montani del mediterraneo vivono di storia e architetture del bisogno importata da altri luoghi paralleli.

Sono proprio questi ad aver saputo metabolizzare e a volte addirittura riesportare presenze nuove, come non è accaduto nelle terre ad est del fiume Adriatico che non ha stoicamente abbracci naturali lungo le sue coste.

Per questo difendere e tutelare i centri antichi di radice Arbëreşë significa valorizzare l’identità di uno specifico luogo edificato, la propria natura storica del bisogno vernacolare, il tutto capace di assorbire e adattarsi alle culture e le popolazioni che nel corso dei secoli le hanno percorse, abitate e sostenute ampliandole a misura.

C’è la necessità di preservare il più possibile l’eterogeneità di attività e di usi che li ha sempre caratterizzati e, nelle analisi di valorizzazione del territorio e in generale in quelle per la riqualificazione, la riflessione sulla perdita di valore degli spazi di relazione storici a svolgere la loro funzione d’incontro, mentre i nuovi luoghi di relazione delle pratiche quotidiana, delle nuove generazioni devono essere ben distinte se proprio non si vogliono accogliere i sensi della Gjitonia, al femminile materno.

La questione degli spazi di relazione sembra un problema nodale nel processo di rigenerazione di questi ambiti, infatti pur essendo validissima e tornata in auge la sua radice di crescita e incontro, come elementi di aggregazione.

Un Katundë “si compone materialmente di due parti che si compenetrano strettamente: spazi liberi e spazi costruiti.

“Gli spazi liberi sono di due tipi: pubblici e privati.

I primi, comprendono le strade, le piazze, gli spazi di pascolo pubblico dell’epoca delle costrizioni di alba e tramonto. Gli altri sono e rappresentano gli spazi di ogni famiglia dove era si sosteneva l’orto botanico, in tutto la garmaccia di iunctura familiare.

Tuttavia secondo le epoche la superficie urbana è ripartita in modo molto differente e l’evoluzione alla crisi epocali si manifesta nell’intricato labirinto di questioni che si possono affrontare solo se si raccolgono gli aspetti geografici, storici, architettonici, artistici, urbanistici, economici, sociali o i risultati delle ricerche di discipline “contigue”.

Anche se non è mai facile tenere insieme una gran mole di dati e un grado di approfondimento accettabile nello studiare e tradurre la toponomastica storica costantemente e impietosa li presente in memoria.

Se a questo sommiamo i modelli sui quali ragionare e, tale difficoltà si accentua e sono quasi nulle le figure a cui fare riferimento per ricucire questi labirinti di storia legata a eventi di una radice antica che non trova editi per essere accolta. o criticata

Dopo un lungo periodo di stasi, si sono moltiplicati negli ultimi anni gli interventi destinati alla salvaguardia, al miglioramento e alla rivalutazione di questi spazi senza conoscerne radice uso e valore soprattutto al femminile dove ogni genere in crescita trovava la propria dimensione.

La ricerca che qui si prova a proporre ad ogni amministrazione, istituzione ed istituto, si muove su diversi piani, ciascuno dei quali necessario per giungere ad una attenta qualificazione delle modalità nuove di funzionamento che gli spazi di relazione dovrebbero avere, ma ad oggi nonostante i tanti segnali non si ha alcuna adesione.

La considerazione che lo studi organizzativi degli spazi di relazione ed in particolare quelli storici può essere considerato un passo obbligato per la comprensione moderna di un Katundë, per proiettarsi verso progetti consapevoli dei significati e delle identità locale.

La riflessione sulla valenza del concetto di spazio di relazione diventano elementi portanti della struttura della ricerca a supporto di tesi che potrebbero essere dannose per la memoria.

Ossia riconoscere come luogo di accoglienza, confronto e incontro, con luoghi di crisi e conflitto ma anche luogo delle opportunità che avviano processi di salvaguardia dell’identità attraverso interventi di riqualificazione urbana con esiti di natura culturale, economica e sociale.

La ricerca ad opera dell’Olivetaro è rivolta all’analisi dei meccanismi che hanno generato dato senso alla distribuzione degli spazi urbani, siano essi vichi, archi, vicoli ciechi, orti botanici o piazzette senza uscita per estrapolare le conoscenze e rendere noti i principi, secondo cui l’urbanistica, intrecciata con le culturali di luogo natio, compilano la tessitura raffinata indispensabile, agli interventi di

Rigenerazione, al fine di intercettare, identificare i necessari strumenti per la salvaguardia odierna degli spazi di relazione come essenze parallele di tutto il Mediterraneo.

Il progetto di studio difatti tende ad individuare, attraverso specifici aspetti, la trasformazione degli spazi di relazioni all’interno del rinnovamento mediterraneo in senso generale secondo il ruolo della storia, vista come memoria di un passato importante, specie in questa parentesi storica di confronto tra popoli in ansia e quanti vivono la modernità e.

E quindi la qualità urbana deve avere o derivare da modelli la cui radice e rappresentato dal fusto del passato e da poter germogliare nella primavera che viviamo i suoi frutti migliori.

Pe questo il ruolo della storia deve essere interpretato in funzione del sito, la cui conoscenza diviene fondamentale per interpretare il senso e la direzione che ha fatto il costituito di questi progetti del bisogno.

Abbiamo già visto che la ricerca affannosa che è solo modernizzazione porta in auge solo comuni viandanti, gli stessi che portano molte volte, ad adattare vecchie piazze, strade e vichi, immaginati che siano nate, per altri usi e per altri utenti veicolati, deformando così, l’identità che nel tempo aveva caratterizzato e solidarizzato quel luogo.

Allo stesso tempo vediamo interventi di recupero e riuso degli spazi di relazioni, trasformando così, luoghi strategici per la centralità, solo per impegnare risorse.

La salvaguardia, il recupero e la valorizzazione degli spazi diventa pertanto un elemento fondamentale della ricerca, come questione nodale nel processo di rigenerazione di un Katundë, rispetto alle tendenze globaliste che mirano ad altri concetti sociali, comunque senza radice di luogo.

Queste potrebbero essere la fonte di una possibile perdita del “ruolo storico del tessuto” sociale e culturale di questi ambiti, poiché azzerando i tratti di riconoscibilità tra luoghi e persone, si smarrisce anche la memoria.

Rimane un dato inconfutabile ovvero, subite le maggiori trasformazioni, appare difficile attivarsi per il processo verso una corretta valutazione dell’entità in lavorazione e, né un controllo della qualità urbana diventa più possibile da attivare, ed è così che il ripetersi di modelli esogeni alla cultura endogena locale trovano più agio.

Un’attenta politica di valorizzazione dell’esistente, o la giusta simbiosi con le tendenze eclettiche e spettacolari dell’architettura globalista può consentire alle identità, alle peculiarità, della storia di questi agglomerati composti di Sheshi, non solo di non essere soffocate o estinte, ma diventare fondamento di un’originale china, dello sviluppo che si nutra anche dell’ambizione di produrre e diffondere “nuovi scenari chi la politica amministrativa ritiene inesistenti”.

Il senso di questa ricerca porta ad identificare un percorso di salvaguardia, in tutto, un processo posto in essere dalle civiltà meno note del passato qui in Italia, a casa nostra, e nel meridione disprezzato; un’operazione intesa a ricostruire i valori della città che si sono sgretolati nel tempo, memorie passate o memorie più recenti che ancora vivono nei ricordi locali.

Ciò che cambia è l’immagine della Gjitonia, che si trasforma e svela il suo potenziale storico, estetico e sociale di uguaglianza, di cui oggi si va alla disperata ricerca.

La finalità che in questo breve si vorrebbe perseguire, è racchiusa nelle linee progettuali, le quali impongono per prassi, una precisa consapevolezza dell’idea a cui si vuole tendere, la stessa che ha come passaggio obbligato la comprensione dell’identità arbëreşë,

Questa è operazione, non facile perché presuppone una conoscenza profonda dei suoi valori e dei suoi luoghi, spesso nascosta tra le pieghe dei tessuti e degli strati, avvolte velati appositamente per quanti vivono la città o altri ambiti di borgata o bavara, dirsi voglia residenza condivisa.

Risulta essenziale che il progetto, o forse meglio il processo di modernizzazione, vada ad investigare gli aspetti in merito alla forma, alla memoria e alla cultura collettiva per cogliere l’essenza dei luoghi e le dinamiche che li governano.

Quindi l’obiettivo della ricerca e del progetto è stato finalizzato allo studio e l’analisi dei processi di recupero e ri-qualificazione degli spazi di relazione per comprendere la conoscenza di questo patrimonio culturale e delle modalità con cui non è stato più gestito, per garantirne la salvaguardia e la continuità in solita valorizzazione.

Il risultato a sortito tuttavia è sortito nonostante l’estrema complessità per l’osservazione, la ricerca, l’intuizione indispensabili a comprendere il migliore approccio, il metodo e la procedura.

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UNA PAGINA DI STORIA IN TERRA DI SOFIA ESPOSTA AL TEMPO E AL VENTO DI NORD  (Shëpia Jannùnitë ku rij Manganërvetë ka Acrà)

UNA PAGINA DI STORIA IN TERRA DI SOFIA ESPOSTA AL TEMPO E AL VENTO DI NORD (Shëpia Jannùnitë ku rij Manganërvetë ka Acrà)

Posted on 08 aprile 2025 by admin

Cattura 12-2009

NAPOLI- (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA CASA DEL FATTORE

 

Premessa

In questo breve tratteremo dell’architettura del bisogno, o architettura vernacolare, giacché essa si distingue dalle più famose, perché strettamente legata alle necessità quotidiane della vita di una comunità, piuttosto che a tendenze estetiche o teoriche imposte dall’architettura accademica.

Questo tipo di architettura in edificato, si sviluppa in risposta ai bisogni pratici, sociali, culturali e ambientali di una specifica zona geografica e, l’uso dei materiali risultano essere quanto reperibile con facilità nella vicinanza al loco di edificazione del bisogno abitativo.

I materiali per questo, rispecchiano i pigmenti dell’ambiente circostante, adattabili quindi alle condizioni climatiche locali, offrendo agio a quanti trovano rifugio al suo interno.

E la pietra, fa da primo attore strutturale, di questi ambiti collinari e montane, dove è facilmente, disponibile e pronta a rispondere all’uso.

Alle pietre poi si associano sabia, calce e il legno delle aree boschive, storicamente facili da lavorare e reperire, l’insieme rende possibile e rispondere a necessità pratiche quotidiane legandosi all’ambiente il risultato finale del volume edilizio che in questi centri si integra con misura all’ambiente naturale.

Le costruzioni per questo rispondono alle condizioni climatiche, del bisogno, mantenendo nel contempo un regime temperato, senza discostarsi dai pigmenti e le forme dell’ambiente naturale.

Tetti spioventi facilitano il deflusso dell’acqua e nel contempo con il volume non abitabile del sottotetto, creano cuscini di tempera del volume vernacolare, sia in inverno che in estate.

In questi manufatti, la forma segue la funzione e le soluzioni estetiche, le stesse che non sono imposte da ideali stilistici, ma derivano dalla necessità pratica.

Tuttavia, l’uso dei materiali locali e l’adattamento all’ambiente conferiscono alle costruzioni un aspetto caratteristico e un’identità unica, le cui soluzioni innovative sono tramandate di generazione in generazione, spesso senza il supporto di una formazione accademica, ma tramite esperienza diretta o meglio la consuetudine del costruito.

Le tecniche vernacolari sono per questo intuitive e si sviluppano attraverso il miglioramento continuo di pratiche che rispondono direttamente alle esigenze del momento storico vissuto o la necessità dell’ampliamento.

I  cui muri portanti in pietra, in molti casi non richiedono fondazioni elaborate, ma sfrutta la forza e la resistenza del territorio in genere di identica radice delle pietre.

Gli intonaci sono realizzati in calce terra e argilla e proteggono i muri dalle intemperie e consentono una certa traspirabilità dell’edificio.

L’architettura vernacolare si collega anche agli aspetti sociali e culturali della comunità e, l abitazioni e gli spazi pubblici non sono solo funzionali, ma riflettono anche le tradizioni e i comportamenti sociali:

Le case schiera, dove il giardino diventa il centro della vita quotidiana e, l’uso di focolari per unire le famiglie intorno al fuoco, particolarmente, infatti l’insieme nasce ed esprime il bisogno di utilizzare risorse locali in modo efficiente.

Le costruzioni sono progettate per durare e con un basso impatto ambientale, in quanto i materiali utilizzati sono rinnovabili, e le tecniche costruttive sono semplici ma robuste e si possono rifinire o consolidare con materiali di spogliatura nei momenti di bisogno estremo.

Tutto questo non solo riduce il consumo energetico, ma permette alle strutture di rimanere sempre integrate nell’ambiente circostante.

Per questo, la metodica vernacolare resta fortemente legata al territorio e alla comunità e riflettono nelle costruzioni, l’unica e rappresentativa cultura locale.

 

Il loco denominato Terra

In sintesi, questa resta ed è l’arte del costruire in modo pratico, economico e sostenibile, rispondendo ai bisogni quotidiani e alle condizioni ambientali locali, ma anche alla cultura e alle tradizioni di una specifica comunità.

Per questo scrivere la storia di “Terra di Sofia”, significa addentrarsi nell’intreccio antico di Terra ai tempi della Sibari fannullona, perché dismessa la diocesi di Thurio.

I filari di Terra Laica compongono il filato con i perpendicoli di Sofia di credenza Bizantina, cadenzati dai passi longobardi, in tessitura di risalente del IX e mai terminata.

Spiegare gli intrecci storici, non è semplice e solo chi ha formazione adeguata può affiancare le prospettive che rendono visibili le vicende del rione, dove la toponomastica arbëreşë locale ricorda “Kishia Vietèrë” (Chiesa Vecchia) adagiato a quello che dal 1936 viene appellato “marchianeshëvetë” (Ciliegeto tipico) e (Mandorleto).

Qui in questi breve si vuole illustrare la residenza che fu dei fattori della famiglia di Angelo Giannone, nello specifico l’elevato del bisogno, dove questi nobili proprietari terrieri, del cuneo agrario più antico e prolifico dei principi di Bisignano, avevano residenza in Terra di Sofia.

E qui nei pressi della loro residenza, accoglievano anche il fattore e la sua famiglia, questi ultimi identificati, nella memoria storica locale, nel casato dei “Mangano”.

L’abitazione in epoca moderna, venne acquisita dalla famiglia Caravona e, la demolizione a seguito della instabilità strutturale, hanno esposto tutte le fasi strutturali, che nel volume edilizio si erano sommate o avevano consolidato la stabilità strutturale e abitativa nel corso dei secoli dalla sua edificazione del bisogno vernacolare primo a quelle successive di agio economico sia del fattore che dei nobili Giannone, nel corso della storia.

Ad iniziare dal primo insediamento vernacolare del bisogno identificato come Katoj e, la successiva espansione seicentesca e l’ampliamento settecentesco con l’apposizione del profferlo sulla via Castriota, l’asse che collega la chiesa di Sofia Bizantina, con la successiva Arbëreşë, di Sant’Atanasio l’Alessandrino.

Il manufatto edilizio identificato nella mappa catastale con la particella n° 13, si presenta a pianta rettangolare, con lo sviluppo più esteso in direzione Nord, Sud e, il suo sviluppo verticale si compone, del piano terra seminterrato, un primo piano in elevato e la copertura a due falde di esenzione differente, in direzione Est quella più estesa e, Ovest la più ripida, con aghetto realizzato da tegole murate onde evitare lo scorrere dei reflui piovani lungo l’elevato murario,

Il volume comprendeva anche un ballatoio con scala, a profferlo, nella mezzeria del prospetto rivolto ad est, sulla via Costruita.

Mentre sul prospetto a sud era l’antico accesso al piano abitabile supportato superati di tre gradini in elevato, per raggiungere la quota del piano elevato dal piano di calpestio esterno.

Questo ingresso era gemellato a una finestra al piano, mentre nel piano della copertura in prossimità del colmo di falda era una finestra di ventilazione del sottotetto.

Il prospetto a Nord a piano terra aveva un ingresso per le stalle, gemellata anche questo a una finestra posta verso est e, nel lato ovest subito al lato dell’ingresso, un rinforzo sino al solaio del primo livello, realizzato con materiali di spogliatura e calce, questo seguiva su tutto il fronte del prospetto ad Est il quale era caratterizzato da un accesso dal giardino e una finestrella del secondo interrato, mente al piano primo aveva due finestre che caratterizzavano il prospetto.

A Ovest, era ed è allocato l’orto botanico a esclusivo servizio del fattore, dove ad oggi resistono alcune essenze botaniche, ricoperte da rovi e senza più l’originario ordine, uso o impiego di medicina empirica.

Il volume edilizio nasceva probabilmente come umile residenza del bisogno vernacolare, abitazione tipica di tutta la fascia collinare della preSila Greca Arbëreşë.

Quelle che in lingua ad Est del golfo adriatico si appellavano: Kalljve, Moticellje o Katoj, in tutto, un ambiente unico, con annesso camino e, una zona pranzo assieme ai giacigli dei componenti la famiglia e, gli animali domestici compreso l’asino o il mulo a seconda le esigenze.

Uno spazio con dimensione di profondità maggiore rispetto la larghezza, che non superava i sei metri, con unico tetto a falda, che scaricava il flusso piovoso davanti all’ingresso, che allo scopo era sempre igienizzato, nel corso delle stagioni.

Le vicende agro silvo pastorali dei cunei agrari sofioti, nel corso del settecento diedero agio e distribuirono ricchezza all’economia locale e, tutte le famiglie che in questo centro risiedevano e svolgevano attività, lungo i cunei agrari della produzione e della trasformazione in agro di Terre di Sofia, elevarono il potere economico e, con di fatto anche le valenze edilizie.

Tuttavia a seguito del terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e iniziarono a svilupparsi verticalmente assumendo una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

E anche la casa del fattore qui in studio ebbe modo di essere ampliata avendo un piano abitativo con uso di un locale magazzeno e la vecchia residenza continuo ad essere solo la stalla per gli animali domestici.

E successivamente, venne posto la pertinenza della scala esterna ad uso di profferlo modificando radicalmente le prospettive della odierna via Castriota.

Questo perché il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente, ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.

Ma la casa del fattore divenne anche una vedetta che mirava e seguiva chi si apprestava a bussare a quella porta dei nobili Giannone, infatti con furbizia e accortezza strategica ancora oggi la finestra della stanza da letto del fattore che mira a nord sulle stalle e quella ad est verso la casa dei Giannone conserva una feritoia di osservazione o di mira, per eventuali male intenzionati che si apprestavano ad avvicinarsi all’ingresso della casa nobiliare.

Per riassumere, la consistenza volumetrica dell’intero edificato, esso si componeva di una mono volume conce come abitazione del bisogno vernacolare in epoca di espansione trasformata la stalla nel piano terra, addossato al declivio dell’orto botanico ad est, con ingresso tipico con porta gemellata ad una finestrella, entrambe rivolte a nord.

Un volume con dimensione di poco più di trenta metri quadri, ricoperta con un tetto a falda unica che scaricava i reflui piovani, igienizzando l’ingresso.

Questo singolo manufatto originario allestito secondo le necessità delle epoche in evoluzione, nel corso della risalita economica del XVIII secolo venne integrato secondo i temi di una più lussuosa abitazione, articolato in ma magazzeno, a continuità di livellamento semi interrato, verso sud dell’antico abituro, il quale assunse, da adesso, la funzione di stalla, mentre al primo livello si dispone, con ingresse dal lato sud, con più vicinanza alla residenza dei nobili Giannone e, superati tre gradini dal piano del vicoletto e la porta d’ingresso gemellato ad una piccola finestrella si accede all’ingresso cucina da cui con una botola e relativa scala si accede ai magazzini.

Mentre superata la porta interna si va verso un disimpegno che da acceso alla stanza da letto del fattore e, la stanza della prole, come disposto nella planimetria di rilievo qui allegata in fig. XXXX

Dalla cucina che funge da ingresso si trova la botola per accedere alla cantina o magazzino da cui una porta da la via sull’orto botanico di pertinenza esclusiva.

Questa era lo stato di ampliamento del casale noto come dei Mangano, a cui per facilitare e disimpegnare la cucina dall’ingresso, venne aggiunto il profferlo lungo la via Castriota, da cui, superato sette alzate e sei pedate si giungeva nel ballatoio di poco più di sei metri quadri, il tutto coronato da parapetto, e adesso, l’accesso posto in corrispondenza del disimpegno, rendeva l’intero abitacolo indipendente da ogni funzione privata di casa.

Il manufatto realizzato con muratura additiva, verticale con materiali locali come pietrame, assemblata con impasto di calce e sabbia della “parerà” locale che in quell’epoca era sul fronte ad est del torrente del duca quando diventa Cancello, oggi non più presente perché quel refluo che attraversava il centro antico è stato interamente interrato e modificato del suo antico tracciato e valore.

Il pietrame che compone la muratura sicuramente proviene dal Torrente Galatrella, che scorre a poca distanza.

In tutto, un modello abitativo che basa la sua consistenza nelle “Murature vernacolari” come accennate in anteprima e, del bisogno tipicamente locale e, tipici di questo luogo in forma di pigmenti naturali della comunità.

In questo caso, indicativo dell’architettura che si sviluppa i Santa Sofia Terra, senza il ricorso a progettisti formali, ma adattando ogni cosa al bisogno in funzione delle risorse, il clima e la geografia di questo specifico rione.

Le murature della casa dei Mangano, sono realizzate con materiali reperibili nella zona circostante, come pietra, sabia, calce, creta e legno.

Queste strutture sono solitamente molto funzionali e, pensate per adattarsi alle condizioni climatiche e ambientali specifiche del luogo, e riflettono la tradizione, la storia e le necessità di chi le ha costruite.

Il luogo nello specifico, per la sua natura geologica, come l’intero centro antico dalla radice bizzantina sino ai tempi della venuta del costruito arbëreşë, non faceva uso di fondazioni di rilievo ma rifiniva il declivio naturale con un pianoro di necessità su cui poi elevava le murature perimetrali.

Questo è il motivo dei rinforzi che emergono e sono evidenti nella porzione del prospetto a Nord e di tutto il piano terra del prospetto di Ovest. Vedi Foto

Anche se ricuciture di fessurazioni riferite agli intonaci o per rendere più emblematico l’edificato appaiono lungo via Castriota e in tutti i varchi di accesso le finestre e i varchi di ventilazione del sottotetto, ri quadrati con mattoni i terra cotta e architravi in legno o componimenti di mattoni, cosi anche per poi intonacare il tutto, rinforzando con scaglie di spogliatura di tegole e mattoni.

Il solaio del piano abitabile e realizzato con travi panconcelli e cuscinetto in sabbia miscelata a calce e rifinita con mattoni in terra cotta.

Il solaio che fa da separatore con il sottotetto e composto da travi e tavolato regolare, in modo da rendere il lastrico solare diffusamente distribuito con evidenziate le travi e il regolare sviluppo del tavolato regolarizzato lungo i bordi, il tutto trattato con getto o pennellata di calce liquefatta.

Gli infissi delle porte esterne, sono ad un battente, cosi come quelle interne, diversamente dalle finestre a due battenti con vetrata oscurata dai relativi semi porte nella parte superiore, al quadrangolare di base, onde evitare la facile visione interna quando durante il giorno illuminano l’interno.

Il tetto a due falde si compone di trave di colmo, da cui degradano le travi a est e ad ovest, su cui i travicelli, disposti a intervalli regolari, accolgono il doppio ordine di coppi, sino al calibrato aggetto terminale, quest’ultimo realizzato con un filare di coppi incastonati o meglio solidarizzati con l’elevato murario.

Questi accolgono e danno il terminale appoggio inferiore alla lamia di coppi, che poi defluiscono perimetralmente all’elevato murario, evitando che le il displuvio scorra lungo le pareti dell’edificato dell’attento Fattore.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                                                                 Napoli 2025-04-08

 

 

P.S. Quando studio e progetto, la terra trema e il cielo si apre, gli orizzonti, della regione storica, diffusa e sostenuta in arbëreshë, si illuminano e, le tracce della storia mi guidano lungo la via pertinente, solida e indissolubile.

Questa ormai è diventate regola solidale, ma quello che adesso vorrei è conoscere la stagione in cui avrò modo di confrontarmi con quanti appongono “IN” precedendo la “cultura”, specie da chi si forma tra u surdù e lu settimù

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UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

Posted on 05 aprile 2025 by admin

Sergente

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gennaro raccontava spesso, ai suoi familiari riuniti, nelle gelide serate d’inverno, quando ad illuminare era il fuoco di quel camino antico di casa, che guardava la piega della via detta “lljëmë llëtirjtë”.

Era qui che al calar del sole, lui riuniva i suoi figli, per raccontare il patire, lungo la via del ritorno a seguito del disarmo dell’esercito Italiano, finite le ostilità il settembre 1943, della seconda guerra mondiale.

Egli raccontava che, dopo aver parcheggiare il camion officina, nel cortile della caserma a Riva di Trento, gli venne ordinato di recarsi nella camerata, ritirare il tascapane, gli effetti personali e, poi un ufficiale preposto gli fece consegnare il percussore del fucile in dotazione, la baionetta e, in fine di tornare a casa, perché i servigi verso la patria erano terminati.

All’inizio grandi grida di gioia con i commilitoni e, subito dopo si rese conto che casa sua distava oltre mille chilometri e, dalla parte opposta della penisola Italina.

E non nella comoda direzione Est-Ovest; ma secondo quella più impervia e colma di pericoli, Nord-Sud, che pur se abituato a percorrere distanza da giovane con il suo gregge quella era una distanza inimmaginabile e doveva svolgersi senza lamenti o belati di genere alcuno.

In tutto, un percorso intriso di pericoli, in quanto, andare controcorrente alle truppe tedesche che ripiegavano devastando ogni cosa e imprigionando ogni figura che non avesse effigi germaniche, in altre parole sarebbe stata tratta non semplice da percorrere.

Infatti in quella verde vallata dove erano terminati i doveri di soldato e servitore della patria, rimaneva un solo ed unico alleato: il pensiero Sant’Atanasio il Grande Patrono e di Adelina la sua amata moglie; fu per questo che fece voto di rientrare in paese entro e non oltre il due di maggio, per onorare il santo e abbracciare moglie e figlia.

Stava sbocciando dopo un lungo inverno, quel voto antico di tornare a casa e festeggiare con la sua amata il mito protettore; un fine antico sempre perseguito ma mai, in questa esagerata misura, con le uniche forze, fisiche, mentali sostenute dalla credenza bizantina.

Gennaro raccontava che dopo aver salutato i commilitoni, e presa la via solitaria, onde evitare di apparire come gruppi antagonisti alle eventuali truppe tedesche in pericolosa ritirata, ogni commilitone prese la via di casa propria rimanendo comunque a debita distanza.

Sapeva di non dover seguire strade carrabili, porti e ferrovie, in quanto, la campagna, i boschi e i corsi fluviali erano gli unici alleati, di cui fidarsi e, quante chine e quante discese, dovette percorrere seguendo torrenti e campi senza semina, sempre vigile ed attento dovette attraversare con occhi e orecchie allertate.

Si cibava di cose naturali, assieme alle poche cose, che ogni tanto, gli donava contadini che cercavano di rigenerare, gli scenari di semina dismessi dalla guerra che avevano voluto altri e lui si portava in spalla quel peso di dovere.

Pastori, contadini, mugnai e manovali che svolgevano attività, nel vederlo come figlio che tornava a casa, dividevano volentieri con lui le poche cose del pranzo e, lui per ricambiare, avevo solo il racconto della sua storia e la meta a cui ambiva.

Nell’esporre il suo entusiasmo per il ritorno, non ricordava a quanti aveva detto di essere un Sofiota e quali ideali lo sostenevano; poi giungeva il momento di riprendere l’orizzonte ancora soleggiato e in solitaria meta.

Giunto in Campania era ancora incredulo e quanti incontrava, dicevano che forse non avrebbe mai potuto portare a termine l’audace impegno, perché era stanco e forse non sarebbe giunto il due di maggio.

Cosa lo spingesse ad andare avanti era la memoria di quel sagrato, quella chiesa e la famiglia, che aveva promesso di sostenere dal 9 ottobre del 1937 e, i visi fiduciosi di quanti incontrava, come in una gara podistica facevano il tifo per lui, non avendo altro da offrirgli, se non le poche cose per cibarsi.

Tuttavia, la sua rimaneva, una gara contro un invasore che contro corrente, avrebbe potuto portarlo con se in un loco più distante e concentralo a termine.

Tutte le persone che incrociava ritenevano che la distanza fosse eccessiva e trovare un passaggio era pericoloso, in quanto avrebbe potuto mettere fine al suo voto, quindi, ogni volta gambe in spalla fino che la luce del sole lo accompagnava.

Lungo la strada immaginava di risalire dalla chiesa vecchia, via Castriota e arrivare in piazza Sant’Attanasio, nel momento in cui le campane a festa annunciavano l’uscita del Santo; poi gli amici, i parenti come lo avrebbero accolto, chissà se nella processione ci sarebbero state la moglie Adelina con in braccio la figlia Francesca o come promesso, era in casa ad attendere il suo ritorno.

Questo e tanti altri erano i pensieri che lo accompagnavano, e intanto chilometro dopo chilometro la meta era sempre più vicina.

Era iniziata la terza decade di aprile e iniziate già le novene, quando si trovò ad affrontare la piana del Sele e, se le forze lo avessero sostenuto così come, nelle settimane passate, l’impresa sarebbe stata possibile.

Intanto continuava a cibarsi di ogni cosa che la primavera offriva, la meta diventava sempre più prossima e sempre più familiari, erano gli scenari naturali.

Intanto continuava ad evitare centri abitati, così come fece da diversi mesi, preferendo le gole e boschi impervi e deserti, riposando in grotte e anfratti naturali.

Preferiva seguire percorsi impervi per evitare di incontrare le retroguardie tedesche o le avanguardie parigiane e comunque senza mai fidarsi di alcuna divisa o gruppi armati.

E finalmente l’ultima settimana di aprile, vedendo valicando gli scenari del dolce dorme e intravede il luccichio del suo paese natio dove lo attendevano le cose di credenza materiali e non, le stesse mire di memoria che lo avevano sostenuto.

Solo adesso ebbe modo di concedersi una pausa di riposo per presentarsi degnamente da soldato al raggiungimento dei suoi cari e dei suoi paesani.

Attraversato il Crati vicino il cimitero di Tarsia e raggiunti, i luoghi della giovinezza, dove portava le pecore a pascolare, la china che avevo percorso tante volte la conosceva bene e, lo fece sentire a casa, conoscevo ogni zolla e ogni anfratto di quegli ameni luoghi, per mesi immaginati.

Quell’anno il due del mese di maggio cadeva di martedì e quando, Adelina si senti Chiamare da suo zio Giuseppe, mentre iniziavano i primi rintocchi delle campane a festa, nulla di più intonato e desiderato per lei il sentire le parole che gli diceva: Adollì, ezë ndë quishë, se u mbioshë Janari!

 P.S. Gli attori primi di questa storia di devozione antica, sono: Gennaro Pizzi padre, Adelina Basile madre e il Santo che sostenne e diede agio agli avvenimenti di questa casa senza termine: Atanasio.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

Posted on 01 aprile 2025 by admin

 

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA STORIA DEL COSTUME E LA REGINA DEL FUOCO

Premessa

Questo discorso, vuole svelare e, dare significato o senso definitivo al prodotto di vestizione femminile arbëreşë relativo allo storico protocollo del matrimonio.

Espressione consuetudinaria di memoria e augurio in forma d’arte o manuale sartoriale, realizzato seguendo l’antico disciplinare, contemplato in ogni particolare che fa vestizione o costume nuziale femminile, prima durante, dopo l’evento di promessa coniugale, sino alla solitaria convivenza generata di certezza o incertezza della continuità coniugale.

Il tema pone ed evidenzi, in oltre, il valore associato al matrimonio, in espressione di sistema famiglia, sotto gli auspici e le consuetudini beneauguranti di credenza diffusa Greco Bizantina, su radice di promessa data Kanuniana.

Sono numerosi i teoreti o teorete che hanno diffusamente sparlato di questo manufatto identitari, ma tutti o tutte nel farlo hanno più mirato ad illuminare se stessi, che il costume di macro area di cui trattavano senza alcun fondamento storico.

Tuttavia prima di dare inizio alla trattazione di questo discorso in merito, la macro area presilana e il trittico di paesi noti per le saline.

Prima di iniziare questo discorso è doveroso ringraziare: Adelina e Lucia da Terra di Sofia, Caterina e Carmela da Frascineto, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna da Lungro, Anna Rita da Falconara, che assieme a Paola di Firmo, hanno espresso in forma di genere femminili, i valori sostenuti nell’atto della vestizione e, di quanto qui esposto, perché rilevato nell’atto dalla vestizione perché atto di genere.

Va in oltre sottolineato che il numero delle figure, cui era stato posto il breve dialogo per l’analisi, doveva essere più consistente, per esprimere sensazioni e pareri direttamente da chi indossa e ripete quegli attimi di antica consuetudine con rispetto e senza travalicare il termine .

Tuttavia c’è stato un numero di addette/i, che ha ritenuto più idoneo seguire la “via fatua”, per la definizione della ricerca in forma sensoriale; per questo continuano a vivere, di sentito dire, in forma di favole o di quanto si presentano al cospetto pubblico con la storica vestizione, per caso, per moda o per apparire in forma folcloristica e offendere la morale femminile pubblicamente di questo storico, ricco e rigido protocollo di vestizione.

Questi ultimi, in specie, continuando imperterriti, ogni volta che indossano le vesti, a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreşë, entro i termini dettati da teoreti/e malevoli/e di comuni messaggi, e coloro che le espongono, invece di unire separano e offendono la memoria del popolo che si riconosce con rispetto nella Regione Storica Diffusa e Sostenuta, attraverso scenari privi di valori attinenti la storia delle consuetudine di promesse date in Arbëreşë.

Introduzione

Di sovente si racconta e s’illustrano i costumi arbëreşë, elencando le parti che lo compongono, secondo il mero apparire, attraverso enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato, consuetudinario e, non rispettando il il protocollo identitario generazionale secondo cui la madre parla, gesticola e veste la figli che ascolta, segue ogni cosa e apprende.

Il più delle volte infatti, la consegna non avviene direttamente come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna storica ereditaria, nell’esprimere pareri gratuiti di vestizione, coronando il tutto di errori a dir poco paradossali e, addirittura amalgamando arte sartoriale, con attività non proprio di radice di tessitura, non certo per l’onore o il rispetto del genere femminile che termina di apparire senza decoro dove si passeggia sulla retta via di scesa indecorosa.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola per il turista distratto della breve sosta, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale, per divagare con tesi di laurea o esperimenti editoriali, in cui docenti o esperti/e di, non appartenenti al protocollo di “madre che parla e figlia che ascolta”, quindi senza alcun titolo, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato come vessillo folcloristico il valore più solido e intimo del genere femminile degli Arbëreşë.

Questi inopportuni atteggiamenti di vestizione, producono un duplice danno: il primo proprio da quanti dovrebbe sostenere il prezioso modello, arbëreshë, purtroppo, certificando come istituti o plessi pur non avendo alcuna capacita culturale, titolo o conoscenza di radice, in questo campo, ma solo la notorietà del plesso dove non score certamente la consuetudine di radice Arbëreşë; il secondo ancor più pericoloso è che si lasciano in eredita alle nuove generazioni componimenti scrittografici, come vangelo originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza, il più delle volte espresso in parlato di lingua moderna Albanistica.

In tutto formano componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza del protocollo consuetudinario arbëreşë, oltremodo facendo grande sfoggio, nel citare il senso di appartenenza, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto in misura, di mezza festa o mezzo lutto o mezza sposa, compromettendo il valore depositandolo in forma liberamente pagana o volgare invece di depositarla nella culla della religione sostenuta, che a questo punto non è più tradizione.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante del significato della vestizione in giovane donna, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta; le cui vesti, pur se accumunate in presidi preposti da quando le istituzioni, ancora non in grado di fare editoria hanno ritenuto utile tutelare e promuovere, immaginando che esporle in forma di statici manichini queste vesti, serva a diffondere con coerenza antica i temi del disciplinare o della ricerca condivisa dalle nostre madri arbëreşë, le quali nel contempo si rivoltano in pena lì dove vivono il loro termine.

Tutto ciò ha condotto quanti si elevano ad emblemi esonerati dai cinque sensi, ad assumere per arroganza di passaggio generazionale, privi dei fondamenti di olfatto, tatto, visione, ascolto che non fa lungimiranza, di gusto e orecchio del governo Ghratvemëşianë .

  E Qui si ferma la prima parte

Bimbo Bimba2 Bimba3

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