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LE REGIONI STORICHE D’ITALIA (Il tema degli Arbëreşë)

Posted on 26 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno dei confini nazionali esistono territori dove, a seguito di vicende storiche, politiche, culturali e di credenza, si sono insediate comunità che conservano consuetudini parallele dell’italiano parlato.

Queste minoranze storiche, sono riconosciute e tutelate dall’Europa, lo Stato italiano e dalle Regioni, con specifiche leggi di salvaguardia.

L’indirizzo fondamentale che le direttive prefiggono, non è di “mero divieto alla non discriminazione”, bensì, al “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Infatti il principio su cui si basa l’insieme del parlato di ognuna di queste comunità, ha come elemento unitario l’idioma storico, che non deve essere intesa non come esclusiva “compilazione di parole di libero arbitrio” prive di una radice solida di fioritura.

Tuttavia sfugge il principio secondo cui, solo attraverso “i percorso che predilige la radice del corpo umano dei generi, e poi i germogli di ambiente naturale e la fioriture degli ambiti agrari e il costruito, quest’ultimo privo di ogni forma murazioni di confine o recinto” dei gruppi familiari tutti riuniti in forma diffusa, a quanti, oggi vivono i territori paralleli ritrovati lungo i tanti abbracci che caratterizzano la penisola Italiana.

Ragion per la quale, prediligere il parlato, senza avere nessuna attenzione del canto, la gigolatura alta, i costumi, la credenza con gli atti di devozione nel corso dei secoli, la sostenibilità agrarie a e processi di Iunctura familiare costruiti senza barriere, si finisce per chiudere ogni cosa all’interno di un recinto e lasciar gestire cose al fattore scelto dal padrone.

Ogni regione storica di minoranza in Italia, ha una sua identità, sostenuta nel corso dei secoli, per fini comuni, in tutto la perfetta integrazione.

Tutte queste dodici Minoranze sono esempi solidi del percorso sociale del mediterraneo e quanti sostengono che tutto si possa risolvere in favole e parlate altre; non si rende conto che viviamo in un’epoca in continuo progredire incerto, dove ricordarsi di queste minoranze perfettamente integrate, potrebbe indicare la via per una storia del presente e del futuro molto più serena.

Sminuire le minoranze storiche immaginandole come mille recinti di genere pronti a fare transumanza stagionale per poi tornare nel recinto per belate tutto l’inverno, non è eticamente, culturalmente e storicamente corretto.

Infatti il primo invito solido emanato delle istituzioni sosteneva il “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Tuttavia e a ben vedere dopo i primi secoli di permanenza le minoranze storiche hanno disposto e prodotto gli incentivi dell’integrazione con gli indigeni locali e, se qualche addetto, abbia potuto immaginare che fare scritti e romanza, per unire la minoranza, si potrebbe anche comprendere e capire per i mezzi e le epoche vissute, nel più profondo isolamento oltre a sfuggire alle pene del proprio dire.

Tuttavia esiste una figura alta, che già nel 1775, comparava il parlato Arbëreşë con le lingue indo europee, ancora oggi notoriamente ignorato, per l’incapacità di studio che distingue quanti non si confrontano, in eventi multidisciplinari o con gli Olivetani opportunamente formati o con altre discipline di coerenza storica.

Una delle cose più inopportune dietro cui si nascondono o si isolano gli inopportuni addetti, è la frase “da noi si dice così” in Arbëreşë “na thomj Këştù” un dire diffuso che rende la minoranza episodi isolati che la rendono al pari dei chicchi di grano sparsi nel cortile della casa dove un nobile napoletano raggiro il diavolo che ancora oggi non riesce raccogliere tutti i chicchi si grano, sparsi per vincere raggirare chi mirava al cuore della giovane sposa.

Se fino al 1977 ancora nessuno si era occupato del valore architettonico, urbanistico del Katundë Arbëreşë ed ella case vernacolari, più note come le culle del bisogno, dove accogliere e allevare identicamente il modello sociale che poi si espandeva fuori l’uscio di casa per diventare Gjitonia, o luogo dei cinque sensi, non si comprende dove si voglia arrivare oggi 2025.

Posso capire le forze culturali post medioevali, quelle rinascimentali e poi via via dicendo, ma oggi apparire con le stesse vesti del XVII secoli per apparire più preparati è il segno della deriva che invade e impolvera irreparabilmente i trascorsi degli Arbëreşë.

Questi atti che non sono pochi offendendo le vere figure di rilievo, che i hanno dato la vita alla “storia vera degli Arbëreşë” nonostante siano stati traditi dai propri fratelli e, per questo hanno finito per modificare il senso di termine dei propri cognomi Arbëreşë perché lagrimosi di vergogna.

A tal proposito è opportuno sopralineare che se oltre cento Paesi, Vichi, Terre, Frazioni, Contrade in tutto agglomerati di antica estrazione post medioevale che, hanno potuto essere sostenuti in forma di Katundë, una disposizione nuova di centro abitato aperta, impressa nell’amnio delle genti che vivevano le regioni del meridione Italiano, specie dopo il buio del medio evo a cui seguirono gli abbagli di lume che si riflettono ancora oggi.

Vera resta, il dato che ogni Katundë non è altro che il continuo di un antico centro abitato posto in luogo di agro collinare, e la di cui toponomastica racchiude il percorso di Chiesa, Case vecchie, Moticellje o Kalivë, poi luogo arrivo, di controllo o promontorio, disteso in fine in luogo di confronto e movimento,

Tutti gli oltre cento Katundë di espansione arbëreşë, riuniti diffusamente il 16 macro aree disposte in sette regioni del meridione italiano e se questo è una conferma come fanno alcuni istituti a dire e promuovere il diktat diversificato che incoscientemente fa: “da noi si dice così” in Arbëreşë “nà thòmj Këştù”, è proprio vero: Olivetani si nasce perché nessuno lo può diventare.

La minoranza storica appellata Arbëreşë si potrebbe raffigurare ad oggi, come la voce di un criaturo, che piange nella sua culla, desideroso degli abbracci della madre, per crescere, camminare, parlare e danzare, con il padre pronto ad indirizzarlo e, diventare un solido riferimento per tramandare il sapere e l’arte della memoria storica.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-05-26

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