Archive | maggio, 2025

C’ERANO UNA VOLTA ANCHE I PAESI ARBËREŞË (hishjn gnë gherë edè katùndètë arbëreşë)

C’ERANO UNA VOLTA ANCHE I PAESI ARBËREŞË (hishjn gnë gherë edè katùndètë arbëreşë)

Posted on 30 maggio 2025 by admin

Ascolto e parlatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il tema a titolo è un dato di fatto palesemente inconfutabile, da cui si coglie il valore odierno del focolare domestico, non più amministrato dalla saggezza materna, che disponeva legna e cenere con garbo e passione, per ottimizzare luce e calore, diversamente di fochisti inconsulti odierni, che non rispettano neanche la radice domestica, in essenza di Erica, dei cui rami e germogli igienizzavano casa e ambiente circostante.

Così accade anche per la vestizione dei generi, che non segue in alcun modo, manifestando l’itinerario di colori e rappresentanza all’interno della casa, a iniziare dalla culla e poi lungo la Gjitonia, sino alla chiesa.

Ed era in questo microcosmo, dove le cose di bimba, giovane, sposa, generavano la madre e la scuola, secondo un protocollo di vestizione e movenze, senza altri fini, come oggi si usa fare in musei e lungo le vie dove si portano i Santi, in processione, suggeriti da comuni viandanti distratti o, della breve sosta, che non sanno né parlare e né ascoltare storia in arbëreşë.

Questi sono i principi di parlato, ascolto e di movenze, a cui sono stati sottratti i valori della formazione ormai allo stremo e, da cui si evidenziano le note lagrimose.

Di queste va evidenziata  la perdita del ruolo storico, dalla parte bassa e di quella alta di ogni Katundë; la dismissione delle attività del centro antico con l’esigenza di allargare i vicoli di ogni rione per parcheggiare negli storici orti botanici; l’uso dei grani cellulari, che ha compromesso il valore dei cunei agrari; dismesso le fontane storiche; appiattiti i ruoli di credenza e di amministrazione; posto a termine il senato delle donne e, il parlamento degli uomini; le prospettive storiche sostenute dalle briciole di minoranza che rendono questi luoghi privi di ogni giustificato valore o forma unitaria, per essere riconosciuto come pane di tempo e lungo.

L’alimento fondamentale che con olio e vino, sfamava i bisogni del passato, senza che vi fosse bisogno del dualismo centrale delle insalatiere, che emanano essenze in grado di deteriorare il fondamentale alimento di coesione e credenza locale ormai compromesso.

Oggi rimane la memoria offuscata di queste storiche immagini, giacché i Katundë di minoranza arbëreşë, non avendo mai avuto il bisogno di scrivere o appuntare il valore di questi adempimenti sociali di memoria antica, vivevano di memoria e di storia condivisa.

Certamente associare immagini a sgrammaticati sostantivi, che non trovano agio nella pronunzia e nella movenza del corpo, il tutto associato a un alfabeto che non illumina la mente per associare immagini dall’alfabeto, come storicamente è accaduto alle civiltà secoli orsono.

Infatti chi non conosce la storia della scrittura o della memoria di scambio e formazione di segni, non può e non deve avvicinarsi a questa storica evoluzione, immaginando che fermare con scatti le immagini, possa illuminare gli arbëreşë, con quel lampo che acceca mente e occhio e non certo illumina le nuove generazioni, che incuriosite vanno verso il buio del varrone.

Tuttavia quanti siedono negli scanni di gestione civile e di credenza, non creano cose e momenti capaci o in grado di raccogliere e diffondere memoria, ma momenti di breve sosta per i viandanti a cui non serve essere illuminati o formati, come avviene con le generazioni di leva odierna, secondo atti di frenetico affanno, perché orfani del senato delle donne che sono più volte madri, come era uso fare un tempo.

Questi due momenti di tempo lento dei Katundë e la frenesia del moderno agire, ha generato un polverone che invade tutti i piccoli centri antichi arbëreşë, delle colline del meridione, facendo così scomparire per inadeguatezza delle nuove generazioni, il modello della stagione lunga e quello della stagione breve, appiattendo ogni cosa con le più moderne quattro stagioni.

Titoli accademici di comuni istituzioni o inadeguati percorsi di formazione di breve durata, assegnano titoli averne senza un protocollo di frequenza o confronto con la realtà delle cose, come era uso fare nell’antico protocollo gestito dal senato delle donne e, poi affinato e accompagnati del costruito degli uomini, in tutto un traguardo ambito e imitato ad oggi, senza avere misura di questo storico protocollo fatto di tempo lungo e parlato.

A oggi si persegue il fine di fare “icone diffuse” in ogni varco di porta un tempo nobile o “grafitare” le storiche prospettiva dei vernacolari centri antichi.

A tal proposito va specificato che questo genere di opere è fornito e accolto, di quanti non trovano agio nei propri ambiti o chi dice di essersi formato fuori e fa restanza, la stessa che serve solo ad affollare inutilmente gli scanni di un ideale che non si conosce come: “kushëtë i Katundë”, dove si riferisce e si immaginano cose lljtirë; che tradotto in Italiano corrente rappresenta la lettera scarlatta (per chi professa la credenza imperiale d’occidente).

A oggi sostenere che le genti arbëreşë, che approdarono nel meridione fossero i discendenti delle armate di Brancaleone, rileva la misura della poca attenzione che alcuni istituti hanno formato gli addetti che dovrebbero o avrebbero dovuto fare resilienza e formazione per le nuove generazioni

A tal proposito è il caso di precisare che gli arbëreşë, a differenza della moltitudine delle genti che qui venivano per trovare agio, rappresentano l’unico esempio di integrazione mediterranea e, valore riconosciuto sin anche dagli indigeni più elevati,

Questo dà la misura, del valore riconosciuto dalla storia agli arbëreşë e, in ogni secolo a venire dalla nascita di Gesù che sono un popolo dalle mille attitudini di operosità senza rivali, specie nel rispettare la natura e il valore mai violato per la memoria e la storia dei luoghi da essi bonificati perché abbandonati.

Al giorno d’oggi i cultori locali, la cui formazione llitirë, è allevata nei dipartimenti più estremi, per poi subito tornare e fare restanza di labile statica, credendo di conoscere gli “ingredienti” storici senza alcuna conferma se non i derivati dell’Albanistica moderna, e di tutte le sue varianti scrittografiche, inopportunamente inserite nel protocollo storico, di resilienza arbëreşë, lo stesso che intanto producendo un paragone al pari di chi vorrebbe: il Latino come una lingua che nasce e si sviluppa grazie al Moderno Italiano.

L’insieme di quanto sino a qui citato, per grandi line, genera Katundë spogli di ogni dimensione architettonica e urbanistica, come era stato un tempo progettato, sostenuto e suggerito, dal Senato delle donne e terminato dagi anni novanta dalle direttive passate al viandante llitirë che non è cresciuto frequentando le storiche scuole intrise di sensi e passioni che erano riverberate all’interno del modello sociale denominato Gjitonia.

Una memoria resta e segna la storia di ogni Katundë, ovvero, con la dismissione del Senato delle donne che generava Gjitonia e, le libere intuizioni locali senza alcuna radice di genio Arbëreşë sono, la deriva che oggi produce e genera la penosa ascesa a impronta di quartiere metropolitano dismesso.

Resta una via da intraprendere, ovvero quella di dare spazio alle donne, di questi piccoli centri antichi collinari, un tempo definiti Katundë Arbëreşë, secondo un nuovo modello di gestione assegnando funzione fondamentale a donne il ruolo che un tempo era delle madri e nonne sagge, ricreando l’ambiente divulgativo, privo dei minimali protocolli di consuetudini che pochi ricordano o conoscono, ma che tutta la popolazione senza esclusione di alcun genere sogna ancora uno che lei sappia per ritrovare per viverli.

Katundë è un luogo antico che segna la vita dell’uomo da millenni, e qui depositarono i lasciti dei principi di un confronto solidale e movimento fraterno, perché ogni dinastia era unita dalle cose che il tempo e la natura qui stendeva alla luce del sole, facilitando per rendeva possibile il vivere senza patire estremo.

Se noi contiamo gli anelli delle essenze arboree ancora floride in queste riserve naturali, avremo conferma dei millenni trascorsi in solenne equilibrio dall’uomo.

Se questi concetti non sono diffusamente noti trovando velate le ere trascorse, serve conosce chi ha sottratto con metodo questi circolari segni della storia dell’uomo, che garantiscono il corso della storia.

Va in oltre ribadito un dato fondamentale che poi ha determinato il deteriorarsi del valore Katundë, in quanto sino a quanto si tratta di disquisire liberamente dei concetti che sono la radice di questi centri antichi, tutti fan gande uso di valori che indicano chi e restanza perché torna.

Tuttavia poi quando si tratta di fare sul serio e, magari presentarsi davanti a giudici, che devono per legge esprimere un giudizio sulla base di fondamenti storici solidamente dimostrati e, non certo effimeri o ideali su basi di restanza, a presentarsi con fierezza davanti ai magistrati e avere ragione, si distingue solo chi si è formato nei federiciani fondaci Olivetani, continuando a ottimizzare la crescita della pianta del prezioso frutto.

In ragione di tutto ciò si ritiene che ormai i tempi siano idonei a diffondere i principi fondamentali per la minoranza che sostiene i propri valori all’interno dei centri antichi attraversi ideali di iunctura familiare trapassati con il parlato e ascolto.

Tutti questi sostenuti dalla radice del parlato che non è odierno dire Albanistico, in tutto il frutto ancora acerbo, che nessuno riesce a digerire.

Giacché la radice linguistica, inizia dalla individuazione del corpo umano e animale, in fraterna convivenza con l’ambiente natura e quello stella e oltre sino al divino.

Tutto il resto e dogana irregolare passate senza pagare dazio culturale e, poi accreditato agli Arbëreşë; questo un principio che i due grandi fratelli che studiavano il parlato in Europa per unire popoli che si dovevano confrontare con un solo e indivisibile parlato: il cui protocollo, non è da accantonare mai, perché altrimenti si spezza il legame che corre tra mente e bocca, ovvero l’immagine visiva, con le vocali irrequiete del parlato Arbëreşë.

 

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                 Napoli 2025-25-29

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LE REGIONI STORICHE D’ITALIA (Il tema degli Arbëreşë)

LE REGIONI STORICHE D’ITALIA (Il tema degli Arbëreşë)

Posted on 26 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno dei confini nazionali esistono territori dove, a seguito di vicende storiche, politiche, culturali e di credenza, si sono insediate comunità che conservano consuetudini parallele dell’italiano parlato.

Queste minoranze storiche, sono riconosciute e tutelate dall’Europa, lo Stato italiano e dalle Regioni, con specifiche leggi di salvaguardia.

L’indirizzo fondamentale che le direttive prefiggono, non è di “mero divieto alla non discriminazione”, bensì, al “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Infatti il principio su cui si basa l’insieme del parlato di ognuna di queste comunità, ha come elemento unitario l’idioma storico, che non deve essere intesa non come esclusiva “compilazione di parole di libero arbitrio” prive di una radice solida di fioritura.

Tuttavia sfugge il principio secondo cui, solo attraverso “i percorso che predilige la radice del corpo umano dei generi, e poi i germogli di ambiente naturale e la fioriture degli ambiti agrari e il costruito, quest’ultimo privo di ogni forma murazioni di confine o recinto” dei gruppi familiari tutti riuniti in forma diffusa, a quanti, oggi vivono i territori paralleli ritrovati lungo i tanti abbracci che caratterizzano la penisola Italiana.

Ragion per la quale, prediligere il parlato, senza avere nessuna attenzione del canto, la gigolatura alta, i costumi, la credenza con gli atti di devozione nel corso dei secoli, la sostenibilità agrarie a e processi di Iunctura familiare costruiti senza barriere, si finisce per chiudere ogni cosa all’interno di un recinto e lasciar gestire cose al fattore scelto dal padrone.

Ogni regione storica di minoranza in Italia, ha una sua identità, sostenuta nel corso dei secoli, per fini comuni, in tutto la perfetta integrazione.

Tutte queste dodici Minoranze sono esempi solidi del percorso sociale del mediterraneo e quanti sostengono che tutto si possa risolvere in favole e parlate altre; non si rende conto che viviamo in un’epoca in continuo progredire incerto, dove ricordarsi di queste minoranze perfettamente integrate, potrebbe indicare la via per una storia del presente e del futuro molto più serena.

Sminuire le minoranze storiche immaginandole come mille recinti di genere pronti a fare transumanza stagionale per poi tornare nel recinto per belate tutto l’inverno, non è eticamente, culturalmente e storicamente corretto.

Infatti il primo invito solido emanato delle istituzioni sosteneva il “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

Tuttavia e a ben vedere dopo i primi secoli di permanenza le minoranze storiche hanno disposto e prodotto gli incentivi dell’integrazione con gli indigeni locali e, se qualche addetto, abbia potuto immaginare che fare scritti e romanza, per unire la minoranza, si potrebbe anche comprendere e capire per i mezzi e le epoche vissute, nel più profondo isolamento oltre a sfuggire alle pene del proprio dire.

Tuttavia esiste una figura alta, che già nel 1775, comparava il parlato Arbëreşë con le lingue indo europee, ancora oggi notoriamente ignorato, per l’incapacità di studio che distingue quanti non si confrontano, in eventi multidisciplinari o con gli Olivetani opportunamente formati o con altre discipline di coerenza storica.

Una delle cose più inopportune dietro cui si nascondono o si isolano gli inopportuni addetti, è la frase “da noi si dice così” in Arbëreşë “na thomj Këştù” un dire diffuso che rende la minoranza episodi isolati che la rendono al pari dei chicchi di grano sparsi nel cortile della casa dove un nobile napoletano raggiro il diavolo che ancora oggi non riesce raccogliere tutti i chicchi si grano, sparsi per vincere raggirare chi mirava al cuore della giovane sposa.

Se fino al 1977 ancora nessuno si era occupato del valore architettonico, urbanistico del Katundë Arbëreşë ed ella case vernacolari, più note come le culle del bisogno, dove accogliere e allevare identicamente il modello sociale che poi si espandeva fuori l’uscio di casa per diventare Gjitonia, o luogo dei cinque sensi, non si comprende dove si voglia arrivare oggi 2025.

Posso capire le forze culturali post medioevali, quelle rinascimentali e poi via via dicendo, ma oggi apparire con le stesse vesti del XVII secoli per apparire più preparati è il segno della deriva che invade e impolvera irreparabilmente i trascorsi degli Arbëreşë.

Questi atti che non sono pochi offendendo le vere figure di rilievo, che i hanno dato la vita alla “storia vera degli Arbëreşë” nonostante siano stati traditi dai propri fratelli e, per questo hanno finito per modificare il senso di termine dei propri cognomi Arbëreşë perché lagrimosi di vergogna.

A tal proposito è opportuno sopralineare che se oltre cento Paesi, Vichi, Terre, Frazioni, Contrade in tutto agglomerati di antica estrazione post medioevale che, hanno potuto essere sostenuti in forma di Katundë, una disposizione nuova di centro abitato aperta, impressa nell’amnio delle genti che vivevano le regioni del meridione Italiano, specie dopo il buio del medio evo a cui seguirono gli abbagli di lume che si riflettono ancora oggi.

Vera resta, il dato che ogni Katundë non è altro che il continuo di un antico centro abitato posto in luogo di agro collinare, e la di cui toponomastica racchiude il percorso di Chiesa, Case vecchie, Moticellje o Kalivë, poi luogo arrivo, di controllo o promontorio, disteso in fine in luogo di confronto e movimento,

Tutti gli oltre cento Katundë di espansione arbëreşë, riuniti diffusamente il 16 macro aree disposte in sette regioni del meridione italiano e se questo è una conferma come fanno alcuni istituti a dire e promuovere il diktat diversificato che incoscientemente fa: “da noi si dice così” in Arbëreşë “nà thòmj Këştù”, è proprio vero: Olivetani si nasce perché nessuno lo può diventare.

La minoranza storica appellata Arbëreşë si potrebbe raffigurare ad oggi, come la voce di un criaturo, che piange nella sua culla, desideroso degli abbracci della madre, per crescere, camminare, parlare e danzare, con il padre pronto ad indirizzarlo e, diventare un solido riferimento per tramandare il sapere e l’arte della memoria storica.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-05-26

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IL VAGARE DI ULISSE “IL FIERO” DI MENOMARE IN OGNI DOVE I PARLANTI ARBËREŞË (Mosëgnerju Arbëreşë)

IL VAGARE DI ULISSE “IL FIERO” DI MENOMARE IN OGNI DOVE I PARLANTI ARBËREŞË (Mosëgnerju Arbëreşë)

Posted on 25 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Polifemo e la sua odissea per la lingua e la sua visione in arbëreşë: Ulisse e i suoi uomini approdano sull’isola dei Ciclopi e trovano la grotta di Polifemo, ma il Ciclope li rinchiude nella grotta e comincia a mangiare due dementi al giorno.

Allora il mugnaio Ulisse offre a Polifemo del vino, molto forte che aveva portato con sé e, il Ciclope Arbëreşë, non abituato al vino del mugnaio matto, si ubriaca rapidamente.

E quando Polifemo gli chiede il nome, il mugnaio Ulisse risponde: “Nessuno” (in greco, “Οὖτις”, “Outis” in Arbëreşë, “Mosëgnerji”) un dettaglio cruciale per tutti i parlanti che mirano al futuro.

Purtroppo questi ultimi sereni nella propria solidità culturale per trovare consuetudine e parola, oggi sono noti come i ciclopi dormienti e fieri del parlato arbëreşë, ma il mugnaio Ulisse e i suoi uomini prediletti, mentre le donne tessono “seteria falsa di costume”, prendono un grande palo di legno, presentandolo per matita e lo appuntiscono, lo rendono incandescente nel fuoco, credendo sia inchiostro rosso, e lo conficcano nell’ugola del ciclope, Albanizzandolo lui e tutti i suoi sottoposti.

La beffa di questo atto, si concretizza nel dato che l’Arbëreşë Polifemo vorrebbe urlare di dolore, ma tutto rimane imprigionato nei suoi lucidi sensi, mentre gli altri Ciclopi, “Nessuno lo aiuta”, credendo che vada tutto bene, mentre la lingua afflitta con mira di consuetudine antica, resa deforme, più non si muove.

La breve metafora Arbëreşë, vuole evidenziare il male assuolato, di quanti approdarono nella baia dei ciclopi Olivetani, per zittire il più forte di questi, che nonostante la sua menomazione, non si cibarsi di farina fatua, la stessa che con il vento che soffia da oriente, vela e inquinato tutta la Regione Storica, che viveva e vive della sana crusca di grano antico che resta ignota al Mugnaio Ulisse.

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L’ARCHITETTO ARBËREŞË SCAMBIATO PER UN PAPPAGALLO MUTO (Iatroj e shëpivet i mòtitë hështë i ruitur si gnë tathëghjellj pà ghjughë)

L’ARCHITETTO ARBËREŞË SCAMBIATO PER UN PAPPAGALLO MUTO (Iatroj e shëpivet i mòtitë hështë i ruitur si gnë tathëghjellj pà ghjughë)

Posted on 21 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il “pappagallo muto” (tathëghjellj pà ghjùghë) è un’espressione o immagine simbolica in grado di assume molteplici significati in ambiti o contesti in cui viene impedito di parlare a quanti potrebbero aprire nuovi stati di fatto.

Vero è il dato che il pappagallo è animale noto per la sua capacità di imitare la voce umana o simbolo del ripete senza cognizione cose, senza ragione se non per imitare il ripetere il perlato insistente del suo padrone.

Un pappagallo muto, sulla base di ciò, rappresenta un paradosso, un’immagine in contrasto con l’essenza stessa dell’animale e, il silenzio imposto o ereditato dalla natura, imiterebbe, una figura simbolica per quanti, pur avendo qualcosa da dire, non riesce o non possono esprimersi nel parlare, perché ritenuto dal padrone inadatto o impresentabile.

In senso più profondo, rappresenta la perdita di identità e l’essere noto, per una disciplina giusta privandolo della giusta scena proprio come accadrebbe per il pappagallo senza parola, che il padrone lo minaccia di chiuderlo nel buio dello scantinato.

Nei contesti artistici, storici o politici, un pappagallo muto può rappresentare chi è ridotto al silenzio da un’autorità che si mostra e apparisce ingenua e, priva di contenuti solidi e indivisibili.

Poi se questo è legato solo a concetti ripetitivi di una stagione lunga carica di frasi che il pappagallo apprende dal suo padrone.

Il pennuto muto è una figura simbolica che raffigura il silenzio innaturale e, la perdita della voce, rappresenta la metafora sociale del ripete meccanicamente ciò che sente, ed è stato ridotto all’impotenza.

Il caso studio del pappagallo muto degli Arbëreşë, tradizionalmente di contesto orale, rappresenta l’interruzione della metafora di tramandare in ambito familiare il protocollo del bisogno primo.

Molti linguisti Studiano e documentano questo modo di discendere, ma di sovente con strumenti tecnici interno del circoscritto mono disciplinare, senza allargare il confronto con storia, antropologia, pedagogia, sociologia, o promuovere un vitale protocollo per la società contemporanea (scuole, midia, politica e confronto), limitandosi ad archiviarla e vocalizzarla con adempimenti che danno ragione al Baffi quando versò calamaio e pennino contro il suo maestro senza formazione alloglotta.

Il pappagallo muto, allora, rappresenta chi parla, ma non nella lingua che dovrebbe studiare e, non la usa per creare cultura viva e diffusa.

Chi conserva ma non trasmette, documenta, cataloga, ma non partecipa attivamente alla rigenerazione sociale e culturale, diventando isola di vita reale, limitandosi a fare analisi morfologiche e fonologiche, ma non affronta il problema della scomparsa del parlato all’interno di una famiglia, in evoluzione.

Usare la metafora del “pappagallo muto” significa “analizzare un codice che non comunica, perché dimentica che le lingue vivono solo dentro i corpi, le storie, le relazioni comuni.”

Il pappagallo che parla a vuoto, ignora ogni cosa perché comunica cose senza alcun filo comune, diversamente dal “pappagallo muto” che rappresenta, quanti non parlano molto e ovunque, perché non hanno bisogno di ripetere cose, ma senza sostanza.

Il “muto” nel senso profondo, rappresenta un vuoto parlante, in contrapposizione a chi ripete, ma conosce, e non da giusto peso al sapere.

In tutto un doppio paradosso, in cui si evidenziano due modelli, in cui il pappagallo che parla molto, non conosce o ha misura di cosa parla e dice.

Il silenzioso diversamente rappresenta tutte quelle figure che tacciono perché conoscono molto e sanno che il potere del suo padrone lo potrebbe isolare e renderlo non più degno di essere esposto, metafora contraria dei ripetenti parlanti.

Il “pappagallo muto” ha per questo diversi significati, a seconda del contesto e, in generale, può riferirsi a individui silenzioso e riservati, ma colti e riflessivi.

In italiano, la locuzione “pappagallo muto” viene usata per descrivere una persona che non parla molto, taciturna, la stessa che generalmente preferisce osservare, ascoltare e tradurre l’ascolto in apprendimento, piuttosto che partecipare attivamente a una conversazione e deviarne il senso di tema o il significato. 

Un’espressione figurata in questo breve vuole riferire a cose che non si vogliono diventino note, perché potrebbero aprire nuovi stati di fatto, gli stessi che non sono contemplati dai principi o antagonisti senza titolo specifico, giacché, “fattori” che si presentano nelle fiere mercatali, come proprietari terrieri, esaltando principi di legalità assoluta anche se in vere, in quanto nulla gli appartiene, a mo’ di oggetto, animale o ideale. 

In molti contesti, “il pappagallo muto” rappresenta, in senso figurato, una figura alta e, gratuitamente spogliata di ogni significativo valore storico culturale, alla pari di un oggetto che non può essere utilizzato, perché reso inoperativo nei palcoscenici della ignobile platea, formatasi tra il lavinaio del Surdo e del Settimo Rendano. 

Certo che dopo decenni di studio e impegno multidisciplinare, finire per essere scambiato come facevano gli acerbi professore in prima elementare che per l’inadeguatezza professionale, perché non a regime la legge per gli alloglotti e, questi non erano in grado di comprendere, se un allievo di prima elementare era muto o non sapeva solo esprimere parole in italiano.

Ma più grave è chi oggi ritiene quella figura altamente formata e colma di valori Olivetari, deve tacere e fare il “pappagallo muto” sin anche nella definizione delle alte eccellenze vissute a Napoli.

Le storiche figure che hanno reso nota la Regione storica degli arbëreşë dal 1775 al 1865 lasciando tutti basiti e senza speranza, perché in attesa che gli inadeguati pappagalli che vagano per archivi e biblioteche allietino i viandanti della breve sosta partenopea.

Terminando con lo svilire il valore storico di oltre cento paesi di minoranza in sette regioni del meridione Italiano, una storia infinita che si rigenera e si sostiene grazie ai tanti pappagalli parlanti.

Gli stessi sostenuti e alimentati dal ciborio orientale, che non smette ancora di riverberare pene di storia, cultura e credenza secondo i ritmi e le vestizioni dei “pappagalli parlati”.

 Sono questi ultimi i preferiti e nessuna figura di genere, si rende conto di quanta pena incutono, in ogni manifestazione dove appaiono, sin anche per associare eventi anomali a lunghi storici ancora resilienti lungo le vie del centro antico dove appariscono gli ’Ouroboros: i serpenti o draghi che si mordono la coda, formando un incatenato cerchio, associato alla dea Igea che si ciba del sangue del rettile superiore.

Una delle espressioni più pregnanti e che rappresenta il processo alchemico senza fine di questo luogo ameno, si palesa nella inconsapevolezza degli astanti che approvano con incoscienza del valore in disunione che si sparge, per opera di quanti dovrebbero amministrare unione solidale, in questo storico luogo di transito in preghiera.

Ma la cosa più penosa è l’averla apposta proprio in quel quadrivio o croce rovesciata, dove era lo sversamento del malefico già indirizzato, al prescelto odei prescelti.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                 Napoli 2025-05-21

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L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA' VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN  VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

L’AVVELENATA A CUI SEGUIRA’ VERSIONE IN ANGLOFONO E ALBANSTICA IN VOSTRA FORZA (gnë kalljmère përhë lljndrunatë tona)

Posted on 19 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, avrei tratto conclusioni
Credete che per quattro soldi, questa la gloria da gnomi, avrei studiato gli uomini buoni
Va beh, lo ammetto mi son sbagliato, accetto il “crucifige” e così sia
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato per fare architettura

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante
Mia madre non aveva poi sbagliato a dire che: “Un Olivetaro conta più d’un AlbanErrante”
Giovane e ingenuo ho avuto testa, per i libri o il non provincialismo, e non vissuto di vilismo
E tracce di muli e accuse d’arrivisti, i dubbi di qualunquismo, son quello che resta ai peccatori austeri 

Voi critici, voi illusionisti manieri, sonatori severi, alamici infierì, chiedo scusa a vossìa
Però non ho mai detto che con le canzoni si fan rivoluzioni, si possa far ricerca, storia e poesia
Io canto quando posso, perché son intonato, quando ne ho voglia e senza attendere applausi o fischi
Vendere fra i miei rischi e vi illuminerete del mio passato, mentre continuate a insultarvi addosso

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star qua a studiare
Godo molto di più nel confrontarmi oppure a maturarvi o, al limite, a illuminare il buio dei vasari
Se son d’ umore nero allora scrivo, frugando dentro alle vostre dure miserie
Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenere memoria compromessa dalla semina dell’Erborista

Io tutto, io niente, io napulitano, io cultore, io poeta, io mattone, io anarchico, fascista, comunista e sheshista
Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, arberë di mono vista
Io faccio, io perché canto so indagare, io falso, io vero, io genio, io cretino, senza eguali, ma fuori dalla vostra rissa
Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino e, tanta voglia di ricordare

Secondo voi, ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento o concetto di demenza
E ovvio, che il medico dica che “siete depressi” e, nemmeno dentro al cesso avete un vostro momento
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no un qualche metro per dare valore nel trapeso
Compagni il gioco si fa nero e tetro, comprate ogni titolo, qu a forcella lo vendono per poco

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un cinquantone
Voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo l’asinella ma anche il muscone
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso
Mi piace far canzoni e leggere il divino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto

 

https://www.youtube.com/watch?v=u9sHBNUK3iU

 

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“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

“IL FUOCO” DAVANTI LA CASA DEGLI ILLUSTRI PER FARE CENERE DEL PENSIERO INNOVATIVO (ziarri cëbën ghjë e kamënua satë harromj)

Posted on 12 maggio 2025 by admin

forcaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La “Primavera dei Popoli” è l’espressione coniata da Filippo De Boni nel 1848 con la quale voleva sottolineare l’ondata di rinnovamento che attraversò l’Europa.

Gli intervalli storici poi sono molteplici per i quali furono tracciati i momenti di tutta la storia europea, grazie ad un ampio movimento popolare verso i regimi assolutisti, a cui venivano chieste partecipazione politica, diritti civili e indipendenza nazionale.

La “Primavera dei Popoli” per questo rappresenta il rinnovamento politico e sociale, in tutto, una conquista sociale che si andava palesando quando iniziava la stagione lunga, “la Primavera” e le masse uscivano dall’isolamento dell’inverno, “la Stagione corta” rivendicando la fine delle cose assolute, con l’adozione di costituzioni liberali, migliori condizioni di vita e lavoro indipendente.

Anche se molte di queste rivolte sono state represse, esse contribuirono a diffondere l’idea di democrazia, ispirando movimenti per l’indipendenza e il Ricambio Politico Costituito.

In Italia, la Primavera dei Popoli si manifestò in diverse regioni, a Milano, le Cinque Giornate del 1848 furono un episodio emblematico di resistenza contro l’occupazione austriaca, anche in altre città italiane e, in epoche diverse vi furono movimenti o sollevazioni popolari, come a Venezia, dove fu proclamata la Repubblica di San Marco, a Palermo, dove ebbe inizio la Rivoluzione Siciliana, senza dimenticare Napoli. con le famose quattro giornate dal 27 al 30 settembre 1943.

Oltre al suo significato storico, “la Primavera dei Popoli” è diventata un simbolo di speranza e di lotta per la libertà e la giustizia sociale.

Il termine è stato successivamente coniato per descrivere altri movimenti popolari, come le rivolte del 1968 e la Primavera Araba, indicando un desiderio universale di cambiamento e di emancipazione.

Allo stato della memoria storica va ribadito che qualora si innestano le radici per un evento culturale come il Maggio dei Monumenti sceglie un tema simbolico come “il fuoco”, avendo a memoria solo l’elemento naturale, escludendo i significati che il fuoco ha avuto nella storia di Napoli e di tutti i popoli del globo in simboli, storici, culturali e artistici, distrutti o riverberati.

Il fuoco simbolo di energia, ispirazione e forza rappresenta l’anima che anima o incendia, distruggendo la cultura e l’arte, quando questa sfugge al controllo dei poteri piramidali che gestiscono il potere economico.

Napoli ha un legame profondo con il fuoco anche in senso mitologico pensiamo a Vulcano, alla leggenda di Partenope, al Vesuvio, che può essere rievocato in eventi e spettacoli, ma esiste anche una terza forma fatta di fumi cenere e pena.

Il fuoco è anche simbolo di luce, che illumina la città attraverso la cultura, l’arte e la memoria storica, tuttavia il fuoco come la luce crea prospettive di ombra, le stesse che rimangono spesso nel dimenticatoio.

Il Vesuvio, ad esempio, noto come identità napoletana o emblema potente del “fuoco” che ha segnato la storia, l’urbanistica e l’immaginario della città e, in alcune tradizioni religiose e popolari, il fuoco è purificazione e luce, e può essere celebrato in eventi legati alla fede o alle tradizioni popolari, anche se il Vesuvio, resta in attesa per essere illuminato dal sole e dalla luna.

Il Vesuvio tuttavia simboleggia la distruzione come in alcune epoche di Napoli numerosi scritti facevano fuoco e quindi il mezzo per eliminare le idee di quanti erano visti come dissidenti.

Questa pratica ha una forte valenza simbolica e pratica, infatti bruciare libri, lettere, manifesti o opere scritte serve a eliminare fisicamente le idee che mettono in discussione l’autorità o l’ideologia dominante.

La distruzione fisica degli scritti significa impedire la diffusione di opinioni contrarie al potere e, in regimi autoritari, questo è fondamentale per mantenere il controllo sulle masse.

Il rogo degli scritti rappresenta atto simbolico di repressione e, serve da monito agli altri e chi si oppone rischia non solo la censura, ma anche la persecuzione.

In tutto Bruciare ciò che è stato scritto consente a riscrivere la storia, cancellando testimonianze scomode e impedendo che future generazioni abbiano accesso a versioni alternative della realtà.

Come non ricordare il rogo dei libri nella Germania nazista (1933); o la distruzione di testi “eretici” durante l’Inquisizione; e come non citare i roghi di libri durante la Rivoluzione Culturale in Cina

 E non da meno, la fine del XVIII secolo, con particolare rilievo al contesto turbolento delle rivoluzioni europee come quella del 1799, dove la repressione delle idee attraverso la distruzione degli scritti e la punizione violenta degli autori o editori era una pratica fortemente adoperata.

Nel caso, ci si può riferire a diversi eventi rivoluzionari, ma due contesti emergono, con rilevanza ovvero, la Francia post-rivoluzionaria e colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799.

O Napoleone Bonaparte che prese il potere con un colpo di Stato, dopo anni di radicalizzazione rivoluzionaria e instabilità diffusa.

Durante e dopo la Rivoluzione francese (1789–1799), sia i monarchici sia i rivoluzionari più estremi usarono la censura violenta per zittire gli oppositori.

Stampatori, giornalisti e intellettuali furono spesso imprigionati, esiliati o giustiziati, e i loro scritti bruciati con il fuoco di falò allestiti li nei pressi e poi banditi gli addetti che erano passati alle forche.

In Italia, durante la breve esperienza della Repubblica Partenopea, nata a Napoli con l’appoggio francese, ma con mira cristiana, per questo do breve durata e quando ci fu la violenta reazione borbonica e dopo il riequilibrio della monarchia.

i controrivoluzionari giustiziarono molti repubblicani, tra cui intellettuali e editori, dando alle fiamme e distruggendo i loro scritti, al fine di estirpare ogni traccia del pensiero illuminista di credenza cristiana.

Il meccanismo era chiaro, prima si distruggeva l’idea, libri, giornali, volantini, poi il corpo che la diffondeva, quali gli editori, gli autori o liberi pensatori.

Questa doppia attività mirava a cancellare voce memoria con il dissenso e poi sin anche fisicamente il libero pensatore, sin anche nel 1921 e nel 1848 a Napoli, quando si verificarono episodi significativi di repressione politica e culturale, spesso accompagnati dalla distruzione degli scritti e la persecuzione degli intellettuali, in un clima di forte contrasto ideologico.

Nel 1848, durante i moti rivoluzionari che attraversarono tutta l’Europa e, menzionata come Primavera dei Popoli, anche a Napoli scoppiarono rivolte per ottenere una costituzione, libertà di stampa e riforme liberali dal re borbonico, ma dopo pochi mesi il re Ferdinando II, ritirò ogni cosa reprimendo duramente ogni forma di opposizione.

I giornali liberali furono chiusi, i loro archivi e tipografie saccheggiati e bruciati e, molti editori, scrittori e attivisti furono arrestati o costretti all’esilio.

In particolare, furono perseguiti coloro che avevano pubblicato manifesti o articoli a favore del costituzionalismo o dell’unità d’Italia.

Questo fu un chiaro esempio di controrivoluzione culturale, dove la distruzione degli scritti con il fuoco, fu parte integrante della repressione culturale, sociale e politica.

Certo che quanti hanno scelto il tema del fuoco per il “maggio dei monumenti”, esaltandone percorsi palazzi, case e chiese devono aver perso il senso dell’olio con cui si alimentava la lanterna del filosofo greco Diogene di Sinope, il quale con pena e non pochi sacrifici cercava il senso delle cose, nel tempo dell’antichità.

Non conoscere le vicende su citate in senso generale della storia di Napoli, si può anche accettare, ma che questo sia il frutto delle eccellenze istituzionali partenopee, non trova alcun lume culturale che vede svolgersi, senza soluzione di pena, negli ultimi anni.

Dopo terra, aria e acqua, il filo conduttore di quest’anno è il fuoco e, da qui il titolo, che evoca un’espressione di Matilde Serao: Napoli, cuore ardente, mente illuminata, e anche se la frase non centra nulla con il fuoco, infatti, il senso diventa ispirazione di un racconto collettivo che, attraversando la città in tutte le sue Municipalità, ne celebra le pene di fuoco che qui hanno avuto luogo e, la spinta che dovrebbe rigenerare è racchiusa nei fuochi che Il popolo partenopeo hanno visto cancellare il pensiero liberare dei giusti.

A tal proposito valga di esempio la persecuzione subita con veemenza dal trenta luglio del 1799 nei confronti del libero pensatore, Pasquale Baffi, un Arbëreşë di Terra di Sofia, il quale per essersi distinto nelle pieghe di quella rivoluzione, durata pochi mesi, più incisiva verso i suoi editi prima bruciati e dati alle fiamme davanti casa in via Sant’Agostino degli Scalzi e poi continuamente deturpandola sua memoria per mandato del suo perseguitore parentale, dal undici di novembre di quell’anno.

Infatti trovo fine in quel patibolo di piazza mercato, usato per mostrar come erano puniti i liberi pensatori, che terrorizzavano i regnati e per evitare che potesse trovare agio nell’aldilà venne sgozzato a mo’ di disprezzo.

Pasquale Baffi, un Arbëreşë nato in Terra di Sofia non fu il solo a subire questa sorte che i Borbone riservavano a quanti immaginavano nuove prospettive di parità sociale.

Altri subirono il fuoco delle proprie idee scritte, e tutta Napoli rese in cenere il meglio prodotto dai suoi figli migliori che per essere stati tali furono sacrificati.

Oggi quanti immaginano che un Arbëreşë come Pasquale Baffi, non abbia mai scritto nulla è quindi non è da considerare letterato, specie se sortisce da istituti o istituzione, commette un gravissimo errore, non di poco rispetto nei suoi confronti, ma alla storia e alla cultura in senso generale dell’Europa tutta, sminuendo sin anche il valore dell’istituto da cui proviene che in quel tempo era in fermento e cercava nuove opportunità sociali poi con tempo lungo poste in essere.

Oggi comunemente ricordano i più variegati cultori progettisti e divulgatori, ma pochi sanno dove e come collocare Pasquale Baffi; Luigi Giura e Vincenzo Torelli i rinnovatori di tutta l’Europa.

Ad oggi la nostra politica la nostra scienza e i nostri canali comunicativi, ignorano chi e cosa ricordare, per il nuovo che viviamo in ambito sociale economico e politico, innovazione tecnologica o avvicinamento di popoli e sistemi di comunicazione di massa, rispettivamente delle tre citate figure

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                                    NAPOLI 2025-05-12.

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GIORGIO CASTRIOTA DI GIOVNNI (6 Maggio 1405 – 17 Gennaio 1468)

GIORGIO CASTRIOTA DI GIOVNNI (6 Maggio 1405 – 17 Gennaio 1468)

Posted on 07 maggio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreşë e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.

Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.

La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.

Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.

Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.

Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.

La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano, a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.

Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, entrambi valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.

Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.

Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.

L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.

Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord, Giovanni Castriota uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia, Maria, e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.

Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariati e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.

Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.

Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.

Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare ad Alessandro Magno.

Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.

Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbëreşë, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.

Egli condisse a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.  

Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.

Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.

Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perché quest’ultimo pare fosse morto da qualche tempo; tuttavia gli inviati entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariati dei Castriota.

Nonostante l’atteggiamento denotasse lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Nostro di noi Arbëreşë a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.

Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che, misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.

Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.

Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la “Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica  dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.

I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbëreşë.

E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già comunemente denominato Scanderberg.

Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, così dicendo:

“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbër, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piuttosto mi volgerò a espor, quale sia stata la cagione delle nostre disavventure; acciocché di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.

Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandosi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.

Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’usurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopo di che fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).

E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ove trovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.

Imperciocché: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni degli Arbër restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.

O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.

Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbër, tutti gli Arbër volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura, ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’Arbër la perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi, e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocché si disponga alla necessità de’ rimedi.

L’unione è l’unica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.

L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un, si recente, e un si illustre esempio.

Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo, e insuperabile fiume.

Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.

Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia po alcuna travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.

Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.

 Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento, di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.

La battaglia di Morava (per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi una poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.

Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.

Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Aarbëreşë, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi. Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.

Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiore agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.

L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva la regione arbëreşë, infonda nei Principi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”

La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.

Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreşë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.

Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.

Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.

A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Aarbëreşë era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.

Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbëreşë, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Aarbëreşë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.

Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).

Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove fu accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero.

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Comneno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.

Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso in Palazzo Reale il 27 Agosto del 1469 si pagano un ducato e un tari per far trasportare la roba di Madama Donica, moglie, che fu di Scanderbeg, alle case di Pietro Cola d’Alessandro che qui dimora sino al 1477, per poi tornare a vivere all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le furono affidate finanche le discendenze reali e la giovane figlia di Vlad III affidatale sino a raggiungere l’età per maritarsi.

La vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.

Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.

Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreşë”.

Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comneno, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono a essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.

A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:

i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;

i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.

In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.

Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.

Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreşë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.

Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbëreşë, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreşë.

Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.

Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.

Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene  utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.

Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.

Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.

Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.

Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa,  il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.

Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.

Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.

Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani del XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.

Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di lì a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.

Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.

I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:

“la giornata del risveglio della fratellanza Arbëreşë”

Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).

Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbëreşë “le Vallje”.

 

** – Nel Volume II° della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani – quando tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellativo non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo popolo, voleva dire:  “comunemente Scanderberg.

 

PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG MUSSULMANO E POI GIORGIO STRATEGA DEGLI ARBËREŞË

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LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

LA MINORANZA ARBËREŞË “IL TARÌ MEDITERRANEO IN ETÀ MODERNA” (arbëreşë sj arètë)

Posted on 06 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le epoche sono numerose, in cui le citazioni pongono in evidenza i trascorsi della minoranza Arbëreşë, la stessa che per non soccombere delle angherie degli invasori, preferì emigrare dalle proprie terre per trovare agio e credenza ad ovest del mare Adriatico.

Essi seppero riconoscere gli ambiti naturali paralleli dell’originario ambiente culturale e religioso, segnando e valorizzando come si fa con l’oro, quelle le terre abbandonate del meridione della penisola italiana.

E in ogni luogo a loro, consentito di sbarcare, si disposero per cooperare in fraterno progredire, con le genti indigene, per la crescita di quelle terre ritrovate, diventate poi patrimonio dorato steso alla luce del sole e, per questo gli Arbëreşë nel mediterraneo sono stati ritenuti storicamente alla pari della moneta araba così tanto ambita.

Il “Tarì”, una moneta d’oro usata principalmente nell’Italia meridionale a partire dal X secolo, in Sicilia e successivamente espandendosi in tutto meridionale italiano, ebbe notorietà, come in seguito fu per gli Arbëreşë dal XIV secolo.

Il sostantivo (Tarī), dal greco “fresco”, “nuovo” riferisce di cosa innovativa, in tutto, un simbolo di alto valore per scambio economico, in fraterna e civile convivenza, il conio con incisioni sia arabe che latine, testimonia l’incontro tra culture in pacifica convivenza, considerato tra i più antichi del mediterraneo fatto di scambio e operosità.

Il parallelismo tra la Moneta dorata e le genti Arbëreşë, deve essere intesa come risorsa o genio capace di rigenerare e far risplendere l’economia di numerose macro aree dello storico regno di Napoli, oggi Italia meridionale, è più che legittimo, anzi doveroso rendere noto il parallelismo di convivenza.

Tuttavia senza amplificare epoche e tempi, vanno sicuramente ricordati gli intervalli in cui servirono ai romani per difendere terre, con gli indispensabili “Stradioti” o, per dare continuità alle arti della Venezia Operosa, cosi come in ambiti, Papali sino al Regno di Napoli, che ancora oggi trovano agio con questa realtà sempre pronta a dare valore.

In questa breve diplomatica, si vuole rilevare il valore aggiunto, che ne ebbe il meridione italiano, dal XIV secolo, quando per opera degli Arbëreşë, venne innalzata l’economia in diverse macro aree in pena o devastate dagli eventi naturali persistenti.

Sette regioni del meridione oggi dell’Italia, diffusamente articolate in ventuno macro aree, ripopolando oltre cento, abitati urbano ormai allo stremo abitativo e, nel breve di un decennio l’economia di quelle colline, non ha più avuto pena, per la solidità dei germogli innestati con caparbia professionalità Arbëreşë.

In oltre Arabi e Arbëreşë avevano simili intenti nel realizzare i nuclei abitativi, in forza dei modelli di Iunctura familiare, anche se con differenze culturali e storiche significative.

Infatti la difesa dei centri storici e il controllo del territorio, erano scelti secondo posizioni strategiche come colline, o alture, per fini difensivi, specialmente in contesti di instabilità o minaccia esterna, come all’epoca erano vissute le citate comunità in espansione.

A tal fine gli insediamenti dovevano risultare funzionali al paesaggio che offriva le più idonee risorse idriche, terreni fertili, esposizione solare, e adattabili al facile rilievo per fare strade strette e case compatte.

Tutto questo per favorivano la vita comunitaria e la conservazione delle tradizioni culturali e religiose di fondamentale caratura, per questi operosi e geniali popoli.

Gli Arabi, sviluppavo o meglio articolavano le loro città con elementi come il souk, il riad, giardini interni, e una forte influenza architettonica di radice islamica.

Gli Arbëreshë, si inserivano spesso in contesti già esistenti o ricostruivano villaggi spopolati, inserendo elementi propri della tradizione balcanica, ma con adattamenti alla cultura locale, e anche qui gli elementi caratteristici erano, le porte delle case lungo vicoli articolati, archi, orti botanici e vicoli ciechi.

Quattro quartieri eseguiti secondo un impianto a maglia irregolare, case addossate e vicoli labirintici, ma tutti riuniti a garanzia della convivenza fraterna di radice etnica o religiosa riecheggiante.

In sintesi, entrambi i gruppi hanno creato insediamenti adattati al territorio, compatti e con forte identità culturale, ma preoccupandosi sin anche delle proprie origini religiose, linguistiche e storico/consuetudinarie.

Entrambe le comunità hanno mostrato un uso intelligente e sostenibile dell’ambiente, gestione dell’acqua, innalzando il valore dell’agricoltura, i materiali locali, per un approccio funzionale, autosufficiente e del bisogno ecologico.

In sintesi, il vero legame tra arabi e arbëreshë, nella costruzione dei nuclei abitativi è l’intento di creare comunità resilienti, capaci di preservare sé stesse, attraverso l’uso strategico dello spazio urbano e l’ambiente naturali in funzione della coesione sociale.

Nasce spontanea la domanda di dove, in termini fisici e geografici, arabi e arbëreshë si siano incrociati per essere trasmessi, per essere ereditati nei loro insediamenti.

Gli Arabi, pur essendo stati scacciati perseguiti dai Normanni, hanno lasciato tracce architettoniche, urbanistiche e agricole molto visibili, il loro lavoro venne ripreso e reinterpretate da chi in queste terre ne trovo tracce indelebili.

Valgano i sistemi urbani con strade strette, tortuose, adatte alla difesa e al clima caldo, tecniche idrauliche e agricole, canali sotterranei per l’acqua, terrazze e agricoltura irrigua.

Sistemi che esulavano dagli antichi e ormai fuori tempo sistemi piramidali e circoscritti che facevano il borgo medioevale ormai in decadimento.

E sin anche gli stessi Normanni, pur se cristiani, adottarono molte tecniche arabe che potevano dare agio ad altre credenze di gestione dei territori.

Gli Arbëreshë non ereditarono strutture arabe direttamente, ma si insediarono spesso in centri già esistenti o abbandonati, ricordando e avendo misura di quelle aree toccate in passato dagli Arabi vedi le citta della Sicilia come Mazzara del vallo o la stessa città di Napoli tra la via Furcillense e il mare.

In oltre Arbëreşë e Arabi sono anche legati ai termini di “legge” o “regola”, che a sua volta derivato dal greco “kanón”, in tutto “regola” o “standard”.

E mentre gli Arabi si stanziarono in Sicilia nell’anno 827 d.C., iniziando una conquista che durò circa 75 anni e, fino alla completa presa dell’isola nel 902 d.C.

Il tutto ereditato dagli Aghlabidi, una dinastia musulmana con base nell’attuale Tunisia, da cui partirono per sbarcare nella dirimpettaia Mazara del Vallo.

Da cui iniziarono ad espandersi sino al 831 d.C. quando caduta Palermo, questa divenne la capitale dell’emirato arabo in Sicilia, quando nel 902 d.C. capitolava anche Taormina, l’ultimo baluardo bizantino di tutta la Sicilia ormai sotto il dominio e il controllo degli Arabi.

Ma dal 1040 sino al1091 d.C., i Normanni iniziano e completano la riconquista dell’isola, sin anche l’ultima roccaforte, Noto, che rimase fedele agli Arabi sino al 1091.

Tuttavia la dominazione segno profondamente la cultura siciliana, specie nei protocolli dell’Agricoltura, con l’introduzione di tecniche di irrigue pe mettere a dimora colture di agrumi, canna da zucchero, riso, cotone, in forte esenzione.

Tutte queste attività influirono sin anche sull’idioma degli isolani e, molte parole del parlare in dialetto locale derivano dall’arabo ad esempio il noto “zibbibbu” da zabīb, rispondente all’ uva passa.

Dalla Sicilia gli arabi non conquistarono altre parti del regno di Napoli, ma stabilirono contatti di scambio con Amalfi e Napoli stessa, anche se di sovente effettuarono spedizioni militari e razzie lungo le coste tirreniche di pertinenza.

Se nel IX secolo (anni 830–880), Amalfi era una potente repubblica marinara riuscendo spesso a difendersi e, siccome gli amalfitani erano abili commercianti, intrattennero rapporti con il mondo islamico, quindi non furono solo conflittuali ma forse molto di più costruttivi.

Nel 836 d.C., il ducato di Napoli con a capo Sergio I, chiamò in adunata i Saraceni contro i Longobardi di Benevento e gli Arabi furono invitati temporaneamente ad assumere il ruolo di alleati militari.

Anche se successivamente, iniziarono a saccheggiare le coste e diventarono una minaccia, di non poco conto, ma tuttavia non conquistarono mai Napoli, attaccando sistematicamente i dintorni come Pozzuoli, Ischia, Capua, ecc.

La presenza stabile araba in Italia continentale, fu breve e limitata a un piccolo emirato a Lucera in puglia con il fine di affacciarsi all’interno del mare ionio, avendo una base logistica nella zona di Tropea e Squillace, tuttavia, il dominio islamico durante il IX e il X secolo, nell’ambito delle loro incursioni e temporanee occupazioni nell’Italia meridionale. Tuttavia, non stabilirono un dominio stabile e duraturo come fecero in Sicilia, e le loro presenze in Calabria furono spesso legate a scorrerie militari, saccheggi e brevi occupazioni, anche se in alcune aree lasciarono tracce culturali e toponomastiche.

Valga in tal senso Amantea che fu una delle pochissime località calabresi a essere effettivamente occupate e governate dagli Arabi per un periodo più esteso, tra l’839 e l’889, diventando sin anche una roccaforte strategica sulla costa tirrenica.

Furono bersaglio di attacchi arabi Tropea e Nicotera dove ci furono occupazioni temporanee, ma non insediamenti duraturi o solidali dirsi voglia.

Tracce della presenza araba si trovano nelle Toponomastica di luoghi o nei dialetti locali e, in alcune zone si diffuse l’uso di nuove colture come agrumi e tecniche implementazione agricola.

Pur se la Calabria non fu mai completamente arabizzata, l’impatto culturale delle loro incursioni fu comunque percepibile in vari ambiti e, sebbene meno duratura rispetto ad altre aree del Sud Italia come la Sicilia, ha comunque lasciato tracce interessanti sia dal punto di vista culturale che linguistico.

Gli Arabi iniziarono a interessarsi alla Calabria a partire dal IX secolo durante le loro incursioni e conquiste nel Sud Italia.

Pur non riuscendo a stabilire un dominio stabile e duraturo sulla regione, controllarono temporaneamente alcune zone, specialmente nella Calabria meridionale (es. Amantea, Tropea, Gerace, Reggio Calabria).

A differenza della Sicilia, l’impatto architettonico arabo in Calabria è meno evidente e solo attenti osservatori opportunamente formati ne possono trarre o riferire questi lasciti.

Tuttavia, in alcune città si riscontrano tracce di modelli urbanistici simili a quelli arabi, come i quartieri con vicoli stretti e irregolari, chiamati talvolta Rabat; termine arabo per “fortezza” o “insediamento fortificato”.

In Agricoltura introdussero coltivazioni estensive di agrumi, canna da zucchero, cotone, sostenuti da sistemi di irrigazione sofisticati e complessi, le stesse innovazioni sopravvissute nei secoli, influenzando l’agricoltura calabrese.

Sono numerosi gli elementi della cucina calabrese, come l’uso di spezie come cannella e l’agrodolce, gli stessi che potrebbero avere origini arabe.

Cosi come alcuni dolci tradizionali (a base di mandorle, miele, sesamo, gli stessi che ricordano le tipiche ricette arabe.

Senza trascurare alcune parole del dialetto calabrese derivano dall’arabo, spesso tramite il siciliano come: Zibbibbu (uva passa) ← zabīb (uva secca); Giarra (anfora) ← jarra (vaso); Scirocco (vento) ← šarq (oriente); Zagara (fiore degli agrumi) ← zahr (fiore); Sheshiola (quartiere) ← (şèşj)

Per non tralasciare alcuni toponimi o cognomi che possono avere origini arabe o essere stati modificati nel tempo da forme di rotacismo locale.

L’influenza araba in Calabria, pur non essendo capillare o duratura come altrove, ha contribuito in maniera significativa ad alcuni aspetti della cultura materiale e della lingua. La sua impronta è più evidente in contesti agricoli, lessicali e gastronomici, mentre sul piano architettonico e amministrativo è più difficile da intercettare, specie se non si ha formazione Olivetara specifica.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                 Napoli 2025-05-06

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LA CASA DI NONNA FRANCESCA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

LA CASA DI NONNA FRANCESCA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 05 maggio 2025 by admin

photo_2025-05-03_18-30-15cNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèu cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e, quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immaginò che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza e ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande e, accoglie sposi;

Eseguiti per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, per chi cantare volando e dice:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                 Napoli 2024-05-04

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I GOVERNI DELLA REGIONE STORICA DEI KATUNDË DIFFUSI E SOSTENUTI IN ARBËREŞË (Gjitonia e Kushëtë i Arbëreşë)

I GOVERNI DELLA REGIONE STORICA DEI KATUNDË DIFFUSI E SOSTENUTI IN ARBËREŞË (Gjitonia e Kushëtë i Arbëreşë)

Posted on 04 maggio 2025 by admin

photo_2025-05-03_18-36-02gioventu italiana di azione cattolicaNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è un immaginario nella mente di ognuno di noi che se opportunamente sollecitate rievocano con saggezza i momenti della nostra storia meglio di ogni genere di trattato o immaginario comune e, qui in questo breve si vuole esporre il metodo più attendibile al fine di perseguire e illustrare le antiche consuetudini, ormai dismesse in tutti i centri di minoranza arbëreşë e dalla mente dei comini viandanti.

E sebbene istituti, istituzioni e organi preposti per la salvaguardia della storia, siccome poco attente alla conoscenza, anche se palesano forme di malia, tacciono, preferendo valori men­daci o, ingrate osservazioni di alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, trovano agio, sanità e quiete, tra le Gjitonie Arbëreşë.

In ragione di questo amenissimo clima proposto e largamente diffuso nei Katundë arbëreşë, secondo le diffuse e ornamentali regole maliziose, nate per conservare, ma non hanno capacita di rispondere ai temi delle cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità, oggi in travaglio.

Si sono preferiti e avvantaggiati, tutti quanti erano di piccola statura e, questi una volta tornati dalle cattedre dove avevano sognato di essere saliti, hanno scambiato il loro ruolo dei campanili inquadrandoli per minareti mussulmani. 

A rivendicare dunque il decoro della nostra ingiustamente malmenata regine storica,  si rende necessario un  sito come Scesci i Passionatit che in  forma di manuale, ne met­tesse con chiara  parsimonia la visione dello stato fisico e morale di ogni cosa e figura, in modo che anche uno svagato lettore che vo­glia solo deliziarsi di curiosità e avvenimenti, sia co­stretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi, nello stesso tempo quelle notizie che possano avere un posto sicuro, per acquisire tutte le comodità dilettevoli della storia e le cose Arbëreşë.

Per poter comprendere il significato storico di questi modelli, bisogna conoscerli per collocarli geograficamente nelle giuste nicchie mediterranee, poi lungo una direzione di due paralleli terrestri, seguendo il vivere comune più esteso e infine oggi negli ambiti abitativi considerati dormitorio che trovano lavoro a cielo aperto.

Quattro momenti identificabili in: Iunctura familiare, Gjitonia, Vicinato e Quartieri di periferia senza futuro, questi ultimi oggi definiti il lugo senza futuro della società moderna da relegare.

Parlare dei primi due momenti storici della società del mediterraneo quindi è fondamentale anche per capire i motivi della deriva culturale oggi in atto.

Gli argomenti che qui si mia a raffigurare e rievocare sono gli indimenticabili governi di generi Arbëreşë, articolati in senatrici e deputati a vita.

Ed entrambi svolgevano ruolo fondamentale nel garantire la continuità sociale ed economico esecutivo, con dovizia e operosità sostenibile dei generi che davano fioritura Nëdë Katundë.

Il modello di Deputate e Senatori partecipava in egual misura al processo di sostenibilità, per il buon fine, allevando e sostenendo e cogliere le cose miglior di ogni genere, secondo il bisogno di formazione e crescita sociale dei rioni tipici arbëreşë”.

Le Deputate assumevano il ruolo di allestire e preparare i generi in crescita e formazione primaria, gli stessi che poi avrebbero occupato ruoli fondamentali nell’operato locale del Senato locale, all’interno del centro antico e dell’agro di pertinenza comune (Thë Kushëtë).

Tutto questo era indispensabile per rinforzare la filiera produttiva, le attività di consumo e conservazione dei ricavati, garantendo il valore specifico di ogni genere, sostenendo la genuinità di cose, generi e necessità culturale, mantenendo sempre viva la radice per le nuove ere.

Questo sistema articolato, assicurava che gli atti di formazione rimanessero solidali e duraturi con la radice originaria, in correlazione con le consuetudini, trapiantate perché provenienti dalle colline ad est del mare adriatico.​

Tutto questo è stato reso possibile grazie al governo delle donne di ogni Katundë arbëreşë, disponendo scelte solide, attraverso atti di formazione rivolti a tutte le nuove generazioni, li nate cresciute e allevate, così rivestendo ruolo, dopo essere stati certificati anche da agli uomini, i delegati della verifica, che l’antico disciplinare era stato rispettato.​

Oltre alle funzioni di formazione e controllo, le donne nei loro ambiti di pertinenza (Gjitonia), rivestivano anche ruoli amministrativi, assegnando giudizio fondamentali primi, per il futuro dei generi, avviando e vigilando su quello che sarebbe stato il risultato di tutela.​

In sintesi, Deputate e Senatori rappresentavano due momenti fondamentali della formazione, che garantiva il buon esito del sistema sociale di ogni Sheshi o Sheshio e, attraverso questi traguardi, garantire, il rispetto del protocollo di eguaglianza senza prevaricazione alcuna di generi e cose, del popolo sovrano, secondo i principi consuetudinari paralleli e ambientali ritrovati.

Tuttavia, esistono alcune differenze sostanziali, che caratterizzano i Katundàrë arbëreşë, dove il governo delle donne, sa come innescare i cinque sensi o, tempo lento per acquisire sintonia con la storia che scorre, senza sfuggire ai tempi di precedenza.

Gjitonia diventa così, la culla dove si formano e si ripetono i lasciti di scolarizzazione primaria, ad opera delle madri tutte, che qui riunite e sempre presenti in solide attività, valorizzavano tutti i generi in crescita, senza preferenza alcuna, oltre nell’adoperarsi alla compilazione di prima spogliatura dei prodotti e tutto quello che serviva diventasse bagaglio di memoria sostenibile, per il tempo della stagione corta (l’inverno).

Gli spazi gestiti da questo gruppo al femminile coesi e rispettosi dei valori arbëreşë secondo il patto della promessa data (Besa).

Resero questi ambiti che nel corso dei secoli, attraverso il rivestire il ruolo circoscritti dalla Iunctura familiare, in tutto, la prima scuola di formazione per le nuove generazioni in crescita.

Famiglie che si riuniscono, si ritrovano attorno a un ideale fuoco solidare, come avviene in tutti i rioni che compongono il costruito del centro antico arbëreşë.

Riuniti tutti in porzioni ben definite e rigidamente connesse tra le rappresentanti femminili, le deputate di una porzione di abitato, lo stesso dove sistematicamente si compilano e si dispongono le necessità familiari di cooperazione, poi confermate dal governo degli uomini che ne trae beneficio e tranquillità.

All’interno dello spazio dove, la famiglia allargate senza confini, si articolava, erano allevati sostenuti e formati con dovizia di particolari, i generi in crescita, ed avere così, agio di esternare le capacità di genio o lavoro dirsi voglia, le stesse poi sottoposte all’attenzione del governo degli uomini, che esprimevano un parere complementare, perché quello fondamentale era stato già attestato nel tempo dello sviluppo.

Il teorema secondo cui “il governo delle donne arbëreşë cresceva, formava e indicava la via alle nuove generazioni” evoca un’immagine potente, perché istituito a sostenere la comunità.

Tutto questo instancabile operare, va interpretato come leadership culturale e sociale, che non è di mera radice politica, ma piuttosto del ruolo centrale delle donne, nella trasmissione dei valori, della lingua, delle tradizioni religiose, oltre al senso di valorizzare la comunità preparando figure più idonee e senza preferenza alcuna.

Le donne erano fonte di famiglia e, nella comunità, insegnavano non solo le competenze pratiche, ma anche la storia, la cultura e offrendo nel contempo, formazione specifica per gli adempimenti futuri.

In senso figurato, queste donne fungevano da guida morale e culturale, mantenendo viva la memoria e la continuità dell’identità attraverso le generazioni che doveva sapere cosa scegliere, per loro e la sostenibilità in evoluzione.

Riferire del “luogo dei cinque sensi” senza confini fisici, potremmo parlare di un concetto simbolico o esperienziale piuttosto che di un sito geografico reale.

Vero è che un luogo senza confini fisici dove i cinque sensi (vista, udito, tatto, olfatto, gusto) diventano strumenti di connessione in forma di esperienza meditativa o sensoriale profonda, in tutto spazi comunitari dove si condividono emozioni, storie, rituali, inseriti in un’ambiente in cui si abbattono barriere tra corpo e paesaggio.

Il tutto si concretizza con le pratiche della Gjitonia, dove il “luogo” non è fisico, ma fatto di relazioni, contatto, profumi, suoni e gesti quotidiani.

Nei fatti un “luogo” è relazionale, non delimitato da mura, perché i sensi sono veicolo di memoria collettiva e appartenenza culturale, che coinvolgono senza barriere spaziali, dove il corpo percepisce stimoli per il benessere psico-fisico, senza confini tra interno ed esterno.

Resta nota e si porta ancora memoria della leva di ferro, chiamata “saltarello” (Colòshjnì), posizionata in ogni porta, inserito nella parte interna in un apposito alloggiamento che, serrava la porta.

Una chiusura tradizionale caratterizzata da una leva di ferro di due semi archi, la quale quando ruotata, dopo ave chiamato e avuto consenso, dopo il battacchio, il meccanismo, sollevando la leva consentiva l’apertura della porta per entrare dall’esterno.

Questo sistema combinava la semplicità di una chiusura manuale con la possibilità di essere aperto dall’esterno, in modo sicuro e reso disponibile per tutti i componenti di Iunctura che vigilava nel corso della giornata.

È trascorso un tempo secondo cui Gjitoni era meglio del Parente, un teorema diffuso e a dir poco demenziale, infatti il i due sostantivi denotano entrambi un legame sociale e parentale, anche se il parente quando si reca in una casa è l’unico momento della storia di questo ambito dei cinque sensi, in cui le porte non si chiudono solo con il “saltarello” (Colòshjnì), ma di giorno e con la chiave, e le finestre si adombrano con gli scuri, perché quel governo delle donne viene  ispezionato da Presidente in persona (Tatë Madj) e le scelte di uno specifico nucleo familiare devono interessare la Famiglia Arbëreşë, quella fatta dal padre la madre i figli le mogli e prole.

Tutto il resto era fuori l’uscio di casa e l’intimo della decisione non doveva fare parte in alcun modo, dell’ambito sociale della Gjitonia, che per questo veniva esclusa delle scelte ristrette della famiglia parentale.

Molte porte avevano apposto un rettangolino con la raffigurazione vaticana raffigurante un braccio che benediva con la frase latina “In Hoc Signo Vinces” (“sotto questo segno vincerai”).

Questo dava la misura del valore di credenza cristiana, che avvolgeva tutti gli ambiti di Gjitonia, gli stessi che nei tempi di pentecoste allestivano altari a impronta di quelli delle chiese per dare senso di credenza a questi luoghi di sociale e buona convivenza.

Oggi dei protocolli che hanno reso possibile la sopravvivenza di questi centri antichi di Iunctura con le numerose Gjitonie locali, hanno smesso da diverso tempo di pulsare, cosi come le prospettive sono di giorno in giorno soffocate da adempimenti inconsapevoli, e colmi di valori in forma di violenza, sin anche quando si modificano. pavimentano o rifiniscono intonaci murari, intesi come tele pittoriche dove raffigurare cose qui mai avvenute o mai transitate.

A noi studiosi osservanti, cresciuti grazie alla formazione materne della Gjitonia, non resta che raccogliere le lacrime amare di questi ambiti, evitando che diventino paludi o trapesi.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-05-04

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