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KATUNDË PER CHI NASCE ASCOLTA CRESCE E PARLA ARBËREŞË

Posted on 25 luglio 2025 by admin

librandi Sica

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad iniziare dalla metà del secolo scorso e in tutto quello ad oggi trascorso, si snodano Katundë arbëreşë dove si usa disgregare in misura progressiva, il valore demografico, culturale oltre i valori paralleli innestati così come importati dalla terra di origine.

L’abbandono dei centri antichi in generale e le pertinenze storiche in particolare, estese sin anche all’agro ormai non più produttive, sono nelle disponibilità e in favore di politiche che non hanno alcun riguardo del patrimonio storico qui depositato.

Vera resta il dato che, gli addetti preposti, trovano più idonee erodere senza impegno o rispetto le storiche località, sulla scorta del dato che essendo scarsamente formati, violentano con arroganza e pressapochismo, lo svolgersi di questa pena ogni stagione e, qui in questo breve si vogliono evidenziare le ragioni riferire ai Katundë arbëreşë.

Il processo penoso fortemente sostenuto e in atto, mette a rischio non solo la sopravvivenza di intere comunità, ma anche la ricchezza dell’insieme culturale che, rappresentano nel cosmatesco mosaico di tradizioni e storia delle colline d’Italia.

In specie le minoranze storiche studiate e indagate in numerosissimi dipartimenti non per l’edilizia tradizionale del bisogno, non per le consuetudini storiche notoriamente mai trascritte, ma per fare esperimenti variopinti senza fonte specifica del pigmento.

Il tutto si concretizza nel dato che non si propone o si predispone alcuna formazione, in favore delle nuove generazioni prima che esse partano, per raggiungere le università più eccellenti d’Europa.

Questa mancanza si traduce nel dato che, una volta formati, non scelgono di tornare, né tantomeno sono mai invitati a partecipare, nonostante i titoli e curricula acquisiti, che potrebbero essere fondamentali per il futuro di questi luoghi di memoria .

Ne si organizzano dibattiti, confronti o seminari formativi, utili per i liberi pensatori restanti locali, che  si presentano sul palcoscenico come unica forza interpretativa e culturale per leggere e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale, qui ancora resiliente.

Il tutto si traduce in una diaspora che si rinnova ciclicamente in ogni stagione, impoverendo ulteriormente il tessuto sociale e culturale delle comunità, di ben oltre cento Katundë del meridionale e, questo dato è attribuibile solo agli arbëreşë.

Il protocollo di preparazione locale, connesso che le attività di formazione dipartimentale, potrebbero essere un laboratorio per architetti, antropologi, sociologi, psichiatri, legislatori, urbanisti titolati di storia, visti gli echi qui ancora abbarbicati, in precario riverbero.

Tuttavia si preferisce esaltare il genio degli ultimi o, chi non ha formazione curriculare, competenza e genio locale, esaltando pubblicamente e istituzionalmente l’incompetenza, che ignora il canto muto dei vicoli brevi, intrisi di contenuti in memoria antica.

E solo chi ha titoli e forza per conservare memoria o, vedere, ascoltare, luce di queste fiammelle ondeggianti lungo i cunicoli di vita sociale potrà avvertire quel vento soffice che li sfiora maternamente.

Gli stessi vicoli che se opportunamente osservati e ascoltati, potrebbero fornire spunto per temi di sviluppo, in forma di concorso per giovani titolati, al fine di far rivivere senza soluzione di continuità, quell’antico parlato di operosa arte del bisogno.

Il valore dell’architettura vernacolare ad oggi, è incastonato identicamente, in attesa di essere il punto di forza da cui trarre ispirazione, per annaffiare quella radice stesa al sole, che va dal centro antico, sino ai cunei dell’agro di confine.

Il tutto dovrebbe essere finalizzato a risvegliare il senso di appartenenza, lo stesso dove si nasce e si cresce in solidità familiare, che con caparbietà attende di essere rigenerato, perché identità di luogo, poco nota alle nuove generazioni, ai canali turistici e dei media, che vanno alla spasmodica ricerca delle origini dell’uomo.

Tuttavia questo non deve sfociare nel produrre enormi flussi di rifugiati culturali, affamati di notizie per fare tenerezza, moda per quanti qui approdano in cerca di un palco, non avendone avuto agio nei loro luoghi natii, deturpando la filiera storica di confronto in radice Greca, Bizantina, Longobarda, Cistercense, Arbëreşë, Francofona, Ispanica e molto altro ancora.

Naturalmente gli addetti preposti devono essere molto cauti e non terminare nella ‘turbinosa-manomissione edilizia’, ovvero un’architettura post-vernacolare, in cui si ignorano le tessiture della storia fatte da filamenti di politica, identità, cultura e territorio.

A tal fine è bene precisare che ‘turbinoso’ è di per sé un termine violento per definizione e, questo crea situazioni che non implica una qualità che garantisce tutela, ma potrebbe devastante ciò che esiste già in dormienza secolare.

Se poi il protocollo si applica anche ‘in forma turbinosa all’architettura’ ogni cosa si piega, si torce, si vela e si denuda, disgregando ogni possibile espressione del costruito legato al tempo, perdendo la diritta via che unisce ogni forma indispensabile.

Lo sviluppo dell’architettura dei Katundë, deve essere intesa come un’esperienza virtuosa o a dir poco originale, specie quando si cerca con pennelli inopportuni ‘cromatismi’ di vestire in costume inopportuno luoghi e cose del passato, sin anche dove sono riconosciuti ruoli di memoria storica immateriale, la stessa che purtroppo rimane poco noto a quanti trovano palco per apparire.

Dopo il caos edilizio, dovuto alle risorse qui riversate dagli emigranti, e del bum economico, ha avuto inizio un processo di regolazione urbanistica voluta dal bisogno di imitare tutti le metropoli.

Da allora in questi ambiti vennero riversati e realizzare spazi, per aprire nuove vie veicolari, compromettendo, sin anche i toni di luce genuina smarriti.

Tuttavia anche se il passato poteva sembrare o apparire dittatoriale o intoccabile, esso si riflette nel dato che si voleva mutare le cose, ma quella che ancora prevale è la povertà culturale da palcoscenico, perché si continua ad essere incapaci di valorizzare alcun che, del patrimonio cittadino e, sin anche quello che fa parte dello storico confronto tra generi e natura.

Dalle pietre delle murature, ai selciati, sono tutti sottoposti a cementificazione terminando con l’avere, strade ed edifici trasformati a misura di una passeggiata multicolore, per soddisfare una richiesta assurda e inventata senza alcuna ragione storica.

Ridisegnando così una sorta di nuovo centro antico, camuffando e dando pena alle forme che in questi vicoli hanno riverberato storia e ascolto.

Vale lo stesso principio per la memoria della toponomastica storica, uno degli strumenti fondamentali per la conservazione dell’identità linguistica di uno specifico punto in ogni Katundë.

E quando questa viene trascurata o sostituita da nomi moderni, generici o “italianizzati”, si compromette un patrimonio immateriale che raccontava pene e ricorda momenti, cose, figure e famiglie di una migrazione storica per il bisogno di tutelare la propria identita.

In assenza di un riconoscimento toponomastico ufficiale, già ad oggi compromessi dal rotacismo linguistico, rimane solo la memoria di singoli o prescelti.

Ad oggi, non resta che ridare spazio e scena agli specifici tratti di storia, gli stessi che giorno dopo giorno diventano più difficili da interpretare, tutelare e promuovere in azioni di salvaguardia coerente.

Il rischio è la graduale scomparsa delle tracce visibili e non, della presenza arbëreşë, rendendo più vulnerabili le tradizioni linguistiche, di credenza e architettura che hanno caratterizzato questi luoghi.

Un’efficace politica di tutela dovrebbe, quindi includere il recupero e la valorizzazione della toponomastica storica, come segno tangibile di continuità identitaria e come strumento di riconoscimento giuridico e culturale delle minoranze storiche.

Non solo per rendere la giusta memoria ai suoi abitanti, ma per tracciare e disegnare le linee principali secondo cui il centro storico ha preso forma e consistenza, nel corso di almeno sei secoli.

Ogni Katundë è diventato oggi il palcoscenico da cui offendere, manomettere o affondare la memoria con emblema il formalismo, fatto di intonaci coloriture e informali adempimenti, che ne violano continuamente le prospettive sin anche dall’alto.

Accanto a questo tipo di “Urbanismo Bulico”, sono sorti edificati in sostanza di muri e finestre con vetrate senza senso, sicuramente al contrario della misura discreta come era un tempo fare.

La rinascita evidente a tutti, resta sospesa tra modernità e tradizione, tra caos e disordine, tra colore e monocromia sempre più sfuggente.

Una sintesi del paesaggio urbano, che va dalla qualificata vernacolare del bisogno alla più recente dell’apparire dei boschi verticali, disegnati in progetti dove manca la volontà diffusa di costruire per i cittadini e, renderli indistintamente partecipi al processo di falsa memoria.

O meglio attirarli nel percorso di queste nuove ‘scalfitture’ urbane affasciate con tecnologie che vivono del protocollo del profitto a ogni costo, per generare illusorie gesta instabili e comunque volti soprattutto a illudere quanti si apprestano ad animare Katundjnë.

Tutto questo trova anche conferma con le attività poste in essere dal dopoguerra, segnalando un punto di svolta non solo sul piano politico ed economico, ma anche in ambito culturale e spirituale.

Con la ricostruzione e la progressiva secolarizzazione delle società, le chiese, intese sia come edifici fisici sia come luoghi simbolici del sacro, sono spesso divenute oggetto di, riconversione e, in alcuni casi, di vera e propria manomissione.

La crescente industrializzazione e urbanizzazione ha comportato, in molte aree, la distruzione o lo snaturamento di edifici religiosi per far posto a nuove infrastrutture senza orientamento di credenza.

In lungo e in largo in ogni Katundë, molte chiese sono state modificate radicalmente per ragioni “funzionali”, spesso senza il rispetto del valore storico, artistico e spirituale che esse racchiudevano e, con esse anche i luoghi di sepoltura storica.

A seguito del Concilio Vaticano II, si assiste inoltre a una trasformazione interna alla Chiesa e, molte liturgie cambiarono, gli interni vengono manomessi del loro antico valore e le opere d’arte vengono rimosse, accantonate per essere sostituite.

Questo fenomeno, giustificato come aggiornamento pastorale, ha però spesso portato a una “spoliazione” delle chiese, svuotandole di elementi che ne raccontavano la storia e l’identità.

E la questione assume toni più duri in luoghi di culto, profanati senza alcuna attenzione consapevole di memoria, non quella più antica che e complicata da interpretare, ma almeno delle vicende de tardo secolo scorso.

Qui la manomissione è solo fisica ma ideologica, parte di un più ampio tentativo di cancellare la credenza dalla vita pubblica, per una più moderna e imbiancata.

Negli ultimi decenni del Novecento, l’emergere di una nuova sensibilità per la conservazione del patrimonio culturale ha portato, almeno in parte, a un rinnovamento di questi luoghi.

Tuttavia, l’abbandono spirituale da parte delle comunità, rimane un segno tangibile della chiesa che non è stata solo un luogo sacro, ma anche un centro identitario e comunitario, da ciò la spogliazione, in molti casi, ha significato lo sradicamento di memorie collettive e radici profonde estrapolate per lasciare spazio a piantumati ad uliveto.

Altra manomissione storica inconsapevole è stato il rifacimento dei palazzi realizzati dopo il terremoto del 1783 che devastò la Calabria e la Sicilia orientale, il Regno di Napoli promosse un’imponente opera di ricostruzione nel corso del decennio francese.

I nuovi palazzi, edifici pubblici e abitazioni vennero progettati secondo precise regole regie antisismiche, un raro esempio di prevenzione pensata nel Settecento e realizzato nei primi decenni dell’ottocento.

Le norme imponevano fondazioni su terreni solidi, strutture in muratura con incroci di legno la cosiddetta tecnica del “baraccato”, proporzioni geometriche ben studiate e altezze contenute.

Molti dei centri storici dell’area arbëreşë furono ricostruiti seguendo queste direttive, dando vita a insediamenti armoniosi, funzionali e soprattutto sicuri, con un cuore antico che lì, al centro dell’edificato pulsa senza tregua.

Tuttavia, nei secoli successivi queste architetture furono progressivamente manomesse e non furono più emblema solido della memoria delle famiglie che hanno fatto la storia, ma utilizzate a fini razionali di edilizia popolare.

L’aggiunta di sopraelevazioni, la sostituzione di materiali originari, la manomissione di cortili, il rifacimento delle facciate e l’uso di cemento armato per i numerosi interventi impropri, hanno compromesso l’integrità sismica e quella storica degli edifici.

Le logiche speculative a fini abitativi, unite a un diffuso disinteresse per la memoria costruttiva, hanno cancellato o nascosto gran parte di quell’ingegnoso equilibrio tra forma e sicurezza.

Oggi, molti di questi edifici sono in parte, svuotati del valore di genio costruttivo, in cui furono innestate tutte le conoscenze dell’epoca, ragion per la quale, se idoneamente analizzati, potrebbero fornire elementi fondamentali dello sviluppo e la conoscenza di ogni epoca, da quando vennero realizzati e, tutte le volte che sono stati espansi o arricchiti di superfetazioni.

Essi sono memoria di regole regie antisismiche, in tutto manufatti all’avanguardia, resi visibili solo dove il tempo, la cura e il caso hanno preservato l’autenticità delle strutture.

Oggi non resta altro che ricordare, per fare riferimento alla toponomastica storica l’unica forza in grado di tramandare memoria.

I nomi delle piazze, delle vie, dei vicoli, delle porte di case e le contrade, raccontano ancora oggi, silenziosamente, la visione urbanistica di quei tempi e, riconoscerli per poterli custodire diventa un atto di rispetto verso il passato che si deve imparentare con il futuro.

Diventa un dovere per quanti conoscono e hanno consapevolezza della storia, tramandare concetti, atti di memoria, spece a quanti prendono titoli secondari e si apprestano a formarsi fuori dagli ambiti locali, avendo cosi, un patrimonio storico come base da cui elevare le nuove cognizioni colturali e, costruire una solida diplomatica del luogo natio, a impronta dell’Olivetano, che detiene la memoria storica di Terre di Sofia e del suo agro.

Teoremi che hanno consentito di dare misura storica al protocollo del delocalizzare in età moderna, con cui le istituzioni di potere dal 2014, hanno smesso di adombrare luoghi adagiando nel cassetto più basso del comò il protocollo per smarrire poi la memoria.

Questa è una certezza che nasce dai consigli e i dibattiti solitari dell’Olivetano con le istituzioni del tempo, invitando sin anche chi ascoltava dal camino di Milano, di evitare violenza gratuita in futuro, per chi si trova a confrontarsi con le cose della natura, interpretate male e allestite peggio, in tutto scenari desertici del mediterraneo, scambiati per colline del meridione Italiano.

Storicamente chi per eventi naturali, vive la tragedia di essere delocalizzato, viene per così dire avviato, con promessa da condividere e, per un Katundë arbëreşë quale vale più ne sentire di dover abitare Gjitonia, che al giorno d’oggi equivale a promettere miracoli, ma non quelli buoni che fanno i santi, ma gli intrugli realizzati sotto il noce dai Iannari di ponente.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                              Napoli 2025-07-24

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