NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il notissimo ritratto della Gioconda, non espone solo una donna ma, crea insieme tra identità di luogo e genere, il silenzioso apparente della protagonista invia un messaggio attraverso lo sguardo in luogo di luci e ombre.
Leonardo ha trasformato un ritratto in un simbolo, che va oltre il tempo e la rappresentazione, perché evidenzia anche il mistero del territorio, lasciando il compito per identificarlo al buon osservatore.
Di fronte a questa profondità silenziosa, la produzione di liberi pigmentatoti contemporanei si presenta con forte contrasto rispetto alla vocazione all’immediatezza, che non lascia prospettiva che alla spettacolarizzazione del manufatto.
Non esiste luogo in cui sia stato realizzato un componimento pittorico dove contaminata la prospettiva sia stato in grado di portare o fornire un accenno di ombra o luce che possa essere memoria storica di quel luogo.
Non più luoghi dell’enigma, ma superfici da riempire, muri, luoghi e ingressi parlanti una lingua altra, che spesso rinunciano alla complessità per aderire al linguaggio dell’intrattenimento visivo senza alcuna profondità e prospettiva compilata ad arte per quel luogo, specie quando si espone all’interno di un centro antico.
Qui è anche la mancanza di conoscenza del trattato sociale, che solamente un ristretto gruppo di studiosi potrebbe illuminare, per la complessità degli atti da eventualmente palesare o citare con immagini pittoriche per comprendere cosa sia un centro antico e cosa sia un centro storico.
Ad iniziare dal tempo della semina, poi quello del germoglio e sino alla raccolta dei frutti: ovvero nel tempo della stagione lunga, ogni Katundë arbëreşë diventava un teatro di colori echi e vita, grazie alle ragazze e ai ragazzi che animavano ogni luogo ameno del centro antico, con attività ludiche e vernacolare radice.
Porte, Gradinate, Strade, Anfratti e ogni rilievo architettonico, verticale o orizzontale, assumeva il ruolo di prospettiva ideale per il teatro all’aperto, dove esibirsi e cresce, in modo sano e sapiente di tutte le generazioni del passato.
Gli stessi spazi oggi nelle disponibilità delle odierne generazioni lagrimose, che non trovano agio e spunto per crescere in linea con gli antichi valori della storia, come un tempo lo furono di tante dinastie e, quanti si ostinano a sminuire questi luoghi, in modo gratuito, non onorano sé stessi e il loro casato operoso.
A te che fai “Restanza Tetana” e, con acquarello improprio e senza agio tracci pigmenti sulle pareti disdegnando infissi dove transitava tempo e storia Arbëreshë, rivolgo un pensiero: non di censura, ma di misura – memoria e immagini ricolto a quanti oggi non conosce, e non ha consapevolezza di quelle stagioni.
A te avrei voluto dire da diversi anni, che un muro, una porta o affaccio che fa prospettiva, ha una voce, un cuore, un’anima e una memoria per riverberare storia.
Ogni superficie verticale o una porta chiusa, una finestra aperta o un balcone, rappresenta un lembo di storie e, ogni mano che le va vicino non la deve solo toccare per sostenersi ma accarezzarla e avvertire le vibrazioni che poi sono gli episodi della storia.
Poi se hai occhi per immaginarla e guardarla o renderlo perpendicolare, nel transitare oggi in religioso e lento silenzio, potrai cogliere il valore della prospettiva apparentemente vuota, nel contempo piena di sentimenti e di amori vissuti e cantati.
Un dipinto a muro cancella il valore del costruito, una finestra, una porta, un balcone, non sono altro che le scenografie di un amore passato e, solo il cuore di quella storia, mentre rimane lì testimone silenzioso, tu lo soffochi e lo fai terminare di battere.
Quando dipingi senza chiedere alla tua coscienza e a quella di chi ti sta lì accanto stupito, lui consapevole e tu inconsapevole di cosa stai violando, dovresti almeno essere in grado di avvertire il lamento di quel battito antico da te penalizzato e non più in grado di essere ritmato come natura lo vuole.
E così facendo corri il rischio, non solo di coprire memoria, ma anche di cancellare un pezzo della storia di questo luogo che non ti appartiene perché scintilla di un amore migrato.
Nessun luogo attende la tua presenza armato di questa irragionevole violenza pittorica, ogni spazio non ha vissuto tanto a lungo per essere da te compromesso, perché tutti i luoghi, se non lo sai, hanno vissuto sicuri di ricevere rispetto più che espressione di una credenza indigena usata come altare ignoto.
Dilettarsi è umano, creare è necessario, ma farlo senza riguardo è dimenticando che l’arte non nasce solo dal gesto, ma dall’incontro – con il luogo, con il tempo, con gli altri e, se sai ascoltare prima di pitturare, se chiedi al muro cosa ricorda, perché per quanto duro possa essere, ha sempre un’anima con la quelle ha difeso e difende famiglia per fare casa.
La memoria urbana non è una lavagna dove scrivere a piacere, ma un archivio vivente, spesso fragile, che merita cura, studio e rispetto.
Quando si agisce senza visione o benevola memoria di un luogo, si produce un danno che non si misura in metri quadrati, ma in perdita di identità e, come si fa con i discoli a scuola, quel muro vorrebbe essere la lavagna dove il maestro ti avrebbe fatto accucciare per pagare il tuo modo essere ancora oggi un discolo.
Ai cittadini resta il dovere, di osservare figure che, non documentano, non fanno memoria e, possono solo prendere la china per resistere con atti per ripristinare lo stato di memoria più intima.
Ci sono muri che non sono semplici superfici da usare come centro tavola o banale inno al “sistema duttale”.
In quanto esse sono le quinte del nostro canto locale, in tutto la traccia di una visione antica di procedere mano nella mano, come facevano fare le nostre madri, quando dovevamo accompagnare una sorella fuori la porta di casa, per attenuare la luce del passaggio, in tutto una delle regole dell’antico governo delle donne.
Le prospettive storiche non sono solo linee disegnate dall’architettura, ma sguardi sedimentati nel tempo, racconti stratificati che nessun giovinetto inesperto può rimpiazzare per gloria ignota.
Quando l’intervento “decorativo” o “riqualificante” promosso dai convenuti cancella queste profondità, non si compie solo un atto di cattivo gusto, ma una vera e propria tragedia, perché si spegne la luce o meglio si elimina il sole e la luna in quel luogo.
Si consuma una violenza culturale e storica senza precedenti, il gesto, spesso travestito da innovazione urbana, è in realtà un’amputazione di quel luogo, specie quando le istituzioni alte tacciono e, il vuoto che si produce diventa istituzione, regola o compromesso, perché chi doveva proteggere, ha voltato lo sguardo per meglio ignorare la storia.
Dipingere un muro antico senza conoscere ciò che vi è passato – senza ascoltare la voce del contesto, senza la pazienza o la prospettiva dell’indagine – significa spezzare una corda tesa che unisce passato e presente.
Che non è solo storia, ma si tratta della vita vissuta quotidianamente di una o più Gjitonie, magari inconsapevolmente e, comunque per come avviene con gratuita incuria da diverso tempo, senza alcun ripensamento del luogo violato con il diritto inconsulto di continuare a farlo ogni anno come se il gesto servisse a fare il fuoco di natale.
Le prospettive storiche sono fragili come dei fili ancora non tessuti e, hanno bisogno di arte e sguardi lunghi, non di mani frettolose che non sa cosa sia un progetto di tessitura, che in genere si fa per dialogare e intrecciare e non per arte piramidali fortemente labile.
Se Katundë diventa scenario di rimozioni invece che di riconoscimento di memoria, allora a essere sfigurata non è solo la facciata di un edificio lo sviluppo di una finestra un balcone o la prospettiva di un frammento di storia, ma l’identità stessa del luogo dove sono avvenuti fatti che vanno tutelati.
Chi sa ascoltare questi luoghi – e vi passa lentamente, senza fretta, con lo sguardo attento e le vele dell’anima spiegate – sente qualcosa che stride e sa come allinearsi con il vento buono, che non è rumore, ma un’incrinatura per il respiro del Katundë.
Sentire il riverbero di quelle superfici di non più candore, perché pareti rimaneggiate, ridipinte, rifatte senza amore, senza misura, senza sapere.
Inconsapevoli che un tempo custodivano ombre, di intonaci ammalorati, riflessi di luna e sole, graffiati dalla storia e, ora rivestiti di un silenzioso posticcio, informe e plastificato, che lascia subito intuire cosa è stato tolto e non tornerà più come prima, resta solo l’aiuto del tempo, ma questa è un’altra storia ancora più penosa e degenere.
Perché le pietre, gli intonaci misurati che fanno i muri e, i vuoti urbani parlano tra di loro, e quando vengono offesi, gridano si lamentano come fanno i carcerati quando vengono incatenati e, si sente solo la lentezza delle catene che solo il tempo e la ruggine possono fare scomparire.
Troppo spesso, chi opera in questi luoghi passa veloce, distratto, con gli occhi pieni di numeri, progetti, pigmenti economici e visioni al pari di un prefabbricato o ancor meglio di chi allestisce circhi e apre la scena per stupire.
E sin anche, chi dovrebbero custodire il battito nascosto di un Katundë non lo fa, il motivo va ricercato in quella opera incompiuta della legge 482/99 dove gli allestitori non conoscevano manco la tabellina del tre e, quindi per adesso tutti fanno i discoli come quando il maestro abbandona l’aula in una scuola elementare.
Resta il compito – antico oggi ancora valido- di chi sa camminare lento, gli unici capaci di custodire con lo sguardo, e ricordare con la mente, le voci che qui non smettono mai di riverberarsi, scrivere per non far cadere nel silenzio, quelle vibrazioni dell’inconscio che chiedono aiuto.
Un tempo si diceva: “Il dado è tratto” per varcare un limite, per assumersi una responsabilità, per compiere un gesto irrevocabile – spesso drammatico, ma onorevole, necessario, storico.
Oggi, la stessa frase pare echeggiare nei gesti più bassi, più meschini e rimane solo la pronunciano gli ultimi, non per coraggio ma per incuria.
Non per cambiare il mondo, ma per sporcarsi le mani senza rendersene conto che per cancellare, verniciare, appiccicare, coprire con leggerezza ciò che richiederebbe rispetto e ascolto.
Il dado è ancora tratto, sì – ma non verso la storia, ma piuttosto, verso l’oblio e quando a tirarlo sono quanti vengono proposti a dirigere, custodire, proteggere… allora non è solo degrado, ma anche tradimento.
Le nonne imbiancavano i muri delle loro piccole case, ogni primavera, per scrostare il fumo dell’inverno, e restituire alla casa un candido e luminoso respiro di luce, facendo uso della vivibilità che consente la calce, che sanifica l’ambiente dove serve luce.
Voi, oggi, colorate le strade della storia, non per purificare e dare biancore, ma svilire i colori e cancellare, non per illuminare, ma per ingrigire, in tutto non portate luce, perché i vostri colori sono di dubbio biancore.
Coprite il sole con le vostre verticali pigmentazioni, con animoso silenzio, dove c’era un racconto, colorate l’identità e date merito a chi si oppose a quella storia d’amore ignota.
Chiamate decoro la rimozione, chiamate progetto ciò che è solo abbandono e “Dipingete muri storici” carichi di memoria e, forse anche di dolore o lotta.
Lo chiamate “arcobaleno” quello che non è retorica di pace, inclusione, speranza e, simbolo positivo ma purtroppo quello vostro invece è finto, affrettato, forse imposto a risultato di un processo di purificazione o liberazione emotiva, attraverso questa falsa esperienza simbolica.
La critica di questo abbellimento superficiale o retorico di simboli positivi, consente di non affrontare realmente i problemi o la “tempesta storica” che li ha preceduti divenendo sin anche il simbolo delle madri che allattavano i figli sotto il noce.
Il tutto diventa una riflessione sull’ipocrisia, sull’estetica usata per esaltare il fatuo e, invece che pianificare il senso della memoria di un ben identificato luogo di patire e, preferite promuovere e santificare cose che fanno parte dell’ignoto.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-07-04