NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questo breve tema di studio si vuole definire lo spazi Katundë da cui iniziarono a muoversi e, come servì a sostenere le terre parallele ritrovate, per essere caratteristica e agio consuetudinario degli Arbëreşë, avendo a riferimento i Danteschi valori che descrivevano la “terra lagrimosa dolce”, il luogo dove il vento, passa sopra un pugno di pia gente.
Il che lascerebbe immaginare che un Katundë Arbëreshë, sia insieme umido, ma non è così, infatti le lacrime appartengono alle persone sensibili e, colme di valori emozionali di sentimenti solidi, in oltre il vento, che qui accarezza i generi, rende l‘ambiente sano e colmo di sensibili valori identitari, come una carezza materna viene rivolta al nascituro.
I Katundë in ragione del patto stipulato da indigeni e Arbëreşë, con testimoni la luna e il sole, viene predisposti secondo “arche di accoglienza” con funzioni specifiche da Giorgio Castriota in comune accordo, con il re Aragonese Alfonso V d’Aragona, più noto come il Magnanimo, grazie ai quale dal 1471 sino al 1502 giunsero profughi dalle terre oltre adriatico.
Cui segui una seconda ondata con ottomila profughi Grecofoni/Arbëreşë dopo il 1535, consolidando l’accoglienza migratoria del bisogno, per la salvaguardia del patrimonio culturale, portato nel cuore e nella mente dalle terre Balcane, per essere radicate senza alcun innesto mussulmano, in quelle terre mantenute dagli Angioini sino ad allora aride, impappolate e senza una consuetudine solida e duratura.
Va in oltre sottolineato che in urbanistica, il termine “arche” è usato per descrivere il principio o la base su cui si fonda un centro urbano e la sua pertinenza territoriale in valore.
E facendo riferimento alla struttura originaria di un centro abitato, come un Katundë articolatosi nel corso del tempo, il tutto restituisce uno scenario storico solido, indelebile e impenetrabile.
In questo contesto, si può parlare di “arche” anche quando si analizzano le fasi storiche di sviluppo, osservando come i principi fondatori del Katundë, siano legati ad uno specifico territorio il suo uso, la distribuzione degli spazi privati e pubblici, e ritrovare la connessione di queste funzioni, di come abbiano generato e influenzato la crescita o lo sviluppo di questi luoghi di memoria storica.
Quando si affrontano argomenti con tema i sistemi abitativi e i relativi ambiti Silvicoli, Agro e Pastorali, ritrovati per allestire consuetudini di origine Arbëreşë, bisogna essere molto scrupolosi o meglio attenti e giustamente formati, prima di diffondere teoremi, nomi, sostativi e tempi, ande evitare di dover poi dare ad altri il compito o la pena di correggere ogni cosa, allestendo diplomatiche, che dovranno correggere i teatrini senza regia, con protagonisti tempo, natura e omo, tutti ignudi ed esposti vergognosamente senza rispettare la memoria e storica.
Il sistema abitativo Katundë, (dall’Arbëreşë); “luogo di movimento e operoso”, vero e proprio germogli di risorse umane dove partire, per espandersi lungo le vie di cresta, di risorsa aurica territoriale, fatta di ori silvici a monte e, pastorali in agri verso valle.
Il sistema cosi, riconosciuti, non sono semplici da intercettare e definire correttamente, specie da chi non è formato e sa fare un mestiere specifico, perché le similitudini ad altre realtà storiche equipollenti, non sono di facile lettura e, quasi sempre generano o hanno generato, libero valore storico, attribuendo a quei luoghi, termini e cose senza definizione o appellativi specifici riferito alle tempistiche di sviluppo, privi dei minimali valori del bisogno e tradizioni di questa antica popolazione, del vecchio continente europeo; in tutto un patto stipulato tra uomo e territori, con il sole e la luna a rivestire il ruolo di testimoni.
L’insieme abitativo e le pertinenze di territorio fondamentali per il sostentamento, sono l’insieme che, nel protagonismo abitativo, racchiude nel percorso evolutivo fatto dalla natura, l’uomo e il tempo poi annotate nelle pieghe o trame della storia stese al sole e illuminate anche dalla luna senza veli, per questo, chiare ed inequivocabili.
Generalmente lo spettacolo naturale lo offre la collina, secondo le teorie di Aristotele, annotate nel libro settimo, dove rifermento della collocazione altimetrica dei presidi abitativi e dei relativi abitanti dice:
chi risiede in montagna dove il freddo incide al processo sociale è tendenzialmente chiuso e ristretto nelle sue attività di coesione e produzione.
O ancora peggio chi vive vicini al mare, generalmente incline all’ autarchia e irrispettoso delle leggi, per le troppe frequentazioni, riferendo così chiaramente a quanti mirano a promuovere sé stessi e la loro pletora servile; diversamente da quanti abitano e vivono in ambiti collinari sono notoriamente predisposto alle attività e alle arti valorizzando luogo e genti pronte al sacrificio per il bene comune.
Infatti questi ambiti sono i più strategici ad offrire risorse naturali, in forma acqua dolce di sorgenti o torrentizi, boschi per legna, oltre i terreni più fertili per l’agricoltura e la pastorizia.
Inoltre, i terreni collinari possono essere più favorevoli per alcune coltivazioni rispetto alle pianure troppo soleggiate o le montagne troppo fredde per ogni attività.
Nel contempo la collina offre la posizione naturale difensiva più idonea, rendendo più difficile, il sopraggiungervi dal mare, in tutto un punto elevato, facile da sorvegliare a scapito di ogni sorta di invasore.
Le zone collinari sono meno suscettibili a inondazioni rispetto alle pianure. Essendo situate a un’altezza maggiore, queste aree sono più sicure in caso di piogge intense o fiumi in piena.
Esse beneficiano di un clima più temperato, evitando il caldo eccessivo delle pianure, alture a offrire una maggiore ventilazione e condizioni più salutari, considerate luoghi sacri o simbolicamente significativi in molte culture, e costruirvi un insediamento conferiva prestigio e un senso di “elevazione” rispetto al resto del mondo.
Va in oltre sottolineato, il dato secondo cui gli Arbëreşë sopraggiunsero nel meridione lungo gli abbracci naturali delle coste dello Jonio e preso atto della pericolosità di quei luoghi troppo esposti, oltre le insidie dalle famigerato anofele, per le vicende derivanti secoli prima a loro sconosciute ma che la storia odierna attribuisce al dominio romano, un il danno ambientale prodotta, quando utilizzarono e spogliarono l’appennino meridionale, estirpando alberi per sodisfare le esigenze dei loro innumerevoli cantieri, rendendo i corsi fluviali palladosi, cosi come tutte le piane di deflusso verso il mare.
Questo è anche il motivo o dato di fatto secondo cui, ogni centro abitato, non è mai allocato ad altitudini inferiori ai 350 metri sul livello del mare, lime storico, dove questo insetto infestante trovava il suo ambiente ideale per colpire e trovare agio di lunga vita e solo l’altitudine indicata precedentemente le rendeva inefficaci le sue mortali punture, non erano più terminali.
Questo limite territoriale, in genere, era individuato con il toponimo di “Vote” indicante, un torrentizio disposto prima della via di costà da non superare.
Tuttavia per esigenze lavorative si poteva anche fare, breve permanenza e con particolari momenti climatici non dilungati, oltre una ben nota fascia giornaliera climatica, che assolutamente non doveva essere prolungata oltre misura di esperti o di residenza prolungata e stabile.
Qui chiaramente ci addentreremo, focalizzando la ricerca di Paesi, Vichi, Contrade, Civitas, Casali e ogni altro agglomerato urbano di collina abbandonato o poco abitato al XIV secolo della Calabria Citeriore, un tempo risorsa della Sibari fannullona, poi bizantina e, sogno di conquista dei longobardi, poi trasformate in grange cistercensi e in fine mira degli Arbëreşë senza terra o dimora, in apparenza.
Giacché come accennato prima, luoghi da sottoporre a controllo dei regnati della capitale Napoli, visto i trascorsi di interessi dei principi locali e le loro dinastie con i trascorsi francofoni, non più tollerati.
Da ciò quando gli arbëreşë giunsero in questi ambiti di arche concordate e pre definite, trovarono un sistema religioso, affiancato a un insieme articolato di abituri estrattivi, dovendosi per questo prodigare ad affiancare il sistema di promontorio e quello di nuova edificazione civile più consona alla propria consuetudine.
Quella che in alcuni casi li costrinse a una distanza di sicurezza che se il presidio antico ritrovata aveva valore di autonomia religiosa o civile si doveva rispettare la distanza minima di mezzo miglio.
Va sottolineato che dal punto di vista amministrativo dei territori, incidendo, con gabelle per sostenere credenza e vita civile senza alcun servizio.
Dove clerici locali e principi riscuotevano per conto della credenza papale e quella civile della reggenza del regno napoletano.
Questo in specie era diviso in principati, dove ognuno pensava a favore del proprio orticello per diventare nota produttiva di vanto ai piedi del re, accontentandosi solo di partecipare alla reggenza alta, come sempre figure di secondo piano, mentre quella regia era sempre affidata a dinastie ora francofone, ora ispaniche e sin anche austriache, tutto qui alternandosi a dominare e allestivano il loro trono nei variegati castelli, secondo una costante storica singolare.
E solo pochi storici, furono capaci a rilevare, ovvero le merlature della difesa della residenza reale, nella capitale che non erano rivolte a mira delle vie degli invasori facilitate dal mare, ma verso la citta ribelle, per sottomettere la larga e variegata strada di residenze principesche del regno.
Infatti non c’è mai stata una dinastia che sia originaria di Napoli o che possa essere definita tale, vero resta il dato che quanto la città e la sua regione hanno avuto un’importante storia di dominazioni straniere o dinastia alcuna in originarie del territorio del regno.
Anche “Partenope” si riferisce all’antica sirena mitologica ma comunque di radice Greca, quindi storicamente non c’è mai stata una dinastia autoctona che abbia regnato direttamente sul Regno di Napoli in modo esclusivo.
Infatti le dinastie che hanno governato la città e il regno, furono Angioini, Aragonesi e Borboni, provenivano da fuori Napoli (Francia, Spagna e Austria).
Questo singolare processo di dominazione, ha reso gli arbëreşë partecipi al pari degli indigeni locali, che non si sentivano a casa propria liberi del vivere il proprio territorio.
Nascono per questo pensieri contrapposti, che per i loro conflitti interni non mutano per secoli e bisogna attende i catasti onciari e il successivo decennio francese per vedere uniti territori secondo aree omogenee e vedere scomparire la cassa sacra che lascio ai legittimi contadini nuove porzioni di terreno.
In tutto i rioni riconoscibili in Chiesa, Kallive, Karinë relletë, Bregù a cui nel tempo si articolarono nuovi şeşi in grado di generare il sistema Katundë ad iniziare dalle case additive o vernacolari del bisogno.
I rioni su citati, rappresentano il percorso evolutivo che il borgo ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.
È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.
Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.
Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, inizia la definizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.
Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.
Gjitonia, sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antica scuola di formazione governato dalle donne indispensabile per la consuetudine, le arti e il parlato arbëreşë oltre i valori di credenza cristiana costantinopolitana.
Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici e, si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari e dei silvici luoghi di pertinenza locale.
Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata o ricentrata dirsi voglia, per questo, Katundë rappresentano il cardine e rappresenta la terra lagrimosa che sostiene lingua, religione e storia, quell’ambito capace di produrre il modello d’integrazione più riuscito, solido e duraturo del mediterraneo.
Il piccolo elevato vernacolare, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati, poi blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena, realizzando la casa che di volta in volta soddisfa il bisogno abitativo del bisogno familiare.
Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente soppressione della Giunta di Cassa Sacra, gli del Katundë ebbero un nuovo sviluppo urbanistico/architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.
È questa l’epoca in cui si migliorano i cunei agrari della produzione e della trasformazione, in ogni Katundë, Paese, Frazione o Contrada arbëreşë o indigena, si elevano cosi dal secolo XVII al XVIII, i palazzi nobiliari, influenzata dallo stile Barocco, con lune facilmente riconducibili ad un’epoca ben precisa.
Gli ambiti urbani, assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello con uno spazio di tempera per evitare il troppo calore estivi e il freddo dell’inverno.
Va in oltre precisato che dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, i frazionamenti delle proprietà abitative, richiesero l’uso delle scale esterne, (il profferlo), in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive di vie, ruga, Vallj, aggiungendo modesti ristretti supportici che consentivano appena il passaggio di asini con le ceste.
Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.
Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e la classe media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici e inserendo in molti esempi ancora esistenti, anche se alcuni sono stati inglobati o resi parte del volume di questi storici manufatti, che in questo modo hanno ingabbiato sia i profferli di accoglienza che i minati di affaccio nobiliare.
Il sistema urbano veniva organizzato secondo pertinenze di Iunctura familiare, localmente denominati o specificamente identificati nel loro insieme; in “rioni di toponomastica storica” organizzati secondo i bisogni di determinati intervalli storici, un compromesso abitativo tra indigeni locali di antica radice di conquista, a cui si aggiunsero, poi in due distinte epoche gli esuli Arbëreşë della diaspora, prima quanti giunsero dopo la morte dell’eroe Giorgio 1471/1502 e dopo gli Epiroti o Coronei del termine del 1533.
In Arbëreşë denominati Şeşi e, non sono meri spiazzi o piazzette dove affacciano gli ingressi di un numero indefinito di case, come comunemente è stato diffuso, da inadatti teoreti, senza alcuna formazione storica, se non quella di riversare aceto contaminato ad opera dei liberi mescitori delle cantine locali, dove il vino veniva unito ad acqua, e spacciato per esempio genuino.
Essi sono un sistema urbano fato di Case Vernacolari (Kalivatë), Vicoli (Rruhat), Sottoportici (Suportë), Larghi senza Uscita (Vagllj i Mbulitur) Vicoli Ciechi, Vicoli (Rruhatpa sitë), Orti Botanici (Kopshëti jone) Scale in Salita (Udatë me Pedastrozullë), il tutto per compilare un insieme per la lenta percorrenza e il controllo di eventuali viandanti non appartenenti alla Iunctura specifica del Katundë.
Tutto l’insieme cosi compilato o realizzato era diretto dal governo delle donne e ed è in questi sistemi urbano che le donne conservavano consuetudini e tramandavano principi sociali e del parlato che poi erano la prova iniziatica delle capacita che i generi in crescita ponevano in essere, riverberando la solidità dei principi trasmessi, o ereditati.
Queste attività per la difesa della propria identità, in comune progredire, ha superato ogni genere di attacco sociale, culturale e sin anche religioso, ma la forza estratta dalla consuetudine di antichi valori, hanno permesso o meglio consentito di superare e distogliere moltissime attività in tale senso.
Tuttavia dagli anni settanta del secolo scorso e sempre con più arroganza linguistica e antropologica, con editi a dir poco infantili e senza radice stoica, secondo direttive subliminali proveniente dalle rive frastagliate e in accoglienti il fiume adriatico ad ovest, li dove incide la luna e le stelle.
È inutile cercare di illuminare, con menzogna inimitabile il sole, in quanto il nero della notte porta pensieri solidi agli arbëreşë, che stendono al sole le solide consuetudini che incidono le regole su quel “Calendario Marmoreo denominata Gjitonia”, che non potrà mai essere corretto, come si fa con gli scritti moderni, perché la consuetudine arbëreşë rimane scolpito nella pietra senza spazio di alcuna aggiunta.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 205-02-13