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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi diro, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti, forse riderete di me perché non sono istituto, ma una promessa data quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile in esecuzione per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni i risultati negatimi anche pubblicamente, ma credetemi è costata tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più di me a questi luoghi lagrimosi ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire, salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare, per questo, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti di attività che non sono mere o semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edificato valore storico cercando, l’originario impianto del bisogno otre a definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget, oltre le risorse indispensabili da porre in essere al fine più idoneo o perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate o allestisce consiglieri infanti, che si credono eccellenza giacche eletti culturali.

Le stesse figure di genere ignoto alle quali se proponi cose con finalità storiche, invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando di saggiare manicaretti dolci, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o supportare, nel continuo dissipare risorse o insaccare falsità di loco.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio, svolgimento e fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro dal maniscalco saggio.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2025 by admin

 

GjitoniaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questo breve tema di studio si vuole definire lo spazi Katundë da cui iniziarono a muoversi e, come servì a sostenere le terre parallele ritrovate, per essere caratteristica e agio consuetudinario degli Arbëreşë, avendo a riferimento i Danteschi valori che descrivevano la “terra lagrimosa dolce”, il luogo dove il vento, passa sopra un pugno di pia gente.

Il che lascerebbe immaginare che un Katundë Arbëreshë, sia insieme umido, ma non è così, infatti le lacrime appartengono alle persone sensibili e, colme di valori emozionali di sentimenti solidi, in oltre il vento, che qui accarezza i generi, rende l‘ambiente sano e colmo di sensibili valori identitari, come una carezza materna viene rivolta al nascituro.

I Katundë in ragione del patto stipulato da indigeni e Arbëreşë, con testimoni la luna e il sole, viene predisposti secondo “arche di accoglienza” con funzioni specifiche da Giorgio Castriota in comune accordo, con il re Aragonese Alfonso V d’Aragona, più noto come il Magnanimo, grazie ai quale dal 1471 sino al 1502 giunsero profughi dalle terre oltre adriatico.

Cui segui una seconda ondata con ottomila profughi Grecofoni/Arbëreşë dopo il 1535, consolidando l’accoglienza migratoria del bisogno, per la salvaguardia del patrimonio culturale, portato nel cuore e nella mente dalle terre Balcane, per essere radicate senza alcun innesto mussulmano, in quelle terre mantenute dagli Angioini sino ad allora aride, impappolate e senza una consuetudine solida e duratura.

Va in oltre sottolineato che in urbanistica, il termine “arche” è usato per descrivere il principio o la base su cui si fonda un centro urbano e la sua pertinenza territoriale in valore.

E facendo riferimento alla struttura originaria di un centro abitato, come un Katundë articolatosi nel corso del tempo, il tutto restituisce uno scenario storico solido, indelebile e impenetrabile.

In questo contesto, si può parlare di “arche” anche quando si analizzano le fasi storiche di sviluppo, osservando come i principi fondatori del Katundë, siano legati ad uno specifico territorio il suo uso, la distribuzione degli spazi privati e pubblici, e ritrovare la connessione di queste funzioni, di come abbiano generato e influenzato la crescita o lo sviluppo di questi luoghi di memoria storica.

Quando si affrontano argomenti con tema i sistemi abitativi e i relativi ambiti Silvicoli, Agro e Pastorali, ritrovati per allestire consuetudini di origine Arbëreşë, bisogna essere molto scrupolosi o meglio attenti e giustamente formati, prima di diffondere teoremi, nomi, sostativi e tempi, ande evitare di dover poi dare ad altri il compito o la pena di correggere ogni cosa, allestendo diplomatiche, che dovranno correggere i teatrini senza regia, con protagonisti tempo, natura e omo, tutti ignudi ed esposti vergognosamente senza rispettare la memoria e storica.

Il sistema abitativo Katundë, (dall’Arbëreşë); “luogo di movimento e operoso”, vero e proprio germogli di risorse umane dove partire, per espandersi lungo le vie di cresta, di risorsa aurica territoriale, fatta di ori silvici a monte e, pastorali in agri verso valle.

Il sistema cosi, riconosciuti, non sono semplici da intercettare e definire correttamente, specie da chi non è formato e sa fare un mestiere specifico, perché le similitudini ad altre realtà storiche equipollenti, non sono di facile lettura e, quasi sempre generano o hanno generato, libero valore storico, attribuendo a quei luoghi, termini e cose senza definizione o appellativi specifici riferito alle tempistiche di sviluppo, privi dei minimali valori del bisogno e tradizioni di questa antica popolazione, del vecchio continente europeo; in tutto un patto stipulato tra uomo e territori, con il sole e la luna a rivestire il ruolo di testimoni.

L’insieme abitativo e le pertinenze di territorio fondamentali per il sostentamento, sono l’insieme che, nel protagonismo abitativo, racchiude nel percorso evolutivo fatto dalla natura, l’uomo e il tempo poi annotate nelle pieghe o trame della storia stese al sole e illuminate anche dalla luna senza veli, per questo, chiare ed inequivocabili.

Generalmente lo spettacolo naturale lo offre la collina, secondo le teorie di Aristotele, annotate nel libro settimo, dove rifermento della collocazione altimetrica dei presidi abitativi e dei relativi abitanti dice:

chi risiede in montagna dove il freddo incide al processo sociale è tendenzialmente chiuso e ristretto nelle sue attività di coesione e produzione.

O ancora peggio chi vive vicini al mare, generalmente incline all’ autarchia e irrispettoso delle leggi, per le troppe frequentazioni, riferendo così chiaramente a quanti mirano a promuovere sé stessi e la loro pletora servile; diversamente da quanti abitano e vivono in ambiti collinari sono notoriamente predisposto alle attività e alle arti valorizzando luogo e genti pronte al sacrificio per il bene comune.

Infatti questi ambiti sono i più strategici ad offrire risorse naturali, in forma acqua dolce di sorgenti o torrentizi, boschi per legna, oltre i terreni più fertili per l’agricoltura e la pastorizia.

Inoltre, i terreni collinari possono essere più favorevoli per alcune coltivazioni rispetto alle pianure troppo soleggiate o le montagne troppo fredde per ogni attività.

Nel contempo la collina offre la posizione naturale difensiva più idonea, rendendo più difficile, il sopraggiungervi dal mare, in tutto un punto elevato, facile da sorvegliare a scapito di ogni sorta di invasore.

Le zone collinari sono meno suscettibili a inondazioni rispetto alle pianure. Essendo situate a un’altezza maggiore, queste aree sono più sicure in caso di piogge intense o fiumi in piena.

Esse beneficiano di un clima più temperato, evitando il caldo eccessivo delle pianure, alture a offrire una maggiore ventilazione e condizioni più salutari, considerate luoghi sacri o simbolicamente significativi in molte culture, e costruirvi un insediamento conferiva prestigio e un senso di “elevazione” rispetto al resto del mondo.

Va in oltre sottolineato, il dato secondo cui gli Arbëreşë sopraggiunsero nel meridione lungo gli abbracci naturali delle coste dello Jonio e preso atto della pericolosità di quei luoghi troppo esposti, oltre le insidie dalle famigerato anofele, per le vicende derivanti secoli prima a loro sconosciute ma che la storia odierna attribuisce al dominio romano, un il danno ambientale prodotta, quando utilizzarono e spogliarono l’appennino meridionale, estirpando alberi per sodisfare le esigenze dei loro innumerevoli cantieri, rendendo i corsi fluviali palladosi, cosi come tutte le piane di deflusso verso il mare.

Questo è anche il motivo o dato di fatto secondo cui, ogni centro abitato, non è mai allocato ad altitudini inferiori ai 350 metri sul livello del mare, lime storico, dove questo insetto infestante trovava il suo ambiente ideale per colpire e trovare agio di lunga vita e solo l’altitudine indicata precedentemente le rendeva inefficaci le sue mortali punture, non erano più terminali.

Questo limite territoriale, in genere, era individuato con il toponimo di “Vote” indicante, un torrentizio disposto prima della via di costà da non superare.

Tuttavia per esigenze lavorative si poteva anche fare, breve permanenza e con particolari momenti climatici non dilungati, oltre una ben nota fascia giornaliera climatica, che assolutamente non doveva essere prolungata oltre misura di esperti o di residenza prolungata e stabile.

Qui chiaramente ci addentreremo, focalizzando la ricerca di Paesi, Vichi, Contrade, Civitas, Casali e ogni altro agglomerato urbano di collina abbandonato o poco abitato al XIV secolo della Calabria Citeriore, un tempo risorsa della Sibari fannullona, poi bizantina e, sogno di conquista dei longobardi, poi trasformate in grange cistercensi e in fine mira degli Arbëreşë senza terra o dimora, in apparenza.

Giacché come accennato prima, luoghi da sottoporre a controllo dei regnati della capitale Napoli, visto i trascorsi di interessi dei principi locali e le loro dinastie con i trascorsi francofoni, non più tollerati.

Da ciò quando gli arbëreşë giunsero in questi ambiti di arche concordate e pre definite, trovarono un sistema religioso, affiancato a un insieme articolato di abituri estrattivi, dovendosi per questo prodigare ad affiancare il sistema di promontorio e quello di nuova edificazione civile più consona alla propria consuetudine.

Quella che in alcuni casi li costrinse a una distanza di sicurezza che se il presidio antico ritrovata aveva valore di autonomia religiosa o civile si doveva rispettare la distanza minima di mezzo miglio.

Va sottolineato che dal punto di vista amministrativo dei territori, incidendo, con gabelle per sostenere credenza e vita civile senza alcun servizio.

Dove clerici locali e principi riscuotevano per conto della credenza papale e quella civile della reggenza del regno napoletano.

Questo in specie era diviso in principati, dove ognuno pensava a favore del proprio orticello per diventare nota produttiva di vanto ai piedi del re, accontentandosi solo di partecipare alla reggenza alta, come sempre figure di secondo piano, mentre quella regia era sempre affidata a dinastie ora francofone, ora ispaniche e sin anche austriache, tutto qui alternandosi a dominare e allestivano il loro trono nei variegati castelli, secondo una costante storica singolare.

E solo pochi storici, furono capaci a rilevare, ovvero le merlature della difesa della residenza reale, nella capitale che non erano rivolte a mira delle vie degli invasori facilitate dal mare, ma verso la citta ribelle, per sottomettere la larga e variegata strada di residenze principesche del regno.

Infatti non c’è mai stata una dinastia che sia originaria di Napoli o che possa essere definita tale, vero resta il dato che quanto la città e la sua regione hanno avuto un’importante storia di dominazioni straniere o dinastia alcuna in originarie del territorio del regno.

Anche “Partenope” si riferisce all’antica sirena mitologica ma comunque di radice Greca, quindi storicamente non c’è mai stata una dinastia autoctona che abbia regnato direttamente sul Regno di Napoli in modo esclusivo.

Infatti le dinastie che hanno governato la città e il regno, furono Angioini, Aragonesi e Borboni, provenivano da fuori Napoli (Francia, Spagna e Austria).

Questo singolare processo di dominazione, ha reso gli arbëreşë partecipi al pari degli indigeni locali, che non si sentivano a casa propria liberi del vivere il proprio territorio.

Nascono per questo pensieri contrapposti, che per i loro conflitti interni non mutano per secoli e bisogna attende i catasti onciari e il successivo decennio francese per vedere uniti territori secondo aree omogenee e vedere scomparire la cassa sacra che lascio ai legittimi contadini nuove porzioni di terreno.

In tutto i rioni riconoscibili in Chiesa, Kallive, Karinë relletë, Bregù a cui nel tempo si articolarono nuovi şeşi in grado di generare il sistema Katundë ad iniziare dalle case additive o vernacolari del bisogno.

I rioni su citati, rappresentano il percorso evolutivo che il borgo ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, inizia la definizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

Gjitonia, sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antica scuola di formazione governato dalle donne indispensabile per la consuetudine, le arti e il parlato arbëreşë oltre i valori di credenza cristiana costantinopolitana.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici e, si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari e dei silvici luoghi di pertinenza locale.

Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata o ricentrata dirsi voglia, per questo, Katundë rappresentano il cardine e rappresenta la terra lagrimosa che sostiene lingua, religione e storia, quell’ambito capace di produrre il modello d’integrazione più riuscito, solido e duraturo del mediterraneo.

Il piccolo elevato vernacolare, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati, poi blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena, realizzando la casa che di volta in volta soddisfa il bisogno abitativo del bisogno familiare.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente soppressione della Giunta di Cassa Sacra, gli del Katundë ebbero un nuovo sviluppo urbanistico/architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

È questa l’epoca in cui si migliorano i cunei agrari della produzione e della trasformazione, in ogni Katundë, Paese, Frazione o Contrada arbëreşë o indigena, si elevano cosi dal secolo XVII al XVIII, i palazzi nobiliari, influenzata dallo stile Barocco, con lune facilmente riconducibili ad un’epoca ben precisa.

Gli ambiti urbani, assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello con uno spazio di tempera per evitare il troppo calore estivi e il freddo dell’inverno.

Va in oltre precisato che dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, i frazionamenti delle proprietà abitative, richiesero l’uso delle scale esterne, (il profferlo), in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive di vie, ruga, Vallj, aggiungendo modesti ristretti supportici che consentivano appena il passaggio di asini con le ceste.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e la classe media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici e inserendo in molti esempi ancora esistenti, anche se alcuni sono stati inglobati o resi parte del volume di questi storici manufatti, che in questo modo hanno ingabbiato sia i profferli di accoglienza che i minati di affaccio nobiliare.

Il sistema urbano veniva organizzato secondo pertinenze di Iunctura familiare, localmente denominati o specificamente identificati nel loro insieme; in “rioni di toponomastica storica” organizzati secondo i bisogni di determinati intervalli storici, un compromesso abitativo tra indigeni locali di antica radice di conquista, a cui si aggiunsero, poi in due distinte epoche gli esuli Arbëreşë della diaspora, prima quanti giunsero dopo la morte dell’eroe Giorgio 1471/1502 e dopo gli Epiroti o Coronei del termine del 1533.

In Arbëreşë denominati Şeşi e, non sono meri spiazzi o piazzette dove affacciano gli ingressi di un numero indefinito di case, come comunemente è stato diffuso, da inadatti teoreti, senza alcuna formazione storica, se non quella di riversare aceto contaminato ad opera dei liberi mescitori delle cantine locali, dove il vino veniva unito ad acqua, e spacciato per esempio genuino.

Essi sono un sistema urbano fato di Case Vernacolari (Kalivatë), Vicoli (Rruhat), Sottoportici (Suportë), Larghi senza Uscita (Vagllj i Mbulitur) Vicoli Ciechi, Vicoli (Rruhatpa sitë), Orti Botanici (Kopshëti jone) Scale in Salita (Udatë me Pedastrozullë), il tutto per compilare un insieme per la lenta percorrenza e il controllo di eventuali viandanti non appartenenti alla Iunctura specifica del Katundë.

Tutto l’insieme cosi compilato o realizzato era diretto dal governo delle donne e ed è in questi sistemi urbano che le donne conservavano consuetudini e tramandavano principi sociali e del parlato che poi erano la prova iniziatica delle capacita che i generi in crescita ponevano in essere, riverberando la solidità dei principi trasmessi, o ereditati.

Queste attività per la difesa della propria identità, in comune progredire, ha superato ogni genere di attacco sociale, culturale e sin anche religioso, ma la forza estratta dalla consuetudine di antichi valori,  hanno permesso o meglio consentito di superare e distogliere moltissime attività in tale senso.

Tuttavia dagli anni settanta del secolo scorso e sempre con più arroganza linguistica e antropologica, con editi a dir poco infantili e senza radice stoica, secondo direttive subliminali proveniente dalle rive frastagliate e in accoglienti il fiume adriatico ad ovest, li dove incide la luna e le stelle.

È inutile cercare di illuminare, con menzogna inimitabile il sole, in quanto il nero della notte porta pensieri solidi agli arbëreşë, che stendono al sole le solide consuetudini che incidono le regole su quel “Calendario Marmoreo denominata Gjitonia”, che non potrà mai essere corretto, come si fa con gli scritti moderni, perché la consuetudine arbëreşë rimane scolpito nella pietra senza spazio di alcuna aggiunta.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                            Napoli 205-02-13

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IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

Posted on 09 febbraio 2025 by admin

PenelopeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Pe quanti conoscono la storia e affiancano processi sociali e crescita dei generi, avvicinare questi momenti di vita diventa, somma per allestire processi in grado di rendite alto il valore dei luoghi vissuti, specie se per continuare a conversare e, non perdere il patto stipulato con testimoni, il sole e la luna, al fine di fare Casa, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno hanno molte volte orientato la loro attività di ricerca, secondo percorsi, tesi ad aprire i confini della storiografia e, raccogliere tracce che confermino la presenza di uomini e donne, li abbandonati secondo autonomie sociali al fine di affrontare e rispondere in forma di mera soluzione, matematica.

Idee, mentalità e immagini letterarie, diventano così i simbolismi di solidità, che porta ad altri interessi, anche se, in linea generale possiamo definire antropologici, dove tutto si materializza in ambiti di studio, da attraversare, ma purtroppo come è successo nel passato, avendo come compagni lettori o traduttori locali, sconosciuti, e quasi sempre non sono lucidi osservatori, ma ignari viandanti che non hanno arte o memoria di nulla.

Tuttavia vi sono stati grandi intellettuali, come Giuseppe Maria Galanti, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare per ricevere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, a Giuseppe Galasso e le indicazioni verbalmente espresse in vari incontri, all’Istituto Italiano di studi filosofici a Napoli e, la caparbia lena di suoi discepoli, hanno reso possibile il germoglio del postulato a titolo. E rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di banali e negazionisti antropologi, che credevano “Gjitonia” fosse e un mero prodotto post industriale di mero vicinato.

Ovvero, la trasformazione avvenuta dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa che ha caratterizzato il XIX e gran parte del XX secolo, che comunque sono fuori dal nostro intervallo di Studio.

A tal fine e per analizzare il processo sociale sostenuto dal governo delle donne è utile iniziare con il citare le vicende storiche più antiche,

Dove emerge la figura di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei fedele tesseva e disfaceva il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (“anatra”) per essere scampata da giovinette dall’essere annegata, anche se per alcuni il nome è connesso all’evento della tela (dal greco- pēné), in quanto protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga.

Infatti, attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e dato per disperso, crescendo da sola il piccolo Telemaco evitando perennemente con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti e, grazie al famoso stratagemma: che di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, per essere fedele alla promessa di famiglia.

Mantenendo, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Alla fine, Ulisse tornò, uccise i provocatori della moglie e si ricongiunse con essa; tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, e simile alle tempistiche giornaliere, che ogni moglie arbëreşë, ha vissuto e trascorso, nelle innumerevoli Gjitonie, che caratterizzarono in antichità i Katundë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera prima del tramonto del sole, il marito partiva per i campi e rincasare dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici preparando corredi ed elementi tessili con i telai tessendo seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, e nel contempo allevavano i propri figli e sin anche quelli altrui, al fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, in tutto, ambiti non circoscritti e senza confini, se non quelli del rispetto e di cinque sensi, che qui si vivevano e si respiravano ad oltranza, per le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una tessitura solida di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kallive, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, che costituivano percorrenza lenta regolata dalla articolata e difficile percorrenza, colme di accessi delle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli orti botanici di pertinenza, in tutto “percorsi angusti”, articolati con scale apparentemente disorganizzato, perché mai facile o veloce percorrenza.

Strade che mirano a rallentare il comune viandante, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio orientate in direzione nord-sud, generando l’interazione sociale paritaria gestito dalle donne.

Gjitonia mantiene viva la continuità sociale e il confronto in ogni forma o sfaccettatura, diretta o indiretta, perché composta da spazi privati e pubblici in condizioni dove sono regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche di tessitura che proteggono l’onore delle donne, fatto di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici.

Il sistema così articolato divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, fatto di “tessitrici specialiste” di un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Furono molte le figure nobili o meglio femminili che qui transitarono del Gran Tour, infatti qui non transitavano gli uomini ma le donne e furono tante che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano erano attratte da questa apparizione al femminile dei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne, quando visitavano il meridione, apprezzando i manicaretti, le pietanze e i prodotti alcolici fatti con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa si recavano in questi luoghi per capire costumi colori e avere misura di un modo assai dissimile con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato e accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita, ma da oggi in poi, “intellettuali”, “antropologi” e ogni “sorta di lettore libero”, avranno da sudare non poco nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e il valore di Gjitonia, che non è stato mai Mero Vicinato Indigeno, ma luogo della tessitura delle donne Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-02-09

Commenti disabilitati su IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 07 febbraio 2025 by admin

photo_2025-02-06_21-28-11NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèù cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immagino che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande per accoglie sposi;

Eseguito per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa poi molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, perché voleva cantare volando e gridare:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

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“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE”  (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE” (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

Posted on 05 febbraio 2025 by admin

DA STATO A MANXANAa

PROGETTO PRELIMINARE DI RICERCA E COMPILAZIONE DEI PAESI CHE SONO

LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA DAGLI ARBËREŞË

(il modello completo di solida integrazione mediterranea)

 

Introduzione

 

Questa nota di progetto vuole essere una proposta per tutte le amministrazioni che mirano ad allestire o disporre attività di resilienza, nel rispetto e suggerendo le leggi che tutelano le minoranze storiche, in specie l’Arbëreşë, secondo le direttive qui di seguito elencate:

– Convenzione – Quadro tutela delle minoranze, Consiglio d’Europa 10/11/1994;

– Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Articolo 21), che vieta la discriminazione, dell’Unione Europea che privilegia il principio di non discriminazione in tutte le sue forme.

Costituzione della Repubblica Italiana:

 – Articolo 6 tutela le minoranze che vivono sul territorio nazionale;

–  Articolo 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico;

– La Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482, Art. 2. Comma 1, in attuazione dell’articolo agli articoli 3 e 6 della Costituzione Italiana a tutela cultura il parlato di minoranza storica:

– Decreto del Presidente Repubblica del 2 maggio 2001, n. 345 Art. 1 Comma 3;

– Decreto Legislativo del 22 gennaio 2004 n. 42 recante il “Codici dei Beni Culturali e del Paesaggio”;

– Legge della Regione di Abruzzo, Molise, Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria.

– Decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63,

le attività di seguito elencate formulano atti, attività e direttive, non intese come “divieto alla non uguaglianza”, ma, “sollecito ad acquisire atteggiamenti, misure, progetti e dispositivi il cui fine vuole concertare la più solida continuità culturale”.

Se a questo associamo le direttive che i PNRR, ovvero i Piani Nazionali di ripresa e Resilienza, come non adoperarsi a delineare, percorsi di salvaguardia delle regioni storiche sostenute dalle minoranze, che in Italia rappresentano i modelli di integrazione tra i più solidi, longevi e meno invasivi di tutto il Mediterraneo.

 

Premessa

Chi possiede una lingua materna, la storia con protagonisti i padri in campo a seminare bene,  i riti religiosi in Chiesa , le tradizioni e costumi come solido patrimonio, la Gjitonia che si concretizzano nello studio di generi e prodotti e dell’artigianato, la iunctura tra famigli che descrive architettura e ambiente, per il fine di continuare a essere patrimonio insostituibile, soprattutto in quest’epoca dove sono messe, seriamente, a dura prova per l’invasione commerciali e di nuovi simboli, espressi da grafiti indigeni non paralleli, restituisce  e fa una forza culturale irremovibile.

Il progetto qui i compimento in forma preliminare, si prefigge il fine di coinvolgere figure alte per accorare, un gruppo di lavoro, multidisciplinare, sulla base o la fonte di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologico, Storico, Sociologico, Psichiatrico, Architettonico, Urbanistico, Credenza Religiosa e Consuetudini diffuse dagli Arbëreşë, includendo anche altre discipline, per il fine di raggiugere il buon esito dell’operato di tutela e resilienza, seguendo protocolli di ricerca, relazioni, grafici e studi specifici di mire fondamentali di luogo naturale, tempo, epoche e uomini.

 

 

 

Temi di tutela per sostenere la resilienza di questo esempio di integrazione mediterraneo

 Ripristinare la parlata arbëreshë di macro area o di Katundë, avendo mira i lascito più antichi per le nuove generazioni, utilizzando in prima analisi i presidi scolastici con “un tempo breve” di avvicinamento e in seguito “ tempi più articolati ” per porre in essere corsi specifici come l’antico governo delle donne realizzava per la trasmettere la lingua, secondo direttive locali, con preferenza del parlato e del canto rimato, senza l’ausilio di musica, vocabolari e forme scrittografiche di alcun genere, come si usa fare con le lingue più forti, ovvero quelle sostenute dalla poesia e la forma scritta, qui mai utilizzata da tutto i buoni parlati e pronti per l’ascolto;

Recupero dei sistemi urbani di approdo e di sviluppo oltre i percorsi dell’economia tipici di necessità vernacolare, in tutto componimenti di iunctura familiare solidale intrecciata nei: Vicoli (Rruhat), Suporti (Sottoportici), Vicoli Ciechi Rruhat i mëbuliturë), Vallj (Spazi circoscritti senza Uscita) e Orti Botanici (Kopshëti) storicamente allestiti nel centro antico,  l’insieme poi finalizzato a compilare progetti di resilienza del centro antico, dove innestare e far rifiorire i valori sociali del Governo delle donne o luogo dei cinque sensi;

 

Allestire manifestazioni culturali e, convegni rivolti alla cultura, per la definizione di temi che troveranno allocamento in mostre evidenziando i percorsi storici di integrazione degli arbëreşë in generale e, quella di ogni Katundë e la sua macro area, nei dettagli più intimi; il tutto da apporre in una struttura di museo antropologico o in appositi spazi di libero accesso all’interno del centro antico e le attività proto industriali, innanzi il camino;

Studio e ricerca storica dello sviluppo urbano del centro antico, seguendo i ricorsi storici, sociale e dell’economia nel corso dei secoli, con apposizione di sistema planimetrico G.I.S. indispensabili a definire epoca e sviluppo e sistemi rionali secondo cui era composto a ha seguito il percorso di crescita il Katundë dall’essere centro antico e diventare centro storico;

 

Realizzare un’analisi toponomastica che possa definire l’ampliamento del centro antico seguendo la realizzazione dei quattro rioni tipici (Sheshi) e le pertinenze di origine come il cortile la casa e l’orto botanico, a cui seguirono i modelli più complessi di “Iunctura familiare”, articolata in quelli antichi e lineari per i più moderni.

Progetto dei pannelli toponomastici viari numerici, dei civici in caratteri Romani e Arabi, per la toponomastica di memoria locale, sia del centro antico, sia dei cunei agrari, silvicoli e pastorizia; in oltre eseguire la puntigliosa ricercare degli storici itinerari della transumanza di macro are e di radice di ogni Katundë, all’interno del suo agro di pertinenza;

 

Tracciare i percorsi di credenze del centro antico e, valorizzare le antiche icone del centro storico, oltre quelle dei cunei della sostenibilità agraria, cercando di cogliere l’orientamento a associarle agli accadimenti storici, datandone la realizzazione con gli elementi che solidarizzano e compongono gli levati.

Definizione dei cunei agrari della produzione, della trasformazione e conservazione del bisogno sostenibile proto industriale eseguiti davanti al camino o al forno del modulo abitativo del bisogno vernacolare.

 

Ampliare i musei monotematici del costume, volgendo l’interesse non a temi specifici ma di largo interesse antropologico locale, con sezioni a tema di costumi e momenti di vita domestica giovanile e di rappresentanza, o delle attività e lavorazione, dei prodotti Solanizzati, in tutto l’arte del genio locale sostenuto e diretto dal governo delle donne;

 

Comporre una postazione video e audio, del parlato per l’ascolto di macro area, al fine di fornire alle generazioni più adulte di tramandare i valori originali per la discendenza del parlato e dell’ascolto secondo antiche consuetudini;

 

Formare un gruppo di giovani/e residenti locali, al fine di rispondere con cognizione storica locale e generale con coerenza, alle richieste di turisti della lunga o della breve sosta e, rendere interessante l’accoglienza, riverberando informazione specifica della minoranza, sia del centro antico, che del territorio agreste, della macro area di pertinenza, accompagnano i turisti lungo le trame viarie del centro antico e, avvertire i valori dei cinque sensi qui depositati tra gli elevati di iunctura familiare, in tutto i valori solidi che fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë;

Formulare un elenco vernacolare del perlato primo in Arbëreşë, ovvero identificare il corpo umano di genere e le necessità naturali del bisogno di vivere, oltre a tutte le movenze e le cantilene di ironia, per fare memoria di vicinanza allerta sociale da tramandare alle nuove generazioni e come il senso Gjitonia, anche del parlato e dell’ascolto non scritto;

 

Realizzare percorsi pedonali con l’utilizzo di materiali autoctoni di antica necessità, creando le prospettive secondo l’uso dell’epoca, si serviva di prodotti naturali o estrattive, realizzando forme e pianori aditivi del bisogno o della necessità dell’epoca in continuo progredire;

Gli stessi che segnarono i percorsi dell’operato di credenza locale, per i tanti scampati pericoli naturali, come carestie terremoti e pandemie, in tutto momenti di isolamento e pena che misero in dubbio la continuità sociale e produttiva dei cunei agrari e sin anche dei centri abitati, in forma proto industriale.

 

Intercettare i lavinai storici, che resero possibile il sostenersi all’interno dei sistemi articolati, in quanto unica risorsa naturale per igienizzare e rendere vivibili quegli ambiti.

Analisi di ricerca e studio degli effetti della legge 482/99, nazionale e quelle regionali estrapolandone i benefici e le manchevolezze di tutela non contemplate rispetto a quelle troppo esaltate; annotazioni da sottoporre a politici e istituzioni, per le mire non raggiunte per il ventaglio ristretto estrapolato dalla lettura, per meglio dire, i processi involutivi non previsti e ancora non meglio contemplati;

Studio del costume tipico, di: giovane donna; sposa; regina della casa; giornaliero; lutto e, vedova incerta; attestandone sin anche le varianti e le inesattezze nel corso dei secoli, che oggi sono attesti in editi, convegni e tesi dipartimentali;

Studio dei processi di organizzazione urbana, tipica e articolata secondo i rioni tipici che fissano le varie e poche e le genti che qui trovarono agio di vivere, secondo la riorganizzazione Prima greca, poi bizantina, in seguito longobarda poi cistercense, arbereshe dominate da francofoni, austriaci e ispanici.

 

Definizione dei sostantivi che identificano il centro abitato, i Rioni, le Piazze, le Vie, gli Orti Botanici e i Valori di convivenza sociale largamente utilizzati senza alcuna Radicanza Arbëreşë;

Progettare il percorso ideale del costume all’interno di musei ed eventi, secondo disposizione e temi, predisposti da titolati, fornendo la più giusta e idonea linfa espositiva, che molto spesso non trova ragione di essere tema di memoria;

 

Ricerca storica delle figure di eccellenza Arbëreşë, nelle discipline: di Credenza Economiche; Politiche, Scienza Esatta e del patire storico, sino all’unità d’Italia e ancora oggi nel confronto con la terra madre;

Le Credenze locale e Sociali, oltre fenomeni paralleli laici, la terminazione del rito Ortodosso, per il Latino e, gli atti che determinarono l’esigenza del Greco Bizantino;

 

Valorizzare la giornata del Termine per gli Arbëreşë, il Carnevale gli appuntamenti storici della stagione lunga; l’Estate e di quella corta; l’Inverno.

La festa patronale e il significato storico locale dei Santi, tracciando le vie della devozione di ogni Katundë;

 

Definizione solidale e condivisa di Katundë, Borgo, Paese, Contrada, Rione, Quartiere, Gjitonia, Sheshë, Drjtësora, Ruitoj oltre i toponimi indigeni da non contemplare perché appartenuti alla storia prima che approdassero gli, arbëreşë;

Analisi dei processi costruttivi, primari estrattivi, quelli vernacolari del bisogno, per dare forma alle residenze prima e dopo il terremoto del 1783, intercettando i palazzotti o palazzati nobiliari, di crescita sociale ricostruiti secondo le imposizioni regie imposti dal governo centrale di Napoli

 

Vanno anche analizzati gli spazi temporali dei terremoti che hanno messo alla prova, territorio, uomini e i processi di sviluppo edilizio nei Katundë Arbëreşë attraverso i quali definire le tessiture petrografiche e degli elementi di laterizio in uso nei modelli architettonici utilizzati, a seguito dei numerosi eventi tellurici che interessarono la regione storica dal XIV secolo a venire.

Le Vallje: la festa dell’integrazione,

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KANDJLORA ARBËREŞË

KANDJLORA ARBËREŞË

Posted on 03 febbraio 2025 by admin

CandeloraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricorrenza che si celebra il 2 di febbraio, in tutto, la memoria che segna la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria, secondo la tradizione cristiana.

Il nome “Candelora” deriva dal latino “candelorum”, che significa “candele”, in arbëreşë ” Kandjlorë”, che ha come espressione diffusa il benedire le candele, simbolo di luce che rappresenta Gesù come “luce che illumina le genti” almeno questo è l’auguri che ogni credente cerca di mettere a regime specie dal punto di vista religioso etico e culturale.

In Italia, la Candelora è anche legata a diversi detti popolari e tradizioni e, in alcune regioni, è considerata un momento di passaggio tra l’inverno e la primavera, e si dice che se il giorno della Candelora è soleggiato, l’inverno durerà ancora sei settimane, mentre se è nuvoloso, la primavera è già vicina.

Tra queste regioni le più significative sono quelle che si dispongono nel meridione italiano e fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

Come si ricorda per quanti conoscono il parlato arbëreşë la Candelora è associata a previsioni meteo e l’eliminazione delle cose o le persone negative, in senso di tempo buono e figure formate idoneamente.

Un detto recita: “Se alla Candelora piove o tira vento, l’inverno è ormai al mezzo e comincia il suo declino” e se il tempo è sereno, invece, si dice che l’inverno durerà ancora a lungo.

La festa è anche legata alla purificazione della Madonna, che secondo la legge ebraica doveva presentarsi al Tempio dopo 40 giorni dalla nascita di un bambino maschio, per ricevere in dono la purificazione e simboleggia la sua consacrazione e la sua partecipazione al piano divino.

Dal punto divista sociale e della partecipazione dei generi, essa rappresenta anche il passaggio dall’oscurità alla luce, e in molte culture, questo è un momento simbolico per lasciare alle spalle le difficoltà dell’inverno e guardare con speranza alla primavera che arriva e libera la mente.

In alcune regioni, la Candelora è anche vista come un’opportunità per compiere atti innovativi o di rinnovamento rispetto all’inverno e, le pene esposte in pubblico dominio dalle istituzioni, sino al primo di Febbraio e, promuovendo limpide  forme di solidarietà culturale, di fratellanza e solidarietà.

La tradizione delle candele benedette, rappresenta dunque, sia la luce spirituale che quella fisica, facendo riferimento al rinnovamento e alla speranza, che il nuovo anno solare, a breve darà inizio, al fine che possa rendere ogni luogo espressione di un passato costruttivo e solidale.

Una regione storica dove chi vale va elogiato e chi non sa, deve sedersi e, ascoltare o apprendere le gesta e le ritualità degli uomini sani, tutti quelli che conoscono e sano fare, senza distinzione alcuna,  come è stato fatto nel modello di integrazione mediterranea dagli Arbëreşë, con Napoli capitale, mente e luogo storico di integrazione.

In tutto, la candelora è anche il giorno del termine di rappresentazioni a dir poco volgari, se non addirittura offensive verso quanti dedicano tempo danaro e impegno fisico e mentale, per illuminare di nuovo la regione storica diffusa degli arbëreşë e sin anche le menti rigide e chine, di quanti oggi fanno Albania , le terre  da dove un tempo si costrinsero a  migrare gli arbëreşë per non essere sottomessi culturalmente o mutare quella credenza antica, che parificava il sole e la luna.

Quello che avviene al giorno d’oggi è inconcepibile blasfemo e ineducato, non da forestieri senza scrupoli, ma dagli attivisti locali, che preferiscono estranei a casa nostra per approdarvi e spiegare come si terminano i quadrupedi, come si allevano e si rappresentano le consuetudini più antiche del vecchio continente europeo.

Questa candelora è il tempo adeguato a cambiare e, quanti non lo faranno dovranno a breve dare spiegazioni per non ardere con la luce che fanno le fiamme dell’inferno e magari scambiandole con la luce del sole e della luna della stagione che fa germogli, fioritura e frutti genuini per tutti i generi e senza distinzione alcuna.

Il Sole e la Luna sono spesso considerati simboli potenti con significati profondi, che variano leggermente tra le diverse tradizioni e culture dei Balcani. Tuttavia, ci sono alcuni temi comuni che emergono.

Il Sole è generalmente visto come un simbolo di vita, energia e vitalità, associato alla luce, al calore e alla crescita, elementi necessari per il benessere e la prosperità.

In molte tradizioni è anche visto come una divinità o una forza divina che protegge le persone e rappresenta anche il ciclo della vita, poiché, con la sua ascesa e il suo tramonto, simboleggia la nascita, la crescita, la maturità e la morte.

Esso è spesso legato alla fertilità, sia quella agricola che quella umana, e viene invocato per portare buon raccolto e prosperità nelle famiglie.

La Luna, al contrario, è un simbolo di cambiamento e mistero, legata alle fasi della vita, incarna la dualità, rappresentando l’oscurità, la morte.

E spesso associata al femminile, alla fertilità e alla spiritualità, vista come una figura che governa l’emotività, l’intuizione e i sogni, legata alle divinità o figure femminili che proteggevano la casa e la famiglia.

Connessa con il soprannaturale e il misterioso, spesso legata a leggende di creature mitologiche, come le streghe o i lupi mannari, che si attivano durante la sua piena fase.

Il Sole e la Luna rappresentano un equilibrio di forze complementari, una dualità che permea la natura e la vita quotidiana, con il Sole che porta forza e chiarezza e la Luna che governa il cambiamento e la dimensione spirituale.

Sì, nel contesto delle tradizioni sono interpretati come simboli che si riflettono nelle differenze tra cristianità (in particolare il cristianesimo occidentale) e ortodossia (che prevale nei domini orientali).

Sebbene il simbolismo del Sole e della Luna non sia direttamente legato a queste due religioni in modo esplicito, esistono delle interpretazioni simboliche che possono essere collegate a queste tradizioni religiose.

Il Sole comunque viene associato alla luce divina e alla Verità di Cristo, che “illumina” il cammino dei credenti e, rappresenta la rivelazione divina o la presenza di Dio nel mondo.

Nella cristianità occidentale, può essere inteso come simbolo di Cristo stesso, con il suo potere di illuminare l’umanità e di purificare attraverso la luce, connesso con l’Eucaristia e la Pasqua, che celebrano la resurrezione e la vittoria sulla morte, portando “luce” nelle tenebre della morte e del peccato.

Di contro la Luna, con il suo ciclo di fasi, va intesa secondo la relazione con la fede ortodossa e alla liturgia, celebrando molte festività secondo il calendario lunare, che segue il ciclo di questa, come nel caso della Pasqua ortodossa, che viene celebrata in una data diversa rispetto a quella cattolica a causa della differenza nei calcoli basati sul ciclo lunare.

Rappresentando per questo la misteriosità e la spiritualità del mondo visibile, può simboleggiare il legame tra l’umanità e il divino nella tradizione ortodossa, che è spesso più mistica e sottile rispetto alla cristianità occidentale.

La spiritualità ortodossa tende ad essere percepita come più legata al mistero, al silenzio, alla preghiera interiore, e alla venerazione dei santi e delle icone, che possono essere in qualche modo legati a questa simbologia lunare di ciclo e trasformazione.

Quindi, in un contesto metaforico, il Sole potrebbe rappresentare la chiara e radiosa presenza di Cristo nel cristianesimo cattolico, mentre la Luna, con le sue fasi e il suo cambiamento, potrebbe essere vista come un simbolo della profondità mistica e rituale della tradizione ortodossa. Naturalmente, queste sono letture simboliche che si sovrappongono a concetti più ampi di fede e spiritualità.

Sì, il concetto di dualismo tra il sole e la luna può essere interpretato come un simbolo che rappresenta opposti complementari in diverse tradizioni, comprese quelle cristiana e musulmana, anche se il loro significato specifico varia nelle due religioni.

Nel cristianesimo, il dualismo spesso si manifesta attraverso concetti come la luce e le tenebre, dove il sole può simboleggiare la presenza di Dio, la verità e la salvezza, mentre la luna può essere vista come simbolo di riflessione, rivelazione e mistero. La luce solare potrebbe rappresentare la manifestazione divina, mentre la luna, che riflette la luce del sole, potrebbe essere un simbolo di rivelazione indiretta o della Chiesa che porta la luce di Cristo nel mondo.

Nel mondo musulmano, la luna ha un ruolo simbolico molto forte. La luna nuova segna l’inizio del mese nel calendario islamico, e la luna crescente è spesso associata con l’Islam stesso. Il sole e la luna possono rappresentare anche la divisione tra il mondo materiale e quello spirituale. In alcuni commentari coranici, la luna e il sole sono visti come segni della grandezza di Dio, con il sole che rappresenta la Sua luce diretta e la luna che funge da guida riflessa.

In entrambe le religioni, quindi, questi corpi celesti, pur non essendo simboli esclusivi di un dualismo assoluto, giocano un ruolo importante nel descrivere la relazione tra il divino e l’umano, tra la luce e le tenebre, tra la verità e la riflessione.

La luna crescente è un simbolo comunemente associato all’Islam, anche se non è direttamente presente nel Corano, anche se il simbolo è stato adottato da molte nazioni musulmane e usato come emblema durante l’Impero Ottomano, e da lì si è diffuso in molte culture.

Tuttavia, è importante notare che la luna crescente non ha un valore religioso come lo potrebbe avere, per esempio, la croce per i cristiani.

Infatti essa è più un simbolo culturale, che rappresenta l’Islam in un contesto storico e politico, adottato in bandiere di paesi musulmani, come la Turchia, la Tunisia, e il Pakistan, la luna crescente appare accanto a una stella, ma il suo significato è spesso interpretato come un simbolo di rinnovamento, di speranza, o di orientamento.

Dal punto di vista religioso, la luna ha un’importanza pratica, poiché il calendario islamico è lunare, con i mesi che iniziano con la nuova luna, e anche il Ramadan e altre festività sono basati sul ciclo lunare.

Ma il simbolo della luna crescente comunemente non è strettamente una rappresentazione della divinità di Allah o di un concetto teologico specifico; piuttosto, è un simbolo che ha acquisito significato attraverso la tradizione e la storia.

In sintesi, sì, la luna crescente è un simbolo fortemente associato all’Islam, ma la sua connessione è più culturale e storica che teologica.

Tuttavia e in ragione di ciò resta un dato, ovvero, in alcune altre regioni storiche, esistano tradizioni di patti giurati “al cospetto del sole e della luna” e affonda le sue radici in pratiche ancestrali che mescolano elementi di religioni pre-islamiche, come quelle pagane, con influenze delle tradizioni monoteistiche successive.

Infatti sono numerose le etnie che usano sigillare, il giuramento davanti al sole e alla luna, divenendo così atto simbolico che richiamava la sacralità di questi corpi celesti.

L’idea di giurare “al cospetto” di elementi naturali così potenti come il sole e la luna assume un significato profondo, poiché questi erano visti come testimoni divini o forze naturali incontestabili, in grado di garantire la veridicità del giuramento.

Questa pratica affonda le radici in antiche credenze politeistiche, in cui il sole e la luna erano divinità o entità di grande importanza. Anche in alcune tradizioni islamiche popolari nei Balcani, l’idea di giurare davanti a simboli come il sole e la luna potrebbe essere stata mantenuta come parte del folklore, pur non avendo una base teologica ufficiale nell’Islam. È un caso in cui la religione e le tradizioni locali si mescolano, e le pratiche pre-esistenti vengono adattate a nuove credenze religiose.

Questi patti giurati al sole e alla luna potrebbero essere interpretati come simboli di un impegno forte e irreversibile, in cui la forza universale di questi corpi celesti diventa una sorta di garante del patto stesso.

Quindi, anche se non fanno parte delle tradizioni formali dell’Islam o del cristianesimo, sono un esempio di come credenze popolari e simboli naturali vengano utilizzati per conferire valore e sacralità agli impegni e alle promesse.

È una pratica che si inserisce in una lunga tradizione di “giuramenti naturali”, nei quali elementi come la terra, il cielo, l’acqua, il fuoco e altri aspetti della natura venivano invocati come testimoni di impegni solenni.

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ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

Posted on 02 febbraio 2025 by admin

Leopardi

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Questo era il grido di minoranza rivolto a quanti gestivano maggioranza in “Terre di Sofia” e, spesso sentivo inneggiarlo a gran voce, la mattina quando andavo a scuola, nei Bar di pomeriggio, la sera nelle Cantine e quando andavo a tagliare i capelli dal Barbiere, ai tempi in cui, vivevo studiavo e ascoltavo il parlato arbëreşë in rispettoso e costruttivo progredire.

Questo era un grido che voleva sottolineare, l’appartenenza indigena di una parte del sistema Katundë, la stessa che non prediligeva l’integrazione, perché provenienti da terre limitrofe e ben distinte dall’agro genuino, che aveva nonostante tutto contribuito non da poco e reso praticabile un terreno umido impraticabile e desolante, colmo di reflui fluviali da bonificare.

E per ottenere riconoscenza di gli abitanti di Terra, dovettero rivolgersi a cassa sacra, per averne merito di proprietà, diversamente da quanti li vivevano e, non si erano mai dati da fare per essere parte attiva del sociale del centro abitato a loro limitrofo nel temine lungo lo scorrere del torrente denominato “votetë”.

Quindi ultimi senza alcun sentimento pronto a fare fratellanza e integrazione con gli Arbëreşë, che li avevano sempre aiutati a migliorare sé stessi e le pertinenze dell’ISKI, storicamente malsana, oggi come allora.

Tuttavia quello che più prevale sono le falsità di quanti affermano pubblicamente che l’essere riuscito ad emergere dalla massa, solo per tagli e titoli di, “bocconcini”, ottenuti non si sa come e , questo risveglia, memorie e sentimenti di quell’epoca incancellabile per la formazione di non poche generazioni.

Specie se questa frase viene elevata dai piccoli discendenti, oggi diventata adulti, ma rimasta sempre avvolti in quella nebbia antica che caratterizzava quel pianoro dove palesare presenza, usavano battere i piedi o far sentire il riecheggiare sull’incudine dei djganë da stagnare, unica risorsa di genio del fabbro o artigiano mancato.

Gli stessi discendenti che oggi boicottano ogni iniziativa, che potrebbe fornire strumenti o teoremi fondamentali per la crescita in ogni fronte del vituperato Katundë, che per loro e grazie a loro vive in pena irrecuperabile.

Tuttavia se a queste affermazioni, elevati dove i quadrupedi venivano terminati, sono emozione di ignari, che si esaltano per aver conosciuto “l’antropologo menzognero”, che non sapeva né parlare e né ascoltare in Arbëreşë, è una pena che denota lo stato in cui si vorrebbe valorizzare la regione storica diffusa e sostenuta da chi parla e sa ascoltare questo idioma.

Certo che salire sulla madia dove si terminano i maiali tra gennaio e febbraio affermando che la riuscita di un progetto locale è avvenuto per esclusiva solidarietà e delle capacità paterna, lì in quel luogo nata per dare pena a suini bovini e ovini è un controsenso, specie dove i neri erano scartati per la qualità della carne, considerata infetta, lurida e di aroma insano.

Tutto quanto il dire, diventa un’offesa verso quanti si adoperano con metodo e confronto per la valorizzazione delle cose Arbëreşë, dato lo stato e la capacità di istituti, istituzioni e libere figure che si alternano nei palcoscenici di insani mattatoi culturali, in tutto un insieme di attori incoscienti; i diretti discendenti che vollero quel “genere sparso prematuramente insanguinato”, la giornata del termine storico: ovvero il 28 febbraio del 1985.

Ciò che si vuole sottolineare in questo breve contributo di memoria locale, è la miscellanea di conoscenza che nello stesso individuo possono attivarsi nei processi involutivi, tipici dell’età giovanile e, coesistere la mutazione, dello sviluppo.

In altre parole, la plasticità negativa a ogni età, senza mai raggiungere la più idonea o passibile maturazione celebrale in verso, agio o direzione costruttiva.

Oggi, nel momento in cui si è compreso, con stati di fatto, che il cervello potrebbe offrire potenziali opportunità di cambiamento a qualsiasi età, assume significativo valore l’immaginare progetti per interventi mirati a favore cognitivo dei su citati generi, che allo stato vagano le foreste della cultura come pirati pronti all’arrembaggio.

Allo scopo serve uno strutturato per produrre Modificabilità Cognitiva Strutturale, specie nell’età di sviluppo e, per queste figure servirebbe avvicinarle come si fa con il gregge e, sottoporli senza rimando alcuno alle prove di ’”Arricchimento Strumentale specie chi non ha la fortuna di nasce strutturato di ascolto e parlato Arbëreşë “.

Allo stato delle cose tutto si potrebbe configurare come percorso di recupero per ogni frammento cognitivo, specie quando si diventa adulto e si vuole dimostrare di esserlo.

Questa estensione del Programma di Arricchimento Strumentale (PAS) è strutturato come un training specifico è finalizzato al recupero delle funzioni cognitive e, di tutto quello che circonda un individuo nel corso del suo sviluppo dall’età infantile sino a quella adulta.

Dimostrando che la plasticità cerebrale è presente anche nelle figure meno inclini, che non si devono mai abbandonare al libero pascolo, in tutto, il ciclo di vita dei generi, specie, quelli meno dotati di tutto.

Questo comunque implica la responsabilità di progettare e realizzare interventi significativi ed efficaci, gli stessi che oggi restano o meglio sono, realtà documentata da una forte letteratura e capacità organizzativa.

A tal fine valgano i numerosi giardini botanici, presenti sino agli anni settanta del secolo scorso e ancora presenti in altra forma, ma disanimati di essenze, i quali andrebbero, rigenerati per poter aprire una nuova stagione curativa della nota medicina empirica Salernitana, rivolta a quanti avanzano evidente Modificabilità Strutturale e Cognitiva, la più diffusa nei circuiti della minoranza Arbëreşë.

Il giardino assume così una duplice funzione: ovvero essere un luogo dove iniziare a sviluppare sensibilità celebrale e in oltre radicare i semi di erbe curative antiche, le stesse che nel mondo greco radicato in quello persiano e quello egiziano e arabo iniziarono a fare Farmacia Naturale.

Il giardino ricostruiva l’immagine dell’Universo, motivo per il quale questi spazi erano anche definiti «Giardini paradiso».

Essi infatti dall’agro e sino al centro antico, fornivano alla mente un immaginario di folti boschi, popolati da una fauna diversificata, come se sorgessero nel deserto, ma irrigati da acqua portata li dai noti lavinai naturali, appositamente addomesticati o indirizzati.

Il giardino o hortus diversificavano le coltivate arare con spazio decorativo e, accogliere quanti avevano urgenza di Modificabilità Strutturale e Cognitiva, indicati al plurale col termine di Orti proprio per la quantità di addetti da sostenere.

In essi la fauna era creata per mezzo dell’elemento decorativo, con l’ausilio di piante tagliate ad arte e dalle forme degli animali, sino a disegnare scene di caccia e, risvegliare antichi istinti a quel genere che cerebralmente e fisicamente oziava.

Le principali caratteristiche dell’assetto architettonico del giardino botanico non contemplava alcuna murazione se non Gardj, (Recinto in elementi naturali intrecciati) che non impedivano in alcun modo, il variare o delimitare la prospettiva di bosco libero ed esenziale.

Internamente, lo spazio era riempito da arbusti posizionati a distanza dagli alberi da frutta, mentre la risorsa di acqua era disposta fuori da recinto.

L’arte figurativa assumeva così un valore pedagogico dei sottoposti a cura ambientale un tramite anche per l’arte negli spazi a ridosso di edifici, che non dovevano impedire in alcun modo la prospettiva profonda anzi contribuendo a sostenerla.

Gli spazi verdi erano e, rivestivano un tempo il valore simbolico: e iniziarono ad essere modellati per risvegliare le capacità cognitive degli infermi, grazie alla similitudine che si riuscivano a estrapolare dalle più svariate figure zoologiche.

La scelta di trasformare uno spazio aperto in un’area verde deve sempre ricadere sulla posizione panoramica di cui era investito lo stesso giardino.

Suddiviso in un’area razionale, tramite terrazze era arricchito con l’inserimento dei pergolati e orti stagionali i cui concimi derivavano dai cibi delle tavole quando si terminava di pranzare.

Le piante utilizzate per l’abbellimento dei giardini, miravano a rappresentare ambienti con verdure e piante botaniche e non, diviso in aree omogenee introducendo nello spazio circoscritto i valori sociali, arborei e medicali.

La presenza degli elementi naturalistici diverrà forma allegorica, nelle decorazioni dei prodotti delle arti minori, ma questa è un’altra storia, quello che qui si vuole sottolineare è lo stato in cui si sostiene la Iunctura familiare odierna, fatta di esaltazione, protagonismo e filiere a dir poco inopportune.

Specie per quanto attinenti ai valori di sostenibilità storica, di idioma consuetudinari e i legami che reggevano la credenza e la via breve e stretta tra casa e chiesa.

Questi elementi primari erano poi la conseguenza della credenza che reggeva il percorso di crescita, sociale; la stessa che univa indissolubilmente, il Camino della casa, ovvero, dove iniziava ogni favola; Gjitonia dove avevano sviluppo e luogo i cinque sensi governati dalle donne e l’agro produttivo condotto e diretto dal senato degli uomini, che chiudevano e solidarizzavano il giardino delle meraviglie Arbëreşë.

Tuttavia vale il principio secondo cui: partecipare non è tutto, ma essere esclusi a priori in ogni manifestazione non è certo un gesto di nubilato culturale; anche se proviene dalla categoria degli “iskitati”.

In questi giorni, si festeggia “Candelora” un evento di rinnovamento dell’estate, che avanza per sovrastare il buio dell’inverno, questo è anche un invito per quanti si ostinano a promuovere eventi culturali immaneggiabili.

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