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RIPRISTINARE IL SENSO DELLA DIPLOMATICA ANCHE PER LA STORIA DEGLI ARBËREŞË Pagliaminiti, Bububj e Trimaxi venë tue ju ciuerë

Posted on 22 agosto 2025 by admin

Arbereshe2Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gli ambiti dove sono stati vissuti e si dovrebbero conservare i valori della minoranza arbëreşë, smarriscono giorno dopo giorno i fondamenti della consuetudine culturale.

Sminuendo così la memoria storica e, onde evitare il continuo regredire di questa penosa china, urge allestire, fare, usare e “allestire diplomatiche di ricerca” , l’unico ponte fondamentale per unire cultura, territorio, natura e uomini.

Fare una diplomatica storica non significa solo svolgere una ricerca puntigliosa e di senso solidamente compiuto, ma interpretarne i valori per, comprenderne gli intrecci, attraverso i quali ascoltare, meditare, costruire e tessere una fiducia che abbia come radice la storia vera, non le favole.

Il valore di una diplomatica risiede nella sua capacità di unire visione strategica, sensibilità umana, competenza tecnica, intelligenza lucida ed emotiva.

Questo è un ruolo che richiede fermezza, ma anche flessibilità, riservatezza ma chiarezza, pazienza e prontezza d’azione, il tutto contornato da una solida conoscenza dei tempi, secondo una interpretazione lenta e ragionata.

In questo capitolo, esploreremo non solo le responsabilità e le sfide che questo ruolo comporta, ma anche il senso profondo che ha animato chi ha scelto l’alternativa per fare ricerca, contribuendo labilmente, alla costruzione degli itinerari che sortiscono in ogni epoca con il solito mugnaio matto.

Perché dietro ogni trattato, c’è una persona che lavora, spesso lontano dai riflettori, per far dialogare con esattezza di luogo e di tempo le diversi immagini che tracciarono le cose della storia.

Tuttavia a margine di ciò, l’ostinata volontà di dare una forma scritta a una lingua nata e vissuta nell’oralità, arbëreşë, ha spesso animato le solite saette illuminanti, ma carenti di strumenti adeguati, per fare o costruire diplomatiche, terminando così per nel confondere la necessità del singolo con la virtù dei tanti.

Questo ha innescato paradossi senza eguali nel tentativo di codificare un patrimonio linguistico prezioso, si è talvolta ridotto in lagrimoso valore alfabetario, esponendo ogni cosa a misera favola frammentata, incoerente e svuotata di ogni sorta di attendibilità.

Tutto questo ha innescato vicende raccontate fuori dal tempo, errori reiterati, interpretati in forma gratuita o elementare e il tutto ha reso difficile trovare pieno agio nel presente, schiacciata tra un passato idealizzato e un futuro incerto.

Ed è proprio in questo contesto terminale che il modello di ricerca detto diplomatica diventa fondamentale e utile da svelare, in quanto come diceva e divulgava Michele Baffi, questa era l’unica attività in grado di restituire ordine, chiarezza al contesto storico anche per gli arbëreşë.

Infatti fu con lui che ha diplomatica diventa custode della verità e garante della dignità culturale, perché il ruolo non è solo quello di approfondire, ma di dare voce e struttura a ciò che rischia di perdersi nel rumore della confusione storica.

La narrazione, la rievocazione di eventi folkloristici, museali, musicali o legati alle credenze popolari, spesso vengono proposte nei modi e nei luoghi che appaiono, a dir poco, irriverenti se non inventati e privi di una radice che possa consolidare indelebilmente il senso di appartenenza.

Giacché ogni attività posta in essere, invece di restituire dignità e memoria a ciò che dovrebbe essere celebrato, termina con il rendere banale il passato, trasformandolo in spettacolo divertente e ironico, ma comunque voto di ogni logica e significato del rappresentato.

Tutti i tentativi, che non hanno avuto alla base una idonea diplomatica di studio, per quanto allestiti e colmi di tutte le possibili buone intenzioni, finiscono col tradire il vero senso della commemorazione e, la manifestazione culturale non è mai ciò che si vuole far comprendere, ma diventa un artificio, una messa in scena che mortifica la profondità e il significato originario della funzione che si voleva svolgere come santità culturale.

Si crea così una frattura tra ciò che è stato o realmente vissuto e ciò che viene esibito, svuotando di contenuto la memoria collettiva che termina sempre per stridere, senza mai apparire come opera di primo canto.

Anche per questo il protocollo di verifica della diplomatica è necessaria, per ristabilire almeno l’ordine cronologico della narrazione e, riportare coerenza, o ridare alla cultura minoritaria arbëreşë, non solo visibilità, ma soprattutto verità.

A tal fine, è necessario evidenziare quelle manifestazioni o luoghi per la diffusione in arti e vestizione che, senza alcuno scrupolo o senso di decenza, violano i significati profondi e le prospettive reali dei luoghi e delle attività in cui la storia ha avuto e deve continuare ad avere luogo di radice in fioritura.

Oggi, la memoria locale e persino la toponomastica raccontano una realtà ben diversa da quella messa in scena comunemente, da quanti non essendo adeguatamente formati seminano gratuitamente il fatuo più devastante.

Una realtà certamente difficile da cogliere per gli ignari fanciulli o il frettoloso viandante che si prodigano a fare ricerca e turismo distratto, ma che dovrebbe invece essere ben specificata, almeno ni confronti di quanti scelgono di addentrarsi nei vicoli della cultura arbëreşë, muovendosi tra simboli, memorie e significati antichi fatti di parlato e ascolto.

Se non si ha la lucidità per distinguere il vero dal falso e, sin anche alterato, sarebbe quantomeno auspicabile interrogare chi conserva ancora chiarezza di visione, anziché contribuire a una confusione che non educa, non onora e non tramanda niente.

Non da meno sono le ricorrenze di credenza popolare, che un tempo affondavano le radici in una profonda spiritualità, ma che oggi appaiono sempre più come simboli di festa vuota, quasi da “circo” e, non più credenza rivolta con lo sguardo e le braccia verso il cielo.

Il senso originario si dissolve sotto le luci delle celebrazioni moderne, dove la sacralità lascia spazio all’intrattenimento e, la memoria collettiva diventa sempre più labile, ridotta a una sequenza di gesti svuotati e ripetuti meccanicamente.

È così si perde ogni legame con la certezza come è il cielo, di contro l’invisibile avanza senza un domani possibile.

Il senso delle cose è ormai sfuggito, travalicando il recinto della decenza e della consapevolezza, fino a corrompere persino i gesti più semplici quelli più carichi di significato.

Anche il saluto, un tempo espressione autentica di riconoscimento, rispetto e appartenenza, è oggi spesso ridotto a una mera ricostruzione formale, una compilazione artificiale di lingua tradotta in latinico, svuotata di anima senso, movenza e privo di riverenza, in quanto forma ironica.

Non è più un segno vivo tra due persone, ma una formula elementare, priva della forza identitaria e relazionale che un tempo custodiva e si riverberava in questi vicoli di vita comune e condivisa.

Così, ciò che era naturale diventa imitazione; ciò che era sentito, diventa esibito e, quelle qui brevemente richiamate non sono che le manifestazioni più banali, potremmo dire da asilo infantile, di un problema ben più profondo o ampio dirsi voglia.

Se già nei gesti minimi o essenziali, come un saluto, si perde il senso originario, la misura, la consapevolezza, immaginate cosa accade quando il tema diventa più complesso, come ad esempio la storia, il costume, l’architettura, la psichiatria antropologica.

Lì, dove servirebbe uno strumento solido, e profondo, si assiste spesso a una rappresentazione disordinata, approssimativa, se non del tutto inventata per tracciare le cose che non sono delle figure illustri o della storia.

Il danno prodotto non è solo culturale e storico, ma etico, perché si tradisce la memoria, si confonde l’identità e si eleva troppa l’ignoranza velando con spessore la conoscenza.

L’auspicio qui in questo breve perseguito possano almeno smuovere qualche coscienza, anche se, in molti contesti locali, la radicalizzazione culturale e identitaria sembra seguire ben altra strada, insaccata con gesta di semplici restanti, disarmanti, sin anche dello storico imbuto per ben insaccare il budello suino.

Eppure, proprio qui, in questa piccola “scuola olivetana” la riflessione lenta e profonda ha ancora un senso relativo al termine “diplomatica” in quanto essa rappresenta la forma più estrema di resistenza possibile, fornita da chi torna Olivetano.

Non urlo, non rissa, ma rigore, equilibrio e cura della parola, in un mondo circoscritto ma si spessore e, la diplomatica non è semplicemente studio profondo, ma tessitura di elementi o meglio filamenti solidi capaci di custodire, una metrica, testimone silenziosa del vero.

Come insegna la storia di questi luoghi, non serve gridare per lasciare un segno, ma serve chiarezza, radicamento e coraggio nel dire le cose come stanno, anche quando il mondo intorno preferisce voltarsi dall’altra parte e non ascoltare.

Adesso su via tutti all’asilo a imparare l’ascolto, perché le correzioni degli errori del passato spettano alla diplomatica quella che dall’ottocento insegnava a distinguere i falsi dagli autentici e oggi, di falsi che parlano come se fossero veri, ne abbiamo troppi e, pure irritabili e senza un di decenza.

P.S.

La diplomatica è la disciplina che interviene quando la storia, basandosi su fonti false o manipolate, rischia di essere raccontata male, essa agisce come “strumento di verità”, che riporta sulla retta via le ricostruzioni storiche, smascherando falsi documenti, errori cronologici o interpolazioni.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-21

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