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NEMO PROPHETA IN PATRIA nà u mbiodë zotë

Posted on 06 agosto 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – E va bene, tutti lo sappiamo e lo conosciamo, ma quando la patria si ostina a ignorare il proprio profeta, il danno non ricade solo su di lui: è la patria stessa a condannarsi.

Una nazione che rifiuta la voce fuori dal coro, che emargina chi vede oltre, si condanna a vivere nella miseria culturale e, con essa, tutti i suoi addetti, servi fedeli di un sistema cieco, si nutrono di vuoto e mediocrità, così, mentre il profeta cade nel silenzio, il declino diventa destino.

E se poi il profeta è cieco in un occhio, la patria che da decenni non lo riconosce è cieca in entrambi.

Perché chi vede anche solo a metà, vede comunque più lontano di chi si ostina a non guardare e, la patria, che lo ignora, non fa che scavarsi la fossa con le proprie mani, confondendo la voce lucida del dissenso con rumore da zittire. Ma è proprio quel rumore che le manca: il suono della coscienza che ha smesso di parlare.

Infatti, una patria che vive grazie a chi non ha il coraggio di partire, e resta dentro i suoi confini senza mai formarsi altrove, cade nell’ignoranza più buia.

Un buio che è già stato visto e, vissuto da chi è partito, ma quando chi è partito torna, portando con sé la luce lunga della formazione, trova porte chiuse, sguardi spenti, o peggio, indifferenti e così, la sua presenza diventa inutile.

Perché in una patria che non accetta la luce, anche la verità più limpida viene rigettata e, chi resta, resta cieco, per scelta.

E quando il rifiuto non viene solo dal popolo, ma da chi ne assume la guida civile o religiosa, allora la pena si fa duplice e, profonda.

Perché chi ha il compito di indicare la via, se sceglie deliberatamente il buio, condanna l’intera comunità a inciampare.

Non c’è ignoranza più pericolosa di quella benedetta dall’autorità e, così, chi è partito, chi ha visto e appreso, tornando trova non solo ostilità, ma un sistema che si è fatto sordo per scelta, cieco per potere. Una patria che rifiuta i suoi profeti, soprattutto se uno di loro ha anche solo un occhio aperto, si condanna alla sterilità del pensiero. E alla miseria dell’anima.

Lui è tornato, non per nostalgia, né per gloria, ma per una promessa data, decenni addietro a un saggio del paese, uno degli ultimi a vedere lontano, chiedendogli di tornare un giorno e, portare conoscenza, per rendere noto il valore delle pietre, dei vuoti, delle ferite e dei silenzi del centro antico.

Le pietre non parlano da sole, aveva detto il saggio, servono occhi che le abbiano viste da fuori per ridare loro voce e valore.

E lui, quella promessa, l’ha tenuta viva per anni, ha studiato, osservato, custodito ciò che qui era stato dimenticato, ora vorrebbe condividerlo, restituire senso a ciò che è sempre stato sotto gli occhi di tutti ma mai veramente visto per essere con cura e saggezza valorizzato.

Ma la patria, come allora, tace e, chi la guidato dall’istituto civile e il sacro, volta lo sguardo, perché preferiscono il rumore del consenso alla voce del ritorno.

Così, ancora una volta, il profeta rischia di restare solo, ma questa volta non per andarsene, ma per restare. Nonostante tutto, lui parla piano, non per timidezza, ma per rispetto.

Ha imparato a farlo da piccolo, quando camminava accanto a un vecchio saggio del paese, un uomo che non alzava mai la voce, ma che pesava ogni parola come fosse pietra da fondazione.

I saggi di terra parlano piano, gli diceva e, chi strilla viene da altrove, da quel paese là, dove veleggia l’ignoranza più infernale.

E lui il piccolo profeta, ancora in patria ascoltava, assorbiva, cresceva nel silenzio fertile del sapere, lui aveva capito che non aveva bisogno di farsi sentire per forza.

Perché sapeva vedere. E ciò che vedeva lo portava lontano; ma ora è tornato, con uno sguardo pieno e una voce ancora bassa, ma densa di anni di studio, esperienza, visioni, è pronto per diffondere ciò che le pietre del centro antico, gli hanno detto in silenzio, e che il saggio gli aveva insegnato a tradurre.

Ma qui il paese è cambiato poco, anzi, forse non è cambiato affatto e, chi urla ancora e non sa cantare dirige orchestra, comanda, di contro chi ascolta ancora tace ed è felice.

E chi vede davvero viene tenuto ai margini, perché il sapere vero fa paura, fa luce e, la luce acceca chi ha vissuto troppo a lungo al buio la ritiene fastidiosa.

Lui non parla per comandare, non alza la voce per spaventare, parla piano, con garbo silenzioso, come fa la terra, quando accoglie il seme buono.

Ha imparato che le parole vere non si impongono, si seminano e, si affidano al tempo, alle stagioni, al vento.
Proprio come fa la terra: non grida, ma accoglie e avvolge il chicco, lo custodisce nel buio fertile,
e lo lascia germogliare con pazienza, così è il suo parlare, un atto d’amore, non di potere, ma un dono, non un vanto.

E se oggi è tornato, non è per farsi ascoltare, ma per seminare ancora, anche se intorno regna il rumore, anche se pochi sanno vedere ciò che lui ha visto e continua.

Perché sa che un buon raccolto, non arriva mai per caso, ma nasce dal silenzio della terra e dalla fedeltà di chi semina senza pretendere.

Vera resta il dato che quando la negazione non resta isolata, quando si fa prassi condivisa, quando si allarga come nebbia su una provincia intera, su una curia, su una fratria, il problema si fa profondo, radicato e invisibile e per questo pericoloso per la comunità intera.

Non è più solo un rifiuto, è una scelta di non voler sapere, una comodità del non conoscere, una volontà passiva di restare immobili.

Perché conoscere vuol dire cambiare, e cambiare costa, impegno, coraggio e memoria, per avere una visione ampia.

Ma qui, spesso, si resta fermi, in un silenzio denso che non è rispetto, ma rinuncia, in tutto un silenzio che dice: Meglio non sapere chi siamo, meglio non ricordare da dove veniamo, meglio non chiederci dove vogliamo andare.

Lui conosce il senso delle parole perché da piccolo ha saputo ascoltarle prima ancora di pronunciarle e, faceva tanto ascolto, che ci fu un tempo in cui tutti lo credevano muto.

Non parlava mai, ma osservava tutti i gesti degli anziani, il fruscio delle foglie, le crepe nei muri, i silenzi tra le frasi.

Un giorno, un viandante si fermò in paese, lo guardò, seduto com’era in disparte, gli occhi attenti e la bocca chiusa.
Disse, con tono di commiserazione, povero figlio, questo è muto, il paese rise come si ride delle cose che non si capiscono.

Come si ride per coprire l’imbarazzo, perché quel silenzio faceva domande che nessuno voleva sentire.

Ma lui, anche quel giorno, non disse nulla, non per timidezza, ma per scelta, sapeva già allora che le parole devono maturare dentro prima di uscire.

E quando, col tempo, cominciò a parlare, le sue parole avevano radici, erano poche, ma pesavano e sapevano affrontare anche il vento.

Non urlava mai, ogni frase era come una pietra posata per costruire qualcosa è tornato tra quelle stesse pietre, di cui conosce il valore di ciò che dicono perché ha imparato il silenzio prima della voce, consapevole che quanti non hanno ascoltato, non potranno mai davvero parlare.

E così, i giorni passano, le pietre si consumano, le storie si perdono e, chi torna con un seme da innestare viene lasciato fuori dal campo.

E intanto si celebra la mediocrità come fosse saggezza, si chiama prudenza quella che è solo paura travestita.

Ma lui no, il profeta non arretra e, parla ancora piano, come il vento tra i rami antichi, sperando che almeno una foglia tremi, che almeno un orecchio si apra, che almeno una coscienza si desti, perché anche nel deserto più arido, una goccia può fare primavera.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-06

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