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VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

Posted on 25 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Vernacolo dal latino vernaculus: appartenente ai servi nati in casa, e quindi domestico, paesano, da verna vesna schiavo natio da una schiava in casa, del padrone.

Il parlato deriva dalla radice vas-ana abitare, restare, fermarsi, vas-a, vas-ana abitazione, vas-tu, citta, vas-tu, sito, casa, vas-tya, abitare rimanere stare città, asteios cittadino.

Verna dunque e una di quelle parole portate dall’Asia nel suolo italiano dai primi emigranti, e per questo si trovano isolate dalla lingua latina e non trovano l’interpretarsi con l’aiuto del sanscrito.

Gli antichi perciò la spiegarono con ver-nare germogliare a primavera, lat verë, paragonando i nati dalla schiava locale, ai germogli o frutti di quella terra.    

Oggi la voce Vernacolo rimane solo come attributo, della lingua naturale d’un paese, in quanto si scosta dalla lingua comune, ma la parola sarebbe la Lingua dei Servi, quindi plebe volgare.

In tutto, “vernacolare” significa “nativo di un luogo”, riferendosi, per questo a qualcosa che è proprio di un luogo, di una regione o di un popolo specifico.

Le case vernacolari, o architettura vernacolare da ciò, si riferiscono a edifici che si adattano alle condizioni ambientali, ai materiali disponibili e alle tradizioni locali di un’area geografica specifica.

Esse sono spesso costruzioni semplici, frutto di conoscenze tramandate di generazione in generazione e, si concretizzano nella espressione architettonica spontanea di un popolo specifico.

Con essa si vogliono indicare gli elevati abitativi costruiti secondo le tradizioni bisogni, locali, con materiali del posto, senza utilizzare modelli tipici dell’architettura storica fatta dai professionisti.

Da ciò l’espressione “vernacolare” è semplicemente la tipologia di una cultura locale, non “importata” o “standardizzata” da maestranze specifiche, perché segue il bisogno primo e, quindi, in continua evoluzione.

Ed essa si manifesta negli elevati di un paese o di una regione particolare, a questo va anche aggiunto che l’aggettivo è un sostantivo relativamente recente, nonostante l’etimologia latina e, compare infatti solo a partire dal XVIII secolo. 

L’architettura “vernacolare” è in sostanza, “architettura dell’aria”, come citato da Yves Klein e, questa espressione immaginata pensata e realizzata in funzione delle cose che un determinato ambito sviluppano i suoi abitanti e, in linea con le cose che qui offre la natura.

In tutto, l’edificato è ideato rispetta i tre criteri dello sviluppo sostenibile, ovvero: sociale, economico e ambientale, promuovendo e valorizzando le attività sociali e professionali all’interno di un nucleo abitativo nascente.

Gli immobili o cellule prime, sono costruiti servendosi delle risorse disponibili nella regione e il maggior vantaggio è che resistono meglio alle condizioni metereologiche tipiche di questi luoghi e partecipa alla valorizzazione del patrimonio senza incidere né sulle prospettive naturali e né sull’ambiente che non deve prodigassi a subire alcuna invasione. 

Il costruito per questo si iscrive in un contesto di rispetto dell’ambiente, del clima e occupa un posto importante nella riflessione architettonica, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di temperamento abitativo. 

Alla luce delle cose esponete in questo breve, potremmo definire, il costruito secondo i principi del bisogno locale come “un edificio appartenente ad un patto nato da un movimento di attività locali stipulato dalla natura e dall’uomo con la supervisione del tempo”.

Il sancito denota il fatto che un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca, durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato il realizzato secondo la necessità di bisogno.

Questo antico modo di costruire per necessità è stato uno dei cardini che hanno consentito alla minoranza di radice Arbëreşë, allocatasi nel meridione italiano dal 1469, per addivenire a quel modello di integrazione tra i più solidi e duraturi di tutto il mediterraneo.

Infatti essi una volta definite con gli indigeni locali ambiti e spazi di loro pertinenza hanno dato seguito al costruito sia in agro e sia nei centri antichi dei modelli del bisogno che appellarono “Kalljva e Katoj”, la prima in memoria della terra parallela da cui furo costretti fuggire o luogo del governo del genere maschile, la seconda come luogo dove sostenere la propria consuetudine sociale, grazie al governo delle donne.

Analizzando con dovizia di particolari, il sostantivo kalýva (καλύβα) esso racchiude anche un valore simbolico e culturale profondo, soprattutto in ambito della credenza popolare, in quanto rappresentativo di uno stile di vita umile, essenziale e, sostenuto alla natura, generalmente associata a pastori, contadini o eremiti, queste tutte tipologie in uso o che caratterizzano la vita dell’agro, comunque sempre ben distanti dai centri abitati.

Infatti nei racconti popolari, vivere in una kalýva è segno di modestia, libertà e autenticità e, nei monti Athos, come in in altre aree monastiche, la kalýva è il rifugio degli eremiti, identificabili in piccole celle isolate dove vivono in solitudine e preghiera, infatti sono numerosi i santi ortodossi, ricordati per aver vissuto in kalýves, rinunciando ai beni terreni per dedicarsi alla meditazione e al contatto con Dio.

La kalýva appare anche nella poesia e nelle canzoni popolari come luogo di pace, vedetta, rifugio, o dolore specie quando la mira volge e si affida al ricordo.

L’identificativo “katoi” (κατώι) anche esso deriva di radice greca e riferisce però, generalmente a un piano, seminterrato di una casa tradizionale.

Tuttavia nei contesti tradizionali, il “katoi” è utilizzato per conservare vino, olio, formaggi, o altri generi di necessità alimentare, proprio perché il piano più basso consente temperature lineari e senza picchi di stagione.

Il termine “kato” (κάτω), ha come indicatore un luogo protetto “Basso” o “sotto posto” al livello di campagna e questo proprio per stabilizzare i picchi di temperatura naturali.

Il sostantivo deriva da “katoi” (κατώι in greco) e, riferisce di un piano inferiore, seminterrato di una casa tradizionale di cui è la radice di primo bisogno e su cui si sovrappongono le ere, in opera di miglioramento.

Quindi se disposto all’interno del Centro Antico inquadra e circoscrive l’abitazione vernacolari del bisogno costruite, o meglio innalzate dagli Arbëreşë

A ben rilevare con questa ulteriore premessasi dispone o meglio, si apre una nuova diplomatica, che mai nessuna istituzione ha immaginato di affrontare, per essere idoneamente progettata, realizzata e diffusa, giacché, bisogno vernacolare, puro, semplice e di primo livello.

Tuttavia, chi volesse approfondire questo nuovo discorso delle storiche attività che gli Arbëreşë, giunti nella regione storica, non citando sgrammaticati e riversi concetti, ma atti contenuti nel cuore e nella mente, di chi è cresciuto sotto il governo delle donne e poi seguendo nel pieno rispetto i docenti della medicina empirica, la credenza Olivetara o Federiciana, dell’antichità e del moderno.

Tuttavia non va lasciato alla deriva lo storico concetto di Gjitonia, modello sub urbano tipico degli Arbëreşë; noto come governo delle donne o, luogo dei cinque sensi, in tutto, un ambito costruito e privo di confini fisici, dove storicamente erano sostenute le consuetudini linguistiche fatte di ascolto, allevando tutte le generazioni, senza preferenze di genere alcuno.

Dare nuova linfa a questa scuola antica degli Arbëreşë è un tema da non far sfumare completamente, specie con le moderne tecnologie che non sono fatte di ascolto materno diffuso, ma esperimenti alloctoni che non trovano agio in questi ambiti dove ha avuto origine il modello di integrazione più solido e duraturo, in età moderna.

Il tutto si potrebbe concretizzare nel sostenere ambiti di accoglienza diffusa, ricollocando, o meglio dare vita a tutte qle cellule abitative, ormai in disuso, ma pronte ad essere svelate secondo la metrica dei cinque sensi, che non sono una mera stanza di albergo, ma percorso turistico, in grado di solcare le antiche metriche di accoglienza dove l’ospite sedeva a capotavola, ben riverito per essere condotto lungo i luoghi e le prospettive della storia locale.

Facendolo diventare bandiera di ospitalità pura, indirizzandolo ad accogliere, avvertire tutte le sensazioni che rimangono nella mente di ogni figlio, quando tornava a casa dai genitori.

In tutto ambiti, prospettive, riverberi che riecheggino e fanno cogliere il meglio di queste prospettive corte, ma sempre colme di odori, sapori diffusi di prospettive brevi, di Gjitonia riproposte oggi identicamente.

E sono proprio gli elevati del bisogno vernacolare, che invece di essere musealizzati, saranno rivitalizzati per restituirgli ruolo fondamentale antico, per essere vissuti al pari di come era uso delle nostre madri e dei nostri padri Arbëreşë.

Per poi essere come i figli che una volta partivano da questi luoghi di formazione, per brillare nelle città, in tutti i campi della cultura, della medicina, della scienza esatta e della politica, giacché motivati da una metrica sociale irripetibile che ancora oggi troverebbe modo di riverberarsi in questi ambiti di iunctura familiare che fa sentire tutti a casa.

Un governo delle donne che forma, all’interno della Gjitonia e, quello degli uomini, lungo i cunei agrari e le botteghe artigianali, misurano le capacita in senso generale, lasciando loro in eredita sensazioni specifiche di cui si è persa traccia.

Nasce così, la filiera dei Katundë Arbëreşë, eccellenze e fondamento del trittico alimentare, l’insieme di cunei agro silvo e pastorali, che ancora conservano protocolli di eccellenza, ricercati in ogni dove.

Infatti attivando il protocollo di accoglienza all’interno dei centri antichi, riattivando gli storici abituri, alimentando la filiera ristorativa, con i prodotti locali, si darebbe avvio a un modello antico di accoglienza, sostentamento alimentare e sociale senza pari.

Il tutto compilato secondo cose genuine, prive di additivi, conservanti, che non vanno oltre la manualità della filiera degli orti botanici di casa, ancora presenti all’interno degli articolati sistemi di iunctura urbana denominati “sheshi”.

E quanti volessero approfondire, questi argomenti perché manchevoli di formazione adeguata del bisogno, basta che dialoghino paritariamente con un Arbëreşë, senza aver necessità di salire in cattedra.

Giacché solo chi siede negli Stenopoi e Plateiai, conosce e vive di sensi acquisiti dal governo delle donne, senza prevaricazioni di genere o istituzione alcuna, come fanno quanti siedono in seggioloni ammortizzati e, non hanno lumi per intravedere le prospettive di questo orizzonte fatto di: parlato e di ascolto del bisogno formativo vernacolare, che si trova depositato nei centri antichi vissuti e allestiti dagli Arbëreşë.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-25

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