NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La gestione dei centri storici Arbëreşë, come quello di tutti i piccoli agglomerati urbani collinari, non identificabili come borghi, secondo le analisi di antropologi, linguisti, urbanisti, e istituzioni variegate, sono la non saggia espressione significativa dello stato attuale in cui vaga, la cultura degli adulti, ma è anche un esempio di come non si debba agire in tutte quelle nicchie culturali, che non sono allocate nei pressi di industrie, dove nulla di sostenibile hanno avuto alcun germoglio.
Con questo studio si vuole evidenziare previ esami specifici, uno dei problemi meridionali e, in dettaglio, cosa abbia spento i cunei agrari della produzione crescita e trasformazione, raramente tema dai su citati analisti che ritenevano fosse mero urgenza abitativa.
E i su indicati argomenti ogni volta che sono stati temi, di congressi o pubblicazioni, i contributi più interessanti sono venuti generalmente da organismi, con mira sociale di un ben identificato luogo abitativo da valorizzare.
Le massime istituzioni preposte di luogo, hanno finora praticamente ignorato l’argomento, salvo che per studi come quanto qui trattato sulla distribuzione della popolazione della regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë; valgano di esempio le eccellenze dei cunei agro silvo pastorale dell’antichità seicentesca, dove restano stese al sole le pene incompiute, in forma radicale, specie dalle istituzioni che hanno sempre sperato di edulcorare l’argomento, con il semplice diktat “Fare Katundë con le Gjitonie tralasciando le cose relative all’agro”.
Siamo perennemente, di fronte a scritti e contributi di studiosi che possono essere qualificati solo in senso estremamente lato, senza mai unire le risorse umane dei luoghi dal punto di vista del bisogno vernacolare più ampio e, le risorse messe in campo dalla natura.
Viene allora spontaneo chiedersi: di che cosa si occupano i professionisti delegati dalle istituzioni, dal momento che non gli interessi il maggiore dei nostri problemi, quello che condiziona tutta la vita sociale, economica e politica, a partire dal cento antico e, poi riverberandosi lungo i cunei agrari della produzione, germogliando economia e produzione sostenibile.
È senz’altro un sintomo assai interessante, è racchiuso nella più semplice risposta, infatti, mentre il trittico di specialisti coadiuvati da istituti locali, che non sentono l’esigenza di una questione che dia unità, scambiata come un piede deforme al posto di un organico e omogeneo sviluppo del Katundë, mentre, i cui sopra, non ne hanno ancora afferrato l’importanza, e soprattutto la drammaticità nel momento attuale, rimanendo imperterriti a formalismi ambientali o linguistici, visto che trattano l’argomento di minoranze, con forti dubbi di autentica analisi economica e sociale.
Il tutto viene inteso come problema marginale, visti secondo gli schemi astratti di una indiscriminata applicazione di uno “standard” culturalmente prefabbricato per altri luoghi e, sempre meno radicato alla dipendenza del territorio, più incline all’industria moderna, che spera nel sole e nel vento, quale risorsa energetica e non di indirizzamento dell’agio agro, silvico e pastorale.
Gran parte delle attenzioni, infatti, sembrano concentrate sul piano regolatore urbano e, la pianificazione regionale; vista esclusivamente da una ampia prospettiva di una maglia di accreditamento, sia come espansione del territorio (decentramento urbano) sia come espansione di rapporti comuni(zona unitarie di ambientali equipollenti).
Prevalgono così, nei piani regolatori esigenze di una civiltà industrializzata, anche in questi ambiti l’industria ha evitato di transitare o fare sosta per fatica inutile, neanche con minimali misure, creando ulteriori accadimenti senza controllo e, formalmente, il malinteso entusiasmo fa aprire il Mezzogiorno una inesauribile “architettura solitaria che imita, senza speranza, le prospettive naturali” e con essa ogni speranza di insediare attività o filiere corte e specifiche di un determinato ambiente naturale, con specifiche produttive irripetibili.
E così nei vari Katundë, villaggi o centri storici recentemente manomessi o svuotati, possiamo trovare, accanto all’influenza di ricreare un “ambiente” che formalmente assomigli all’ambiente delle città metropolitane, ma che inizia e termina nel circoscritto fatto per dormire vegetando.
Da qui nascono le entusiastiche prose elogiative del colore, le rappresentazioni schematiche di vita, le prospettive equipollenti, la cancellazione dei veicolare anfratti, dove si svolgeva la vita all’aperto, e la scuola della consuetudine antica, non trova luogo per formare chi dovrebbe essere parte attiva di una filiera che si riverberava da camino di casa sino dove erano i germogli e le attività agroalimentare senza eguali.
Quando parliamo di Gjitonia in genere fermiamo il discorso nei circoscritti ambiti ameni in memoria della nostra giovinezza, senza avere alcuna consapevolezza del valore iniziatico del lavoro che in questi ambiti nasceva per riverberarsi, sino alla destinazione più recondita dei cunei agrari della produzione solanesca.
Queste osservazioni preliminari sono necessarie, per introdurci ad un breve esame dei comuni piani regolatori che hanno invaso i centri di radice Arbëreşë, i più significativi e interessanti saggi mai resi noti dello stato attuale della cultura, che raccontano gli atteggiamenti meridionali, tra i più vulnerabili, perché consuetudine conservata nel cuore e nella mente del governo delle donne meridionali.
Infatti troviamo nel decentramento suburbani, i contadini che non vivono la Gjitonia, forma fondamentale per allevare nuove generazioni, in tutto che rappresenta il ricambio continuo della stessa e identica attività, una filiera breve che nasce nella proto industria intorno al camino, dove le donne, panificavano e producevano insaccati e derivati della filiera di suini e dei bovini, oltre alla selezione di sorta o esperimenti conserviero alimentare di filiera casalinga.
Il camino della casa il forno comune della Gjitonia, rappresentano la proto industria che attendeva, nei vicoli e nei recinti propri, i prodotti della produzione che poi diventavano sostentamento per l’intera società circostante.
Il cui obiettivo di vita doveva essere infinitamente parallelo alle vecchie abitazioni, secondo cui è lecito chiedersi, quale nuova vita potranno impostarsi e su quale attività rinnovate per sostenere questa storica filiera fatta dal governo delle donne e degli uomini sempre in sintonia tra casa e agro diffuso che la natura qui poneva in essere.
Salvo questo esempio di decentramento, e l’altro di trasferimento delle attività nell’agro, ogni cosa fatta dal nuovo trittico di specialisti, appena abbozzato; né è possibile vedervi la ricerca di una evoluzione per un problema esemplare riassuntiva di tutta la situazione meridionale, unitaria e praticamente spaccata in due, ma che respirano, e vivono fianco a fianco, gli uni alle spalle degli altri, ignorandosi, ma a ben vedere sono cerchi che nascono dallo stesso centro che poi li richiama e li sostiene
Negli odierni paini regolatori, perciò è possibile scorgere soltanto l’applicazione di alcuni schemi astratti, buoni forse per altri luoghi, ma non certo per questi centri che sono stati capitale di contadini e allevatori.
Sono numerosi i casi dove si possono riconoscere le manchevolezze, sottolineate dal fenomeno della fretta demagogica, e nell’impreparazione dei preposti: e noi siamo infatti certi che l’impostazione politica abbiamo un’importanza fondamentale per l’efficienza di un’opera urbanistica che parte dal centro e descrive un’ansa circolare sostenibile.
Ma, nel caso che stiamo esaminando, fino a qual punto le manchevolezze che si riscontreranno nel tempo, come la trasformeranno i nuovi quartieri creati per i cittadini sotto la spinta e l’esigenza della prepotente vitalità o fretta dei politici, e quanto invece dalla mancanza di una preparazione specifica di tutta la cultura urbanistica “ufficiale”, ad affrontare, i problemi concentrici del Sud, non di un meccanico decentramento urbano, ma della saldatura della campagna alla Gjitonia, della liberazione delle campagne, per trasformare nei suoi rapporti sociali, e non soltanto con un cambiamento di casa, un contadino e un cittadino, con uguali possibilità.
Per queste ragioni un piano che regoli e dia forza a ogni cosa va attuato nelle parti che richiedono un intervento dall’alto; non radicato nella situazione meridionale, senza la partecipazione della popolazione da cui è praticamente ignorato, il programma Gjitonia esaurendo le risorse in un’ennesima collezione di lavori pubblici, da fotografare per i manifesti murali.
Anziché elevarsi a strumento cosciente di una nuova vita, che risolve le ansie dei cittadini, i quali non devono solo avere un tetto per la notte, ma anche l’incarico di non avere nulla da fare durante tutto il giorno.
Questo è la peggiore deriva che l’urbanista, segue quando non si rende neanche conto del fallimento di un vero Piano Regolatore.
E l’ostacolo maggiore ad una inefficiente pianificazione è appunto questa volontà di separare le attività che legano la casa La Gjitonia o Vicinato e le attività di scuola dell’agro che attende ancora oggi uomini formati e prescelti, non intesi come docili strumenti o forze negative deboli, ma risorsa unica strumenti per nuove rinnovare innescare processi produttivi e valorizzare territorio natura e la salute degli uomini.
E cioè impostare anzitutto per una coscienza politica in grado di leggere capire e promuovere la partecipazione collettiva della popolazione.
Il Piano casa Gjitonia e agro, avvenire, se si conoscono le cose eccellenti del territorio che compone il Mezzogiorno; un esempio di quel paternalismo che, con l’abituare le popolazioni meridionali a vivere nelle case riverberando processi sociali nella Gjitonia troverà gli strumenti sociali adeguati o la soluzione dei problemi, che tenta di nascondere a se stessa sotto una maschera di ottimismo, sotto il desiderio di evasione fra balconi per rompere l’isolamento feroce che lo lega alla sua vita ormai desolata e senza futuro.
Il concetto di quartiere post industriale si è allontanata dalla scala umana che non è più luogo dove si viva bene, immaginando di andare, tranquillamente al mercato senza sapere come e cosa comprare.
E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria, l’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli inaspettata che non trova agio sociale attraverso una economia possibile.
Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare è imprevista, può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia urbana.
Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene unito, e senza una memoria dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.
Se tra il modulo abitativo e il luogo di lavoro tipico del meridione italiano non interponi la Gjitonia, tutto si perde nelle pieghe della disperazione politica dualista o sociale disorientata
I “razionalisti” si riferiscono a una corrente di pensiero che ha avuto grande influenza nell’architettura e nell’urbanistica del XX secolo, particolarmente legata ai movimenti modernisti come l’architettura funzionalista che mirava a fare una casa per tutti, ma poi come adempiere alle esigenze aconomiche non è stato mai posto rimedi se non la scuola nelle sue pieghe più politicizzate.
Tuttavia, oggi appare evidente vi fossero errori storici o critiche che sono stati mossi nei confronti di queste figure, che copiavano come far rientrare il gatto in casa o ventilare il volume senza progettare e formare o realizzare aspettative di accoglienza economica, che dimettessero in relazione con il territorio e le opportunità li in attesa.
Gli errori storici sono innumerevoli ma basta citare i temi qui di seguito illustrati:
- Eccessivo distacco dalla tradizione e dalla cultura locale:
I razionalisti, nel loro desiderio di creare un’architettura universale, hanno spesso trascurato il legame con la cultura locale e le tradizioni del territorio, mirando esclusivamente industria che in tutti i luoghi di salvaguardia non erano e ne sono ad oggi presenti, realizzando così dormitori diffusi, che di giorno, diventano un modo moderno per delinquere in quanto luoghi di facile e comodo movimento.
Questo approccio ha portato alla costruzione di edifici che, pur essendo funzionali, talvolta risultano freddi, impersonali e disconnessi dal contesto sociale e culturale in cui avrebbero dovuto essere inseriti.
- Semplificazione eccessiva delle forme:
I razionalisti cercavano di ridurre la forma architettonica alla sua essenza, enfatizzando la geometria e la funzionalità. Tuttavia, molti architetti e critici hanno sostenuto che questa semplificazione eccessiva ha portato a edifici che, pur essendo funzionali, risultavano privi di identità che il governo delle donne poteva innestare nelle nuove generazioni.
La ricerca della purezza formale ha talvolta sacrificato l’estetica e la bellezza, portando a edifici che sembrano privi di ogni minimale calore umano infatti mancano tutti sono sprovvisti di forni e camini domestici.
- Negligenza del contesto urbano e sociale:
I razionalisti si concentravano principalmente sull’architettura in quanto tale, spesso senza considerare il contesto sociale o urbano, era il 1978 quando rivolsi la seguente domanda a un mio cattedratico professore: ma a che serve fare case se non si crea una filiera produttiva, queste genti a breve cosa faranno? Mi rispose dicendo mi che ero un semplice allievo e che se non avessi cambiato idea non mi sarei mai laureato; gli risposi che non avevo bisogno di una laurea per essere per fare l’architetto.
- Funzionalismo senza considerare la qualità della vita:
La visione razionalista enfatizzava il “funzionalismo”, ovvero l’idea che ogni elemento architettonico dovesse avere una funzione chiara e fine all’abitare.
Ignorando, in alcuni casi, il benessere psicologico e sociale degli abitanti, come nel caso delle “torri residenziali” progettate senza considerare adeguatamente gli spazi pubblici, la socialità tra i residenti e i luoghi di un eventuale lavoro di filiera corta.
Le abitazioni moderne, prive di un legame con il contesto sociale, hanno spesso creato ambienti impersonali e alienanti di odio e malessere.
- Realizzazione di progetti irrealizzabili o difficili da mantenere:
Alcuni progetti razionalisti si sono dimostrati poco praticabili o difficili da realizzare nella realtà., dove la visione della, città completamente rinnovate, immaginava spazi per la vita non sempre tecnicamente sostenibili. L’ideale del “macchina per abitare” ha spesso trascurato le necessità quotidiane degli utenti, risultando in spazi difficili da mantenere o da adattare per dare agio alla macchina del lavoro di ogni individuo.
- Impatto ambientale e sostenibilità:
Un altro aspetto che i razionalisti non avevano considerato in modo adeguato è stato l’impatto ambientale delle loro costruzioni.
I modernisti, pur cercando di adottare tecnologie innovative, non si preoccupavano in maniera sufficiente della sostenibilità a lungo termine degli edifici, che in moti casi dopo qualche decennio hanno terminato di essere vivibili e delle soluzioni razionaliste hanno avuto un impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità ecologica, che oggi deve correre ai ripari con spese non sostenibili.
In sintesi, sebbene il razionalismo abbia portato un contributo dell’abitare, molte delle sue realizzazioni hanno sollevato critiche che riguardano la disconnessione tra contesto sociale e, rigidità funzionale verso gli aspetti emotivi estetici ed economici che qui non sono mai stati tema di dialogo a lungo termine.