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I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

Posted on 12 agosto 2024 by admin

Regno1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La filologia è un insieme di discipline che studia i testi di varia natura, inizia con quelli antichi confrontandoli via via con quelli più contemporanei e, ripercorre la forma originaria con analisi critiche o comparativa delle vicende trascorse.

Sono i Filologi che dovevano essere protagonisti nel corso della compilazione della legge 482 del 1999 e, dare merito e misura del giustificare di chi e cosa poteva accedere di diritto, nella lista che avrebbero usufruito dei benefici di legge, assegnando un titolo e valore agli Arbëreşë che non sono citati.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Indo Europea possa vantare.

Comunemente traducendo Gjitonia simile al “Vicinato”, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato di scambio, quale mercato o monte del prestito e, nel contempo vedeva e sentiva in arbëreşë, in poche parole un luogo nebuloso o impolverato dove s’imprestavano cose.

Tra le più inopportune citazioni ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada, a cui fanno seguito un’innumerevole quantità di temi di concetti, copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, lo stesso che ancora vaga senza pace.

Non ultimo il riferire del concetto di vicinato, estrapolato dai documenti della vergogna sociale che avvolgeva i Sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il tema di vicinato sviluppato in una delle nove relazioni prodotte per indagare, questa piega sociale, rielaborato furbescamente in forma arbëreşë, da quanti della minoranza non conoscevano idioma, consuetudini secondo i minimali e rudimentali protocolli di storia moderna, per dare senso al circoscritto immateriale.

Che la Gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo, è un dato di fatto che non finirà mai di stupire e, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini, la storia, il tempo e i luoghi della minoranza arbëreşë, che ha saputo svilupparla.

Essa è un’esigenza vernacolare locale, tipica di un corridoio tracciato dai paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, estendendosi dall’estremo piò ad este della Grecia, sino a quello più ad ovest del Portogallo

Quando si nomina, Gjitonia, essa risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione o metrica possibile; essa s’insinua con le sue radici nel protocollo di iunctura familiare, per questo solo chi ha avuto la fortuna di viverla, può avvertire e riconoscere, quelle sensazioni di consuetudine antica post moderna o globale.

In altre parole, i principi etici o prescrizioni, la cui compilazione tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile diretta dalle donne e sostenuta senza apparire dagli uomini.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, in altre parole, la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri, imposti da regnanti stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreşë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per dimorarvi, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati liberi di esprimere questi valori di antica radice sociale mediterranea, organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti assegnati ai generi umani, diviene la parte materiale di regole conservate nell’immateriale memoria e nell’amore del cuore.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni di Iunctura familiare mediterranea.

La famiglia allargata infatti, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive discendenze, in tutto si formavano gruppi, non minore di una dozzina, tra maschi e femmine, dove ognuno dei quali/delle quali, erano o meglio venivano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità e in parallela autonomia.

Questi erano in forza allo sviluppo dei noti Sheshi, che pulsavano positivamente e senza sosta nel formare i centri antichi tipici dell’urbanistica, che sosteneva la integrazione e la fratellanza tra popoli nel mediterraneo.

Il modus operandi andò sempre più regredendo, integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, per questo il modello di “famiglia allargata” dovette cedere il passo al modello di “famiglia urbana”.

Il passaggio epocale di questa iunctura familiare dura sino agli anni sessanta del XX secolo, quando inizia o sgretolarsi in forma numerica, per la necessita di nuovi esodi economici migratori verso il nord Italia ed Europa, ed ecco che si restringe la consuetudine locale, all’interno dei propri spazi abitativi e, adesso con la porta dell’ingresso non più aperta.

Quando la famiglia allargata diventa gruppo urbano resta isolata, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare, l’elemento che garantisce il riconoscimento di antichi legami di fratellanza sin anche generica.

Notoriamente esso è intercettata nelle armonie condivise dei cinque sensi, di unica memoria, ed è così che si avverte ancora il senso di Gjitonia; tatto, odori, sapori, suoni, una ideale dimensione senza un confine circoscritto, in tutto avvertire nel cuore nell’animo e nella mente intime, il riverbero di quelle note antiche.

A tal proposito trova agio restrittivo l’enunciato: la Gjitonia è dove arriva la vista e la voce; riferito come ultimo arazzo in Arbëreşë da una anziana donna sandemetrese, registrato da un non parlante ricercatore, il quale lo fece tradurre agli allievi ascoltatori di un corso accademico nella Calabria citeriore, senza alcuna formazione lessicale, per poter essere poi dato alle stampe, con tema compilato secondo protocollo filologico.

Ed è per questo che oggi comunemente la si paragona a modelli impronunciabili, con fondamenti di natura puramente materiale.

In tutto, avendo ed essendo, le nuove generazioni, smarrito il senso di quei patti antichi immateriali, gli stessi che la società di oggi non può conoscere, in quanto, non le ha mai vissute e non averle avvertite, le stesse che germogliarono misure dell’identica naturalezza sociale della terra di origine.

Queste non potevano essere intercettate in luoghi vuoti ripopolati in estate dai figli delle generazioni, ormai più in vita che nei paesi venivano a villeggiare d’estate e, venivano intervistati d’estate nel mentre con i vecchi amici giocavano a scopa, briscola e tresette nel bar della piazza.

Metri e metri di registrazione che non possono e ne potevano imbrigliare un governo di cose immateriali che, sfuggiva dai limiti della loro mente; ed ecco che arriva il suggerimento antropologico di un ricercatore, che consiglia di andare per luoghi estrattivi a trovare agio di studio nel vicinato di un altro parallelo terrestre.

Questa ricerca è il risultato di un decennio di indagine dove i diretti interessati e divulgatori nonostante gli scritti comprovanti negavano di aver mai preso parte alla crociata della Gjitonia come il Vicinato.

Gli interessi groppi dipartimentali allargati poi davanti all’evidenza si restringevano all’interno delle proprie stanze e quando il ricercatore con discendenza e memoria di Gjitonia, trovava porte e finestre chiuse dove si udiva discutere animatamente, all’esterno la conferma di essere nel giusto mie si potevano diffondere le nuove ricerche che nel 2014, salvarono l’agglomerato da me difeso in giudizio per non essere demolito, almeno sino al 2039.

Quando si aprono le porte tutti sorridono, ma in cuore loro tutti sanno che quell’antico governo che sosteneva la scuola dei sensi è terminata e, non tornerà più in vita, e oggi per sopperire a questa storica mancanza locale si chiamano gli indigeni più estroversi a imprimere messaggi figurativi di un passato senza alcun sentimento o senso di luogo.

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LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

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LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

Posted on 06 agosto 2024 by admin

1943NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È notte, le strade sono deserte, un personaggio irrequieto del paese, irrompe nella piazza vuota, gridando: “La piazza è mia”; questa è una delle scene più belle del film “Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore”.

Il film che ha come oggetto la piazza, riferimento storico primo dei suoi abitanti, purtroppo è una bugia diffusa, in quanto essa rappresenta l’occupazione irresponsabile, di estranei e di figure senza alcuna forma di rispetto per quel luogo, rappresentativo dei locali in continua pena.

E siccome, quasi sempre, la piazza è circoscritto o vetrina di politici, tecnici, burocrati, imprenditori e, ogni sorta di figura che vuole mettersi in mostra, sin anche riferibile a occulti e diffusi poteri, tutti apparendo in veste buone finiscono quasi sempre lì a insediarsi.

Il libro a titolo, racconta la storia urbanistica di un paese, allocato alle porte di Palermo, il di cui male in affari, tenta di impossessarsi e per questo, viene elogiato quanto impegno viene profuso da quanti si adoperano ancora, per sostenere la piazza libera da ombre oscure.

In tutto è il racconto di un’esperienza emblematica di azione urbanistica di contesti malavitosi, dai quali noi siamo completamente estranei i piccoli centri urbani in povertà.

Tuttavia è forse possibile trarre qualche riflessione o spunti utili dal rapporto che scaturisce tra, straordinarietà e ordinarietà nella gestione del territorio e dei suoi elevati.

L’interesse per la Piazza nasce, in quanto luogo di promesse e falsità consegnate per essere condotte a buon fine e, per questo si dispone il figurante locale sempre presente, nel corso di eventi.

In tutto fatti e cose delle generazioni dagli anni cinquanta del secolo scorso sempre attiva e presente, il cui obiettivo mira a  è denunciare, riflettere e disporre in modo ideale, su come sia possibile fare le cose con parsimonia, finalizzata al bene della comunità, escludendo ogni ambizione personale di gruppi organizzati, atti a disturbare sotto false vesti il buon nome di luogo.

Ognuno di noi ha una piazza che considera e sente propria, per i trascorsi che lo hanno visto protagonista incontrastato o elevato con la crusca locale per le capacità innate, palesemente dimostrate in quella piazza, con riti di cadenza confermate dagli astanti, segnando episodi qualitativi e quantitativi salienti, del vivere civile, specie se di crusca Arbëreşë.

In specie, la piazza storia del centro antico di Terra di Sofia, è stata la prima prospettiva larga, oltre la recinzione dove sono cresciuto sino a cinque anni, diventando parlante di loco senza dubbio di pronuncia locale, per poi attraversarla e, andare all’asilo prima, poi frequentare la prima elementare, in quella stanza con camino, lavagna banchi e cattedra, posta nell’angolo opposto del quadrilatero in pianoro.

Qui in questo spazio ameno, ricevette sin anche la prima bocciatura, perché il professore distratto, lo credeva muto, ed è sempre qui che da giovinetti la Bugliari, mis Italia, redarguiva perché il figlio si scatenava sudava troppo e, dava agli onnipresenti Atanasio e Marcello ogni colpa.

Va in oltre sottolineato che su questa piazza nota come “Trappesà himè”, ovvero la “Piazza Mia”, lo studioso e poi architetto venne incoronato a intraprendere gli studi; per tornare un giorno non remoto a, illustrare quale significato avessero gli edificati che la perimetravano, assieme a quelli apposti in secondo piano, sino alla parte più estrema del centro antico di memoria Arbëreşë.

Compito che del natio di loco, ebbe modi di attuare con titolo secondo accademico, dato che il primo, quello della crusca locale lo aveva già acquisito nelle Terre di Sofia, in giovane età con i migliori educatori dell’epoca, poi estinti e non più parimente disponibili.

È in questo pianoro che amici parenti e la futura moglie, si disposero guardando il sole che sorgeva la mattina prima di andare in chiesa e fare nozze.

È qui che gli furono negati aiuti e risorse, per poter dare seguito alla nascita in una nuova stella, che dovette spegnere prima che prendesse forma riconosciuta.

È da oltre due decenni che attende di dare agio e luce a questo anfratto storico locale, come a tutti gli altri che compongono il centro antico e l’agro di pertinenza.

Mentre qui sono continuamente invitate persone meno adatte da ogni dove  indigeno, per parlare di cose scomposte e senza senso locale, addirittura di architettura storica o vernacolare, la stessa, che ha reso il Trappesò unico, irripetibile e, non da sottoporre alla pubblica Furcillense degli Arbëreşë, ammesso che ne esistono capaci di sottrarli a questa antica gogna, fatta di comuni viandanti, o frequentatori seriali di archivi e biblioteche, gli stesso di sovente facenti uso basare le proprie ricerche non su progetto, come in genere fanno i maestri, ma abbarbicandosi a documenti singoli dei quali non sanno interpretare e tradurre neanche i tempi della punteggiatura.

Tuttavia un dato rimane ineccepibile o incontrastato, ovvero il non essere mai stato interpellato dai comuni conduttori locali, se non per appunti o pareri trascritti in fortuna frammentaria, gli stessi che una volta riletti, sono stati diffusi per conto e studio dei liberi e inadatti liberi pensatori locali.

In quella piazza fu stretto un patto di studio, tra l’eccellenza della lingua storica Arbëreşë e, un futuro architetto, a cui fu chiesto di rileggere e svelare, la storia del costruito, o meglio il genio di minoranza Arbëreşë, è qui che fu stipulato con una promessa data con una stretta di mano il primo impegni di studio che non fosse radice di albanese parlato, ma compositivo materiale.

Patto che ancora oggi attende di essere definito secondo la richiesta dell’eccellenza locale in campo idiomatico che ancora nessuno propone o mette alla prova perché concetto inarrivabili, e mentre il tempo scorre e cancella le cose, mentre chi di dovere si esibisce in cose senza platea, perché il fine primo rimane, salire sul palco disadorno, per apparire, senza alcuna finalità informativa, per la comunità; la stessa che intanto si rifugia nell’ombra o nel buio culturale senza un domani.

Nasce come luogo lacustre che sfiorava i il vuttò della mensa vescovile, frequentato di poveri che qui si recavano raccogliere il prezioso trappesò alimentare e, cibarsi alla stregua degli animali con resti di mensa intrisi dal lavinaio.

Sviluppatosi come spazio inedificato nella schermata aerea eseguito dalle truppe alleate l’undici agosto del mille novecento e quarantatré, alle sette e cinquanta cinque, il circoscritto, secondo una storica addetta dell’istituto geografico di Firenze, era appellato il paese con la piazza grande.

Storicamente esso è stato un luogo acquitrinoso o Vutto diffuso, disposto tra le spalle della parte bassa del paese e, la più inferiore della alta, recuperato e rifinito nel corso del secolo scorso da quanti li avevano pertinenze prospicienti.

Alla metà degli anni cinquanta, quando il circoscritto Trappesò, venne migliorato nel suo aspetto e, vi furono elevati l’ina casa, l’edificio delle suore basiliane, l’asilo e la residenza parrocchiale, e allocato nelle pertinenze del palazzo Bugliari la sede Comunale di Terre di Sofia e, il quadrangolare che fungeva da piazza, venne definitivamente valorizzato, reso fruibile con caratteristiche strutturali e architettoniche dell’epoca in forte ascesa, carrabile.

Il luogo inizia la sua funzione di unione, con l’istallazione del frantoio e del mulino, che qui portavano continuamente i paesani a trasformare ulivi in olio, grano in farina e crusca, in tutto, due stabilimenti moderni ed elettrificati, che innestarono un più agile sistema di trasformazione, non più disperso nell’agro, trainato dal torrentizio Galatrella o Vote, ma nel centro più intimo e antico dell’abitato, dove la memoria rimane, nessuno la legge con educazione, garbo e buon senso.

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MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

Posted on 02 agosto 2024 by admin

mandorle-albero-convicinum-1024x681NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto BASILE) – Nel corso e la durata degli excursus turistici locali nei “Katundë Arbëreşë”, in genere sono evidenziati, i principali manufatti architettonici civili e religiosi e, alcune sottigliezze figurative moderne, invece di elevare i trascorsi di questi luoghi, e mi riferisco a tutte le cose che potrebbero essere esempio e vanto di coesione sociale, preferendo illustrare cose comuni di secondo ordine.

Si ignorano così, lasciando in secondo ordine le prospettive storiche, fatte di elevati in diversa forma e misura, vichi, archi, orti, il tutto secondo l’antica consuetudine di Iunctura familiare, le magiche Gjitonie senza confini, di generi e natura.

La storia dell’architettura o genio dell’uomo, è articolata in base a episodi significativi, tuttavia e nonostante tutto si preferiscono espedienti secondari al fine di orientarsi e confondere gli stili, che in questi luoghi sono vanto e primato di evoluzione fraterna

Il dato che prevale del protocollo storico, sono le vicende marginali, inutili e dispregiative, in tutto, coloritura moderna senza rispetto del luogo dove sono apposte, incoscientemente dall’infante che saluta strillando a voce alta “MIrë Mëbrëma” che è un inno di Albanistica moderna.

Tutto il figurativo deve avere un attestato di riconoscimento storico a monte e certificato dalla crusca locale, al fine secondo cui, quanti si accingono o vogliono fare da guida per illustrare, o far emergere tutti i tasselli della storia che conta di un luogo, sano consapevoli che sia vera radice del genio consuetudinario Arbëreşë e non di altra stirpe alloctona o di “Stellare Operato”.

Questo breve, mira a sottolineare le principali tendenze dell’architettura, prima estrattiva poi additive e in seguito intercettandone la sintesi più intima e accessibile (la più esaustiva) degli stili e di cosa abbia sostenuto e accompagnato le famiglie Arbëreşë, in quel percorso di Iunctura sociale.

Lo stesso che rende questi luoghi, percorso dell’integrazione in terra parallela ritrovata, di popoli antichi che diedero linfa al germoglio delle società moderne in allestimento nelle terre di origine.

Qui tratteremo del “mandorlo storico”, ovvero, la memoria dell’orto botanico della famiglia Bugliari di sopra, in Terre di Sofia, dal del XVII secolo, gli stessi ambiti dove si elevarono le case nobiliari del casato, oggi note come Museo del Costume.

Un mandorlo che nasce inclinato si un terreno instabile e poi l’uomo e la natura lo resero pianta nobile che mira orgogliosa da secoli verso l’alto a respirare aria ed essere rifocillata dalla luce del sole.

In tutto un esempio dell’uomo che nasce piccolo e deforme e poi si eleva orgoglioso ad essere guida e agio per imeno fortunati di genio storico, educazione e rispetto verso le cose e del prossimo.

Una estensione Botanica a servizio del manufatto edilizio di rappresentanza nobiliare, alimentato da tra reflui o lavinai storici naturali, due posti alle estremità del rettangolo arboreo e, il terzo fungeva da divisorio idrico della parte floreale, più rappresentativa, posto ad Ovest, da quella botanica, medicale più essenziale e meno appariscente, posto ad Est.

Di queste essenze arboree e floreali ad oggi restano solo il mandorlo dell’ina casa e un ulivo bianco riproposto selvatico di memoria, tutto il resto per necessità edilizia abitativa e di rappresentanza, ormai dismesso rumane traccia solo il mandorlo storico e l’ulivo di memoria ripiantato.

Questi due esempi di memoria, aprono uno scenario di Iunctura familiare, che riporta la memoria agli orti storici del centro antico, che a buon ricordo, non erano pochi o episodici spartani senza utilità specifica.

Vero è che consultando antiche planimetrie del percorso e dello sviluppo del centro antico nel corso dei secoli, si evincono un numero consistente di orti, più propriamente botanici che ortofrutticoli, infatti, erbe e attività medicinali avevano la priorità rispetto ad altre piantumazioni.

A tal fine corre in nostro supporto sin anche la toponomastica manomessa, relativa alla detta “Via degli Orti”, che un tempo, delimitava, con una murazione le pertinenze familiari dei gruppi indigeni, con quelli che si associarono agli epiroti di primo arrivo e disposti lungo la via Morea e Albania.

Conferma, di quanto sino ad ora accennato, sono l’organizzazione sociale de tipici Sheshi, ovvero i rioni che compongono questo centro storico di antichi sistemi di confronto e movimento lento, che si difende non dall’esterno con cinte murarie, porte controllate, ponti levatoi e ogni sorta di impedimento circoscritto.

Vero resta il dato che questo modello di Iunctura sociale si difende dall’interno, evitando che quanti non appartenenti alla fratria sociale nota, non trovano agio nel recarsi attraverso le articolate viuzze, vicoli senza sbocco, archi di misura, orti botanici, il tutto a servizio delle piccole dimore disposte per rendere controllate le vie su cui affacciano i tipici accessi/finestra, sempre aperte e quando non lo sono, un piccolo occhio vigile, controlla la cadenza dei passi, dalla apertura di ventilazione gemellata alla porta di accesso.

Un sistema metrico di percorrenza lenta, sempre controllato e mai lasciato al caso, dove le grida dei ragazzi intenti a giocare, il suono della campana della chiesa, associato ai battiti che segnano le ore e i tempi della preghiera, associato agli odori della lavorazione casalinga giornaliera e stagionale della proto industria.

Tutto questo associato al vociferare del governo delle donne, la cadenza del parlato delle giovani generazioni, ogni passo del vicino di casa, quando torna dal duro lavoro dei campi, rende magico questi abbracci materni dell’architettura, nati dal genio e la consuetudine; un matrimonio ideale, germoglio indelebile del divulgare con garbo, il sapere e il vivere sociale Arbëreşë.

Storicamente è notoriamente diffuso il dato che la disposizione degli Sheshi Arbëreşë, unisce un numero considerevole di orti botanici nell’articolato sistema urbano.

La finalità mirava ad avere un ventaglio completo di erbe medicamentarie per la sostenibilità della medicina empirica, quella che utilizzava intrugli naturali.

Il protocollo ha una radice antica è nasce dal genio di un pellegrino greco di nome Pontus, che fermato nella città di Salerno, nel corso della notte scoppiò un temporale e un viandante malandato si riparò si trattava del latino Salernus; quest’ultimo era ferito e il greco, si avvicinò per osservare da vicino le medicazioni che il latino praticava alla sua ferita.

Nel frattempo erano giunti altri due viandanti, l’ebreo Elinus e l’arabo Abdela, tutti assieme si dimostrarono interessati alla ferita e alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di medicina.

Decisero allora di creare un sodalizio e di dare vita a una scuola dove le loro conoscenze potessero essere raccolte e divulgate. L’incontro tra i viandanti sotto le volte della via che dal Monastero di S. Sofia conduce al Monastero di S. Lorenzo siano I leggendari fondatori, della scuola di medicina empirica; identificati in Garioponto (Pontus), Alfano di Salerno (Salernus), Isacco l’Ebreo (Elinus) e Costantino l’Africano (Abdela).

Questo è un breve accenno sull’origine degli orti che caratterizzavano ogni Katundë arbëreşë, gli stessi che nel corso dell’amministrato inopportuni degli ultimi decenni ha dismesso e cancellato ogni sorta di orientamento, medicale, storico consuetudinario e religioso della memoria.

Di questi spazi medicali e delle regole di utilizzo, valga di esempio l’aneddoto che qui mi appresto a raccontare, con protagonisti, mia Madre Adelina, Francesco e Achille i suoi due confinanti: lei una donna minuta ed energicamente puntigliosa mentre i die confinati espressione di primati di sopruso continuato nei confronti di tutta la comunità sofiota in misure olearie e di confini.

I tre confinanti con i reciproci orti botanici, avevano una stradina comune, un vicolo cieco, che serviva i tre possedimenti del centro antico, e quel vicoletto a percorrenza pedonale era esclusiva dei tre.

Francesco ed Achille, pretendevano: siccome i loro appezzamenti erano posti ai lati della strada e quello di mia madre Adelina a termine, era possibile per loro attraversare il giardino di Adelina a loro piacimento.

Premesso che anche se questa discussione avveniva alla fine degli anni settanta del secolo scorso e tale regola è riportata sin anche nel Kanun di Leke Dukagjini; non certo mai letto da nessuno dei tre discutenti e, a quel tempo anche me compreso.

Ma la risposta di mia Madre, Adelina Basile la Figlia di Antonio prima zitti i due faccendieri di gratuita percorrenza e, poi li fece voltare e andare verso casa loro con la testa china.

La frase fu questa: Hoj Franghì; Hoj Akj, voi conoscete bene la regola del vicolo cieco, ma se nel caso l’avete dimenticata, la porta del cimitero è sempre aperta, andiamo tutti assieme nelle tombe dei vostri cari genitori e, ripetetemi quando qui affermato se avete onore.

La regola dell’antichità Iunctura familiare, si riverberava qual giorno, come da secoli negli ambiti del centro antico, in Terra di Sofia.

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ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI  (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

Posted on 28 luglio 2024 by admin

ImmagineNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La cultura dei popoli si manifesta nel corso del tempo e, poi diventa storia, attraverso l’ausilio di due strumenti fondamentali, l’uno relativo all’ascolto orale e, poi seguito in epoche più recenti da quello scritto.

Due modalità espressive o tec­niche memorative, il cui apporto consente l’ampliamento e la conservazione della me­moria, for­nendo e permettendo all’esperienza individuale e collettiva, un nuovo supporto per un nuovo vivere, in tutto, lo spiccato ruolo propulsivo del processo che porta al migliorarsi della collettività.

Da ciò quanti sanno parlare e scrivere diventano veicolo di un potere comunica­tivo maggiore rispetto agli altri e, godono anche di un potere sociale e politico verso la collettività che li segue.

Infatti, poiché l’organizzazione civile è codificata in norme tramandate e scritte, i governanti hanno avuto bisogno di chi fosse in grado di utilizzarle, per poi tramandare ai sudditi per leggerle leggerle e riportarle.

Questo è allo stato un processo negativo che conduce la collettività a dividersi e produrre pensiero di confronto, che allo stato moderno delle cose non conducono a nulla di propositivo o di beni uniformemente distribuiti.

Anche i sacri granai sono basati sulla rivelazione delle scritture dette sacre e le consuetudini pubbliche, hanno avuto agio e si sostengono degli stessi espedienti o esigenze dirsi voglia.

Quanto maggiore è la capacità di raccontare, ascoltare, scrivere e leggere, altrettanto profondo è il gradiente per coinvolgere la collettività verso il sole il sole che sorge o verso dove tramonta.

La diffusione della scrittura attenua le differenze sociali e garantisce la genuinità delle cose perché dette o scritte da altri tempo prima per questo è un susseguirsi di attestazione o riverso di equipollenza mai attestata in duplice miracolo.

Da ciò deriva l’importanza dell’apprendimento della scrittura in ogni società che miri ad incuneare l’armonia più opportuna al sociale in crescita.

Il grado con cui viene diffusa la scrittura in età storica mira a diventare in epoca più recente un sicuro indice di cose fatti e uomini, che ha solo la verifica del riportato, abbarbicato nell’assoluto protagonismo dello scrittore che riporta fiero la certezza delle cose, dette o scritte da altri senza verificarne i contenuti.

Un tempo quando i riportati scritti alteravano il senso delle cose, si ricorreva alle diplomatiche, ma queste essendo motivo di approfondimento di fatti e cose, furono espulse dai canali forti della politica e della cultura alla fine del XVIII secolo.

Il cammino della collettività verso una consapevole coscienza della propria civiltà, nei fatti diventa dominio degli strumenti e dei prodotti del­la scrittura.

Nei fatti un processo graduale, non necessariamente e progressivamente lineare, in quanto gli unici ad averne agio e profitto sono le sfere alte del potere della società, quest’ultima inevitabilmente coinvolta per sostenere e valorizzare le pieghe della politica forte, o di quanti costruiscono piramidi senza contenuti e agio collettivo.

Lo sforzo se poi è rivolto verso una minoranza storica bisogna dedicarsi con molta passione e appropriarsi degli strumenti della cultura raccontata e scritta, della propria appartenenza evitando di cadere nel carsico invaso dei comunemente evitando di rendere l’invaso culturale, penoso acquitrino della sua storia.

E questo accade quando si utilizzano senza ragione sostantivi, pronomi, aggettivi e verbi non si fa altro che depositare nelle distese naturali pronte a dare germogli buoni, forme estreme che inquinano e fermano il naturale progredire dele cose utili all’uomo.

L’esempio più dannoso in campo culturale lo si può riassumere nell’utilizzare caparbiamente Arberia per indicare una regione storica come quella sostenuta dagli arbëreşë, che come un lago carsico, depositandovi eresie diventa palude non più atta a fare emergere germogli di cultura, ma frenare e non far emergere frutti buoni di quelle terre, che a quel punto ha degenerato in lago carsico, privo di ogni defluenza futura possibile.

A ben vedere anche l’equipollenza risulta essere storicamente un culto spontaneo e largamente diffuso in questi ambiti carsici, che sono colmi di elementi senza indagini specifiche e senza attendere il verificarsi di prova miracolare.

Tutto il prodotto culturale termina con le beatificazioni e canonizzazione del trapassato, per il quale non si esegue un regolare processo per individuare l’esistenza di un dato riconosciuto, quindi, credenza senza prova alcuna.

Questi sono gli elementi che senza soluzione di continuità servono a sostenere e valorizzare il patrimonio fatto di sacrifici senza eguali portati a buon fine da fondamentali figure, oggi sostituite da comunemente o viandanti locali, quali essendo i rappresentanti di istituti o istituzione dirsi voglia seminano fatuo.

Sono questi ultimi che non fanno altro che mirare alla Iunctura sperimentale, riversando nel carsico contenitore, cose e fatti mai avvenuti o che abbiano un barlume di consuetudine Arbëreşë.

Il concentrare senza soluzione di continuità i questo invaso, detriti culturali in forma di editi, dicerie e costumanze senza alcuna regola, ha frenato il normale deflusso o movimento culturale, quello indispensabile che portava eresie e ogni cosa dannosa verso il mare, grazie al quale per la sua salinità rendeva i ristagni concime per la semina buona.

Arrivare a questa deriva di equipollenza carsica, così estrema, denota un danno prodotto irrecuperabile, e come se i genitori che vivono in una casa con i propri figli e parenti, vendano furbescamente per fare commercio, le parti costituenti le fondamenta della propria casa, senza avere misura del dato che in ogni momento, gli innalzati o orizzontamenti facente parte del fabbricato, dove vive e opera la comunità, trasformarsi e fare tragedia di loro stessi.

Altra marea di affluenza carsica sono le attività poste in essere o messe in atto, con risorse pubbliche e, senza alcun tema o diplomatica assegnata per finalizzare con senso le cose, a cui fanno seguito risultati di genere alloctono; gli stessi che non contribuiscono alla conoscenza della formazione generazionale future di questi luoghi, notoriamente diretti e certificati senza controllo e se avete dubbi in tal senso fate nota e visare illuminato ogni scenario ormai a termine.

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE  (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Protetto: L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Posted on 21 luglio 2024 by admin

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LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE OGGI IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Bashëkia thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

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Posted on 20 luglio 2024 by admin

Senza titoloNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza egualmente tutelati come pervenuti.

Sono spesso contattato ripetutamente per ricevere conforto culturale dalla mia professionalità per riferire cose inedite, dalle stesse persone che poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 a ingegnarmi secondo un nuovo stato di fatto indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e di memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo e appartenenza.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a uniformare la storia di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre che forse non vedrà mai agio storico o memoria da individuare.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento e distribuire attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune.

È stato proposto di formare giovani figure locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari e della credenza.

Tuttavia si è preferito are agio a liberi interpretatori di cose mai esistite, che accolgono turisti per raccontare il luogo di movimento secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcun fondamento storico se non il comune campanilismo locale che tritura ogni cosa.

A tal scopo sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi estranei alla storia dell’architettura, che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, borghi con Katundë, Gjitonie con Vicinato e Sheshi con Piazzette e in ultimi mattoni in laterizio con moduli di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, scambiando la frequenza assidua delle botteghe storiche dell’architettura partenopea in collaborazione non dipartimenti, la stessa che non ha eguali e ti rende unico e completo professionista il giorno della laurea, un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia storica oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali ed estetici di ogni edificio storico, posto in esame, sino archivi, cattedrali o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di stabia, la casa rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline che consentono di dialogare e trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico con giullari e vocabolari che procedono all’incontrario o meglio a modo di Caposotto.

Il mio Grido di dolore è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, esso mira a formare gruppi di “giovani guide” che con il garbo e i modi tipici dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti distratti e turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione e del genio locale che ha sostenuto con sudore e patimento, negli Shëşë articolati di Iunctura familiare Kanuniana, la dieta mediterranea, qui  ancora pronta ad essere apprezzata nella ristorazione locale.

In tutto una ospitalità unica che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere  ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un modo, una sensazione, un privilegio per vivere fraternamente e senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che non siano regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

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LA TRANSUMANTI CULTURALE DA OLTRE ADRIATICO NELLA REGIOONE STORICA ARBËREŞË (Kielgnenë ziapë dji e lljopà, pà diturë ku jan e venë  i tue shëajturë)

LA TRANSUMANTI CULTURALE DA OLTRE ADRIATICO NELLA REGIOONE STORICA ARBËREŞË (Kielgnenë ziapë dji e lljopà, pà diturë ku jan e venë i tue shëajturë)

Posted on 13 luglio 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È diventato uso comune, rifugiarsi in azioni a dir poco inopportune per non dire senza alcuna fondatezza storica e, prive di ogni minimale formazione, che dia agio o dignità a quanto si espone al pubblico giudizio.

Infatti i comuni operatori culturali, appaiono privi di ogni dignità, in tutto, senza una minimale vela maestra, capace di fornire un minimo di aderenza al pennone che potrebbe far muovere quella minuscola caravella, preferendo a questo, apparire per praterie dove calpestano le radici della memoria dello storico protocollo consuetudinario Arbëreşë.

Miseri stracci o, rattoppi di lenzuola vengono utilizzati a modo di vela, millantata di buona fattura, sin anche in grado di solcare le onde storiche della cultura locale; ma purtroppo per i straccivendoli, non si trova mercato, se non nei vicoli Furcillense, presentate al comune viandante, come mercanzia di eccellente fattura tessile.

Purtroppo non è cosi, in quanto non basta possedere ago e filo di Adelaide e, rammendare stoffe multicolori per coprire, forme intime illudendosi di non apparire equivoche alla vista delle altrui genti.

A tal proposito si potrebbero elencare un numero elevato di attività portate a inutile e dannoso fine di rappresentanza, le stesse che hanno innescato e prodotto la deriva, oggi divenuta peggiore del “Mercato Furcillense dei pacchi colmi di adobe e non seta rara”.

Quello noto sino a qualche anno addietro, perché ogni pacco, rifilato per buono, conteneva mattoni usati e sporchi di cemento, il cui risultato produceva truffe a discapito dei malcapitati che sorridenti si allontanavano da questi luoghi, certi di aver fatto un buon affare, con poco danaro.

Un tempo questo avveniva solo nella capitale del regno, ma purtroppo, oggi è uso comune anche nei piccoli centri, resi culturalmente simili alla Furcillense via, naturalmente, usando lo stesso metodo per fare eccellenza e, i pacchi invece di contenere mattoni, contengono principi culturali fasulli, come ad esempio: Borghi indigeni per Katundë Arbëreşë; Sheshi per Piazzette; Gjitonie per Vicinato; Bambini pronti a stipulare matrimonio; santi per condottieri; vili cavalieri per nobili erranti; oltre una miriade di pacchi preconfezionati presentati come consuetudine di eccellenza del Governo delle donne Arbëreşë, in tutto, una notevole quantità di pacchi opera dei transumanti che emulano le cose della consuetudine di radice storica di quello che un tempo era oltre adriatico.

Lo stesso gregge senza testa, che oggi è diventato vanto di stolti, i quali, senza alcuna consapevolezza delle cose che espongono nei loro mercatali atti, garantendo, siano avvenute nei luoghi di memoria locale, le stesse che i saggi considerano vergogna culturale.

Si parla delle famiglie storiche locali senza alcun contegno e, al solo pensiero per quanto dolore abbiano generato e profuso nei confronti di madri, figli, mariti e Gjitoni per molto tempo, i transumanti culturali proprio per questo immaginano che non sia più memoria di pena locale infinita.

Capita di sovente che per elevare il valore culturale delle consuetudini più intime, i comuni transumanti, per più elevarsi a scapito delle consuetudini più intime degli ambiti Arbëreşë, si cimentano in costumanze a dir poco offensive, disponendo nei banchi mercatali di arrivo in festa, le dette “Transumanze Inopportune Albanesi Moderne e Occulte” (T.I.A.M.O.), i quali, sbarcando in regione storica ritengono,  sia vanto addobbarsi con effigi mussulmane, oltremodo sormontate da caprini cornati, mirando a illustrare a noi Arbëreşë, come fare per non essere migliori dei credenti Bizantini.

Non ultimo, ma si ritiene sia il più inopportuno, osservare nel cimentarsi in costumanze a dir poco offensive, disponendo nelle manifestazioni finanziate con soldi pubblici, modificare e rendere più vuote di valori e colori locali le prospettive storiche per farle apparire che non avrà mai un orizzonte Arbëreşë.

È sovente trovare possedimenti abitativi appartenuti a quanti vennero sterminati e, oggi proprietà non della parentela di nuova generazione, che vergognandosi del maltolto, per distrarre la memoria locale, assembla atti e documenti non di storia vera ma di cicli brevi del comune apparire o affrancare numeri a volumi storici.

Ormai i percorsi di transumanza sono innumerevoli al punto tale da essere considerati, giubilo locale, per questo, esistono allestitori locali di campanile, che invece di esporre storia vera, impolverano cose spargendo farina al vento, la stessa che non potrà mai più essere usata per fare pane buono.

L’essere campanili ed apparire è diventato regola, mentre la coerenza delle cose esposta diventa un atto complementare o aperitivo culturale di liberi assaggi culinari, che ogni volta terminano in “abbuffate campestri collettive”, le stesse che servono solo ad annebbiare la mente, prima e dopo la digestione, al solo scopo di rigenerare vutti e lavinai mai dismessi, gli stessi che portano da secoli cose indicibili in fondo al mare, per essere consumati dal tempo e dall’acqua.

È diventato uso comune proporre il protocollo di vestizione della sposa in pubblica piazza e, per rendere la cosa più suggestiva, si usa utilizzare minorenni ancora da latte con apparati della medicina empirica a dir poco inopportuni.

Uno dei protocolli di vestizione che delinea e stabilisce solidamente i valori con cui la minoranza Arbëreşë, unisce indelebilmente, le cose di casa e la credenza Bizantina, ovvero, la famiglia.

Certamente non è un bel vedere, ogni volta, sceneggiare inopportunamente, vestizione in pubblica piazza e oltre esponendo generi esposti alla pubblica Furcillense e sia pel l’età delle spose con Bërëlocù, proprio quanti dovrebbero essere tutelati dai genitori maggiori, ancora acerbi, per le attività di genere perché ancora troppo acerbi di generare, al pari delle donne, quanto pronte pe essere moglie, poi madri, in tutto, ruolo di rappresentanza attraverso la vestizione della sposa, quale naturale sorgente di nuovi generi di una famiglia Arbëreşë.

Ma su questo ci sarebbe molto da dire e redarguire, tutte le figure che dagli anni novanta del secolo scorso, realizza inopportune manifestazioni popolari, come se le intimità di una famiglia, siano cose da veleggiare ed esporre in pubblica piazza, come si fa con le lenzuola che dopo lavate si stendono candide al sole ad asciugare.

Infatti per tramandare cose e consuetudini, nei tempi passati gli Arbëreşë, aveva allestito con opportuni protocolli la Gjitonia ovvero; il governo delle madri che ogni figlio e figlia doveva avere come guida, onde evitare di portare l’intimo in pubblica piatta dove ogni genere metteva in mostra il suo essere figura dignitosa di garbo e cultura finemente approvata dalle genitrici.

La regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë è un insieme di protocolli non scritti e, per questo solo chi conosce e comprende quei pochi e fondamentali sostantivi uniti dai congiuntivi, potrà interpretare i valori dei sistemi di iunctura urbana, capaci di riverberare identicamente e per secoli gesta, fatti e suoni vocali irripetibili.

Per questo in ogni Katundë della regione storica, non servono i transumatoti di montoni che prediligono stazionare, non nelle colline o le valli con effigi Bizantine, ma disporsi sulle cupole mussulmane a dichiarar vittoria sul drago, lo stesso che attende il maturare del tempo e lo scorrere dell’acqua, per uscire dalla tana e bruciare con il suo ardore il seminato di biancore fatuo ormai da troppo tempo lasciato libero di annebbiare menti e ragioni storiche Arbëreşë.

Oggi si vedono erigere totem orientativi e pietre su cui deporre l’eroe quando fu mussulmano a cavallo, e nessuno di essi sa indicare una cosa giusta, ma quello che più colpisce e la figura dell’eroe mussulmano che viene depositato sempre pronunciando le spalle alla sua terra e più ancora nel dettaglio il suo luogo natio dove sono sepolti i suoi cari.

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COSTRUÌ IL PRIMO PONTE SOSPESO SU CATENARIE ERA UN INGEGNERE E ARCHITETTO ARBËREŞË

COSTRUÌ IL PRIMO PONTE SOSPESO SU CATENARIE ERA UN INGEGNERE E ARCHITETTO ARBËREŞË

Posted on 07 luglio 2024 by admin

DpendNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le iniziative sociali, economiche, culturali e politiche che oggi abbracciano il tema della viabilità meridionale Italiano, con atto prevalente, le necessità del ponte sospeso sullo stretto di Messia, denota una fondamentale carenza storica, nei confronti del precursore o, meglio genio, capace a predisporre come predisporre le cose utili a questo modello di comunicazione di fondamentale utilità.

Allo scopo, si commette grave mancanza di memoria e rispetto alla Minoranza Storica degli Arbëreşë, la stessa che in Calabria e in Sicilia ha storicamente segnato la svolta culturale, politica ed economica nel corso degli ultimi sei secoli.

Le figure istituzionali, culturali e del genio locale a cui è doveroso fare riferimento a memoria, sono innumerevoli e, nello specifico in questa fase di assetto del significativo luogo Calabrese, che vorrebbe unire le terre d’Italia, ovvero lo stivale e la sua isola più prossima, senza avere cura di svelare, chi è stato il genio primo, di questa indispensabile disciplina per unire fraternamente popoli, con l’utilizzo di catenarie sospese.

Questo progetto antico, serve ad unire i due fari estremi, calabrese e siciliano, per questo dovrebbe avere almeno una minimale nota di merito, non per tutti gli addetti che in queste terre si sono prodigati, prima come migranti, poi operatori agricoli e dopo la parentesi di formazione culturale, diventare emblemi della politica, la scienza esatta, e l’economia, contribuendo non con poco, affinché l’Italia, fosse una e indivisibile.

Riferisco della popolazione che oggi compone la Regione stoica diffusa e sostenuta in lingua Arbëreşë, la stessa che il presidente Mattarella a San Demetrio Corone nel 2018 li definiva “Modello di accoglienza e integrazione solido e duraturo, di tutto il Mediterraneo in età moderna.

A tal proposito è bene citare alcune fasi fondamentali di questa specifica disciplina che ha inizio nel 1808 a Napoli quando veniva istituita a impronta francofona la “Il Corpo di Ponti e Strade con annessa Scuola di Formazione” la cui opera suddivideva il territorio del regno in zone omogenee dove operare e, in ognuna di esse avere un referente specifico, ma il costume di intervenire autonomamente delle popolazioni o referenti locali, relego l’istituzione a una innumerevole quantità di giudizi.

La questione non fu di semplice risoluzione e si trascinò per molti anni, nei quali furono molti gli episodi che misero in dubbio il futuro del Corpo e, intorno al 1817 rischiò persino il fallimento visto il gran numero di giudizi cui veniva continuamente sottoposto.

La svolta si ebbe quando nel 1824, quando la direzione fu affidata all’ufficiale Borbone Carlo Afan de Rivera, quest’ultimo oltre ad aver avuto una brillante carriera militare, aveva collaborato per molti anni nelle officine cartografiche del regno, quindi lucido ed esperto conoscitore del territorio, completata da una grande formazione nel campo della botanica.

Egli si assunse la responsabilità di inserire interamente lo statuto che regolava il Corpo istituito e collaudato già in Francia.

In seguito la definitiva svolta si ebbe quando con un budget di circa seimila ducati inviò Luigi Giura, con il titolo di ingegnere e architetto, accompagnato da tre gio­vani ingegneri Agostino Della Rocca, Federico Bausan e Michele Zecchetelli, negli stati italiani, in Francia, in Inghilterra e in alcune località della Svizzera per visitare ed acquisire le nuove metodiche nel campo dell’ingegneria e dell’industri fortemente in rilancio.

Giura partì da Napoli il 18 luglio 1826 per ritornarvi il 27 luglio 1827, il programma di viaggio seguito dai tecnici partenopei, fece capo a una moltitudine di siti, dei quali i più importanti e ricchi di nozioni furono quelli Parigini e Londinesi.

L’ingegnere arbëreshë può ritenersi uno dei restauratori della nostra antica Scuola di applicazione; la quale fu la prima Scuola speciale per gli ingegneri dei Ponti e Strade che possa vantare l’Italia.

Nel 1828 ebbe l’incarico dal Governo napoletano di co­struire un ponte sospeso a catenarie di ferro su piloni singoli in pietra, per unire sul Garigliano lo stato pontificio con quelli del regno Napoletano.

Fu in Italia la prima opera di questo nuovo sistema che evitava di realizzare paramenti murari nel letto del fiume, con il conseguente cospicuo risparmio di tempo e danaro; la novità di questo ponte è rappresentata del conge­gno del pendolo per il quale Giura salì agli onori dei progettisti europei e ancora detiene il primato.

Il doppio pendolo allocato in cima al pilastro di sospensione, era in grado di distribuire precisamente le forze provenienti dalle catenarie al pilastro a cui scaricava solo ed esclusivamente quella dello sforzo normale, mentre alle catene di ritenuta, infisse nel terreno mediante le piastre di trattenuta, le forze risultanti inclinate, questa spartizione delle forze avveniva con qualsiasi carico applicato al tavolato di calpestio.

Ma non solo questo fu l’innovazione del ponte che consentì al Giura di riuscire in questa epocale impresa, infatti egli assieme ai proprietari delle fonderie di Mongiana in Calabria, mise a punto una lega che gli permise di realizzare le catenarie di sospensione, realizzando le maglie con il metodo della trafilatura, metodica ancora sconosciuta in Italia.

In oltre, nel breve tempo grazie ai suoi grafici, mise a punto sia la macchina che potesse realizzare la trafilatura dei metalli, che quella per la prova di carico.

Tutto questo fece definitivamente spegnere gli stessi sorrisi ironici e le critiche, quando le opere del Giovane Ingegnere e Architetto Arbëreşë, videro giungere in pellegrinaggio culturale e scientifico Inglese e Francesi titolati, per copiare e avere spunto, per ponti, sbocchi a mare di bonifica, mentre la genialità del Giura superavano sin anche il genio dei Romani (Vedi condotto del Fucino).

E nonostante il 10 maggio del 1831 tutta la cultura di genio europeo avesse inviato, addetti per vedere il re che precipitava nelle acque del Garigliano, tutti si dovettero ricredere nel vedere che il “doppio pendolo” di sospensione inventato dal genio arbëreşë, funzionare e, aprire una nuova era per collegare e unire popoli, genti per una nuova economia lenta o energica che fosse.

Infatti da quella data si aprì un nuovo scenario che univa per la prima volta due pezzi del Italia, ovvero il Regno di Napoli con la Cristiana Romanità Papale.

Oggi si presentano progetti si fanno riferimenti di memoria, ma nessuno valorizza il genio degli arbëreşë, lo stesso che dalla Calabria citeriore da nord e da sud, riecheggia idee e passioni unitarie, come in nessun altro luogo italiano è stato mai rilevato.

I ponti europei e di tutto il globo sin anche i più estremi o estesi, sono copia conforme del genio arbëreşë; il quale, ha sputo estendere tavolati per unire popoli e dare agio a tutti per migliorarsi.

Vogliono costruire oggi, un ponte per unire la Calabria e la Sicilia, allo scopo e per meglio illuminare le nuove generazioni, non sarebbe il caso di aprire questo nuovo stato di fatto e, dare agio alla minoranza storica di esporre le proprie attività in campi fondamentali del vivere civile del meridione italiano.

La storia dello storico stivale che si estende al centro del mediterraneo dal XIV secolo cita e annota eventi naturali e popoli che dominavano, determinando pene e soprusi di pochi a favore degli altri, tuttavia una popolazione che viveva una emergenza sociale e religiosa, nota come diaspora dei Balcani sbarcavano nelle terre del meridione, in particolar modo in Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia, non per invadere o sopraffare le genti indigene, ma per restare fraternamente uniti e valorizzare quelle terre, secondo i raccolti comuni del trittico mediterraneo.

Nonostante tutto questo continuo faticare, senza tregua di generazioni di uomini buoni, gli stessi che hanno contribuito a valorizzare questi luoghi, con il genio del fare, lo stesso che ancora oggi, come ad esempio il ponte tra le province di Reggio e Messina, continuamente illustrato senza dare merito all’ideatore e alla sua discendenza Arbëreşë, che pur se definita minoranza è vanto di accoglienza e integrazione silenziosa.

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L’ ARBËREŞË VIVE CON: SPERANZA, RINUNZIE, ORGOGLIO E GENIO DEL TITOLO RAGGIUNTO (shëcova pënë tue priturë thë shëluarë pà mëbiedurë drëchiùra i mendë)

L’ ARBËREŞË VIVE CON: SPERANZA, RINUNZIE, ORGOGLIO E GENIO DEL TITOLO RAGGIUNTO (shëcova pënë tue priturë thë shëluarë pà mëbiedurë drëchiùra i mendë)

Posted on 04 luglio 2024 by admin

boccolo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi, Architetto Basile) – Le dinamiche storiche che caratterizzano e hanno segnato la minoranza Arbëreşë nel corso della storia, sono emblema di speranze, rinunzie, orgoglio e memoria.

Questa è il teorema che unisce le genti Arbëreşë dell’antichità, con quelle delle varie epoche, esclusi chiaramente i modernismi di transumanza culturale, che approfittano degli avvenimenti del secolo scorso, usano in maniera inopportuna gli abbracci naturali lungo le rive dell’Italia meridionale.

I quadranti che uniscono e restituisco la giusta prospettiva storica Arbëreşë, non sono altro che echi ripetuti in forma genuina, atti identici profusi da ogni eccellenza, che viaggiano con colmi di valori indelebili, della propria esistenza, in tutto atti di rinunzia, agio, conquiste di attività senza l’aiuto di messaggi fraterni per fare più ripida la china.

Chi non è partito dal proprio ambito nati senza pena, con la speranza di migliorarsi, rinunziando per questo alle cose più care e intime della propria formazione culturale procedendo, colmo di orgoglio, nuove e incerte prospettive di vita, disdegnando memoria, genio e discendenza.

A tal proposito si potrebbero citare o ricordare storie illustri come: il Deposto P. Baffi, Scrivere Note per V. Torelli, Costruire Ponti e Negazioni di Patibolo dei fratelli R. e L. Giura, Termini di memoria di fondi Marini per F. e G. Bugliari, ma tutto questo sarebbe troppo complicato per “i tutori del parlato o accoglitori di viandanti senza memoria “.

Tuttavia raccontare una storia moderna può essere da stimolo anche per le comuni figure che fanno accoglienza in Terra e i suoi cunei frumentari locali, svelando così quale cattiveria gratuita per il non bene locale, secondo i protocolli dell’ostinazione, dal 17 gennaio del 1977, giorno che si ricorda, Sant’Attanasio Vescovo, detto il Piccolo.

A tal fine va rilevato anche cosa avvenne il giorno prima di quella storica partenza, quando nella piega della via che non attraversa la Trapesa, fu assegnato un compito, al giovane studente, ovvero, studiare e tornare, in quel luogo per dare senso storico e lettura del costruito locale.

E nonostante quel giovane ormai vecchio laureato, ha tenuto fede e conosce le cose di ogni pietra, fondazione, casa luogo toponomastico dell’antico loco natio, oggi è preferito a quanti si presentano dicendo di essere figli/e di caio o del sempronio più inadatto.

Tutta via e per tornare nel nostro racconto, il giovane da quell’incarico non ufficiale ricevuto il quel Trapeso, ne fece una meta fondamentale, iniziando così il giovane studente, la missione acquisendo migliaia di fotogrammi d’archivio di esclusiva locale, con mira del percorso di titolo con maestri a disposizione di ogni allievo che a quell’epoca, elevavano il senso dell’urbanistica e dell’architettura in Monteoliveto di Napoli.

Tuttavia le esigenze di una nascente famiglia obbligò a tornare nel luogo natio l’allievo ancora senza titolo e, dare vita alla famiglia ma, quando si prospettò di allagarla, fu bestialmente imposta la pena di Termine, il 27 febbraio del 1985 della mai nata Hadlë, mira perversa della regia locale di istituzioni civili, religiose e germana certificazione.

E ancora oggi, nonostante siano trascorsi quattro decenni, quanti continuano a perpetrare e diffondere menzogne per rifiutare cultura locale come se nulla fosse accaduto e, tenere le nuove generazioni ben lontane da nuove e rinnovate ricerche in Terra di Sofia.

Tornando al racconto di pena, va rilevato che il maggio successivo fu l’inizio di una Nuova Opportunità Partenopea, per il giovane ricercatore e, questa volta, di valore inestimabile, nonostante le vicende germane diventassero sempre più nere e non certo costruttive di abbracci come avrebbero dovuto essere.

Il camminare culturalmente divenne più intrepido ma, senza distrazione alcuna verso la meta, continuò con non pochi sacrifici e pene, ma una volta raggiunta la meta, si viene premiato con il tiolo accademico, tra i più nobili partenopei, ovvero, “caparbietà senza mai smettere di credere al titolo di se stesso con lode”.

E dopo un tirocinio durato circa un ventennio, precisamente diciotto anni, sempre con mira la professione dell’ARCHITETTO, il 20 ottobre del 2004 un nuovo protocollo, certificato e titolato di memoria Arbëreşë, ha così ufficialmente avuto inizio con certificazione.

In tutto un nuovo studio veniva posto in essere, in componimenti architettonici, urbanistici supportati da una nuova professionalità sino ad allora ignota, la stessa che oggi fa temere ogni genere di cultore, comunemente formato, gli stessi che dicono di sapere, ma ignorano ogni cosa dei temi che non siano idiomatici, di specifici protocolli, confronto, le cose e le figure Arbëreşë sino al 204 hanno ignorato.

Allo scopo sono state poste in essere nuovi concetti con argomento l’Idioma, con mira di Consuetudini Costumi e sviluppo dell’edificato locale, mai portati alla ribalta, con misura perché ritenuti, a torto, simili a quelli indigeni e, fuori dai protocolli linguistici della moderna Albania o Albanistica dirsi voglia.

La stessa che vive ancora oggi è diventata, transumanza linguistica Albanese, in tutto, componimenti inadatti secondo cognizioni senza nessuna ricerca storica di senso riferito, in adunanza pubblica.

Una nuova era di componimenti in diplomatiche culturali, che porteranno l’esempio di Terra Sofiota, nei palcoscenici per la difesa dei paesi Arbëreşë, comunemente paragonati a semplici “News Town”.

Vero resta il dato che nelle discussioni con alti livelli politici e legali governativi, il vecchio laureato, sortisce vittorioso nel 2014 e, da allora niente e nessuno ha preparazione culturale per potersi misurare, a questo contribuisce in favore degli Arbëreşë.

Anche se penosamente in difficoltà, il 29 giugno del 2020 impedirono di partecipare al vecchio saggio laureato, perché non avevano risorse per l’ammontare di 63, 00€, (sessanta tre euro), per ospitarlo, nonostante era già preferito dagli organi regionali come: “direttore artistico di un finanziamenti di scopo”.

Lui, caparbio e colmo di memoria storica, non smetterà mai di pensare e progettare cose che un giorno saranno realizzate, daranno a questi luoghi, il più idoneo rilancio, lo stesso che va ben oltre il dipingere prospettive senza alcuna radice locale o deporre componimenti lapidei nei Vutti storici locali.

L’entusiasmo è tale ed elevato, al punto che i direttori locali, fano politica nel buio più degenerare, secondo un antico progetto, sin anche contro una concepita bimba mai nata e, ostinatamente dopo decenni di trascorsi in pena abbiano sottratto al nero locale due cose buone, le stesse che ancora non sa di aver perso per sua colpa.

Nonostante tutti questi malefici diretti verso chi si prodiga per superare le difficoltà storiche degli Arbëreşë, la caparbietà come quella del titolo non degenera e lotta per elevare gli ambiti di Terra e dei suoi agri, tanto da divenire protocollo da imitare da tutti i conduttori della regione storica e della capitale Napoli.

Il protocollo di studio condotto prende spunto degli studi comparati di Pasquale Baffi, portati a buon fine e stampati nel 1765, la cui impronta ha ispirato e suggerito il protocollo da eseguito dalla fine degli anni ottanta del secolo sorso dal vecchio Laureato di Terra.

Infatti grazie alle comparazioni sociali, di genio dei protocolli architettonici e urbanistici, diffusamente applicati, si è giunti ad ottenere il risultato, più avanti esposto più in dettaglio.

E grazie all’affiancamento e la sovrapposizione digitale dei modelli cartografici, delle varie epoche, è stato possibile risalire alla tipizzazione dei Katundë Arbëreşë, che non risultano essere né Borghi e né come quelli dei limitrofi indigeni Civitate locali realizzati a impronta di sistemi chiusi o murati.

Quello che gli Arbëreşë, portarono negli atti di memoria ritmica, sono riconoscibili da chi è in grado di confrontarsi ascoltare e dedurre secondo le antiche consuetudini, le stesse concepite grazie all’ascolto di lingua Arbëreşë, che non è paragonabile né al moderno Albanese e né all’Albanistica di transumanza che oggi liberamente senza aspettare stagioni si diffonde, la stessa colma di Islamismi o espressi di consonanti mute.

Trattando e analizzando, argomenti architettonici e urbanistici, all’interno dei centri antichi è stato possibile estrapolare il modulo primario dell’edificato e poi attraverso le vicende telluriche e dell’economia conseguente si sono definite le crescite in direzione orizzontale, occupando gli interi lotti di Iunctura pertinenziale e, poi in forme verticali, con il piano terra adibito a deposito, il primo piano di residenza sormontato da tetto multi falda con sottotetto pertinenziale di mitigazione degli eventi estivi e invernali.

L’indagine di studio prende avvio dalle vicende storiche che coinvolgono la Calabria ai tempi della Sibari Fannullona, continuano con le vicende della terminazione della Diocesi di Thurio, a cui fanno seguito i termini per la difesa tra Bizantine e Longobarde, continuano con i Fortilizi della Grancia Cistercense.

Questi ultimi allocati a misura di giornata per valorizzare i cunei agrari con credenza Latina, tuttavia la vera svolta territoriale nelle pertinenze Giordane della Calabria si concretizza con l’arrivo delle Famiglie legate alla Iunctura Arbëreşë di promessa data, sino ai nostri giorni, con il continuo riverberare, di una parlata che riecheggia in questi ambiti, da sei secoli circa e costruisce cose secondo la consuetudine più antica del vecchio continente.

Ed è proprio la tendenza culturale di sostenere e valorizzare esclusivamente questa parlata che, ha distratto i grandi canali culturali.

Figure culturali secondarie hanno preso piede con testi miscele letterarie ad impronta di Dante, Petrarca e Boccaccio, immaginando di dare solidità a una cultura parlata che doveva essere indagata con più elementi culturali, come genio credenza, scienza e fenomeni sociali.

Una deriva che oggi ha come emblema le transumanze che da est verso ovest e viceversa, sporcano i cieli e le acque del fiume mediterraneo che li imparziale mantiene i suoi abbracci e le irrequietezze delle rive sempre più basite.

L’osservare i tanti intrecci di deriva rinforza sempre di più la teoria del Vecchio Laureato, imperterrito continua la sua china, dando risposte certe a quanti dopo Convegni, Incontri e Confronto di acculturazione tornano con la mente disturbata, per le irripetibili teorie senza alcun fondamento di radice Arbëreşë.

Il grande vecchio Laureato vi attende a Napoli, sempre pronto a rispondere a ogni cosa, senza citare i meno adatti cultori, come supporto, senza avere spunto dagli editoriali dai locali inesperti che scavano con la speranza di trovare, Cani, Lupi, Cavalli Capre o emblemi da esporre a conferma di una storia mai esistite fatta di islamica radice.

Questi prodi erranti senza Orecchio, Cuore e Memoria è bene che rammendino che La Regione Storica Diffusa Sostenuta dagli Arbëreşë è una sola e indivisibile, e si mantiene storica mente grazie al quadrangolare delle “V” perché gli altri apparati proposti senza cognizione sono “reflui di lavinai culturali” che dal Surdo e il Settimo dopo aver intercettato il Crati, inquinano le terre di valle della “Terra Giordana” dove resiste la memoria dello Jonio; naturalmente quello attraversata e vissuto con dignitose regole Arbëreşë.

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