Posted on 15 settembre 2024 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)
Posted on 13 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I costumi Arbëreşë sono veri e propri manuali, un componimento sartoriale, cucito e rifinito dal XVII secolo, seguendo le direttive, di credenza e contenuti.
Essi per questo assumono un ruolo culturale solido e continuativo, il più colmo di memoria delle origini e quanti hanno modo di osservarli, avendo sempre a fianco un illustratore adeguatamente formato, ne possono cogliere i valori di appartenenza.
Il costume per questo rappresenta un vero protocollo figurativo, fatto di contenuti depositati con garbo, in quelle innumerevoli cuciture e pieghe, come si fa con i libri o, quando si dipingono paesaggi per memoria.
Essi rappresentano la traccia dell’antica civiltà mediterranea Arbëreşë Bizantini, attraverso cui sono stati inseriti, concetti generali delle civiltà Indo-Europee.
Si riconoscono per il percorso che svolge la donna nell’ambito del governo delle donne nel corso della vita, in ruolo di: Sposa; Regina della Casa; Giornaliero; Vedova; Vedova Incerta.
Le stoffe di questi vestiti tra le pieghe, i ricami e colori sin anche in doratura clericale, contengono le tracce del cammino di noi arbëreşë, per questo il costume, indossato in maniera superficiale e con poca gradevole devozione, denota tutto il disprezzo verso le pene dei nostri avi, i quali, riverberarono sudore e sangue, per lo sviluppo economico e sociale delle discendenze in quelle sante terre parallele ritrovate.
Come i costumi e, del resto altre cose di dominio generale materiale e immateriale, contengono strati multisecolari, facilmente leggibili con figure titolate o con memorie storiche locali, con i quali e per i quali, confrontando le cose con quelle della odierna Albania, lasciano emergerebbe quanta differenza culturale sia stata introdotta nelle cose parallele portate dalla terra di origine, oggi, moderna storia Albanese, e mi riferisco a quella oltre Adriatico istituita agli inizi del secolo scorso, dove sono attinte atti e movenze, da quell’est, che agli avi Arbëreşë mirava ad incuneare amaro e pena islamica.
Da non confondere, con i legami della civiltà dei nostri antenati dell’antichità di quelle terre, con quanti, oggi con movenze ignobili femminili, arrivano per ricordare i primi venticinque anni del nostro eroe Giorgi Castriota, dipingendolo di “beg” e non d’azzurro dell’Atleti di Cristo.
Nessuno cita le vicende di mutuo soccorso, quello, sano e indissolubile del Drago, che è raffigurato, nella Capitale Napoli dal XV secolo, lo stesso che ha consentito ai nostri avi, di essere accolti e considerati come profughi buoni e, non da invasori violenti e malvagi, un costume, che nessun genere di radice Arbëreşë, ha mai indossato.
Nonostante nel quindicesimo secolo sia stato fuso in materiale bronzeo l’apporto dell’atleta Giorgio oggi lo si espone senza attenzione alcuna come quando lui era ricattato e costretto a fare gli interessi delle cupole con terminali caprini di corna difformi e, simulare luna crescente
Infatti le coloriture dello storico costume, sono di Azzurro: il Cielo la credenza; Rosso: la Fedeltà; il Verde: il Lavoro della terra; l’Oro la solidità o fondamenta economica; l’Argento: il Lavoro in miniera, Il Bianco Ricamo; il Marrone, la non conferma del marito scomparso; il Nero, il lutto; Il Nero sul Bianco, il lavoro di casa: Il Bianco ricamato la fonte per sostenere i generi.
Queste vesti, che passano di generazione in generazione, alcune volte sono state anche prestito, per avere misura di nuove confezioni, tuttavia se la conformità fisica o meglio l’anatomia della ragazza prescelta ad essere sposa, moglie, madre e, se le vesti non collimavano secondo un preciso protocollo di vestizione per la rappresentazione finale, con quella della modella in studio di vestizione finale, si preferiva non imprestare quelle vesti.
La misura che le sagge indossatrici del passato erano proporzione fondamentale si riferivano ai fianchi, i glutei, i seni e il rapporto dal giro vita, sino alla cima dei capelli, con quella di estensione sempre dal giro vita di gambe sino al tallone del piede, due armonie fisiche, che se non riconosciute o individuate, dalle sagge madri indossatrici, a misura d’occhio, non davano agio di accoglienza per la prescelta, la quale dimessa con garbo, si doveva rivolgere ad altre sagge locali, che possedevano vestizioni per un fisico, poco armonico e con volumi che andavano altre la tolleranza da sposa.
Il manuale completo di vestizione è molto articolato e, in questo breve non è il caso di espandere in tutte le sue parti, Tuttavia esso abbraccia tutti gli elementi compositivi, i quali se non adeguatamente aderenti e coprenti con saggezza le parti femminili della procreazione con garbo e misura per il genere femminile che si espone a procreare, diventano mera esposizione senza volto o valore femminile, come purtroppo frequentemente accade senza alcun garbo e rispetto, in musei e feste di rappresentanza.
Il protocollo è ancor più articolato e consistente, fornendo l’indelebile e unico protocollo di vestizione, che unisce il camino della Casa, con l’altare della Chiesa, tuttavia, forse è meglio rimandare ad altre attività compilative della nostra storia e, qui, non distrarre troppo i comuni viandanti.
Tuttavia è meglio non esagerare con temi e diplomatiche di lume veritiero, altrimenti si finisce per alterare troppo la realtà allestita da e per viandanti, i quali affermano e dicono di aver studiato ogni cosa, non avendone e lume per farlo, in specie come quello rilasciato dagli Olivetani moderni per esporre cose lette, riverse e definite da altri.
Resta un dato, ovvero, che nonostante l’intellighenzia artificiale, ringrazia e accoglie tutti i cultori di spessore che collaborano con lei e gli offrono nuove diplomatiche di conoscenza, quella degli umani fatta di Istituti, Istituzioni, Amministratori titolati da comuni studiosi o topi di archivio, biblioteche e musei senza muse di memoria compiuta, discriminano quanti si distinguono in discipline specifiche, lasciandoli penare come è successo ad Adelina Pizzi, che non le e stato dato neanche l’agio di essere anagrafica.
Ed è lei che oggi osserva misura, disapprova quanto di parallelo e vile, le sia stato reso, per negarle sin anche la vita a lei e agio per quanti donato tutto per il bene della R.s.d.s.A., lei essendo consapevole che il cielo è colmo di pianeti buoni, con una Luna e un Sole, questi “ultimi” mai assenti e sempre pronti a dare visibilità a tutti gli uomini che istituirono, inventano, promuovono e distribuiscono senza mai riposare il male assoluto e fine a sé stesso.
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Posted on 04 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.
I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.
In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.
I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.
Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.
Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.
La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.
Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.
Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.
Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.
Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.
Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.
Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.
Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.
La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.
A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.
Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.
Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.
Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.
Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.
I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.
Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.
Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.
Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.
Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.
Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.
Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.
Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.
Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.
Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.
Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.
Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.
Commenti disabilitati su I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)
Posted on 02 settembre 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambiti attraversati, bonificati e ricostruiti per essere vissuti degli Arbëreşë, ha avuto modo di replicarsi senza soluzione di continuità, il modello sociale di parlato, adottato storicamente, nella Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, ben sedici macro aree evolutesi esclusivamente grazie al parlato materno e il buon ascolto dei figli/e mai distratti/e.
In tutto il meridione italiano diffusamente distribuita e storicamente integrata questa consuetudine viva, che non ha mai subito pieghe di sorta dal XIV secolo sino agli anni sessanta del XIX secolo ad oggi e, nessuno, confermo nessuno, ha perso padronanza o misura di questo parlare così acquisito.
Il tutto avvenuto senza alcun supporto di immagini, testi o vocabolari grafitati o scritti, specie se riversi e inutili con parole in lingua Albanofona (?) illeggibili, incompressibili e, avendo una radice somma di sostantivi in italiano irrecuperabile, se non leggendo, senza distrarsi l’intero edito, con vocaboli inutili e senza radice di memoria.
Infatti nessuno della vecchia dinastia e della nuova, dagli anni cinquanta sino al 1975, ha mai avuto insegnamento per acquisire il parlato Arbëreşë, chiaramente quello definibile della crusca, che non ha mai usato libri calamaio o pennini, perché tutti gli allievi hanno vissuto sotto il vigile governo delle donne e i magici luoghi dei cinque sensi: il camino che riverberava e crepitava in lingua parlata, sin dove si estendeva la Gjitonia.
Chi scrive è una memoria attenta e sempre presente di questo titolo accademico senza eguali e che non ha bisogno di riquadri lignei o di genere, per il titolo accademico del parlato più solido e irraggiungibile da nessun istituto o istituzione allestita in epoca moderna dirsi voglia.
Il titolo della crusca Arbëreşë, inizia con la descrizione del corpo umano tutto, si estende alle cose della natura, che lo rendono vivo e gli consentono di fare agricoltura, grazie a consuetudini, la credenza e il costume rispettivamente: del comune vestire, in sposa, regina del fuoco e vedova di vita o incerta.
Questo titolo ha come sede naturale i quattro sheshi, tipici dell’urbanistica Arbëreşë, gli stessi organizzati secondo una rifinita Iunctura familiare di luogo specifico, senza vincoli o recinti fisici di sorta.
Tutti gli allievi sono fieri di partecipare e non perdere una lezione, dal primo giorno di vita e sino che si ha possibilità di confrontarsi nel corso della propria vita e, sin anche da vecchi quando non si è più in grado di auto sostenersi nelle case, oggi di cura, per chiedere aiuto e ricevere conforto in Arbëreşë.
Il titolo che è un riconoscimento ideale del luogo natio, lo senti lo avverti nel cuore e nella mente e ogni volta che l’orecchio avverte striduli linguistici e sobbalzi, disapprovi quelle stonature o compilazioni inutili che non ti risvegliano memoria, ma fanno danno profondo attorno al tuo avanzare fiero. con quel titolo fatto non di volatile farina fatua, ma crusca e odori di criscito locale del tuo forno di casa.
Chi ha un titolo della crusca arbëreşë, conosce i protocolli del saluto, sa quando restare e partecipare o allontanarsi dalla discussione, conosce i tempi e i modi per apparire senza mai prevaricare genieri e figure di rilievo.
Il titolato non palesa mai forme di rispetto a nessun essere umano, conoscere il tempo di farsi da parte, in tutte le cose che fanno la vita comune degli Arbëreşë con titolo valido di crusca e, quando uno di questi dovesse venire a mancare, il titolo scompare e si diventa comuni llitiri, diffusamente infarinati, per essere subito riconosciuti.
Questo era un titolo di studio che si acquisiva prima di iniziare il ciclo primario delle scuole dell’obbligo italiane, un tutolo di crusca, che assieme a tutti i tuoi coetanei davano forza al consuetudinario storico, certificando, toponomastica ricorrenze e parlato al proprio centro antico; forza storica di una memoria composta e compilata di consuetudini, ascolto e movenze ritmate, quando si doveva festeggiare la memoria dell’Estate degli Arbëreşë, quella ricordata nel 1775 da Baffi nel “Discorso” della storia degli abitanti delle antiche terre, oggi denominate Albania.
Di tutte le generazioni parlanti questa lingua, nati prima del 1975 e poi maggiorenni nel 1996, il parlare Arbëreşë è diventata parte fondamentate seguendo i tempi del vivere insieme e non certo leggendo libri o compilazioni del comune alfabetare, divenendo per questo, le memorie storiche dell’odierna promozione di questa lingua antica, conservandone sia il senso che il valore di ogni macroarea.
Nonostante ciò non sono mai interpellati nelle manifestazioni che contano e vedono promuovere il pianeta delle consuetudini e delle architetture del bisogno vernacolare, le stesse che ripetutamente e senza riguardo sono compromesse a tutto campo e sin anche le prospettive storiche, rivitalizzate con inopportune raffigurazioni.
E delle quali si cerca di valorizzarle, invitando e dare la scena a quanti non hanno alcuna percezione di cosa sia e cosa rappresenti la R.s.d.s.A. e il suo parlato non scritto.
La valenza del parlato è stata sempre circoscritta e diretta al corpo umano e, sin anche nelle esternazioni del saluto tra generi non ha mai valicato questo limite.
Vero resta il dato che nelle attività sociali il saluto non è mai rivolto al tempo del giorno, mattino, pomeriggio o della sera dirsi voglia, ma esclusivamente, al benessere e allo stato del corpo umano in continua crescita evolutiva.
Un altro dato fondamentale di questo aspetto sociale del parlato è la valutazione che di giorno in giorno, si facevano degli allievi della Gjitonia, in tutto delle nuove generazioni di generi in crescita, il primo eseguito dal governo delle donne, che con cadenza specifica riferiva fatti e necessità al governo degli uomini e al reggente del modello di Iunctura locale.
Era questi in base ai dati pervenuti in forma orale, a valutare le necessita e le caratteristiche di ogni figura e del suo ruolo all’interno del gruppo che si poneva tra il focolare di casa e, la Gjitonia iuncturale.
Questa era una olimpiade giornaliera dove nessuno era escluso, sin anche quella sostenuta e portata avanti in forma di para olimpiade, dove ogni figura avrebbe avuto per il tempo del futuro, ruolo utile e non discriminatori, per nessuno dei partecipanti.
Il titolo della crusca acquisito dal camino sino dove arriva la Gjitonia, per una figura che ha affinato il sapere relativamente ad aspetti storici e delle arti architettoniche, urbanistiche e del restauro conservativo.
Nel momento in cui sono stati avviati nuovi stati di fatto, con dipartimenti di ricerca, relativi agli ambiti naturali e costruiti di tutta la R.s.d.s.A. e del suo percorso evolutivo, ha dato agio per continuare e fornire nuove frontiere di studio, rivolte all’edificato storico e dei suoi materiali di epoche specifiche dei centri antichi Arbëreşë.
L’insieme lingua della Crusca e titolo accademico degli Olivetari Partenopei, ha consentito di raggiungere mete di studio, tali da fornire risposte significative, sia delle consuetudini, del parlato delle credenze, del genio locale e sin anche del valore aggiunto all’intero ambiente naturale dove questi Katundë hanno iniziato a dare vita e coerenza a ogni evento naturale accaduto.
Questo ha consentito attraverso modelli G.I.S. di addivenire a nuovi modelli di studio sino ad oggi ignoti a numerosi dipartimenti preposti al mono tema, che inquadrano la R.s.d.s.A., come un modello linguistico di radice incerta, in perenne evoluzione, senza tenere conto che la minoranza Arbëreşë, trasferendo questo suo modello sociale, sei secoli orsono dalle terre della odierna Albania, rappresenta la costanza, che porta nel su intimo, il rispetto degli altri popoli e per questo capace di essere, esempio di integrazione mediterranea, in credenza cristiana.
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Posted on 30 agosto 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si appresta a restaurare monumenti l’unica prospettiva indispensabile dove incuria degrado o distruzione abbiano piegato la resilienza di un manufatto o del circoscritto, bisogna avvalersi delle raccomandazioni elencate nella “Carta di Atene dal 1931” dove si consiglia il rispetto dell’opera “storica ed artistica del passato”, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.
A tal fine dobbiamo sempre dire quello che guardiamo, ma cosa più essenziale, dire cosa vediamo; come i fatti, le cose con protagonisti i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.
Nello specifico la tutela, diversamente come suggerito dalla carta di Atene, in tutte le ventuno macro aree della R.s.d.s.A., è iniziata male, proseguita peggio, terminata con l’operato degli “esposti”, tutto questo, ad oggi porta a ritenere sia improrogabile allestire una istituzione, che redarguisca, tutti i pretendenti dell’ormai, storico pellegrinare in cerca della discendenza più nobile o illustre.
Cadere in errore al giorno d’oggi e molto semplice, ma se a farlo sono quanti preposti al rispetto dei luoghi, sin anche nei confronti del più distratto o disinformato ascoltatore, si fa violenza non verso chi ascolta, ma si danneggia la prospettiva di questi luoghi, vissuti dai popoli più silenziosi, e più operosi del vecchio continente.
In tutto le persone che hanno versato lacrime di sangue, per far germogliare l’albero della propria identità, senza nulla scrivere o dipingere in alcuna superfice elevata per viverci segnando epoche.
Il fatto che la minoranza non abbia mai fatto uso alcun tipo di scrittura lettura, o grafici di memoria, non è un caso, infatti l’innocente discendenza, ascoltava e apprendeva il parlato dal solidissimo governo delle donne, lo stesso che ad oggi nessun ricercatore ha studiato compiutamente e, questo denota quanta poca esperienza o sperimentazione, sia stata diffusa per fare luce relativamente ai trascorsi di questi vissuti ambiti.
Un protocollo mai allestito da alcun istituto o istituzioni, i quali hanno operato con metodologie a dir poco inopportune e, vorrebbero aggiungere cose senza titolo, attingendo dagli esagerati modernismi Albanesi, terminando nella trincea linguistica, quando l’errore è palese, sin anche con lo scudo circolare, con incisa la frase: da noi si dice così; (nà thòmj këshëtù)
Nasce così l’idiosincrasia; ovvero, l’avversione, e la ripugnanza verso determinati temi, termini e oggetti, per lo più inesistenti, incoerenti, anzi a dir poco diagonali alle cose della R.s.d.s.A., sotto ogni pinto di vista.
Certo che definire la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë con l’inadatto, sostantivo “Arberia”, assume una visione geografica, a dir poco inopportuna, perché notoriamente gli addetti, per darsi una valenza di titolo mai avuto con merito, ma per copiature riportate secondo cui la minoranza provenire del sud della antica terra di origine.
Definendo così la provenienza della minoranza dal sud della antica terra di origine, in quanto qui secondo alcuni risiedeva la nobiltà culturale fatta di echi sopraggiunti dalla Grecia, ciò nonostante i protocolli della geografia storica, riconoscano, tale sostantivo, ovvero Arberia, le terre circoscritte del centro e del nord della antica terra di origine, oggi Albania.
Ciò nonostante, viene sottovalutato un dato fondamentale, ovvero, se una regione subisce le angherie di un instabile invasore, come è possibile che ad essere penalizzate o sottoposti a misure di sottomissione morale e religiosa, siano solo le popolazioni del sud e non uniformemente minacciate dell’intera nazione, che senso avrebbe e quale teoria privilegia alcune religioni, dato che di questo si trattava, infatti chi invade non rispettava niente e nessuno dove si trova o dove si colloca e con cosa?
Se il tema poi si espande alla definizione e il comune parlare dei centri abitati rielaborati ed elevati secondo le necessità tipiche degli arbëreşë, si apre infatti, una violenta tormenta di farina senza precedenti.
Diversamente dai valori sociali e formali contenuti negli innalzati e i sistemi abitativi, germanofoni o medioevali, dirsi vogli, ritenuti simili, uguali o equipollenti al modello di città aperta degli Arbëreşë.
Dato per certo che i Katundë, sono il modello innovativo che non ha eguali, e pur se i suoi innalzati nascono sei secoli orsono, possono essere considerati il germoglio delle odierne città metropolitane, infatti essi sono una rappresentazione di sistemi aperti di Iunctura urbana, dove, i quattro rioni tipici, rispettivamente: Karelletë, Chishia, Bregù e Sheshi; sono le tappe del percorso storico evolutivo di una radice, che si sviluppa e sostiene nel lungo tempo, in tutto, il solido fusto moderno da cui sono nati rami e fioriture consone.
Chiunque si appresta a recarsi per illustrare o presentare gli ambiti di un Katundë, appellando “Borgo Arbëreşë”, si trasforma in un viandante comune, senza meta specifica; come fanno quanti entrano in una chiesa e, invece di fare la croce, vi accedono rinnegando credenza, storia e luce.
Soto il puro aspetto Storico, Urbanistico e Architettonico, un Katundë e un Borgo sono antitetici e perfettamente contrari, perpendicolari diagonali, comunque mai paralleli:
Di queste quatto colonne che fanno la trama storica evolutiva di un centro antico Arbëreşë, ovvero di un Katundë, si potrebbe allargare il tema e farla diventare una vera e propria diplomatica, per l’uso improprio che si fa nel divulgare i il sistema sociale distribuito nei rioni: “Sheshë in Arbëreşë”.
Il sostantivo comunemente è presentato come una piazzetta circolare allivellata, dove si aprono le poste di un numero imprecisato di ingressi privati delle storiche Kallive o Katoj.
Questa una visione a dir poco inopportuna, la cui radice nasce dai sessantottini, che leggevano i giornaletti di Capitan Miki o il Grande Blek, dove in genere le illustrazioni di questi suggeritori delle cose Americane, disegnavano le capanne degli indiani o gli scenari di immaginario, nello spazio circoscritto dalle capanne con pelli di bufalo.
Tornando alle cose, i fatti, i bisogni e le esigenze del vecchio continente, di cui noi Arbëreşë siamo parte essenziale dal nel XV secolo e, in questa breve diplomatica si cerca di essere professionisti maturi, non adolescenti in cerca di avventure di leggenda, specie sulla scorta di risorse pubbliche che non hanno riverbero e, non superarono il circoscritto della storica edicola di Nonino.
Per riparare a questa deformata storica, del protocollo Arbëreşë qui si vuole rendere chiaro, completo, indivisibile e indeformabile, il significato del sostantivo “Sheshë”.
Specie dopo quando esposto da quanti qui si sono recati a stendere themi di laurea, senza un relatore che avesse idea, della storica parlata della R.s.d.s.A. e, mi riferisco a quanto appreso ascoltando come si faceva un tempo, acquisendo fatti e cose dall’orecchio, e non leggendo confuse alfabetari o riversi vocabolari, con lo strumento occhio, l’antico metodo per divulgare sapere.
Per questo sia ben chiaro a tutti voi, viandanti distratti, compresi quanto non trovarono agio e notorietà, nelle frazioni di origine e, qui si sono insediati per fare danno, immaginando di avere gloria impossibile, a imitazione di quanti certi che il popolo fosse ignorante e sempre pronto a credere alle cose, diffuse con metodo dai regnati.
Lo “Sheshë” senza affanni non è; uno spiazzo dove affacciano un numero imprecisato delle porte di casa; in quanto la parola, di radice antica, vuole indicare un sistema di “Iunctura familiare solido e indivisibili” ogni volta che viene organizzato e sostenuto; esso si compone: di case che si sviluppano a ridosso di Rruhat articolate, su cui affacciano gli accessi di porte gemellate a finestrelle, (dal forte valore strategico) archi di misura e metrica, di luogo, Scalinate, vicoli ciechi e orti botanici, in tutto un componimento di sostenibilità e difesa senza mura perimetrali, se non quelle dei Katoj familiari sempre aperti.
Se il modello esposto vi dovesse creare pena linguistica, di titolo e merito, recatevi nei centri antichi di un Katundë della R.s.d.s.A., non da individui supponenti e imparati, ma attenti ascoltatori dello stridulo dei cinque sensi, che ognuno di noi possiede, ma mi raccomando non andate togati perché i cinque sensi non si attivano!
Adesso passiamo a un altro argomento ovvero, “I Musei”: essi iniziato ad essere articolati, con compilazioni di libero dire locale, senza avere una stratificazione che li leghi alla storia del luogo o della macro area relativa, specie nel percorso che univa casa e chiesa, per il proseguimento della specie Arbëreşë.
Il Costume in questi ambiti, diventa indispensabile protocollo, l’unico in grado di tracciare il percorso evolutivo della minoranza, anche se comunemente è stato sottoposto a studio per opera e misura di campanili, tutti articolati in funzione di manifestazioni utili a rendere primi, i dispensatori di turno, oggi di Calabria Citra, domani di quello Ultra e così via, via per decenni, senza mai smettere di vagare e rinforzare gli inutili principi, terminati nell’essere stai ospiti di biblioteche ora di Barcellona, domani di Parigi, dopodomani di Madrid, Valenzia e Monaco, Venezia, Firenze e così via sempre, ramenghi e fuori dal circoscritto del Collegio Corsini dove è nato.
È dalla fine degli anni settanta, del secolo scorso che in maniera a dir poco gratuita, raccogliere vesti, attrezzi e ogni sorta di elemento che vorrebbe fare memoria, in circoscritti di elevato impropri e, senza radice linguistica sono appellati “Musé”.
Una idiomatica deriva che calpesta il parlato Arbëreşë, lo stesso che vorrebbe fosse appellato con radice del parlato in: “Loku menditë”o “Ku mhbami mendë”.
Un sistema difforme, disarticolato o confusione che non fa certo museo antropologico, delle arti e del costume, quest’ultimo, nello specifico è, presentato in maniera a dir poco inopportuna, se non ridicola, esponendo in pubblica piazza la parte più intima della vestizione, assieme a quella più infima e vile indossato da qualche decennio come blasone nobile nel momento del “si” specie sull’altare, davanti al testimone celeste.
Il tutto con l’apposizione pubblica del primo concetto: Bhërlocunë, e il secondo atto Vàndèrenë, il tutto poi contornato dal voler rendere la cosa, ancora più penosa, con la zògha a modo di ruota o di coda, nella pubblica via e, addirittura in chiesa sull’altare.
Il museo per gli addetti titolati della R.s.d.s.A. è considerato mera raccolta di elementi disarticolati, un’incompiuta di tempo fatti e cose, che diventano mercato domenicale o rionale li disposto, per attendere Kopizènë, e pronte ad essere frantumate e rese patrimonio senza sudore, per i raccoglitori di polvere locale.
Altro argomento di seminato fatuo sono le Inopportune, “Vallje di Scanderbeg”, infatti il soprannome, rievocando e sottolineando la sua appartenenza all’epoca mussulmana, non certo il tempo in cui fu eroe Arbëreşë, anche se comunemente in tutti i centri storici senza misura, si rievocano dal giorno del Termine di memoria e, in estate Arbëreşë queste esternazioni, sono e rappresentano la memoria del passaggio generazionale del parlato.
Intanto con la dicitura di “Vallje di Scanderbeg”, vorrebbero rievocare una giornata di memoria per una epica battaglia, che vide Giorgio Castriota sterminare gli avversari e, per le tante vittime stese inermi, conferma della vittoria, lui che all’epoca era un cristiano praticante, iniziava, con i suoi sottoposti a ballare e cantare, sopra le resta degli avversari inermi, che giacevano in quelle distesa, di corpi senza vita.
Certo che la formazione storica e culturale denota carenze non di poco conto, anche perché, solo quanti non adeguatamente formati ed attenti, promuovono queta figura con le effigi dei Turchi Selgiuchidi, e dei capostipiti Beg.
Di questo ci lasciava notizie anche Giovanni da Fiore, il quale, quando ebbe modo fare memoria, scriveva; Giorgio Castriota, comunemente appellato “Scanderbeg”.
E’ un altro segnale di memoria ereditiamo la toponomastica di Santa Sofia Terra, dove la strada che unisce l’antica chiesa Bizantina del IX secolo, con quella nata Latina del XVII secolo pota a memoria, “Via Castriota”.
Per concludere le “Vallje”, non sono altro che una prova generale dell’avvenuto lascito del parlato e, vuole essere confermato con Canti di genere e Movenze del corpo, per ricordare e sancire il passaggio tra generazioni; è questi non sono altro che i concetti basilari della storia delle comunicazioni.
Relativamente alle attività di memoria delle consuetudini la credenza, la lingua e il costume, si è sempre preso di mira attrezzi, costumi e null’altro al fine di musealizzarle, contornati dalle cose più inopportune e senza logica museale tra di esse.
L’inadeguatezza degli addetti poi ha fatto il resto, dal punto di vista del concetto Museo, verso il costume e gli attrezzi utili a delineare la risalita dell’economia, secondo i dettami dell’antropologia, ed è per questo che sono stati prodotti errori e manomissioni molto pericolose alla memoria dello storico protocollo, in essi racchiuso e, si come ricoperti di polvere e fluidi scuri, non sono oggi più leggibili nei loro contenuti di tempo.
Vedere ascoltare le attività antropologiche riassunte tutte, con le cose più comode e semplici e, interpretate, in maniera povera/semplice sono il percorso condiviso con i tempi e le pieghe della storia che non è mai stata tale, proscrivere il contenuto è nostro obbligo, perché è bastato essere muniti di una “Singer serie Sfinge del 1926”, quest’ultima la data baricentrica delle vesti femminili Arbëreşë che non vanno oltre il tempo della Sposa, la Regina del fuoco, la Vedova e la Vedova incerta.
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Posted on 23 agosto 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando una diplomatica ha come specifica trattazione la minoranza Arbëreşë, sostenutasi per caparbia linea, in ogni stagione, senza l’ausilio di scritti, immagini, perché vissuta secondo consuetudini storiche, diventano indispensabile esporre i prodotti, in specifici presidi della memoria.
Specie se l’solamente della minoranza ha prodotto tipologie ambientali, e vissuto di memoria privo di qual si voglia forma letteraria e delle immagini collettive, riuscendo a tenere il passo con i tempi, senza stravolgere o differenziare la formazione delle generazioni in continuo progredire.
Da alcuni secoli a oggi, le nuove leve della cultura, se escludiamo il primo analista Pasquale Baffi, Il quale per essendo a pieni titoli, numeri e conoscenza prima, delle lingue scritte più antiche del vecchio continente, preferì indietreggiare davanti al dilemma dello scritto Arbëreşë e, scelta che avrebbe sicuramente danneggiato agio a confusioni diffuse alla sua dinastia di appartenenza tutta.
Nonostante ciò preferì rispettare la forza di conservare nelle consuetudini del passato non certo figlia delle arti figurative e, quelle dello scritto, tuttavia quanti non li seguirono in questa scelta inopportuna, fecero danno con lo scrivere, infatti o prodotto letterale in lingua Arbëreşë, che dopo di lui con molta energia terminò nel divide invece che unire gli Arbëreşë.
Se nel corso dei secoli in tutta la regione storica, hanno seguito le regole prima della Gjitonia o recinto ideale della famiglia allargata, poi le dinamiche di Iunctura urbana, oggi con la modernità in atto, perché ostinarsi a cose antiche e senza senso come la scrittura,
In tutto delle forme di vocabolari, all’incontrario dato che, la minoranza non sa né leggere, né scrivere il suo parlato e, ancor peggio storicamente utilizzando alfabetari in continua crescita con 20, 30, 40 lettere e sempre più crescenti come ironizzava nel 1919, Norman Douglas, in visita per gli anfratti della Calabria Citeriore Arbëreşë.
Vero, inconfutabile e senza ombre rimane un dato: il modello scrittografico non ha mai unito gli Arbëreşë, anzi è forse una dei germogli delle divisioni in atto.
È proprio per evitare il progredire di tale deriva, che qui si propone la Gjitonia, non come luogo sociale dei cinque sensi ripetuto identicamente in ogni ambito o quartiere degli oltre cento paesi Arbëreşë.
Ma rendendola tecnologicamente o radio televisivamente visibile e fattiva, ne basterebbe una, per ogni macro area, nello specifico i programmi della RAI Regionale o TV Private di macro area.
Il tema nasce perché generazioni di Arbëreşë, sin anche dagli anni sessanta del secolo scorso, non acquisivano la parlata, le movenze gli atteggiamenti sociali, la memoria degli appuntamenti di credenza e quelli delle stagioni e di confronto, leggendo libri partecipando a commedie e, certamente prima di andare all’asilo o intraprendere la formazione scolastica d’obbligo, o seguendo la radio o la televisione.
L’unico spettacolo o teatro che essi frequentavano per formarsi e produrre memoria era lo spazio indefinito del Governo delle donne, una vera e propria scuola, oggi paragonabile a uno spettacolo o meglio una perenne trasmissione dove a recepire per le nuove generazione erano, l’occhio e l’orecchio, gli stessi che oggi vediamo assieme alle ripetute soste pubblicitarie, che nella Gjitonia, erano le pause di promozione i telegiornali di critica, questi ultimi sempre evasi da bambine, bambini e adolescenti.
Ad oggi per unire formare e rendere le nuove generazioni pronte ad affrontare le nuove vicende sociali si progettano e si propongono corsi e adempimenti di formazione senza una base di ricerca, prima di approntare i progetti di qual si voglia, natura devono o vorrebbero finalizzare, per la sostenibilità.
Nonostante ad oggi non esiste comune, macroarea della RsdsA, che abbia delle eccellenze pronte ad accogliere raccontare o esporre chi siano da dove veniamo, come ci siano integrati e perché i nostri ambiti urbani pur se equipollenti a quelli indigeni radicalmente sono diversi.
Non esiste una Iunctura storica e sociale del raccontato unico e indivisibile come dovrebbe essere, ma una pericolosa deriva diffusa fatta di personalismi di pena locale, anche comunemente esposta e, priva di reverenza verso chi ascolta, che anche se all’apparenza appare distratto, forse è più formato del parlatore di turno.
In ogni Katundë si ritiene che la storia, sia un fatto ristretto e non riferibile a epoche e cadenze in linea con i fatti di uomini e cose, ragion per cui ogni esponente locale si sente investito del libero interpretare e, raccontare, divulgare o sentenziare, senza alcuna cognizione di storia plausibile.
A tal proposito valgano gli esempi a cui continuamente si da accenno, in quanto, la vergogna culturale è anteprima senza precedenti, al comune divulgare cose, elevare figure, promuovere costumi o raccontare appuntamenti sociali, solo per sentito dire o comune conversare da indigeni.
Infatti solo chi conosce, parla e ne capisce questa lingua, colma di consuetudini e genio antico, perché allevato con orecchio e occhio dall’infanzia, può cogliere in ogni sua inflessione di sensi e prospettive dell’Arbëreşë parlato, fatti cose, credenze, consuetudini luoghi della storia locare parallela e colma di echi dell’antico Est.
Come con l’avvento della televisione l’alfabetizzazione si faceva con la nota trasmissione “Non è Mai Troppo Tardi, anche gli arbereshe oggi dovrebbero con le istituzioni tutte accordate a produrre programmi televisivi.
Con i quali, oltre al parlato storico Arbëreşë, si potrebbero alfabetizzare le nuove generazioni, nell’indicare come leggere e attivare secondo un protocollo mai adottato, ovvero il parallelismo di occhio e orecchio.
Un suggerimento emanato dalle alte sfere della comunicazione nel 1995, prima del tragico consiglio germogliato nel 1999, oggi il tronco perverso di fiori in emergenza fatua.
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Posted on 20 agosto 2024 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: STORIA DI LAMIA, CARONTE, PILATO E KAINO, L’ONDA NERA DI UN KATUNDË ARBËREŞË (Pathë lljchë Tata Mieshëtrj, mëma gruja me garbë e ine Moterë nuse e mirë)
Posted on 13 agosto 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era la mattina del 18 agosto del 1806 e all’improvviso si odono il crepitare di fucili e, il terrore invase l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei simpatizzanti ispanici; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli.
Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti, e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato adibito a granaio.
Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gian Marcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi e di eguale stirpe, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, Gian Marcello, solo, egli solo, furibondo lo trafigge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».
Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcello Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del vescovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero vegliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).
Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini
La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).
Nella trattazione storica che hanno avuto come protagonisti gli Albanofoni nel Regno delle due Sicilie si ricorda per tradizione i giorni dal 12 e sino il 18 Agosto del 1806.
Fu allora che i briganti (?) scheggiarono Santa Sofia, terminando la vita del Vescovo Bugliari, del medico suo fratelli, il notaio, la guarnigione intera e un numero imprecisato di Sofioti/e, la vicenda, vide soccombere dal 13 a 19 agosto il piccolo Katundë, al punto tale che ogni generazione che seguì a quell’evento, è stata allevata in memoria e ricordo del momento più buio della storia locale e di tutto il regno, un lutto o senza soluzione di continuità dal 18 Agosto del 1806, ciclicamente ricordato da chi è saggio e conosce tutte le pieghe di quella vile vicenda di potere occulto.
La terribile pagina ebbe inizio con il brutale assassinio di Giorgio Ferriolo insieme al suo piccolo stato maggiore, composto dal fratello e da alcuni uomini fidati, continuò con la devastazione del paese intero e si concluse con il vile assassinio del Vescovo Francesco Bugliari, vero e unico bersaglio poco più in basso di dove era allocato il Monte del grano.
L’accento dell’eccidio è stato sempre posto sulla domestica Bertina, ma la complicità di indegni personaggi della stessa comunità Albanofona, fu determinante per portare a buon fine la volontà dei mandanti; alcuni presenti e ripagati con misere suppellettili, mentre i registi assenti, grazie all’eliminazione del prelato, poterono godere e rivestire diversi ruoli di rilievo all’interno del regno, grazie a Dio, solo durante il decennio francese per poi trovare fine, per ironia della sorte “dietro “a un granaio.
Va premesso che il Bugliari aveva avuto solidi contatti con Pasquale Baffi, i due oltre a essere stati gli unici artefici del trasferimento del collegio in Sant’Adriano, si scambiavano ogni tipo di notizia relativa agli eventi che sfociarono con la rivolta del 99.
Una fitta corrispondenza intercorse tra lo studio legale del Baffi, allocato nel centro storico di Napoli e l’abitazione paterna del Bugliari posta a monte del centro abitato di Santa Sofia d’Epiro.
Analizzando con perizia storica gli avvenimenti, apparisce molto strano che negli accadimenti napoletani a pagare sia stato solo il Baffi e che a essere devastata, sia stata sola la sua abitazione nei pressi dell’allora Biblioteca Nazionale e non il suo studio dove si conservavano preziosi manoscritti inediti e lettere di corrispondenza privata.
Il collegio guidato dal Bugliari oltre ad una vandalica devastazione, dopo il 99, riprese la sua missione culturale, religiosa e politica senza particolari patimenti.
Nonostante l’indiscutibile legame d’ideali con il Baffi, il Vescovo F. Bugliari, non fu particolarmente perseguitato dal governo centrale, eppure, una volta tornati a gestire il regno, i Borbone, diedero avvio ad una violentissima e capillare pulizia su tutto il territorio, che durò per più di quattro anni.
Un elemento di non scarsa rilevanza è il dato di fatto che i Borbone saliti nuovamente al trono si sentirono in dovere di ringraziare tutti coloro che aveva lavorato a difesa il loro regno, come ad esempio il reggimento della Reale Macedone che nel 99 fu determinante a placare gli animi degli insorti.
Quando dovettero scegliere della sorte del nipote e del parente di Don Peppino preferirono colui che si era reso disponibile e si mise a disposizione con gli organi inquirenti, avendo come punizione solamente l’esonero da ogni privilegio.
Il di che Napoleone si affacciò alle porte di Napoli, l’occasione di poter tornare agli antichi splendori veniva servita su un piatto d’argento a coloro che con i Borbone non avrebbero mai avuto gloria.
Antiche ruggini per pochi metri di terreno tra il presidente del collegio e il Lopez andavano oleate con i fumi dell’ignoranza, a quel punto armare la mano per assicurarsi ulteriore impunità fu di facile attuazione.
Apparisce strano che trascorsi appena cinque mesi dall’ingresso trionfale nella capitale partenopea di Napoleone e avviato il rinnovamento francese una pagina così nera abbia un senso, se non per garantirsi ulteriore impunità per il tradimento che a quel punto incominciava pericolosamente a vacillare.
Napoleone il 13 marzo de 1806 sedeva nel trono di palazzo reale a Napoli e pochi mesi dopo, una banda di briganti si scontrava, in contrada Pagliaspito di Santa Sofia d’Epiro, con G. Ferriolo e i suoi valorosi uomini dando avvio all’orrenda strage.
Sin troppe volte quelle sei giornate assunsero i contorni di leggenda o propinata a modo di favola.
Gli accadimenti di quel mercoledì 13 sino al martedì 19 successivo, letti in un’ottica di volgare vandalismo e brigantaggio non pongono l’attenzione sui traguardi acquisiti in poco tempo da coloro che si distinsero esclusivamente nell’intervallo storico del decennio francese; iniziando la loro ascesa proprio dopo quelle orrende giornate.
La tesi è suffragata anche dal fatto che se nel versante destro della valle del Crati, vi era un obbiettivo alla portata delle scorribande dei briganti, quello era il collegio di Sant’Adriano, quale bottino materiale sarebbe stato più consistente e facile da strappare. Stranamente, per le loro scorribande i briganti scelgono un centro abitato, pur se era noto a tutti che in quei contesti si viveva dei fumi della povertà diffusa.
Dopo pochi mesi dalla morte del vescovo Bugliari, coloro che avevano vissuto nell’ombra ebbero su di essi i riflettori della notorietà e nel contempo si diedero alle stampe trattazioni sulla questione meridionale oltre alle ricette, soluzione possibile a quella endemica piaga.
Come racconta la storia del ricco contadino che invece di frequentare la bottega di Michelangelo e apprendere umilmente un mestiere, preferì acquistare i suoi attrezzi per ritenersi al pari del grande maestro.
Allo stesso modo da coloro che non ti saresti mai aspettato, addirittura vengono pubblicati studi linguistici senza che le ombre di questa disciplina li avessero mai avvolti.
Questi erano i temi con i quali Pasquale Baffi aveva incantato, con le sue irripetibili disquisizioni, tutta l’Europa e per essi fu la persona più ambita e ricercata negli affollati salotti intellettuali della capitale partenopea.
Chi all’indomani dei fatti di Santa Sofia ha inviato alle stampe gli scritti su cui porre solamente la parola “fine”, ignorava che fare propri quei documenti, fatti di sudore, patimenti, umiliazioni e sangue, sarebbe stato come tradire coloro che in quelle giornate sofiote diedero la vita.
Crea sgomento la pubblicazione di trattati che furono tradotti in diverse lingue, non immaginando, che fare propri gli attrezzi del maestro è possibile, altro è produrre arte e cultura.
Comparando questi gioielli di inestimabile valore letterario con altri scritti degli autori è palese la differenza nell’argomentare quelle indebitamente pubblicate, a tal proposito oserei dire che grecisti di elevato spessore si nasce, non si diventa con l’appoggio dei napoleonidi per poi tornare nell’oblio alla fine del decennio.
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Posted on 12 agosto 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La filologia è un insieme di discipline che studia i testi di varia natura, inizia con quelli antichi confrontandoli via via con quelli più contemporanei e, ripercorre la forma originaria con analisi critiche o comparativa delle vicende trascorse.
Sono i Filologi che dovevano essere protagonisti nel corso della compilazione della legge 482 del 1999 e, dare merito e misura del giustificare di chi e cosa poteva accedere di diritto, nella lista che avrebbero usufruito dei benefici di legge, assegnando un titolo e valore agli Arbëreşë che non sono citati.
Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Indo Europea possa vantare.
Comunemente traducendo Gjitonia simile al “Vicinato”, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato di scambio, quale mercato o monte del prestito e, nel contempo vedeva e sentiva in arbëreşë, in poche parole un luogo nebuloso o impolverato dove s’imprestavano cose.
Tra le più inopportune citazioni ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada, a cui fanno seguito un’innumerevole quantità di temi di concetti, copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, lo stesso che ancora vaga senza pace.
Non ultimo il riferire del concetto di vicinato, estrapolato dai documenti della vergogna sociale che avvolgeva i Sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.
In altre parole il tema di vicinato sviluppato in una delle nove relazioni prodotte per indagare, questa piega sociale, rielaborato furbescamente in forma arbëreşë, da quanti della minoranza non conoscevano idioma, consuetudini secondo i minimali e rudimentali protocolli di storia moderna, per dare senso al circoscritto immateriale.
Che la Gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo, è un dato di fatto che non finirà mai di stupire e, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini, la storia, il tempo e i luoghi della minoranza arbëreşë, che ha saputo svilupparla.
Essa è un’esigenza vernacolare locale, tipica di un corridoio tracciato dai paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, estendendosi dall’estremo piò ad este della Grecia, sino a quello più ad ovest del Portogallo
Quando si nomina, Gjitonia, essa risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione o metrica possibile; essa s’insinua con le sue radici nel protocollo di iunctura familiare, per questo solo chi ha avuto la fortuna di viverla, può avvertire e riconoscere, quelle sensazioni di consuetudine antica post moderna o globale.
In altre parole, i principi etici o prescrizioni, la cui compilazione tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile diretta dalle donne e sostenuta senza apparire dagli uomini.
Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, in altre parole, la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri, imposti da regnanti stranieri.
Da ciò si deduce che quando gli arbëreşë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per dimorarvi, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati liberi di esprimere questi valori di antica radice sociale mediterranea, organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti assegnati ai generi umani, diviene la parte materiale di regole conservate nell’immateriale memoria e nell’amore del cuore.
Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni di Iunctura familiare mediterranea.
La famiglia allargata infatti, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive discendenze, in tutto si formavano gruppi, non minore di una dozzina, tra maschi e femmine, dove ognuno dei quali/delle quali, erano o meglio venivano affidati specifici ruoli.
Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità e in parallela autonomia.
Questi erano in forza allo sviluppo dei noti Sheshi, che pulsavano positivamente e senza sosta nel formare i centri antichi tipici dell’urbanistica, che sosteneva la integrazione e la fratellanza tra popoli nel mediterraneo.
Il modus operandi andò sempre più regredendo, integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, per questo il modello di “famiglia allargata” dovette cedere il passo al modello di “famiglia urbana”.
Il passaggio epocale di questa iunctura familiare dura sino agli anni sessanta del XX secolo, quando inizia o sgretolarsi in forma numerica, per la necessita di nuovi esodi economici migratori verso il nord Italia ed Europa, ed ecco che si restringe la consuetudine locale, all’interno dei propri spazi abitativi e, adesso con la porta dell’ingresso non più aperta.
Quando la famiglia allargata diventa gruppo urbano resta isolata, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare, l’elemento che garantisce il riconoscimento di antichi legami di fratellanza sin anche generica.
Notoriamente esso è intercettata nelle armonie condivise dei cinque sensi, di unica memoria, ed è così che si avverte ancora il senso di Gjitonia; tatto, odori, sapori, suoni, una ideale dimensione senza un confine circoscritto, in tutto avvertire nel cuore nell’animo e nella mente intime, il riverbero di quelle note antiche.
A tal proposito trova agio restrittivo l’enunciato: la Gjitonia è dove arriva la vista e la voce; riferito come ultimo arazzo in Arbëreşë da una anziana donna sandemetrese, registrato da un non parlante ricercatore, il quale lo fece tradurre agli allievi ascoltatori di un corso accademico nella Calabria citeriore, senza alcuna formazione lessicale, per poter essere poi dato alle stampe, con tema compilato secondo protocollo filologico.
Ed è per questo che oggi comunemente la si paragona a modelli impronunciabili, con fondamenti di natura puramente materiale.
In tutto, avendo ed essendo, le nuove generazioni, smarrito il senso di quei patti antichi immateriali, gli stessi che la società di oggi non può conoscere, in quanto, non le ha mai vissute e non averle avvertite, le stesse che germogliarono misure dell’identica naturalezza sociale della terra di origine.
Queste non potevano essere intercettate in luoghi vuoti ripopolati in estate dai figli delle generazioni, ormai più in vita che nei paesi venivano a villeggiare d’estate e, venivano intervistati d’estate nel mentre con i vecchi amici giocavano a scopa, briscola e tresette nel bar della piazza.
Metri e metri di registrazione che non possono e ne potevano imbrigliare un governo di cose immateriali che, sfuggiva dai limiti della loro mente; ed ecco che arriva il suggerimento antropologico di un ricercatore, che consiglia di andare per luoghi estrattivi a trovare agio di studio nel vicinato di un altro parallelo terrestre.
Questa ricerca è il risultato di un decennio di indagine dove i diretti interessati e divulgatori nonostante gli scritti comprovanti negavano di aver mai preso parte alla crociata della Gjitonia come il Vicinato.
Gli interessi groppi dipartimentali allargati poi davanti all’evidenza si restringevano all’interno delle proprie stanze e quando il ricercatore con discendenza e memoria di Gjitonia, trovava porte e finestre chiuse dove si udiva discutere animatamente, all’esterno la conferma di essere nel giusto mie si potevano diffondere le nuove ricerche che nel 2014, salvarono l’agglomerato da me difeso in giudizio per non essere demolito, almeno sino al 2039.
Quando si aprono le porte tutti sorridono, ma in cuore loro tutti sanno che quell’antico governo che sosteneva la scuola dei sensi è terminata e, non tornerà più in vita, e oggi per sopperire a questa storica mancanza locale si chiamano gli indigeni più estroversi a imprimere messaggi figurativi di un passato senza alcun sentimento o senso di luogo.
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Posted on 11 agosto 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.
A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.
Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.
Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.
Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.
A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.
Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.
E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.
La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.
Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.
A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.
Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.
Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.
Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.
Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.
Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.
Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.
Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.
Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.
Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.
Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.
Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.
Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.
Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.
Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.
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