Archive | agosto, 2021

UNA GIORNATA TRA LE STORICHE FIGURE ARBËRESHË DELLA CAMPANIA

Protetto: UNA GIORNATA TRA LE STORICHE FIGURE ARBËRESHË DELLA CAMPANIA

Posted on 30 agosto 2021 by admin

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LE PROMESSE PER LA CULTURA DURANTE LA CHIUSURA E ADESSO L'APERTURA?

LE PROMESSE PER LA CULTURA DURANTE LA CHIUSURA E ADESSO L’APERTURA?

Posted on 28 agosto 2021 by admin

Pinocchio3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’anno duemilaventi è trascorso senza alcuna manifestazione culturale, all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”, tutti i preposti in questo periodo erano concordi, al chiuso delle proprie abitazioni, ad iniziare con più coerenza le manifestazioni per valorizzare i ricordi consuetudinari della minoranza storica.

Specie nel rapporto mai consolidato con i canali turistici che contano, dove storicamente gli ambiti arbëreshë sono marginalmente contemplati, come episodi orografici, ma non quale eccellenza sociale d’integrazione mediterranea.

Se fosse vero che ogni promessa è debito alla luce dei mille ravvedimenti diffusi, sui social/media durante la pandemia, quanto esposto in questi pochi mesi, di relativa libertà, non lascia dubbio alcuno, sulla fratellanza con il burattino di legno che prometteva, prometteva e prometteva.

A ben vedere “l’arcobaleno” prospettato, realizzato e addirittura vantato, come espressione artistica/culturale, palesa una povertà di valori che non trova eguali, sminuendo sin anche gli ambito maggioritario delle colline Italiane.

Una promessa di ravvedimento non mantenuta che lascia a dir poco sconcertati, viste nuove ricerche o stati di fatto, posti in essere, che avrebbero dovuto fissare più solidamente le caratteristiche della minoranza, non più esclusivamente a temi linguistici, metrici, consuetudinari, religiosi, come unica meta di salvaguardia.

Oggi grazie a temi ambientali, del costruito storico, il Genius Loci espressione di città policentrica, aggiunto al riferimento settecentesco,  ponte tra credenza civile, religiosa e profana, ovvero, “il costume nuziale femminile”, si sarebbe dovuto iniziare ponendo  la minoranza in prima linea, nei canali turistici che contano e portano valore ed economia al territorio.

Ciò nonostante la catastrofe emersa in questi pochi mesi di apertura sociale, lascia a dir poco perplessi; la ragione ha la sua origine nel non aver predisposto un’istituzione centrale di controllo, in grado di delineare trascorsi e principi, redarguendo quando serve il libero arbitrio, specie se, sostenuto senza misura da istituti ed istituzioni, poco attente.

Emerge palese la non conoscenza della storia, il non distinguere centro antico, da centro storico, la toponomastica del passato remoto, quella del ventennio, oltre a quanto modificato dalle ideologie sessantottine che delineano una deriva senza precedenti.

In altre parole, caos sistemico, in cui a perdere, sono gli elementi tangibili e intangibili della minoranza arbëreshë, specie quella che si è insediata tra il sedicesimo e il quarantaduesimo parallelo Italiano.

Se a questo dato si persegue ancora, la la via secondo cui, eccellenze arbëreshë, sono esclusivamente, le figure cimentatesi a grammaticare con l’utilizzo dei numerosi alfabeti, un codice idiomatico antico, tramandato per secoli in forma orale, da la misura del valore culturale in atto.

D’altro canto ritenere e disdegnando figure arbëreshë, in campo culturale, della scienza esatta, della giurisprudenza, la sociologia, dell’ingegneria, dell’architettura, dell’urbanistica, la matematica e nel campo editoriale, si ha la percezione di quale quadro senza prospettiva si preferisce divulgare.

Se a questo aggiungiamo che ancora oggi la credenza popolar/culturale non conosce la storia e tutti attendono il messia che emerga dalle catacombe d’archivio, con il vello in trattato di capitoli, platea e onciari, la prospettiva che  emerge è chiara, limpida e senza ombre di sorta.

Una minoranza che non ha consapevolezza del confronto o dell’unione delle discipline per la ricerca storica, non è in grado di tracciare un percorso univoco solidale e condiviso.

Tutto è svolto secondo il disciplinare che gli altri non hanno documenti, perché quando si recano negli archivi non sanno che quei complessi, qualche figura d’intelletto, prima di loro, li ha progettati per facilitarne l’uso e la consultazione di  atti utili ma non indispensabili a delineare la storia di un identificato territorio.

A tal proposito e per spegnere gli entusiasmi di queste pericolose fiammelle, all’interno dei catasti, è il caso di precisare che l’atto di svolgere una ricerca storca, non termina con l’aver acquisito un generico documento, buono o inutile che sia.

Il processo di ricerca richiede la capacità di saper leggere e confrontare  gli eventi della storia che altri detengono, poi di contestualizzarli con il territorio, le memorie locali, le modificazioni naturali e del costruito, che nello scorrere del tempo è passato dalla forma estrattiva in quella additiva per essere poi frazionata e in seguito migliorata nei secoli successivi.

Realizzare una ricerca storica che sia condivisa all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”non è un tema di facile attuazione.

Chi è riuscito nell’impresa, ha raggiunto l’intento, perché, coadiuvato da figure opportunamente  formate, oltre a istituti universitari specifici, con una dose di sapienza che non ha mai eccede negli elementi distintivi.

Solo seguendo questa diplomatica è stato possibile creare l’ intreccio arboreo ideale, in grado di raffigurare gli oltre cento Katundë, suddivisi in ventuno rami di macro aree in grado di raffigurare e dare forma alla regione storica.

Comporre l’albero genealogico in cui le radici alimentano e sostengono, solo ed esclusivamente le sei caratteristiche fondamentali che distinguono gli Arbëreshë dagli altri popoli del mediterraneo, è il risultato a cui si è addivenuti e da cui partire per diffondere certezze.

Si è definito da dove inizia la storia degli arbëreshë, senza andare troppo indietro nel tempo e perdere il filo del tempo; quali siano stati gli elementi fondanti; cosa ha determinato la volontà di migrare, tra il 1469 e il 1502 , e tracciare  con sacrificio le basi della odierna regione storica diffusa arbëreshë.

In oltre è stato definito, cosa ha permesso di sostenere le macro aree,  diffuse nel meridione Italiano e senza collegamenti brevi e diretti sia stato possibile resistere e rispondere alle diverse epoche con la stessa misura identitaria; quali siano stati gli elementi tangibili e intangibili che sostenuti questa metrica identitaria e cosa fondamentale, perché nella valle del Crati nella alle falde della Sila sia nato il costume tipico, che racchiude tutta la credenza di fratellanza civile religiosa e profana della storica regione .

Solo grazie agli studi realizzati a seguito di un preciso progetto di indagine archivistica, sul territorio e di confronto con le memorie storiche, grazie alla conoscenza delle parlate tipiche e il saper interpretare usi e costumi si è potuto approdare alla definizione che gli Arbëreshë, rappresentano il modello d’integrazione tra i più longevi, il più riuscito solido e vivo del bacino del mediterraneo.

Considerando fatti avvenimenti e paure, che diffusamente si diffondono attraverso i media nell’epoca che viviamo, parlare della storia degli arbëreshë, servirebbe utile diffondere tranquillità a tutta la popolazione europea in ansia, per le costanti ed innumerevoli migrazioni, immaginate tutte come eversive.

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LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

Posted on 20 agosto 2021 by admin

COsta

Nell’era moderna, per “Bene o Cose del Patrimonio Culturale” s’intende cosa e quanto contribuisce per tracciare la storia di una ben identificata macro area.

Il patrimonio, per questo, abbraccia un vastissimo numero di elementi definiti e indefiniti, ragion per la quale i legislatori per evitare di omettere ogni bene, li identifica come:

“cose del patrimonio storico culturale”

Di esse sono parte inscindibile:

  • i Beni d’interesse archeologico, mobili o immobili, testimonianza irripetibile, di un territorio;
  • i Beni d’interesse storico e artistico, mobili o immobili aventi relazioni con la storia culturale;
  • i Beni di natura ambientale come i paesaggi, naturali o trasformati dall’uomo e le strutture insediateve (urbane e non) valori di civiltà, espressione del genius loci;
  • i Beni “librari” quali manoscritti, carte geografiche, incisioni, produzioni letterarie etc.

Un ventaglio di cose che sfugge alla sensibilità condotta dai comunemente, i quali per scarsa formazione e rispetto delle cose del pesato, le identifica come superfetazioni o elementi vetusti, di poco conto, dei quali si ritiene più comodo farne a meno, sostituendoli o rifinendoli con inopportuni apparati.

Questo succede per strade, piazze luoghi ameni, edifici privati, pubblici e di culto; è proprio di quest’ultima categoria che si vuole menzionare un aneddoto, che per molti a suo tempo sembrò una reazione inopportuna, ma con il seno del tempo, oggi dobbiamo rendere merito all’intuito dell’anziano tutore delle cose e della storia arbëreshë di Santa Sofia.

Era la fine degli anni quaranta del secolo scorso e la chiesa matrice dedicata a Sant’Atanasio, allocata nell’omonima piazza dedicata al piccolo, veniva segnata con apparati caratteristici della chiesa latina.

Il progetto voluto dall’allora Parroco G: Capparelli, mirava a sostituire la cadente copertura a due falde contrapposte, con una più moderna a forma di carena rovesciata in cemento armato.

L’esperimento strutturale, adottato e collaudato dai tecnici vaticani, i veri progettisti, rispondeva a questa esigenza diffusa, nell’aquilano, in mote chiese di quella regione.

Il progetto mirava a calettare all’interno del perimetro murario antico, un telaio strutturale di pilastri, travi perimetrali e soletta verticale di irrigidimento, per sorreggere volta e campanile.

Per l’epoca il progetto si riteneva all’avanguardia e migliorava la fruibilità in sicurezza del sacro volume Sofiota, ad opera di manovalanze locali e maestranze indigene.

Quando l’opera era al termine e le risorse risultate, grazie alle donazioni dei fedeli, soverchianti, indusse l’entusiasmo del prete locale a sostituire anche la storica porta dell’ingresso principale a due battenti, in legno massello, rifinita da un particolare bugnato.

Opera di un falegname, che per sfuggire al carcere certo nel 700, trovo riparo in chiesa e per ricambiare la popolazione per  garantito il rifugio, si adopero a realizzare tutte le opere di falegnameria di cui la chiesa mancava, dai tempi dai sua edificazione.

Nel cantiere di fine quaranta del secolo scorso, ormai al termine dei lavori della copertura, si aprì una discussione tra contrari e favorevoli, i di più per sradicare l’antico varco di legno, per uno più moderno, lucido, nuovo e duraturo.

La sera quando il cantiere chiuse, uno degli operai, nel transitare davanti alla casa di llalë Kosta (Zio Costa), essendo lui uno degli attenti finanziatori locali, domandò, all’operaio, come si procedeva e se le cose andavano bene, nell’avere come risposta, la novità di voler sostituire la storica porta principale, per una più bella, lasciò a dir poco perplesso il vecchi saggio.

All’indomani di buon ora, il saggio Sofiota, si fece trovare  davanti alla chiesa e quando, prete, geometra e i referenti mastri del cantiere furono tutti presenti, pretese che gli si rendesse conto di cosa li avesse spinti a quella malevola manomissione.

Segui un vivace confronto verbale, dal quale emersero tante cose buone per conservare e tutelare lo stato del sacro varco, rispetto alle irresponsabili motivazioni per dimetterlo e con il ricavato riscaldare il focolare di qualche capomastro, ragion per la quale, llalë Costa Baffa, ebbe ragione su tutti.

Nel mentre, si allontanava l’anziano tutore di cose antiche, non fece a meno di brandire il suo bastone esclamando: è fatto dello stesso legno della porta e se qualche addetto, ha dubbi sulla solidità di questa essenza, si faccia avanti e in ogni momento sarò pronto a dimostrare la durezza di questa essenza, dandolo in testa, a quanti mettono in dubbi la solidità di quel varco lavorato.

Sono trascorsi quasi otto decenni da quel dì, la porta maggiore della chiesa di Sant’Atanasio, continua ad aprirsi e chiudersi segnando tempo ed epoche, nessuna delle mattonelle del suo raggio d’azione ha scalfitture alcune, dando ragione alla previsione del vecchi saggio Sofiota.

 

P.S. il racconto è gentilmente staro reso noto da Benito Guido, che come llalë Costa interviene ogni volta che si manomettono le cose del nostro paese, purtroppo non ha il bastone, allora accade che i comunemente prevalgono sulla saggezza e la durevolezza della storica essenza.

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