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MANIFESTO: L’ARCHITETTURA IN 10 PUNTI

Posted on 21 gennaio 2015 by admin

Manifesto 

CASERTA  –  15 gennaio 2015

 (Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Caserta)

MANIFESTO

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L’ARCHITETTO, padrone della tecnica e fautore della bellezza, deve recuperare il suo ruolo sociale di operatore culturale, intuendo le trasformazioni del suo tempo. Quale regista del processo creativo e costruttivo, è responsabile dell’interpretazione e della risposta alle esigenze, materiali e immateriali, della contemporaneità. È responsabile della qualità del suo lavoro e delle ripercussioni dello stesso sulla collettività, qualunque sia la scala progettuale e l’ambito di intervento.

L’architetto non è un lusso evitabile.

IL PROGETTO architettonico è il procedimento logico-scientifico teso all’individuazione di forme, organizzazioni e azioni finalizzate alla creazione degli spazi e degli oggetti per le attività umane. È tra le più alte espressioni della complessità intellettiva dell’uomo per l’uomo.

Esso risponde a necessità più o meno esplicite della committenza, ma, tale risposta, valida hic et nunc, non può prescindere da fattori ambientali né essere avulsa dal locus.

Il processo progettuale appartiene, soprattutto, alla sfera creativa, nella quale fantasia, sentimento, necessità e tecnica si fondono in elaborazioni grafico-descrittive. È pertanto il risultato di una serie di esigenze, contingenti e intellettuali.

L’architettura si impone nella vita dell’uomo condizionandola. In tal senso, il progetto non sfugga al senso civico e non si allontani dall’idea che una buona architettura influenzi la società. Lacoerenza è il suo risultato vincente.

L’ETICA nella professione dell’architetto raccoglie i doveri e gli obblighi indirizzati al perseguimento di obiettivi collettivi, espletati attraverso la validità e la lealtà del proprio operato.

La qualità e il merito, non i fatturati, diventino, pertanto, i fattori discriminanti per tutti i progetti e le gare pubbliche; il concorso ne regoli l’accesso.

Anche quando il problema è la sopravvivenza, il comportamento etico è una necessità sociale imprescindibile.

L’ESTETICA è obiettivo primario dell’architetto che deve produrre e diffondere la cultura del bello – il bello come luce del vero – sfatando l’idea che essa sia superflua e costosa.

L’estetica deriva dalla modulazione della luce, che disegna lo spazio e lo riempie di significato, dal giusto equilibrio delle parti e dei rapporti tra pieni e vuoti, dalla sua immanenza materiale, dalle condizioni di vita assicurate ai fruitori, dall’immediata riconoscibilità della sua identità.

La sconfitta della bellezza è la sconfitta dell’architettura. La sua immagine corrotta e declinata in sistemi dom-ino, assunti come facile preda del veloce costruire, dichiara il fallimento di un tema cardine del linguaggio moderno, determinando la decadenza del gusto estetico e l’assenza dell’architetto.

Occorre, pertanto, trasformare l’architettura dequalificata, tramutarla nel bello, enfatizzando gli elementi che la compongono e facendo in modo che una metamorfosi rispettosa si impadronisca dell’edilizia.

L’intento è restituire agli elementi primari il loro decoro, sottolineando il concetto che, proprio nella loro semplicità, si cela la reale bellezza in verità e qualità.

La bellezza non sia soltanto un valore per chi la crea, ma, soprattutto, per chi la vive.

LA PREESISTENZA è l’insieme di elementi appartenenti a epoche diverse che, per determinati motivi naturali e non, connotano il paesaggio, formando lo spazio. La loro specificità, il valore e l’immanenza universale innescano il mutuo dialogo tra le parti.

Compresa la sostanza di tale complessità, la preesistenza diventi, nel progetto, il piano d’appoggio da cui partire e distaccarsi, attraverso un lessico contemporaneo, che non sia imitazione, ma che si orienti verso la prosecuzione di una continuità spaziale e formale.

Affinché questo sia univocamente richiesto dalla committenza e proposto dagli architetti, si educhi a ciò che è stato sedimentato nella memoria collettiva, al suo rispetto e ai nuovi lessici: vale a dire all’architettura.

IL PAESAGGIO assolve una funzione strategica vitale: è fonte di risorse, è produttività, è casa e habitat per l’uomo. L’uso dissennato del territorio induce a una nuova consapevolezza.

Che si faccia riferimento a un paesaggio immateriale, di tipo percettivo-sensoriale, o a un paesaggio reale, dai caratteri fisico-ambientali, è indubbio che esso sia materia viva, ha propri ritmi ed equilibri che influenzano la qualità della vita dei luoghi e che sono influenzati dall’interazione umana.

L’architetto deve considerare discipline plurali per poter leggere le caratteristiche dei molteplici paesaggi e intervenire, contemperando le necessità di trasformazione con quelle di tutela.

Tale acquisizione, affiancata da una valida programmazione territoriale, sia la base dell’intervento progettuale, rivolto alla ricerca dell’equilibrio armonico tra uomo e natura.

LA CITTÀ è un organismo pulsante costituito da relazioni, flussi ed entropie: una realtà mobile, in continuo divenire. Essa si deforma e si conforma, propagandosi sotto la spinta vitale di informazioni, di relazioni e di interconnessioni che si instaurano al suo interno e si espandono all’esterno.

Tessuto materiale della realtà immateriale, la città si trasforma e si adatta ai modi di vivere e fruire lo spazio e ne induce di nuovi. Tali trasformazioni agiscono sull’idea di città, intesa come entità individuale, favorendo la fusione tra realtà un tempo separate e lontane, e tendendo alla formazione di entità urbane policentriche e multiculturali.

L’architetto è chiamato a esplicitarne l’essenza, recuperando ciò che è stato cancellato e ricercando nuove forme che assecondino e accolgano le sempre mutevoli esigenze di spazio e di relazioni.

Smetta l’architettura di esibire esclusivamente se stessa! La sua bellezza, slegata dal contesto, è una manifestazione vacua, estranea o, addirittura, ostile.

LA SOSTENIBILITÀ – abuso verbale degli ultimi anni – nasce dall’esigenza di garantire alle generazioni future gli stessi diritti di quelle attuali, presentandosi come fenomeno globale e in tal senso va indagata, analizzata e poi assimilata.

Ogni comunità ha una sua storia, una sua evoluzione culturale che nel tempo si è espressa anche attraverso le architetture dei luoghi. L’architettura non può rientrare nella logica degli standard internazionali, trasformando gli edifici in prodotti dell’immagine, creando città derubate e denudate della propria identità.

Le conseguenze dell’attività edilizia richiedono un adeguamento del modello produttivo e l’adozione di strategie che tengano conto di un uso consapevole di risorse, tecniche, riciclo e riuso dei materiali.

In tale accezione, l’architettura accolga la sfida dei mutamenti in atto, senza dimenticare di preservare la continuità e servendosi delle tecnologie come mezzo e non come fine della ricerca

architettonica.

LA MULTICULTURALITÀ è dialogo tra forme, linguaggi, luoghi, funzioni e si sviluppa nella capacità della città di gestire sia le relazioni primarie sia le relazioni transitorie.

L’architetto, pertanto, è chiamato a riflettere sui contenuti sociali e collettivi della propria cultura, considerando anche le espressioni eteroctone. È questa la risposta per far coincidere l’architettura con la realtà dei luoghi e permettere la creazione di nuovi strumenti espressivi e modalità di ragionamento, che vedano l’uomo e non solo le forme, al centro dello spazio urbano: luogo concavo di confronto e incontro.

La programmazione e la progettazione urbana puntino a un’organizzazione armonica degli spazi e delle persone che li vivono, e considerino la diversità una delle risorse più grandi da cui attingere per favorire l’evoluzione e la crescita multiculturale.

LA CONTEMPORANEITÀ è compresenza nello stesso tempo e nello stesso luogo di elementi e realtà diverse.

In un’epoca in cui l’architettura ha perso il suo carattere di firmitas temporale, per diventare un bene di consumo suscettibile al continuo cambiamento, la contemporaneità esprime più che mai

la sua natura instabile e magmatica. Il recupero del duplice ruolo dell’architettura, intesa come espressione del suo tempo e luogo costruito per resistere nel futuro, diventa il fine dell’architetto e della collettività.

Colmando la tradizionale distanza che esiste tra ricerca architettonica e costruzione reale del paesaggio, l’architetto si riappropri della sua responsabilità di autore contemporaneo e ritrovi il rigore teorico.

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A cura della Commissione Cultura : Elviro Di Meo (presidente), Umberto Panarella (consigliere referente), Giancarlo Pignataro (consigliere referente), Chiara Affabile, Paolo De Michele, Tiziana Leda Denza, Aldo Giacchetto, Francesca Sabina Golia, Mascia Palmiero,Alfredo Panarella, Gabriella Rendina, Rita Vatiero.

Con il contributo di: Camillo Botticini, Mario Cucinella, Riccardo Dalisi, Vittorio Gregotti, Andreas Kipar, Luca Molinari, Massimo Pica Ciamarra, Alessio Princic, Franco Purini, Luca Scacchetti.

Rossella Bicco, Annamaria Bitetti, Maria Carmela Caiola, Massimo Carfora Lettieri,Commissione Eventi e Manifestazioni, Commissione Paesaggio e Commissione Restauro, O.A.P.P.C. della Provincia di Caserta, Raffaele Cutillo, Adele D’Angelo, Bartolomeo D’Angelo, Claudia de Biase, Giuseppe Di Caterino, Gianluca Ferriero, Maria Gelvi, Giuseppe Iodice, Antonietta Manco, Gaspare Oliva, Ernesto Panaro, Salvatore Perfetto, Vega Raffone, Andrea Santacroce, Bruno Saviani,Beniamino Servino, Concetta Tavoletta, Davide Vargas.

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI ARCHITETTI PPC DELLA PROVINCIA DI CASERTA

Domenico de Cristofaro (presidente), Salvatore Freda (vicepresidente), Carlo Cardone (segretario), Giuseppe Martinelli (tesoriere), Mario Belardo, Carlo Benedetto Cirelli, Raffaele Di Bona, Tommaso Garofalo, Antonio Iuliano, Antonio Maio,Umberto Panarella, Valentina Pellino, Giancarlo Pignataro, Bruno Saviani, Giuseppe Sorvillo.

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IL PERIMETRO RELIGIOSO E LE CONTRADDIZIONI DEGLI ALTRI

Posted on 16 gennaio 2015 by admin

81240829NAPOLI (DI Atanasio Pizzi) – Quello che fa la differenza tra i grandi uomini e gli altri, sta nel fatto che: i primi hanno un progetto di vita, che perseguono non per fini personali ma per il bene della comunità dove svolgono il loro mandato; gli altri si adoperano per rendere difficoltosa la vita e la via del prossimo.

Quando padre Giovanni Capparelli, la mattina del diciotto giugno del millenovecento e quarantaquattro giunse a Santa Sofia d’Epiro, era appena terminata una violenta tempesta e come un segno del destino, il giorno seguente inizio a splendere il sole.

È in questo piccolo paese albanofono, adagiato tra gli anfratti della Presila Greca, che il giovane prelato mise a dimora i semi del suo progetto, affidandoli al teorema, secondo cui il sacro perimetro, ancorato al rito Greco-bizantino delle genti arbëreshë, doveva fungere da collegamento tra le sintonie materiche territoriali dei suoi fruitori e il credo religioso.

La nuova “chiesa per gli arbëreshë” fu sempre la luce che egli, in oltre mezzo secolo di caparbia abnegazione, ha seguito per dare un senso compiuto alla matrice di Santa Sofia d’Epiro; eretta dai devoti in ricordo di Sant’Atanasio il Grande agli inizi del XVIII secolo, restaurata perché cadente nel 1835 e poi trasformata secondo la nuova idea, a partire, dalla meta del XIX secolo, dal giovane prelato.

La struttura voltata della navata, il campanile, la sacrestia, l’altare, il ciborio, il fonte battesimale, i lampadari, i banchi e sin anche la volumetria esterna è il frutto dell’espressione territoriale in cui ogni sofiota si riconosce e avverte il senso più profondo del messaggio religioso.

Ogni cosa che Zoti Xhuan, in comune accordo con i fedeli Sofioti, ha depositato nella sacra fabbrica, è stata sempre e comunque verificata per evitare ogni discutibile interpretazione, divenendo così il luogo di pura condivisione di buona convivenza civile e religiosa.

Ogni tipo di esternazione fuori dalle regole era sfumato attraverso la diretta intercessione di Zoti Xhuan, sin anche le lodi al signore se prendevano una nota troppo alta, erano attenuate e riportate entro i toni più idonei attribuiti al sacro involucro.

Sin dai primi interventi degli anni cinquanta fino alla fine degli anni novanta del secolo scorso, quando l’ultima pennellata di vernice era apposto alle porte della chiesa, è stato, prima vagliato, poi provato e in fine posto in opera senza che nessuno sollevasse neanche un alito per dissentire.

Il suo mandato il giorno della sua morte il 20 gennaio del 2005 si poteva ritenere largamente portato a buon fine, giacché, la chiesa era l’espressione religiosa dei Sofioti e di tutta l’arberia.

Rimaneva da sostituire gli infissi dei varchi finestra allocati tra il cornicione e la volta di copertura, che risalgono all’intervento di adeguamento strutturale degli anni cinquanta.

Questi ultimi innescano ancora oggi, copiose efflorescenze che danneggiano la pellicola pittorica, causa che scaturisce della scarsa tenuta termica dell’antico manufatto di trasparenza.

Dal giorno della compianta dipartita dell’arch. Giovanni Capparelli, non molto è stato fatto con lo spirito dell’antico progetto d’identità locale, anzi in controtendenza degli antichi dettami, i corpi illuminanti dono di un noto artista locale, sono stati sostituiti con violenti, inadatti e discutibili lampadari di manifattura greca(?), nonostante ciò, a deturpare ulteriormente la chiesa, oggi si persegue l’incauto fine di sostituire il fonte battesimale con uno simile a quello di una chiesa del versante arbëreshë del Pollino.

Santa Sofia d’Epiro dal giorno della venuta degli arbëreshë ha rappresentato un modello da imitare e da cui tanti centri di simili costumi hanno tratto beneficio, per questo presupposto è giunto il momento di dire: BASTA MANOMETTERE LA CHIESA E SHËN THANASIT!!!!!!, non è costume dei Sofioti copiare i componimenti altrui, in quanto, le nostre menti sono abbastanza lucide da pensare, progettare e mettere in essere prodotti che sono alla base della nostra tradizione.

La chiesa di Sant’Atanasio è l’espressione di tutti i Sofioti chi la violenta, con l’apposizione di corpi estranei utili solo a turbare le valenze del passato, non sostiene i messaggi religiosi che il manufatto è preposto a trasmettere.

La comunità si deve opporre a questo scempio per non compromettere i canoni della propria identità stravolti da alloctone interpretazioni; anche se gli esecutori, di ciò, dovrebbero pensare in maniera religiosa al mandato di mantenere e difendere l’integrità della fede, non imporre sottoforma di sterile operosità, “MODELLI ORTODOSSI”.

Oi Zò: Shën Sofia nëgh thë hàroj

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