Archive | marzo, 2022

SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

Posted on 07 marzo 2022 by admin

275297823_5222999894391398_3049577895678805196_nNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Sulle balze del Pollino, in Calabria, vi è la massima concentrazione di paesi popolati da profughi albanesi, costretti a fuggire dalla fine del XV secolo dalle proprie terre per l’arrivo degli invasori turchi, frenati, fino a quel momento, da Giorgio Castriota Scanderbeg, morto nel 1468.

Per distinguersi dai fratelli rimasti in Albania sotto il gioco musulmano, gli emigrati stanziatisi in tutte le regioni del “Regno delle Due Sicilie” hanno assunto il termine di arbëreshë. La mancanza di contatti continui tra le due etnie ha creato un solco che si è sempre più allargato tanto che oggi hanno poco in comune.

Sono andato a visitarne uno dei più caratteristici: Civita. Appena mi è comparso all’orizzonte, mi sono fermato perplesso a studiarne la posizione. Ma a chi è venuto in mente di stanziare un gruppo di persone su quel terrazzamento con un burrone a monte e uno a valle? La montagna alle spalle potrebbe franare e sotterrare le abitazioni; oppure il paese potrebbe scivolare verso valle con le immaginabili disastrose conseguenze.

All’ingresso del paese vi è una scultura in pietra che rappresenta un’aquila, dominatrice dei monti del Pollino; osservate la posizione, ha planato, si è posata su una roccia, l’ha afferrata con i potenti artigli, la testa con il becco adunco tra le zampe per abbassare il centro di gravità, ha le ali spiegate unite verticalmente perché il volo è terminato e fra poco le raccoglierà sul corpo.

Poco oltre vedo l’immancabile busto dell’eroe albanese, dell’ ”atleta di Cristo”, di Giorgio Castriota, soprannominato Scanderbeg, Alessandro, in ricordo delle sue imprese contro i persiani al pari del giovane eroe macedone.

Il paese, pur essendo integrato nella civiltà del paese ospitante, conserva usi e costumi di quello originario. Ho visitato il locale museo, nel quale campeggiano oggetti, costumi, ritratti, riproduzioni, pannelli storici delle tradizioni albanesi, come quelli sparsi in tanti borghi dell’Italia rimasti isolati tra le balze dei monti; sono entrato nella chiesa di rito greco-ortodosso, la religione dei padri, come quelle che ho incontrato nei decumani di Napoli, ricreate dagli immigrati dei paesi slavi e balcanici; ho ascoltato le voci e i discorsi in lingua arbëreshë, a me sconosciuta, come i tanti stretti dialetti, che, nonostante l’Accademia della Crusca, si continuano a parlare nelle singole regioni italiane; ho letto i cartelli bilingue, non dissimili da quelli dei paesi al confine con la Slovenia, l’Austria e la Francia.

C’è, però, una differenza fondamentale: il territorio. Gli altri paesi si trovano in zone concentrate a ridosso dei confini. Quelli arbëreshë, invece, sono diffusi in tutte le province dell’ex “Regno delle Due Sicilie” formando una comunità, che dovrebbe essere più connessa di quello che in realtà è.

La popolazione ha resistito alle vessazioni di principi e tiranni, anche per la protezione di Irina Castriota, principessa di Bisignano, pronipote e ultima erede legittima di Scanderbeg. Tutto bello, tutto integrato, in questo paese arbëreshë, cioè italo-albanese, degno rappresentante di questa vasta comunità diffusa.

Civita, però, ha qualcosa che la rende unica: “il ponte del diavolo”. Giù, oltre il burrone a valle, scorre un torrente, il Raganello con le sue gole, i rumorosi balzi tra le rocce, i restringimenti e le zone dove si allarga e riposa, meta di escursionisti dediti agli sport fluviali. Nella piazza del paese si trova il mezzo che vi precipita giù lungo una strada impervia con una pendenza da capogiro che l’esperto giovane autista percorre in una manciata di minuti. Ed eccoci arrivati al “ponte del diavolo”: dal disegno dell’arco si denota e deduce l’origine romana. La vista è stupenda; affacciarsi oltre il parapetto e farsi rapire dallo scorrere dell’acqua che si infila e si contorce tra i grossi massi è uno spettacolo irrinunciabile, nel quale la natura si mette a nudo e mostra i suoi tanti segreti. È un paesaggio da favola trasportato nella realtà di un paese che è impossibile cancellare dalla memoria: Civita.

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ALLO SCADERE DEL SECONDO GIUBILEO NATALIZIO, SIETE  CONSAPEVOLI VERSO QUALE GIRONE NUOTATE?

ALLO SCADERE DEL SECONDO GIUBILEO NATALIZIO, SIETE CONSAPEVOLI VERSO QUALE GIRONE NUOTATE?

Posted on 04 marzo 2022 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Esiste un cerchio malevolo noto per la pena culturale che avvolge, esso si stende del cuore pulsante del casale di confine, con un  raggio sino al pianoro del calvario politico, denominato Palë Kanë Shëpitë.

È in questo girone o cerchio, che vivono, si rifugiano per  pascere e rigenerarsi, figure senza principi morali, ignari di cose buone, per poi  millantare ruoli e cose,  terminando addirittura con l’esaltare come buoni  i “cattivi”.

Queste attività pur se ignorate dai resilienti locali, si impongono, secondo un calendario maldestro, infliggendo pene a quanti vivono da generazioni per cambiare l’inesorabile deriva.

Sono inutili i tentativi delle persone buone, consapevoli dei fatti, i quali per non essere mescolati nelle tenebre di questo teatro dell’incultura, vivono perché nati, nel limite del contadino, dove l’efficacia di queste azioni, si esaurisce rendendo quperchè un raggio di luce illumina i pochi.

Dopo questa breve premessa introduttiva è opportuno precisare che sono troppo esigue le notizie riportate, genericamente, su un certificato natalizio, per “apparire” dignitosi sulla scena politica e culturale del passato, specie se i trascorsi in vita sono ambigui e colmi di dubbi, poi se la provenienza del certificato è di scaffali non clericali, il discorso non può che terminare nel fatuo.

A tal fine, chi volesse istituire l’anno giubilare, sopra i miseri resti di un natalizio, assume responsabilità storiche non proprio nobili e termineranno per sporcare d’inchiostro scagliato una pagina della nostra fiorente storia,

Ragion per la quale sia la genuinità delle cose e sia nell’esposizione di poveri concetti e attività, specie se editoriali, saranno solo quelli la cui paternità è notoriamente attribuita alla mano ferma e precisa del dotto che sapeva usare  i calamai, sin anche per redarguire gli stolti cattedratici.

Si usa dire che la storia si ripete, come non crederci viste le figure, i fatti e le cose istituzionali che a breve confermeranno l’antica teoria con Uomini, luoghi e tornaconti.

È noto che i particolari del vissuto, dalla figura di natalizio, non sono proprio in figura di Santo, né verso la via de Purgatorio, in quanto trovano  certezza solo nel Girone basso dell’inferno.

Per lo scopo chi si appresta a giubilare, senza produrre ilarità, dovrebbe almeno sottoporre tutti i temi, al vaglio di veri storici, specie se ad essere incrociate sono azioni malevole verso luoghi, uomini e cose della storia della regione storica intera.

A tal fine, onde evitare le solite figuracce di esposizione, come ormai fanno in ogni uscita pubblica, è il caso di confrontarsi e comprendere meglio, produzioni editoriali, gesta e attività, per le quali e i quali, si è superata la china dell’apparire in vita, senza decenza.

Si dovrebbero, in altre parole, sommare indizi in numero di tre, e costruire prove da divulgare, con i protagonisti allocati nelle giuste icone di riferimento, paradiso, purgatorio o inferno, disegnAto da saggi che usano apparire esclusivamente con i canali multidisciplinari.

Il Casale Terra di Bisignano nel corso della storia ha avuto numerose figure di eccellenza, sia dal punto di vista sociale in forma laica e sia clericale; è grazie a questi, che il centro antico, prima citato, siede per meriti, nell’olimpo culturale della Regione storica diffusa degli Arbëreshë.

Per meglio procedere nella ricerca specifica e puntuale, va ricordato che gli Arbëreshë di Calabria citeriore davano inizia al proprio percorso culturale negli istituti di formazione laico/clericale di macroarea, poi superata l’idoneità, affinavano a Napoli gli studi, in discipline sociali, culturali, legali, tecniche, politiche, economiche e religiose.

Un elenco indelebile, ricorda un numero considerevole di addetti, già da prima dell’insediamento di Carlo III a capo del regno; da quel tempo e senza soluzione di continuità, il Katundë, somma figure raffinate degne di menzione e lode.

Tuttavia come per tutte le cose “l’eccezione” è sempre in agguato, pronta a far sbocciare tra le pieghe delle figure buone, anche singoli personaggi disarmonici, vere e proprie anime penose del Girone Dantesco.

Se “apparisce”monologo l’elenco degli irrequieti del male, rimane composto dello stesso numero di addetti, nel corso di attività dal 1783 sino alla fine del decennio francese è segno che gli arbëreshë sono di radice buona.

La falce malevola, appianò ogni cosa gli si sia posta davanti nel percorso di affermazione; diverso e molto estesa, è la lista delle eccellenze “buone”, gli stessi che in tre secoli di storia, hanno reso il Casale Terra, al confine delle diocesi di Rossano e Bisignano, un luogo rinomato e senza pari, ad eccezione di una pianta malevola che non smette di germogliare “del 1806” imperterrita ai margini della ribalta, perché semi fatui vile incultura.

Tra le eccellenze del passato e del presente, vanno citati almeno i casati che hanno fatto la storia, quella buona, degli Arbëreshë calabro citteriore.

Essi sono noti e ricordati per i loro casti, quali: Baffa, Baffi, Becci, Berlingieri, Bugliaro, Bugliari, Caruso, Ferriolo, Marchiano, Miracco e Pizzi, tutte residenti all’interno degli elevati storici arbëreshë.

I citati cognomi anche se di poco più della decina, intrecciando le unioni coniugali, hanno generato un numero di eccellenze molto esteso e per i quali, in altra diplomatica riceveranno gli allori di merito.

Qui di seguito saranno rilevate le gesta, per fermare i simboli della cultura buona degli arbëreshë, che per non vedere calpestato il proprio sapere, allora come oggi, superavano le avversità dell’essere, isolati, utilizzarono calamai contro inesperti professori, come fece il Baffi, con l’incauto insegnate di greco.

E mentre le persone giuste si confrontavano per cose buone e definivano valori condivisi e indispensabili per la società di quel tempo, i pochi, gli altri, quelli che “appariscono” fascicolavano, trame e tessevano tele perverse, perché dovevano eliminare fisicamente, quanti gli si ponevano davanti o lungo la strada dell’apparire, falso di un limpido perverso.

L’elenco delle eccellenze buone di quel casale, di confine diocesano, inizia quando Carlo III nel costituire il fido reggimento Real Macedone,volle alla guida spirituale del medesimo, il reverendo Giuseppe Bugliaro a Napoli, dove opera con correttezza spirituale al mandato regale.

È proprio il reverendo Bugliaro, ad accoglier suoi parenti/concittadini e aprire orizzonti culturali, per gli Arbëreshë all’interno della capitale, queste giovani promesse con univoca capacità culturale e modi di porsi, conquistarono subito i salotti partenopei della cultura, riverberando il loro sapere per tutta l’Europa, all’epoca in fermento per rinnovarsi e produrre nuovo pensiero sociale e culturale.

Un nome valga per tutti gli esponenti della regione storica arbëreshë del settecento: Pasquale Baffi, nessun personaggio può vantare livello paritario in campo sociale e intellettuale perché unico e solo libero pensatore arbëreshë.

L’intellettuale G. Marotta, in una piacevole divagazione storica nel suo salotto, diceva egli e uno dei pochi pensatori Partenopei Libero da ideologie di partito, un unico pensiero: il bene di tutti gli uomini in egual misura.

E quanti vanno raminghi attraverso le righe delle diplomatiche affermando che non è eccellenza perché non ha scritto in lingua skip, sappiano che questa disciplina se non ha avuto accoglienza dal Baffi, che possedeva titoli e capacità curriculare e intellettuale, diversamente da quanti perdono solo tempo e incauti vogliono piegare le consuetudini antiche del popolo pi longevo del vecchio continente.

Quest’ultimo apre nella stagione della cultura, già dal 1770, e mentre lui scriveva e annotava pensieri e segnalava attività da intraprendere, in quelle terre che dopo poco tempo diventano “la questione meridionale”; fornendo le basi indelebili, gli usurpatori culturali si cibavano ancora del latte di Capre di razza Mursia.

A tal fine va rilevato il senso dello stesso “discorso dell’apparso” già pubblicato in Europa, e per questo, l’editore partenopeo  cauto, alcuni decenni dopo per correttezza e rispetto di chi lo aveva composto, ha posto come premessa alle altrui apparizioni, precisando che: “Si avvede il Lettore che si era fatta un’edizione  ma siccome è uscita piena di errori, così si è distrutta totalmente, ed abbiamo pubblicata la presente conforme all’originale; l’Editore”

Se a queste avvisaglie di attività editoriali, non proprio limpide associamo le ricompense elargite a favore della servitù, dagli organi preposti all’arresto per poi eliminarlo secondo disposizioni regali sia fisicamente e sia dei suoi scritti in casa, mentre quelli depositati in calata San Sebastiano restarono nelle disposizioni di chi ancora non aveva pagato pegno.

Noti restano i prodotti editoriali, la cui paternità non può ritenersi farina di un novello laureato, ancora senza arte e ne parte, ancora attaccato al seno della capra Mursia, e quindi non consapevole la lingua greca, sino al profondo intimo delle inflessioni dialettali, persona d’intelletto superiore, il cui sapere poteva trattare istanze ancora ignote alla cultura diffusa di fine settecento.

Altro illustre che ha subito violenze inaudite, è il vescovo Francesco Bugliari, per i suoi risultati portati a buon fine e per questo testimone scomodo delle dal 1794 al 1799, per le quali il Baffi fu sgozzato, per essere stato cattivamente afforcato, nel novembre rivoluzionario.

Il Bugliari non fu solo vittima in prima linea, in quanto all’indomani dell’entrata dei francesi a Napoli, bisognava cancellare tracce indelebili dei vili tradimenti, noti al Bugliari e ai suoi familiari e forse custoditi nelle carte del collegio a quei tempi in Sant’Adriano.

Le cinque giornate del Casale terra,  dal 12 al 18 agosto del 1806, rappresentano il secondo indizio, dove il mandatario, sulla carta secondo il D’AJALA, era il re di Napoli, in verità a far apparire come pericoloso il vescovo ed i suoi familiari agli Aragonesi in fuga era sempre il solito che “apparisce” nella penombra e con la false spiana le cose senza macchia.

Allo scopo, fu fatto sopprimere anche la guardia locale, che poteva sapere, ovvero Giorgio Ferriolo, il Fratello assieme all’intera guarnigione, per poi passare alla ricerca del vescovo tradito da una serva del nero.

Il vescovo fu freddato e lasciato in un granaio, ordinando, di non rimuoverlo non prima “di cinque giorni”, dopo di che si scatenarono anche contro il fratello e le cose di casa Bugliari che sono bruciati, assieme alle carte e le cose del collegio di Sant’Adriano, terminando la sciagurata commedia ad Acri dove sono passati al rogo il fratello del vescovo e il giudice Maziotti da San Demetrio Corone.

Tutta questo, non poco patire, servì per sedere senza ombre, nei vertici della direzione del regno ormai Napoleonico, noto come il  decennio francese dal 15 febbraio del 1806.

Se a ciò si aggiunge che mentre i Francesi prediligevano realizzare presidi della cultura, l’emblema di formazione degli Arbëreshe della Calabria citeriore, ha una sorte apposta, infatti, nel 1813, con decreto regio: si vuole spostare la scuola da Sant’Adriano a Corigliano Calabro, consigliando la dismissione delle abitazione e alle dotazioni della struttura.

Solo l’energico intervento con formale lettera alla corte reale del Vescovo Bellusci, congelo le cose e alla dipartita dei francesi dopo il 13 ottobre 1815, tutto poté ripartire senza non pochi patimenti, sia di cose e sia delle attrezzature scolastiche distrutte.

Quando tra il 1820 e il 1821, si elevò la rivolta anche nel regno di Napoli, si proposero tumulti, nel breve tempo soffocati e nel febbraio dall’anno successivo, ebbero ragione verso quanti vi avevano partecipato, con i modi di repressione a lungo termine tipico degli Aragonese, nei fatti, una scure che non risparmiava nessuno degli avente preso parte in misura più o meno opportuna, in diversi modi.

Il cerchi costruito con il fuoco a questo punto, la natura delle cose lo forgia con cauta precisione restituendo quando seminato; il consiglio che il bandito, Frapitta, diede ai poveri abitanti del casale terra di lasciare il Vescovo morto e abbandonato nel magazzino del grano per quattro giorni, diventa una premonizione matematica che non lascia scampo alle interpretazioni.

Correva il ventidue agosto del 1822 e nei pressi, dove un tempo erano allocati, i granai regi partenopei, è dichiarato morto dai parenti, chi aveva brillato di luce altrui; strana coincidenza la matematica del semina e raccogli; era i18 sempre di fianco a un granaio e fu raccolto pegno a Napoli.

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