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LA SAPIENZA DEI CAPARBI FA DIVENTARE VINO ANCHE L’ACETO ARBËREŞË

Posted on 31 dicembre 2025 by admin

2560px-The_Witches_at_the_Walnut_Tree_of_Benevento_MET_87.12.37 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un noto prelato vaticanista, nel 1962 durante una conferenza di servizio, faceva una riflessione intensa sulla condizione dei diasporici, che vivevano in Italia, particolarmente in alcune regioni del sud, tra la Sicilia e il Molise come termini, storicamente dal punto di vista sculturale si possono individuare come ” riversatori di aceto, speranzosi che un dì diventi buon vino”.

Questo teorema apre una riflessione sul rapporto tra cultura, tradizione e trasformazione, temi che ancora oggi risuonano con forza, soprattutto alla luce delle sfide contemporanee e delle tensioni identitarie che caratterizzano la società odierna.

Nel 1962, il lucido prelato descriveva gli Arbër come “possessori di aceto, speranzosi che un dì diventasse buon vino”, una metafora che rivelava una visione profonda della condizione culturale e sociale di questa comunità.

Gli arbëreşe, pur conservando ancora oggi una ricca tradizione linguistica, culturale e religiosa, sono una minoranza che ha attraversato secoli di sfide, trasformazioni e adattamenti, rimanendo tuttavia fedeli alla propria identità.

E il prelato vaticano non intendeva criticare l’incapacità di queste popolazioni di progredire, quanto piuttosto esprimere una speranza: che quella “ricerca” storica e culturale potesse, un giorno, maturare come il vino pregiato, che cresce e si arricchisce nel tempo.

Per comprendere appieno la metafora, è necessario fare un passo indietro nella storia e addentrarsi nel risultato di una diaspora che ha avuto luogo, quando i gruppi provenienti dai Balcani sino alla Grecia, in fuga dalle conquiste ottomane, si sono rifugiati nelle regioni del sud Italia.

In queste terre, lontano dalla loro patria, hanno portato con sé la lingua, le tradizioni e la religione, preservandole per secoli in un isolamento relativo.

La comunità, pur traendo forza dalle proprie radici, si è spesso trovata a vivere tra due mondi: quello tradizionale, legato alla cultura della terra madre, e quello più ampio della cultura italiana, che nel corso del tempo ha influenzato la loro vita quotidiana.

Nel corso dei secoli, i diasporici hanno affrontato molteplici difficoltà, tra cui l’isolamento e la marginalizzazione economica e politica, uniti alle trasformazioni sociali e culturali che hanno interessato l’Italia, hanno imposto sfide anche alla loro lingua e alle loro tradizioni.

Eppure, nonostante questi ostacoli, hanno continuato a coltivare la loro identità, proprio come il “ricercatore di aceto” spera che il proprio prodotto, con il tempo, maturi e acquisisca valore.

Oggi, la situazione è cambiata e, la “ricerca dell’aceto” di un tempo sta iniziando a trasformarsi in qualcosa di più vicino al “vino”, anche se il percorso non è privo di difficoltà.

La lingua, purtroppo, è sempre più a rischio di estinzione, con molte giovani generazioni che, pur vivendo nei Katundë, non parlano più correntemente la lingua dei loro nonni, ma quello che più è grave è la mancanza di conoscenza storica, culturale e, le cose non sono molto promettenti.

L’identità arbëreşe sta vivendo una sorta di rinascimento, un ritorno alle proprie radici che si manifesta attraverso l’arte, la musica, la letteratura e, in particolare, la valorizzazione della cucina tradizionale, un patrimonio che resta ben vivo nelle comunità ma che in parte non trova radice nei percorsi consuetudinari della memoria e nel cuore delle generazioni che preferirono essere diasporici.

Numerosi eventi e altre iniziative locali, stanno contribuendo a rivitalizzare la tradizione, promuovendo una riscoperta della lingua e delle usanze sempre con la mira che quel aceto diventi vino.

Inoltre, l’interesse crescente da parte degli studiosi, dei ricercatori e dei media ha contribuito a dare visibilità a questa comunità storica, non nella misura più idonea riscoprendo solo una lingua che non è tradizione di appartenenza, come, la cultura di credenza e il legame profondo con il territorio.

Anche il contesto sociale e politico ha mostrato segnali di apertura, con diverse amministrazioni locali che si sono impegnate a tutelare e promuovere il patrimonio culturale arbëreşë.

Non si tratta più solo di una “minoranza nascosta”, ma di una parte integrante del mosaico culturale italiano,

che ancora oggi non ha forza di sollevarsi con i suoi muscolosi cultori diasporici

Nonostante questi segnali, la “ricerca dell’aceto” è ancora lontana dall’essere conclusa e, la modernizzazione e la globalizzazione pongono sfide enormi per la comunità che ancora poggia le sue fondamenta in mattoni monotematici, con le nuove generazioni che si trovano ad affrontare un mondo sempre più interconnesso, dove la lingua e le tradizioni locali sono spesso messe da parte in favore di tendenze culturali globali.

La lingua arbëreşë, in particolare, specie quella insegnata dalla scuola delle donne nell’ideale istituto noto come Gjitonia è destinata a scomparire se non verranno adottate politiche linguistiche più mirate e se non si riuscirà a coinvolgere i giovani nella valorizzazione della loro identità sotto il controllo di gruppi multidisciplinari e formati di specifico ascolto.

L’impegno oggi è quello di preservare e adattare la cultura arbëreşë in un mondo che cambia rapidamente, creando nuove opportunità per i giovani che desiderano non solo conoscere le proprie radici, ma anche proiettarsi nel futuro, come si usava fare a Napoli dal 1779 sino al 1979.

La speranza è che, come il “vino” che migliora con il tempo, anche la cultura arbëreşe possa evolversi, arricchirsi e prosperare in un contesto moderno senza perdere la propria essenza.

Le nuove generazioni, pur vivendo in un mondo diverso, possono diventare custodi di questa eredità, facendo sì che il “vino” non solo maturi, ma che trovi nuovi modi per esprimersi e per essere apprezzato, non solo dalle comunità diasporica moderna, ma da tutta la società.

La riflessione Clericale, pur datata, è ancora di grande attualità e, i diasporici sono oggi una comunità che, seppur messa alla prova dai cambiamenti sociali e culturali, conserva un patrimonio inestimabile che ha saputo evolversi nel tempo.

E il loro “ostinarsi dell’aceto” ha finalmente trovato la strada per essere o diventare “buon vino” non privo di difficoltà, è destinato a continuare a maturare, arricchirsi e prosperare nei decenni a venire se idoneamente posta nel giusto invaso temperato.

La cultura infatti, non è solo un retaggio del passato, ma una ricchezza viva che, come il miglior vino, sa adattarsi e rinnovarsi pur restando saldamente ancorata alle proprie radici.

 

Arch. Atanasio P.  Basile (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

 

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