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SETTEMBRE 2014 SIGILLARONO IL PROTOCOLLO DELOCATIVO CATTIVAMENTE ERRANTE Ispirati dal geniale architetto che non vago mai ramengo per trovare la zeta perduta

Posted on 14 dicembre 2025 by admin

cavalloNAPOLI (di Atanasio P. Architetto Basile) – La storia del Mezzogiorno d’Italia, a partire dal Regno di Napoli sino all’età moderna è caratterizzata da ricorrenti processi de locativi, on penoso processo autolesivo adottando dalle istituzioni secondo una prassi a dir poco demenziale, in ogni dove, con certezza episodiche innaturali e lesive della dignità degli esposti.

Tali fenomeni, sempre giustificati da ragioni di sicurezza, amministrative, hanno inciso profonde sulla morale storica e sull’assetto demografico di numerosi centri antichi, innescando abbandono preventivo e lasciando come esito materiali i residui leggibili sotto forma di ruderi, senza tenere in conto delle esigenze morali costruite in quei luoghi ameni.

In tutto poi si risolvono in diaspore episodiche, che non lasciano tempo per trasferire in luoghi paralleli il vissuto storico palesemente negato, offrendo paesaggi incompiuti in equilibrio innaturale.

Nel corso del Novecento, queste dinamiche si sono riprodotte attraverso politiche di ricostruzione post-sismica o di fenomeni indotti dall’incoscienza amministrativa, talvolta culminate nella creazione di nuovi insediamenti a seguito della imposta dismissione dei centri originari e, valgano da esempio i casi di della Seteria Reale, il Martirano, Laino, Filadelfia e la partoriente Katundë con le note cinque figlie catastate e, questi per citarne i più penosi episodi che la storia ricordi.

Tali interventi, sebbene normativamente fondati su strumenti straordinari, generando effetti di frammentazione sociale e perdita della memoria storica, materiale ed immateriale.

Un significativo allerta culturale si palesa, a partire dal 2014, in concomitanza della “Strategia”, formalizzata nell’ambito dell’Accordo fasullo di una casa per il deserto fatta in una palude dove urgevano palafitte.

In questo contesto, l’apporto di competenze interdisciplinari, riconducibili, in particolare, all’interazione tra saperi geologici e storico architettonici arbëreşë, ha contribuito a rimettere in discussione le pratiche consolidate di abbandono e sostituzione insediativa riversa.

E fu così che dal 2014, che il quadro politico normativo nazionale ha iniziato a privilegiare la tutela e la rigenerazione dei centri storici esistenti, in coerenza con i principi dei beni culturali del paesaggio evitando di reprimere il valore storico dei suoli e valorizzare il patrimonio territoriale.

In tale prospettiva, le istituzioni hanno progressivamente abbandonato protocolli che miravano alla dismissione sistematica, ormai riconosciuti come produttori di sofferenza collettiva e impoverimento culturale di quelle tradizioni che si completavano solo in quel luogo.

Si è così avviato il superamento di un paradigma ereditato, incapace di interpretare la complessità storica e sociale dei territori, che in precedenza aveva relegato la memoria dei luoghi e delle comunità a una dimensione meramente simbolica e rituale, spesso confinata alle manifestazioni processionali e commemorative.

E quando fui incaricato come tecnico di parte, in qualità di architetto e ricercatore dei valori storico-consuetudinari legati ai bisogni insediativi delle comunità arbëreshë, nessuno tra gli operatori istituzionali coinvolti si attendeva un esito di cosi elevato rilievo.

Tuttavia, nel contesto circoscritto delle conferenze di servizio, in quel sotterraneo romano, si ebbe modo di chiarire un principio fondamentale: la Gjitonia non si progetta, né si costruisce con cemento, mattoni, lastre di ardesia per fare lavagne.

La Gjitonia perché cresce e si sviluppa nel tempo, attraverso la continuità, attraverso le relazioni sociali, dei saperi condivisi e le pratiche abitative sedimentate.

In quella aula sotterranea venne diffuso il principio secondo cui il processo de locativo, richieda la cooperazione coordinata di tutte le istituzioni coinvolte, orientate non alla mera sostituzione edilizia, ma alla comprensione del significato profondo dell’abitare condiviso da uomo, natura e tempo.

Da questa impostazione derivò un cambiamento sostanziale nell’approccio operativo: si superò la logica della semplice realizzazione di nuove unità abitative in favore del riconoscimento del valore dell’edificato esistente, concepito come espressione di un bisogno primario, plasmato nel tempo dalla relazione tra l’uomo, la natura e quella che potremmo definire l’opera silenziosa del “maestro tempo”.

Quella cavallerizza che cavalcava in quella piana bianca, non aveva mai smesso di sognare e tornare a cavalcare, fare distinzione tra giusti e colpevoli; resisteva alle intemperie, che flagellano senza memoria quella piana ormai baratro; ma soprattutto resisteva alla caparbietà senza onore di quanti non seppero amministrare il torrente che portava la memoria verso il mare di quel luogo che avrebbero dovuto custodire.

Essi parlavano di progresso, ma lasciavano macerie; invocavano la legge, ma ne usavano soltanto l’ombra; si presentavano come custodi, mentre erano mercanti.

E mentre la Cavallerizza osservava tutto questo in silenzio, con la pazienza feroce di chi sa che la vera resistenza è la saggezza del cavallo, che attende sempre la sua padrona per tornare a casa.

Quando la stanchezza sembrava ormai destinata a prevalere, quando persino la memoria rischiava di essere riscritta da chi aveva interesse a cancellarla, intervenne il cavaliere impavido che disegno le antiche arche con saggia precisione.

Non giunse con clamore, né con insegne sfarzose ma, portava con sé soltanto il peso della responsabilità e la chiarezza di chi riconosce ciò che va difeso e circoscritto.

Ogni cosa egli protesse: non per possesso, ma per dovere; non per ambizione, ma per rispetto e, davanti a lui le astuzie si fecero fragili, le narrazioni costruite iniziarono a incrinarsi e i quatrro figli e la figlia si ammutolirono in un angolo di quel fossato.

La battaglia del cavaliere nuovo, non fu una battaglia rapida né indolore, ma lotta fatta di resistenza quotidiana, di parole misurate, di gesti fermi e svelatura di bugie istituzionali.

Come accade nelle guerre che non trovano spazio nei racconti ufficiali, il nemico non indossava armature, ma maschere; non brandiva spade, ma firme e silenzi e l’impavido arbëreşe non abbandono mai quella Cavallerizza e non farla mai arrestare.

Ora il cavaliere attende, non reclama onori né riconoscimenti pubblici, ma attende soltanto che la quella storca vicenda portata a buon fine, lo accolga non come eroe, ma come testimone di una battaglia condotta con onore e vinta come faceva l’impavido Giorgio con lo storico cavallo.

E la sua ricompensa non è materiale, ma è soltanto conferma morale a dimostrazione che esistono ancora luoghi e coscienze capaci di distinguere la difesa dalla svendita, il sacrificio dal tornaconto.

Così combatteva Giorgio Castriota in terra d’Albania, quando l’avanzata dei turchi non era soltanto militare, ma culturale e morale.

Combatteva per restare fedele, non per prevalere e, in quella fedeltà trovava la sua forza, come nel 2014 fu per la Cavallerizza e il cavaliere olivetano, dove tutto si concretizzo in quel restare impavidi continuando a sfidare il tempo, l’oblio e la miseria morale di chi ha scelto il prezzo al posto del valore della storia.

Arch. Atanasio P. (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.

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