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LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

Posted on 21 settembre 2023 by admin

CatturaNapoli Adriano

NAPOLI (Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Con questo breve si vuole evitare il diffondersi di nozioni errate che non sono parte veritiera della minoranza storica detta Arbër, da ciò tratteremo, consuetudini, religione, regole di vita e, le figure di eccellenza prime, con dati di fatto luogo e tempi.

Ovvero quanti si prodigarono per il valore della lingua antica arbëreshë, intesa non come farina, fine, scivolosa e attaccaticcia sulle stoffe e le superfici rugose per affiggere manifesti, ma della rozza crusca, per la sua rude e solida trama che sostiene con forza l’idioma Arbër.

Onde evitare falsi protagonismi, errate interpretazioni o santificati culturali, in questa diplomatica della “Krundja Arbër”, tratteremo dei patimenti di quanti per essere tali, hanno vissuto e studiato sempre nell’ombra senza disturbi dalle inopportune conclusioni storiche, di luogo, tempo e avvenimenti mai avvenute, trascorse o svoltesi.

Eccellenze che per affermarsi non hanno avuto altro sostegno che la loro saggezza e preparazione culturale, tanto elevata da essere protagonisti primi, con il titolo onorifico del parlato e della storia Arbër acquisito negli ambiti natii, non per concorso, non per grado, ma solo per la saggezza affidatagli dalla natura, quando furono concepiti e allevati nel grembo materno.

Il fine qui perseguito, vuole, mira o meglio seguire le tappe salienti dello sviluppo culturale, secondo metriche, di luoghi, fatti e uomini, senza nulla inventare, propone offerte prive di studio e ingegno.

Allo scopo si vuole precisare che i lasciti identitari di pertinenza, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macro area e, la china dagli anni sessanta del secolo scorso inesorabilmente continua a vagare spargendo fatuo innaturale.

A tal proposito è indispensabile precisare cosa siano: Gjitoni, Vallja, Primavera Arbër, Costume, Sheshi, Macro aree e Katundë, in otre citare quali sono state le figure di eccellenza prime e, l’epoca di lume nelle scene della storia, non quella menzognera dei laminai torrentizi della cultura.

Evitare che si faccia uso impropri del sostantivo “borgo” per identificare un paese Albanofono, oltre a tanti errori diffusamente esposti in manifestazioni di ritrovo pubblico, che per lo scopo avranno risposte solide e senza ombre di dubbio o vagheggiamenti di parlato improprio.

Se poi si volesse raggiungere Napoli per conoscere luoghi e vivere da protagonisti i luoghi dove sono vissuti o avvenute le cose buone, belle o penose della storia arbëreshë, prendete appuntamento, in non più di cinque persone, resterete senza parole, nel conoscere la verità delle cose illuminate con ragione dalla Napoli, Greca, Romana, Bizantina, Alessandrina e Araba.

Visitando i siti http://www.scescipasionatith.it/ e http://www.atanasiopizzi.it/ potrete leggere oltre duemila (2.000) pagine di trattati specifici, con immagini di Storia, Uomini, Architettura Urbanistica, Religione, Costume e ogni avvenimento che abbia avuto protagonisti gli Arbër e ogni cosa che caratterizza gli elevati di tutti i 109 Katundë, più la capitale Napoli, della regione storica diffusa degli Arbër/n.

Il frutto e i risultati di otre cinque decenni di dedizione alla storia a tutte le cose con protagonisti i Kalabanon, poi gli Arbanon e in seguito Arbëri e Arbën, collaborando con numerosi dipartimenti e professori di eccellenza partenopei in specifiche discipline di studio.

Per ogni tipo di domanda, Inviare e mail ad: atanasio@atanasiopizzi.it; o contattare su whatsapp il + 39 338 9048616 – Telefono per conversazioni +39 338 6448674.

P.S. Il fine mira a realizzare una fondazione di un gruppo di studiosi napoletani che pone le fondamenta su fatti, cose e avvenimenti realmente accaduti e senza protagonismi di sorta

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GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

Posted on 16 settembre 2023 by admin

la storia del costumeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era il sette luglio del 2004 e nella sala del consiglio comunale aveva luogo un confronto culturale dei massimi esponenti del mondo arbëreshë, le cui mire volevano colpire e cancellare le magiche sensazioni di mutuo soccorso della Gjitonia; le quali, scambiate in corrente, di reflui rumorosi, emanati del torrentizio in piena e se non fosse per qualche accenno di parole in Arbër, si sarebbe potuto ritenere che tutti erano di radice latina e per questo comparavano le cose a misura del commarato o ancor peggio del vicinato indigeno.

Abitare in un comune arbëreshë comporta l’apprendimento di una serie di vocaboli difficilmente traducibili in italiano. Nelle operazioni di trasferimento di un termine da una parlata antica, come quella ereditata dall’Albania e tramandata ormai regola certa che il significato appartiene ai comunemente locali. mai redarguiti dalle istituzioni, inesistenti o addirittura senza titoli di meriti e di esperienza sul campo, quella che nessuno ad oggi conosce.

A tal proposito è il caso di ribellarsi e lascare il loco dove si odono relatori riferire della parola “Gjitonia”, radice di ” Lighëa civile Balcana e Shëkita di credenza del monte Athos) tradotta senza rispetto per la storia di questo popolo, quando la si paragona o la si accosta al termine “Vicinato” e, scende ancor più nel senso del suo significato quando la si definisce meramente: “Gjitoni më se gjiri, il Vicino vale  più di un parente”(??????????-?????????); ancor peggio, un’unità urbanistica caratterizzata solitamente da un piccolo spazio all’aperto intorno al quale convergono le porte di più abitazioni e in cui confluiscono i vicoli del paese; o addirittura ritenerlo il loco dei prestiti alimentari e per stendere il gonfalone in senso di resa culturale: postazione di cumulo del lavinaio, dove si ode e si sente in Arbër.

La realtà delle cose e ben diversa direi a dir poco inverosimile, peggiore delle diplomatiche settecentesche dei trascorsi romani e, quanti diffondono il sancito, generalmente non ha titoli o esperienza sul campo e, finisce come affermato da Giuseppe Galasso, per copiare o chiedere di dove andare a riprendere editi di altre cose di altri luoghi e di altre epoche.

Allo scopo e per esecutare teoremi a dir poco giullareschi, va sottolineato che la “Gjitonia” è una forma d’identità sociale presente nella regione storica diffusa Arbër; vero e proprio sottogoverno locale di mutuo soccorso, condotto, diretto e presenziato dalle dinastie femminili.

Si identifica come luogo dei cinque sensi, avente come protagonisti gruppi allargati, entro i quali e per i quali, si sostiene e identifica il ceppo originario del gruppo familiare allargato, a garanzia del proseguo delle cose della propria identità; la scuola per le nuove generazioni, dove, madri sapienti distribuiscono conoscenza con radice di sapienza antica, in regole consuetudinarie, conservate armonicamente nei cinque sensi, il componimento armonico di cuore e di memoria, nel più rigido confronto con le cose e gli avvenimenti delle società in evoluzione.

Ad oggi il processo di lasciti identitari, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macroarea, per cui ha abbandonato il modello allargato Kanuniano, per quello urbano e sempre con più lena discutibile, si preferisce spalmarsi nelle pieghe sociali metropolitane, da cui trae sostentamento per quella inesorabile china intrapresa dagli anni settanta del secolo scorso.

Certo resta il dato che la Gjitonia è un “Modello sociale immateriale di comuni intenti e valori”, (in Italiano codificato incompleto del luogo dove vedo e dove sento), importata nelle rive ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio,  dal XIV secolo resiste alle mutazioni sociali e culturali, esempio di fucina naturale, dove si modella identicamente l’antico metallo familiare allargato, il solo ad avere, elementi indeformabili per la continuità storico consuetudinaria degli Arbër.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande come cerchi concentrici, nello sheshi, estendendosi “thë rruhat”, sino a giungere negli angoli più reconditi delle rurali pertinenze, e sostenere i cunei agrari e della trasformazione di raccolti solidali.

La Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, punto d’incontro di materia, sentimenti e sensazioni, stese secondo consuetudine magistrale, lungo le articolate vie degli sheshi; i rifugi incontaminati di tradizioni, cultura, costruito, artigianato e credenze, in tutti, il tessuto multi filare della radice Arber.

La Gjitonia avvolge gli ambiti dove affacciano le porte gemellate alle finestrelle di casa, in sostanza tutti gli ameni luoghi articolati, dove o spunta il moderato sole o fluiscono le carezze e i sussurri del vento, lo stesso che si avverte, si respira, si assapora, si vedere e si tocca, senza mai poter essere dominati o circoscritti, perché, ideali confini d’appartenenza irripetibili.

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LA CALABRIA CITERIORE ASPETTI STORICI DELLE VERNACOLARI TIPOLOGIE(Zhëmëren time ju e patë shum thë vicher, nënghe e dishëtith afer Juvë Vale Vale e i bëth mëbhkatë)

LA CALABRIA CITERIORE ASPETTI STORICI DELLE VERNACOLARI TIPOLOGIE(Zhëmëren time ju e patë shum thë vicher, nënghe e dishëtith afer Juvë Vale Vale e i bëth mëbhkatë)

Posted on 09 settembre 2023 by admin

Casa Prima

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Con l’attenuarsi del potere e il controllo territoriale dell’impero Bizantino, con Capitale Costantinopoli, nell’attuale Calabria restavano individuabili due distinte aree dall’essere stata Thema di Calabria e poi suddivisasi in Calabria Citeriore (o Calabria latina) e Calabria Ulteriore (o Calabria greca).

La Calabria latina corrisponde all’area più settentrionale della regione e costituì, dal 1147, una unità amministrativa prima del Regno di Sicilia, poi del Regno di Napoli e, infine, del Regno delle Due Sicilie.

Dal punto di vista prettamente amministrativo, però, la Valle di Crati e la Terra Giordana formavano un unico, che era detto, appunto, Vallis Gratae et Terra Jordanae.

Tale territorio corrispondeva all’area settentrionale della Calabria: più precisamente, la Val di Crati ed il territorio occidentale con Cosenza, mentre la Terra Giordana abbracciava la parte orientale spingendosi a Sud sino ad includere parte del territorio di Catanzaro.

Essa confinava a Nord con la Basilicata, a oriente col Mar Ionio a occidente col Mar Tirreno a Sud con la Calabria Ulteriore, poi Gran Ducato.

I confini tra le due Calabrie venivano, individuati, a oriente, dal corso del fiume Neto che nasceva dalle montuosità della Sila, ad occidente generava il corso del fiume Savuto.

Il territorio settentrionale corrisponde, grosso modo, a quello dell’attuale provincia di Cosenza e parte della provincia di Catanzaro con annessa Crotone.

Il suo territorio associa zone montuose, impervi canali torrentizi, del pollino e del Monte mula a nord, nord/ovest e dalla Sila a sud, tutti confluenti, nel corso del fiume Crati, lo stesso tragitto alimentato da Cosenza dal Basento che, defluiscono verso il golfo di Sibari, nello jonio, la di cui costa, è nota nei compimenti della storia, per i numerosi abbracci di approdo.

Ed è qui che da Capo colonna, Sibari, Taranto sino alle grotte della Zinzulusa, trovarono approdo dal 1769 ad 1506 gli esuli Arbanon, in fuga dall’essere modellati dall’incudine e il martello mussulmano.

È in questo intervallo storico che si uniscono direttive latine e greco/bizantine, per le quali e con le quali, furono in seguito realizzati numerosi impianti urbani diffusi, secondo le riconducibili o evidenti, direttive dell’Umanesimo ormai pronte a germogliare e dare libertà di culto e decisione.

Infatti il fenomeno culturale nel XIV secolo, secondo i canoni della riscoperta della cultura dell’antichità classica,  mette a fuoco la capacità dell’uomo di agire nella vita civile e politica, con la volontà di vivere, le virtù del mondo antico e, i principi attraverso i quali organizzare Katundë in terre parallele come in quella di origine per gli Arbëreshë in questo frangente storico, ebbe modo di avere forma e vita.

Tutto questo grazie al patrimonio identitario ben saldo nel cuore e nella mente, oltre agli aspetti per migliorarsi e confrontarsi, senza l’ausilio di espedienti di separazione o contrasti con altre genti, ha innescato i processi vernacolari del costruito degli esuli Balcani.

A seguito di ciò, definiti i rapparti di confronto tra le genti indigene che avrà seguito sino alla fine del cinquecento, dopo di ciò ha così inizio la fase dell’illuminismo, ovvero, l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in quanto luogo generico, per l’incapacità di valersi del proprio intelletto, senza la guida di altra o altre figure.

Questo naturalmente non per difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza decisionale in autonomia, altre parole il coraggio di far uso delle proprie forze intellettuali, senza essere guidati da altro, secondo il motto dell’Illuminismo che diventa:                                               “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”

Alla luce di questa breve premessa, qui di seguito, tratteremo di colli, creste e pendii boschivi, in tutto, dall’ambiente naturale e l’orografia Citeriore dove si innalzarono in apparente irregolarità, spazio urbano su cui veleggiano la chiesa, o singoli abituri nelle creste dei cunei agrari.

Parleremo di centri abitati della produttività mediterranea, con spazi botanici all’interno del costruito, al fine di tenere vivo l’idea di una continuità che si sviluppa tra ambiente costruito e natura.

Analogamente ad altri estesi territori dell’Italia Meridionale, la Calabria Citra rimane praticamente priva di una rete di collegamento viario solido e sicuro, se si esclude la non percorribile Via Popilia, pertanto la via del mare costituì l’unica possibile per i commerci e scambi.

Con i Borboni prima e con gli interventi dello Stato Unitario poi, si costituisce nella seconda metà del secolo XIX la dorsale principale del tracciato viario classificato poi col nome di SS 19, sostenuta, diretta e mai abbandonata dagli infaticabili Ingegnerei della Scuola di Ponti e Strade con annessa scuola di formazione, diretta da Carlo Afan de Rivera.

L’isolamento che vissero comunque i profughi e indigeni, soprattutto delle aree interne, ha influenzato la tipologia degli insediamenti e i caratteri architettonici vernacolari conseguenti.

Nasceva da adesso in poi un paesaggio naturale variegato e dal folto mantello vegetale si sovrappongono gli abitati dei centri collinari e montuosi e quelli più antichi erano rivitalizzati per le nuove attività di produzione, agro, silvicola e pastorale in fermento.

La massima parte di questi si è andata formando a partire dal Basso Medioevo in età bizantina, longobarda e normanna intorno a un nucleo fortificati, anche se il massimo livello ammnistrativo e difensivo si raggiunge dopo la meta del XIII secolo, con la ripartizione del territorio in contee operato dalla dominazione angioina.

Già a poca distanza dalla particolare conformazione della costa, vista la geologia delle terre, su definite, è facile individuare centri incastonati con i caratteri di insediamento apparentemente disomogenei.

Tuttavia in tutti prevale l’uso della pietra a vista e la geometria bloccata e, data la sismicità dell’area, sono conservati gli elementi tettonici di stratificazione, grazie al continuo utilizzo sei materiali di spogliatura.

Su taluni casi di villaggi abbandonati, si possono meglio identificare e classificare i caratteri topo morfologici dell’insediamento originario collinare.

E interessante notare come le forme e le tecniche edilizie si siano capillarmente associate, al palazzo e alla chiesa.

I tipi edilizi più diffusi nella Calabria citeriore nascono svolgendo lo sguardo all’edificato religioso e a quello della residenza di riscossione del principe locale, case prima disposte in maniera articolata e in epoca più recente a schiera. Comunque tutte secondo la conformazione del lotto occupato è risalente a un bel noto e identificabile, gruppo familiare allargato, e l’assenza di palazzi gentilizi, e sull’intorno di questi lotti se non dopo il XVIII secolo da ciò si può affermare che questi insiemi edilizi, paesi, contrade, Katundë diventano luogo dove le rotondità fisiche del tessuto compatto dei centri urbani e dei casali dei cunei agrari sono regola espressiva dei quattro rioni tipici degli Arbanon.

Per quanto riguarda i tipo edilizio prima articolati e poi in linea, si presentano nella maggior parte dei casi con alloggi mono affaccio, con porte gemellate a una piccola finestrella, oltre all’orto botanico posteriore per il riciclo naturale di elementi di scarto naturali.

In epoca settecentesca, a questi mono locali a tetto spiovente a falda unica, viene aggiunto un piano sovrastane, frazionato con profferlo esterno, contenente scale poste in più delle volte a monte rispetto al declivio del terreno per consentire di realizzare un rifugio per gli animali domestici, gestiti non più all’interno della mono cellula abitativa.

I palazzi signorili invece sono isolati e segnato con la presenza di pietre angolari la tipologia quadrata o rettangolare con i vani disposti lungo le vie del centro antico.

Elementi caratteristici di tali edifici, dal punto di vista compositivo, sono spesso gli accessi ai depositi, da cui si sale con scala interna nelle residenze posta al primo livello, i cornicioni di tegole alettate definiscono i terminali di pendenza delle Lamie di copertura a doppio ordine di coppi e l’innesto con la verticalità dei muri maestri.

I supportici, tipico elemento mediterraneo, di radice arabo egizia, arte contadina sono spesso trattati come elemento di mediazione fra edificio e le vie cieche, di pertinenza di un solo gruppo familiare con giardino annesso.

Sono presenti ai confini dei rioni o dei lotti i muri in pietra a faccia a vista perché a secco, come un elemento in stretta relazione con  il resto del costruito.

I cornicioni quasi sempre in aggetto, rispetto al filo del corpo di fabbrica, si presentano privi di decorazioni, almeno quelli realizzati sino al 1830 e dopo con decorazioni a stucco sotto la gronda ricavata nello spessore stesso della cornice, adesso totalmente in muratura.

Scale esterne e portici sono presenti anche nei casali agricoli e consentono l’accesso alle abitazioni poste al livello sovrastante i depositi degli attrezzi, le stalle i granai e le bottaie.

I sottoportici, sono ricavati in continuità con i volumi edilizi e hanno la funzione di filtri o per meglio dire cautelare la libera circolazione di non indigeni di alcuni rioni.

I miniati caratterizzano la continuità di alcune facciate di edifici di famiglie, che denotano così la crescente forza economica.

In conclusione si può affermare che il percorso architettonico all’interno dei rioni tipici dei paesi minoritari Arbër, della Calabria citeriore, vernacolare prima, intesa sia come parte del tessuto storico e sia come manufatti locali, essenzialmente introversa e poco propensa a delinearne un uso tra interno ed esterno, più stagionale che per doveri sociali che sono al di sopra dei valori di architettura locale.

Si pone quindi una continuità con l’ambiente esterno, pur rimanendo ermetico nella dolcezza dei declivi rivelando sempre una impervietà, una irraggiungibile e impenetrabilità menta che rimane ancora mitica e che vuole più attenzione per essere divulgata.

Il Luogo

In rapporto ai tipi edilizi dell’abitare, delle fasce colli­nari e montane, rappresentano uno dei dizionari com­positivi vernacolari più diretti, a coronare il rispetto per le disposizioni ambientali dalla natura e uomini.

E l’uomo poi, che in definitiva, sposa la natura creando un equilibrio di convivenza costante, al punto tale che lo si potrebbe comparare come ideale matrimonio tra lo sposo uomo e la donna natura.

Parafrasando: una casa in pietra, posta su un declivio dove si elevano mirti, corbezzoli, ginepri, ginestra in vista, un denso e con­torto uliveto, tetti aggettanti in coppi di ter­racotta, a giusto riparo dai venti e dalle improvvise raffiche di pioggia, in dima dolce si inerpica la scala, ripida sopra la stalla, sotto la quale riposano ripa­rati dal sole caldo dell’estate, qui può dirsi si racchiude il Genius loci dell’abitare, di una terra parallela finalmente è serena.

La tipologia

L’area culturale di formazione e da ricercare nella risposta tipologica vernacolare, dove il tipo edilizio è l’espressione locale tipica, essa può essere facilmente individuata nelle sue applicazioni più concrete di casale isolati e, negli articolati e impenetrabili rioni, secondo la misura dei supportici, degli articolati vicoli in salita, con termine privato, le case disposte a fianco una dalle altre, in apparente e/o isolato disordine.

Si potrebbe definire progetto urbano del bisogno comune, formato da lotti fraternamente concordati dai gruppi familiari allargati, tessitura di elevati importata dalla terra di origine Balcanica, così compatta e impenetrabile da far desistere, già a distanza, male intenzionati che preferivano fermarsi in lidi marinari, visto il battito per la difesa prodotta dai tanti cuori vicini.

Il valore di questi organismi murari pulsanti, si colgono solo nella loro silenziosa storica dimensione, poiché realtà sviluppatasi col tempo ed elevatasi, in conseguenza della condizione posta, volta per volta, dai passati paralleli in comune accordo con gli indigeni locali.

L’intorno dell’area, il senso di spazio offerto dalla natura, il territorio circoscritto e individuale di necessità funzionale, da svolgere per la vita, dispone nel manufatto, i fattori condizionanti caratteristici e caratterizzanti il tema di loco.  

Precise configurazioni morfolo­giche, fattori climatici di una ben delineato luogo, hanno peso nel pro­getto eseguito, senza architetti, per questo sono tipologia prima, generata da una precisa tipo­logia riscontrabile in alcuni elementi costitutivi dei manufatti.

Cosi come l’esigenza di sostenere usanze, tradizioni e consuetudini, hanno preteso scelte capaci di influenzare così le tipologie indispensabili, per fini identitari e di credenza, sin anche in rapporto celle cose che legano la casa e la chiesa.

Vi sono elementi costruttivi che carat­terizzano più di tutti il tipo edilizio come ad esempio: muri in pietra locale, li trascinati dai torrentizi o perché estratti da cave in sito, intonacati o superfici di pietra regolarizzati da malte di arena e calce sciolta, le coperture di coppi o elementi naturali intrecciati e regolarizzati con argille.

Questi costituiscono un insieme che a media distanza, fanno emergere le cose della natura, velando quando realizzato dall’uomo, i fili sottili che si intreccia con le corde dell’ambiente naturale.

Questi appaiano quando il tramonto è ormai sera o subito notte perché le flebili luminarie o la variabile fluorescenza dei camini accesi a notte si riverberano.

II muro in pietra rappresenta lo scudo per accostarsi al paesag­gio senza apparire e, immedesimarsi e fare parte delle cose del tempo e la natura.

Le coperture, sono costruite in funzione specifica in comune accorso con le cose dell’ambientali climatico del mediterraneo, dando un limite supe­riore allo spazio, che in questo modo non caratterizza il paesaggio ma entra in scena come protagonista educato e discreto, tetti piani o a carene rovesciate in prossimità del mare a falde in zona colli­nare o montuosa.

Questi determinano per la prima categoria l’essere intercettati al ritorno a casa dei pescatori di ritorno dal mare e in montagna amalgamarsi con la natura per rimanere accumunati alle proprie radici senza tempo.

Lo sviluppo abitativo dal secolo XIV al Secolo XIX

Gli agglomerati diffusi Arbër nascono grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun. I rioni, Katundì, Moticèlleth, Ka Arvomi, Ka rinë relletë, Sheshi, Brègù e Nxertath o Këstegna, rappresentano il percorso evolutivo dell’abitato per restituirci l’attuale assetto planimetrico.

Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito Vernacolare è avvenuto secondo i parametri morfologici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni;

il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;

la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;

il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale, la farmacia di casa, l’indispensabile “orto botanico”.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana inizia il realizzare i primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat. 

Gli agglomerati Albanofoni rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storia latina, bizantina e greca, in grado di produrre il modello d’integrazione più solido del mediterraneo.

Il piccolo abituro, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente dismissione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificavano radicalmente le prospettive all’interno dei centri antichi.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei noti palazzi nobiliari, in questo caso con paternità architettonica, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.

 Gjitonia

Ambito sociale immateriale, (dove vedo e dove sento), sin dal XIV secolo resiste alle mutazioni sociali, diventando luogo fondamentale per la ricerca dell’antico legame familiare allargato, indispensabile per la continuità storico consuetudinaria degli Arbër.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nello sheshi, si estende “thë rruhat”, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori rurale di pertinenza dove i cunei agrari e della trasformazione danno dipiù.

La Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, punto d’incontro di materia, sentimenti e sensazioni, per questo, si dispone lungo le articolate vie degli sheshi, rifugio ideale di tradizioni, cultura, architettura, artigianato e credenza, in tutto, il genio Arber, ed è proprio qui, dove affacciano le porte gemellate alle piccole finestre delle case, trova luogo il sole e il vento che ti accarezzano e ti sussurrano e, si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere circoscritti, in quanto sono confini di un’appartenenza diffusa irripetibile.

I Terremoti 

La storia del costruito storico, non ha mai smesso di confrontarsi con gli eventi naturali quali i terremoto, valga per queta la sintesi qui di seguite esposta per dare misura di quale difficolta e interesse sia stata rivolta a questa ennesima dominanza naturale:

1184 – 25 Maggio      – epicentro valle Crati 10°.

1230 – 05 Aprile        – epicentro valle Crati <9°.

1638 – 18 Gennai      – epicentro valle Crati <9°.

1638 – 28 Marzo       – epicentro Nicastro     10°.

1640 – 19 Giugno      – epicentro Nicastro     <9°

1659 – 05 Novembre – epicentro Pizzo C.     10°

1693 – 11 gennaio – Calabria e Sicilia: distruzione totale di oltre 45 centri abitati causando circa 60.000 vittime

1783 – 5 febbraio – Calabria e Sicilia: un terremoto distrusse o danneggiando gli edifici nell’area dello Stretto.

1783 – 28 Febbraio    – epicentro Calabria.     9°

1835 – 12 Ottobre      – epicentro Castiglione C.    9°

1854 – 12 Febbraio    – epicentro Cosenza.     9°

1870 – 4 Ottobre        – epicentro Cosenza.     9°

1905 – 8 settembre – Calabria: epicentro golfo di Santa Eufemia.

1908 – 28 dicembre – Calabria e Sicilia: il terremoto interessò gli edifici nell’area dello Stretto. causando 130.000 morti.

 

I Materiali

Il materiale conferisce consistenza fisica alle cose, ma anche ciò da cui partiamo per realizzare gli elevati, dopo aver realizzato il pianoro abitativo contornato dallo scavo, che perimetralmente, in quanto piano fondale, non è mai regolare ma spontaneo da progetto vernacolare eseguito.

Le abitazioni così assumono il ruolo, di dare corpo e ragione a un ben identificato luogo; per questo essi non possono essere elemento neutro nel processo costruttivo per diventare proseguimento naturale del luogo in elevato, per le cose di quanti troveranno ristoro e dimora.

Tutti i materiali da costruzione (tradizionali o moderni): pietra, legno, ferro, cemento, vetro, materie plastiche, sono dotati di una propria impronta d’impiego specifico sia tecni­co e formale d’uso.  

E la scelta di ognuna di esse che viene investita di significato, connessa a tutti gli altri elemen­ti accanto, costituenti il continuo prospettico di funzione specifica. 

Calce di intonaci dalle diffe­renti grane, legno, pietra calcarea, argilla, sono i materiali tipici dell’arte di Calabria citeriore sin dai tempi della Sibari Antica, per questo diventano manuale di tempo e di luogo, facilmente identificabile, specie se ad iniziare dalle opere spontanee degli esuli Arbanon secondo i principi fondamento, della promessa Kanuniana.

 

Il Colore

Nei centri antichi dei Katundë Arbër risultano prevalere i colori molto tenui derivanti dall’uso delle terre e latte di calce, anche se sono presenti colori più aerei come specie per le residenze nate vicino al mare.

Tuttavia i colori che in definitiva caratterizzano l’area della Calabria Citeriore Collinare e Montana sono materiali, di grana o tono della pietra locale, ricca di componenti ferrosi e di quelli alluvionali di calcari sciolti.

Tra le pietre da taglio, si va dai toni chiari delta pie­tra tufaceo della frazione Scesci in Terra di Sofia, di Mongrassano e Rogliano, toni giallastri, impiegati prevalentemente dai lapicidi locali per davanzali, aghetti di balconi, mensole, portali, soglie, gradini pietre angolari e di fondazione, per primo ordine degli elevati.

Al tono ferroso delle facciate, talvolta interrotto dalle bianche incorniciature di calce degli affacci, si sovrappone l’argilla rossastra dei manti delle coperture, immedesimando il costruito nei colori della natura.

L’indirizzo estremamente generico e poco propositi­ o delle normative vigenti ha fatto si, che il “proble­ma colore” sia stato spesso affrontato in modo par­ziale e non organico, innalzando il valore del costruito da tutti ben visibili e valutabili, perché inestimabili.

Se a questo aggiungiamo il modus operandi di numerose amministrazioni, le quali invece di fare tesoro delle cose trascurate o poco valutate con cultura in attività di merito, si dilettano nel vitalizzare gli anfratti della storia vernacolare, ostinandosi a raffigurare momenti di vita senza alcun rispetto degli uomini e delle cose che appartengono a quei luoghi dove la storia di noi tutti è depositata.

Occorre, per questo, una volta acquisita la concezione storica del rapporto architettura, colore, ambiente e costruito, delineare un protocollo diffuso che interessi per ogni Paese, Contrade, Casale, Frazione o Katundë, il trattamento della facciata degli edifici sul piano del regola­mento urbanistico strettamente locale, anzi Vernacolare, secondo prassi istruttoria che ne garan­tisca il buon risultato di tutela storico locale di luogo e di punto.

 

I piani fondali degli elevati

I piani fondali generalmente, non erano o si generavano sotto il piano di calpestio del manufatto edilizio, giacché si poteva risparmiare materiale o esenzione muraria. realizzando il piano abitativo contro declivio naturale, per questo contribuendo agli elevati di fondo o nei laterali murari che avevano piani fondali differenziati.

Nelle analisi e rilievi in loco eseguito sono molteplici i casi di piani fondali inesistenti in quanto le murature partivano su piano realizzati in tutta sicurezza di sostenere murature tipiche di loco.

Le Coperture

La casa ad uso abitativo ha funzione determinata anche dalla copertura “a tetto” con spioventi e tegole laterizie secondo il tipo della casa collinare, mentre in ambiti prospicienti il mare sono utilizzate “lamie” e terrazze ed ancor più l’uso di spioventi a carena rovesciata, per convogliare le acque piovane, sicuramente in quei luoghi fondamentali.

La linea di gronda degli spioventi laterizi per questo viene marcata da cornici aggettanti per comporre con coppi legati con malta secondo compositivi articolati per forma e colore, ma, nell’edilizia minore, con il sempli­ce aggetto del filare di tegole.

Altrettanto marcata e la linea di displuvio o di colmo dove è frequente l’uso di predisporre con distanze opportune il manto di tegole delle pietre per la tenuta al vento del manto inclinato dai paramenti verticali. 

Portali e finestre

Il contatto del mondo domestico con quello ester­no si e attuato da sempre attraverso porte e fine­stre, la prima consente l’entrata e l’uscita, ne protegge il passaggio, mentre le finestra, si osserva e si controlla il paesaggio.

I portali costituiscono il fulcro visivo della facciata e la forma prevalente nella valle del Crati e quella dell’arco a tutto sesto, su piedritti realizzato in mattoni o in pietra lavorata, in questo caso con il concio in chiave attestante l’atto di nascita ed il committente della casa.

Alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso essendo mutati i caratteri della tipolo­gia, l’importanza dell’ingresso e stata trasferita su altri elementi della facciata pure rintracciabili nella tradizione: scale esterne, profferlo, piccoli volumi in aggetto, per realizzare forni o servizi igienici definirono i nuovi accessi alle abitazioni

Le finestre gemellate in genere piccole aperture di ventilazione, semplici squarci nella muratura o ric­chi esempi con davanzali in pietra e decori in stucco, dell’uomo e con i nuovi sistemi costruttivi sono diventate sempre più ampie rendendo protagonisti in vetro e la luce.

Grondaie e Cornicioni

Coronamento di case e palazzi, nell’ambiente rurale, i cornicioni e le gronde pre­sentano sempre un aspetto semplice.

In tutto componimenti semplici realizzati in elementi di cotto, con materiale pove­ro, essi riescono a soddisfare tanto l’esigenza estetica che la funzione del riparo e del convoglia­ mento delle acque piovane.

Se per tale elemento compositivo il riferimento esemplare e il cornicione da ora diventa espressione della civiltà contadina con i suoi componenti in pietra e la linea di finitura degli edifici, sebbene in alcuni casali ed in alcuni edifici ottocenteschi gli stucchi lasciano spesso il posto ai medesimi materiali poveri articolati pero secondo un ricco registro compositivo.

Nelle costruzioni recenti raramente e stata ripresa la tradizione, espressa in un nuovo linguaggio; del resto con l‘architettura moderna i grandi cornicio­ni aggettanti tendono a scomparire, auspicando l’inizio del loro declino.

Le Scale

La scala esterna appartiene per meta alla casa e per meta allo spazio urbano, generalmente realizzata in pietra da taglio o in mattoni, è un elemento fondamentale della morfologia urbana a iniziare dal XVIII secolo, per questo suo stretto rapporto con le gradonate della viabilità in pendio; ma, ovviamente, la sua funzione non si esaurisce in questo dato essendo di frequente utilizzato anche nella casa isolata o in piano.

In definitiva è l’elemento che caratterizza le vie e le facciate e conferisce al manufatto edilizio un raccordo più articolato con il suolo, definendo i diversi livelli, con lo spazio esterno.

In alcuni esempi, un accorgimento che rende eleganza e condita a una scala all’aperto e interporre con un pianerottolo l’ingresso nel piano abitato.

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LA REGIONE STORICA E IL SOLIDO COSTRUITO VERNACOLARE ARBËR

LA REGIONE STORICA E IL SOLIDO COSTRUITO VERNACOLARE ARBËR

Posted on 05 settembre 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Attualmente si riconoscono gli ambiti detti “Arbër” come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione linguistica della popolazione, assumendone per questo la funzione di bene non statico, ma dinamico e, nel tempo mutabile, sotto specie di espressione folcloristica o ricerca senza inizio e fine.

I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo, ne sono prova evidente, viste le continue violazioni identitarie, passate inosservate, sin anche al vaglio dei preposti, che leggono carte prive di confronto sul territorio, perché il dovere istituzionale, vuole gli addetti rigorosamente seduti in ufficio.

L’esigenza sfrenata di dover diffondere storia, con capitolazioni, atti notarili e matrimoni, ha fatto allestire irresponsabili, atti per poi attribuirli ai centri urbani detti minori e se questi fanno parte di quelli contemplati nella legge 482 del 99, “il dado è tratto”, ma purtroppo in questo caso, non esiste nessun ponte da attraversare, in quanto ancora neanche in allestimento.

Se a questo si aggiunge l’accelerato sviluppo tecnologico/scientifico, associato all’utilizzo di mezzi di comunicazione e trasporto di massa, tutto è mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, ricorrendo a materiali sperimentali, non più del luogo.

L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno modificati i luoghi agresti, terminando nell’abbandonare in molti casi, gli storici cunei agrari o della trasformazione, nonostante l’irripetibile eccellenza locale, un tempo filiera, non ripetibile in altri luoghi.

Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi, sia tumultuosi, sia naturali e del genio locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni da tutelare, perché patrimonio culturale o luoghi della inimitabile “Dieta Mediterranea” o “Trittico Mediterraneo dell’alimentazione”.

Per questo, sono troppe le “Regioni Storiche dell’alimentazione Prima”, a rischio terminazione o già estinte, per ragioni politiche di radice globale, divenute nel contempo flebile memoria di una eccellenza che i locali ignorano o non hanno numeri e cose per riconoscerla.

Di contro si apprezza e si agevola senza alcuna regola, l’architettura moderna del secolo appena trascorso e, l’insieme di edifici, strutture e percorsi rotabili; tutto viene stravolto a favore di una cultura priva di solidità, ma esposta a una generale mancanza di consapevolezza o riconoscimento di luogo.

Tutto questo avviene perché, quanti dovrebbe assumere il ruolo di controllo, non conoscendo la storia del territorio di competenza, di punto, di luogo agreste e dei centri antichi di origine.

Troppo spesso gli ameni locali, sono sottoposti a processi di riqualificazione o modifiche inappropriate e, “perché abbandonati”, sono inseriti in processi di modernizzazione, che non hanno nulla a che vedere o fare con i valori distintivi per i quali furono allestiti ad uso comune e privato.

Qui in questo breve, si mira a difendere tutto ciò, in particolar modo, tutti gli elevati primi, e sin anche la toponomastica di memoria storica, realizzate e appellata dall’uomo e, siccome questi sono ambiti e cose minori, non si prevedono sanzioni, verso quanti ne violano i contenuti e il significato di elevati e strade, in quanto prive di paternità progettuale.

Questo purtroppo avviene perché non è stato codificati o ritenuto storicamente attendibile quello che si possiede, quindi fa parte della categoria dei non tutelabili, indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, che non conosce e ignora totalmente la storia di luogo, ritenuta favola di casa che non va oltre il perimetro del proprio focolare domestico.

E nonostante questi luoghi siano stati, colmi di storia prima e o momenti fondamentali delle vicende locali che contano ma senza nome, pur se estremi assoluti, nel rispondere a esigenze o bisogni distintivi della storia, in tutto, opere senza clamore, sono ritenute per questo violabili.

E’ in questo modo che si offende continuamente la memoria dei luoghi, ma più di ogni altra cosa, le conquiste della comunità ad opera di singoli che così facendo diventano storia dell’architettura anonima.

La stessa che non trova ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali vernacolari attività, per le quali se ti confronti con tema di tutela, si preferiscono luoghi di tragedia, opere d’un autore, monumenti, chiese, facciata di palazzi nobiliari, un campanile, un ponte, un rudere confermato, ma non quello che resta chiuso dell’intimità di costruttori anonimi locali, che per la loro indole prima, restano silenziosi e non lamentano alcun che.

Nessuno conosce misura, nessuno da conto, nessuno prende atto della violenza prodotta, nel mutare una parete, cambiarne i pigmenti, dismettere appellativi viari, apporre scalfiti dii memoria, o ritenere sia giusto rendere il centro antico momento di raffigurazioni e non di vita produttiva e conviviale, ma mera finzione filmo/figurativa.

I comun preposti, invece di prodigarsi nel difendere la propria identità di luogo, preferiscono i valori di mastodontici monumenti, appariscenti attività di pigmento e, non identità anonima locale senza nome, per questo si sentono delegati a vituperarli, violarli o coprirli di pena.

L’Architettura senza architetti, identificata come Vernacolare, mirava al semplice valore del costruito per bisogno, introducendo valori propri di uno specifico luogo, senza pedigree di architettura, ne violare la natura circostante.

Essa è così poco nota che non esiste neppure un nome specifico per identificarla o un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla nel comune dialogare, Povera ( i Nëmurh), Spontanea (e drechjurë), rurale, indigena (llitirë), o genio locale (Mieshëter Arbër) a seconda dei casi di studio.

Naturalmente entra nello scopo di questo tema, fornire una storia coerente dell’architettura senza valore, e lungi dal sortire in tipologie o definizioni tipologiche sommarie.

Essa deve aiutare a liberarci dalla ristretta classificazione di architetture ufficiali e commerciali, che facilmente sono replicabili perché di paternità illuminata.

Gli studi forniti da numerosi e nobili autori, presi come solidi riferimenti, inquadrano con forza l’architettura senza autori, e oltre a ciò consentono di rielaborare il significato di alcuni termini, quali architettura “Spontanea” (e drechjurë), “Minore”(e Viker) e “Anonima”( e Guej), operazione utile a definire il contesto di riferimento specifico della ricerca.

Il lessico fornisce la precisazione di significato soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini apparentemente o foneticamente simili.

È necessario approfondire quei termini, i quali, nel tempo sono stati usati, con molteplici accezioni, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo” (e drechjurë), quando la spontaneità mira a restituire supporto fondamentale alla vivibilità di questi luoghi, siano essi agresti che concentrati in forma di Katundë.

Nella storia, l’aggettivo Vernacolare, in questo specifico caso potremmo appellare “Architettura in Arbanon”, più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, ma serie di opere povere,  esigenza di luogo, legate a contesti molto ristretti, costruiti con materiali del luogo e tecniche tradizionali, provate sulla pelle dei usufruitoti di famiglia allargata, sin a raggiungere l’equilibrio ricercato.

Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea, come sinonimo di architettura povera, è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze prime che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore, in quanto esigenza abitativa locale o agreste, di un ben identificato momento storico, fuori dai circuiti della divulgazione.

L’aggettivo spontaneo, pertanto è attribuibile a ciò che non ha imposizioni definite da una scuola o una tendenza generale o ampia, ma esigenza di luogo, tessuto con materiali locali offerti dagli eventi della natura.

Questa caratteristica, in riferimento alla trattazione di un tema come l’architettura anonima, nella contemporaneità, comprende il non essere assoggettato o influenzato da un linguaggio particolare o da uno stile, anche se la spontaneità lega aree ben definite o esigenze, germoglio di ambiti collinari o di approdo mediterranei secondo i bisogni delle genti che si preparavano a risiedervi senza soluzione di tempo, cose ed eventi.

Con l’idea di architettura spontanea, dunque, non è l’architetto-artefice, ma piuttosto una sorta di razionalità collettiva che, rispettando le norme non scritte, per la gestione dello spazio, risolve diversamente il dato estetico, culturale, di utilità associata al territorio.

Tale condizione di spontaneità è associabile, nel caso dell’architettura, a forme e soluzioni di una architettura codificata con consapevolezza, e poste alla verifica delle stagioni e la natura di un ben identificato luogo.

Ritrovando i valori della ricerca di questo breve, anche negli studi condotti da Rudofsky, non è un caso, che le tipologie edilizie tradizionali di genio arbëreshë, sprezzate o del tutto ignorate dagli studiosi comuni, per questo rimaste testimonianza silenziosa, grazie alla spinta di questo maestro delle indagini del costruito minore, si aggiunge un valore assoluto e non indifferente.

Quanti considera ancora oggi le architetture minori degli Arbër poca cosa per l’indagine storica al fine d’individuare percorsi della “regione storica diffusa” e quelle delle terre parallele ad est del fiume Adriatico, commettono e portano avanti consistenti negligenze di studio e approfondimento identitario.

Infatti le architetture locali della regione storica, attingono le radici dall’esperienza umana, interesse di studio che va oltre quello tecnico ed estetico, inquanto tratta di un’architettura senza dogmi.

A tal proposito è il caso di approfondire le cose che caratterizzano dal punto di vista costruttivo e dell’ambiente naturale i cento Katundë di origine arbëreshë, del meridione d’Italia, relativamente al costruito riferito come primo, che va dal XIV secolo al XVIII con evidenti elementi distributivi, tipologici in continua aderenza con lo sviluppo del territorio, in convivenza fraterna tra gli uomini.

Noti come Katoj, Motticelle o Kallive, si legge facilmente la radice organizzativa di espressione monastica, visto e considerato che i gruppi familiari che componevano gli abitanti di ogni agglomerato, aveva un prete ortodosso e la sua famiglia come elemento di credenza trainante.

Confermato che tutta la popolazione si sosteneva con le attività agro silvo pastorali, in estate o nella buona stagione quando l’attesa dei risultati di semina, consentivano di avere tempo per le attività degli anonimi e infaticabili Arbër, questi genio e forza lavoro a innalzare gli abituri tipici, suggeriti dai preti locali, nelle distribuzioni interne, a impronta di quelli monastici vissuti durante la loro formazione, è così che ha inizio la delimitazione del cortile e la piantumazione dell’orto botanico.

Cattedratici e studiosi post legge 482/99 ostinatamente e senza ragione confermavano, “tutti che non è cosi”, ma quando nel 2013 la difesa di Cavallerizzo e le motivazioni depositate nei preposti uffici, crearono scompiglio nel campo del genio culturale scritto, in greco e latino ignoto.

Costringendo a disporsi negli angoli bui, quanti con le teorie catastali senza verifica locale, volevano fare opera senza conoscere la storia, ritenendo possibile innalzare un paese “Arbëreshë con le Gjitonia” e attorno alle attività di difesa per gli Arbër, fu deserto algerino a prevalere e nulla più.  

E quando oggi si confrontano i disegni per lo studio dei moduli abitativi dell’unità di Abitazione di Marsiglia, del noto Le Corbusier, si ritrovano elementi di spazio essenziali, sin anche delle finestrature e i sotto moduli di areazione naturale, con finalità pari, simili, equipollente o rivisitati dei moduli tipo, di Katoi, Motticelle e Kalive, ancora pronte a dire la loro, in campo dell’architettura vernacolare in terra Arbër.

Lo studio dell’architettura anche se anomia o vernacolare, segno indelebile di genio locale, se si ha formazione sufficiente, nulla sfugge al buon osservatore fornito con occhio in fronte e nella mente.

L’architettura ha date, tempi, luoghi e uomini, per ogni epoca, essa non lascia spazi a libere interpretazioni, come avviene con la favola onnipresente, che vuole la letteratura Arbër, elevarsi solo dopo il 1831.

A questo punto viene da chiedersi: prima della letteratura di terzo decennio, dell’ottocento, cosa facevano i minoritari di Calabria Citra, dormivano, si cullavano, pascolavano pascendo.

Voi che fate la coda in archivio e in biblioteca, ancora non avete trovato gli atti del palazzo arcivescovile di Santa Sofia datato 1595, dell’omonimo di San Benedetto Ullano, datato 1625 e, nulla del Collegio Corsini dal 1742 con le innumerevoli eccellenze vescovii le sue eccellenze  di cultura, scritta e orale, compilati prima di ogni altra figura, dal Baffi a partire dal 1765 a Salerno e magari, quando ritrovati addirittura copiati senza vergogna, per poi stamparli diffusamente a Napoli

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SHESHI: ARCA SOCIALE PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’AGRO ARBËR (Sheshi: insieme del costruito di case, supportici, strade, vicoli ciechi e orti)

SHESHI: ARCA SOCIALE PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’AGRO ARBËR (Sheshi: insieme del costruito di case, supportici, strade, vicoli ciechi e orti)

Posted on 01 settembre 2023 by admin

Chiesa CodraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il termine “paesaggio” vuole rappresentare, l’insieme delle forme e interazioni di un luogo tra tempo, natura, uomini e, nasce per rappresentare il risultato della convivenza dei protagonisti attivi, in continua evoluzione.

Da questa definizione scaturisce la necessità nel differenziare il paesaggio, secondo lo scorrere del tempo, gli episodi o eventi naturali a cui l’uomo cerca di ripristinare e dare conto o giudizio, quando queste diventano abbandonati, antropizzati e urbanizzati.

Ci si rende subito conto della complessità del passare del tempo determinatesi a favore della natura a discapito dell’uomo e viceversa, ed ancor di più del concetto ad esso associato, in quanto abbraccia la sfera fisica, percettiva, culturale e sensoriale della realtà, inducendo ad una lettura analitica/critica per leggere le sfumature.

A Firenze nell’ottobre del 2000, si è definita una definizione ufficiale congiunta secondo cui e, per evitare possibili parafrasi che esulano dai contenuti di questo contributo qui disponiamo quella ufficiale in lingua Inglese e quella tradotta in Italiano:

“Landscape” means an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors.

Per “paesaggio” si intende un’area, come percepita dalle persone, il cui carattere è il risultato dell’azione e l’interazione di fattori naturali e/o umani.

Secondo il convenzionale enunciato, si individua come paesaggio il risultato di azioni conviviali tra fattori naturali e/o fattori umani.

In buona sostanza, tutto può essere paesaggio, purché espressione di una componente soggettiva da parte dell’osservatore e si riconosce come bene culturale a carattere identitario, frutto della  percezione di azioni locali su uno specifico territorio, di approdo, collina o montano.

Da questo punto di vista il paesaggio rappresenta un bene apparentemente statico, in continua e lenta evoluzione, in quanto determinato dal carattere percettivo della memoria, in quanto luogo dell’azione dell’uomo sul palco della natura.

L’attribuzione di un valore aggiunto o sottratto a favore del tempo, la natura o dell’uomo, dunque, non può prescindere dal riconoscere elementi che lo caratterizzano e lo differenziano nel tempo e appariscono sostanzialmente simili secondo la distanza dell’osservatore.

Ed è per questo che alla stessa tipologia, due momenti distinti del paesaggio risultano differenti allo sguardo dell’osservatore, individuando in essi alcuni elementi ora opera della natura e ora opera degli uomini.

Questi elementi possono essere di tipo naturale: un corso d’acqua, la nuova vegetazione, o di tipo antropico: un manufatto, in declivio modificati ad opera dell’uomo, o anche un percorso viario; talvolta proprio la presenza di elementi antropici favorisce l’identità culturale, valorizzando la naturale bellezza dei luoghi, che l’uomo rende neutra per i materiali locali che utilizza negli elevati che diventano quasi opera della natura.

La produzione agricola appartiene a quei fattori di trasformazione del paesaggio che, nei secoli ha modificato notevolmente il territorio, a seconda dell’intensità produttiva e delle esigenze a cui doveva far fronte, talvolta qualificando l’ambiente: solo per citare un esempio, basti pensare a terrazzamenti, briglie di contenimento dei deflussi naturali, grazie alle quali si sono potuti piantumare, a seconda le zone, pergolati, limoneti, uliveti o i coloratissimi orti stagionali delle più raffinate colture, praticate e tramandate di padre in figlio, rendendo più docile il profilo dei declivi e sviluppando una “struttura paesaggistica” che sostiene il delicato equilibrio idrogeologico dei versanti.

La costruzione di opere e manufatti in contesti naturali, all’origine era realizzato per sortire al minor impatto percettivo rispetto al contesto ambientale in cui si trova, grazie all’utilizzo di materiali li reperibili, come pietre arenarie o argille.

La motivazione a tale attenzione, la si ritrova principalmente dal fatto che quanti sceglievano la collina alle rive di approdo, volevano rimanere anonimi e non facilmente intercettabili da quanti proveniva dal mare con principi bellicosi, non certo di convivenza.

Ragion per la quale le forme costruttive tradizionali, erano incastonate nel contesto, ma soprattutto nell’impiego di materiali e pigmenti che già appartengono ai caratteri di quei luoghi.

Partendo da questo assunto infatti, ne è dimostrazione la ricerca condotta dallo scrivente con protagoniste le genti che elevarono gli oltre cento Katundë di radice Arbër, Arbanon e Kalabanon, della penisola del sud Italia e in forma esclusivamente documentale del sud della penisola balcanica e della aree a sud della Spagna e del Portogallo, con riferimento alla regione dell’Exstremadura.

Una vera e propria casistica eterogenea di architetture rurali, un ventaglio di elevati censiti, individuando caratteri architettonici essenziali, distintivi e ricorrenti, la cui tipologia si ripete su tutto il territorio indipendentemente dalla collocazione o dalla provincia di riferimento, tanto da permettere di classificare i sistemi edilizi in classi omogenee, individuando carattere ordine strutturale, dimensionale, organizzativo-distributivo, funzionale ed aggregativo.

Le espressioni dell’abitare raccolgono i suggerimenti offerti dalle potenzialità del luogo e del tempo, fino a materializzare nel paesaggio soluzioni iterate naturalmente, a ragione d’uso, le funzioni, conferma di validità.

Analizzare, i cunei agrari attraverso briglie, per la mitigazione dei reflui naturali, o per la tenuta di vie per raggiungere in sicurezza i pianori di semina, con particolare attenzione all’edificato di raccolta, accumulo e lavorazione dei prodotti agro-silvicoli-pastorali, sono il processo più articolato da analizzare, dato che punteggiano il paesaggio, attraverso cui discernere le trasformazioni indotte dalla società contadina, del volto di  paesaggio, da naturale a interattivo tra tipo edilizio, in tutto un luogo vissuto dagli uomini.

La corrispondenza tra “oggetti dell’abitare” e “tipi di supporto dei cunei agrari” avviene convalidando tipologie posteriori, ovvero le esperienze negative da migliorare e non più proporre come soluzioni formali con connotazioni nitide, precise, quasi elementari nella struttura, in tutto la misura dell’evoluzione del paesaggio guadagna attraverso l’abitare.

La classificazione di tali sistemi in elevato, di sostegno agreste e abitativo evidenzia non solo la ripetizione della tecnica costruttiva come tradizionalmente tramandata, ma anche e soprattutto la ripresa di quei cromatismi che appartengono all’ambiente naturale in cui vengono costruiti. E sono fondamentali per non essere intercettati, perché scelta di vita.

Lo stesso avviene nei centri abitati dove gli sheshi sono organizzati secondo disposizioni dipendenti degli originari gruppi familiari allargati, sono questi a determinarne il percorso articolato e definirne gli spazio dediti agli orti botanici, indispensabili di ogni gruppo.

Abitazioni sempre contornato dal verde naturale o comunque da elementi arborei che ne caratterizzano il clima e l’abitabilità.

Agglomerati realizzati all’interno o comunque contornati dalla vegetazione caratteristica di schermatura, indispensabile nelle colline mediterranee a creare il giusto filtro visivo per chi da lontano osserva e vorrebbe distinguere uomini, natura e tempo. 

Per questo le soluzioni costruttive appartengono a un linguaggio, che con lo scontrarsi con gli eventi naturali sempre più vicini, così tanto, da rispondere nuove esigenze sanitarie, rispetto alla scelta del materiale protagonista, che ritorna ad appartenere al luogo con una dimensione nuova, in cui la maggiore caratteristica deriva dalla pietra naturale, legata all’esteriorità per render il sistema naturale e possibile.

Nel meridione italiano, i materiali impiegati nella costruzione sono gli stessi che si ritrovano in situ, lì reperiti o perché costituenti il suolo, o perché trascinati da corsi d’acqua o rotolati fino alla pianura quando i sistemi di deflusso non erano ancora mitigati.

Sino a quanto i pigmenti naturali, amalgamano l’ambiante e natura, grazie anche all’ausilio di malta di allettamento delle pietre, si producono quinte naturali senza ombre e lo scenario rimane incontaminato da ombre o riflessi fuori misura.

Le attività di ricostruzione a seguito dei sismi ad iniziare da XVI secolo sono il segno emblematico delle ricostruzioni post sismi in quanto l’originario manufatto in elevato realizzato solo di calce arena e pietre con elementi di spogliatura del continuo murario con l’adottare  parti delle lamie di copertura realizzate in coppi e contro coppi sbriciolati o non più utili all’originario scopo a causa di sismi, ma sempre utili per fare volume o dare continuità solida al costruito in elevato.

Cosi come anche l’utilizzo dei mattono che formano piedritti e archi di vani porta e finestre sino ad allora realizzati con pietre e arco trave in legno su cui adagiare il continuo murario in pietra.    

Il contesto naturale mimetizza il manufatto all’interno del suo paesaggio, riprendendone le sfumature e i toni di tutte le cose che uomo e natura avvicinano le une con le altre.

Nel caso delle pietre di cava, l’imponenza dei blocchi di pietra o dei conci in tufo, fanno contrasto con il verde della campagna ma, a ben vedere, si lega al paesaggio, perché assumo il ruolo di delimitare ingressi e finestrature e in casi di edifici più emblematico assume re il carattere distintivo essenziale di queste architetture, così poco artificiose, ed alimenta valori formali che trascendono quelli funzionali e ne strutturano la percezione in pietre di riferimento angolare alla base dell’edificio.

Questi temi così disposti hanno per secoli reso lo scenario naturale come se fosse privo della presenza dell’uomo, che dopo il terremoto del 1783 ha dato la regia o meglio prevalenza estrema, al bisogno dell’uomo, il quale prima ha esagerato con le sue necessità e, poi abbandonate le cose alla disponibilità del tempo e della natura.

Oggi siamo giunti al termine, nessuno sa come dialogare o intrecciare cose buone per disporre il giusto equilibrio tra tempo natura e uomini, mentre non avendo misura e ragione per dialogare sono incolpati sole, vento e luna, sin anche la pioggia che un tempo era tanto attesa o per meglio dire fondamentale.

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