Archive | marzo, 2017

LA   STRADA COME L’ARBERESHE

LA STRADA COME L’ARBERESHE

Posted on 30 marzo 2017 by admin

Strada medievale al Sasso della Strega, TolfaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La moderna arberia ha una storia antica paragonabile a quella delle strade romane, comparando le consuetudini dagli antichi Arbëri con quelle strutture viarie dell’impero; si colgono similitudini tra la strada e il senso della consuetudine linguistica arbëreshë.

L’intangibile del significato viario dei romani e il messaggio sociale degli albanofoni è identico, giacché entrambi sono modelli che ad oggi sono attualissimi; la consuetudine arbëreshë, come una strada romana modellata da  capaci esperti, in grado di intuire come quel territorio poteva accogliere un arteria; ponti, viadotti, gallerie sono il risultato per superare gli ostacoli che la natura contrapponeva alla linearità del cammino.

Le pavimentazioni  sono il supporto strutturale che scaturisce dall’analisi per comprendere la capacità portante del terreno, divenendo così la caratterizzazione specializzata dei materiali per lo specifico luogo attraversato.

La meraviglia delle strade romane (come dell’arberia) è legata alla longevità della loro funzione, essa non è solo materiale, in quanto, via di comunicazione, ma un modo per orientarsi quando si smarriva la retta via: per secoli, anche dopo la fine dell’impero, le strade (come la consuetudine e la lingua arbëreshë) ha continuato a svolgere il loro scopo e poi, anche quando s’immaginava che fossero dismesse hanno assunto la funzione di “rotta” continuando ad indicare il cammino per i viandanti.

Proprio l’etimologia testimonia la vicenda della strada; mentre la parola italiana “strada” deriva dall’espressione latina via silice, “strata”, cioè la “via” o la traccia dove passano le merci “ricoperta con la pietra” della quale rimane solo l’ultimo termine che è divenuto “street” in inglese e strasse in tedesco.

In seguito dopo le rotture e la dismissione conseguente a secoli di mancata manutenzione, la via è divenuta “rupta”, cioè  rotta.

Tuttavia pellegrini e commercianti continuavano a “seguire la rotta” come si dice ancora in italiano in termini marinareschi e come si dice comunemente per le strade francesi e spagnole ed inglesi con i termini;  “route”-“rue”, “ruta” “road”.

“La parola Strada, come Arberia, rappresentano l’unica cosa immaginata e posta in essere dall’uomo, che funziona sempre, anche se rotto o dismesso”, l’impossibilità del trasporto delle merci, giustificato dalle cattive costruzioni e manutenzioni, che ancora oggi si fanno, malgrado si siano raggiunti i criteri costruttivi,  manutentivi  e  di  gestione  non tolgono il primato e renderle re e regina dell’intelligenza umana.

E cosi come la strada anche l’arberia per la solidità delle sue radici, anche oggi che appare devastata e manomessa, riesce sempre a indicare la rotta per raggiungere la meta; oggi, infatti, abbiamo un quadro devastato del suo aspetto materiale, tuttavia la sua manifestazione consuetudinaria, “la rotta” ovvero gli l’essenza della sua radice rimane viva e può essere docilmente ripristinata.

Noi che facciamo tanto e senza particolari scopi, come diffusamente è costumanza, dobbiamo solo seguire la vecchia rotta e cogliere il senso del messaggio indelebile di cui è intriso il territorio della Regione storica Arbëreshë.

La via è stata consumata giacché non è stata mai fatta un’adeguata manutenzione, anzi al contrario, perché chi ha avuto occasione, si è portato i pezzi del selciato a casa propria, tuttavia molti segmenti di sono rimasti intatti sul territorio e sono in capaci ancora oggi di fornirci la rotta di quel antico percorso cosi come era quando fu immaginato e costruito.

È obbligo per tutti quelli che sentono e vedono questa rotta come strumento indispensabile della propria identità, intraprendere questo percorso e fornire ogni risorsa e ogni energia per continuare a condividere un messaggio antico, fatto di promessa, fratellanza e consuetudine, che sono il riassunto noto a pochi eletti nel modello di Gjitonia.

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NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ”  Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno  XV, n. 3, pag. 7

Protetto: NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ” Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno XV, n. 3, pag. 7

Posted on 17 marzo 2017 by admin

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SALVIAMO LE POCHE E SOLIDE REGOLE ANCORA INTATTE D’ARBERIA

SALVIAMO LE POCHE E SOLIDE REGOLE ANCORA INTATTE D’ARBERIA

Posted on 15 marzo 2017 by admin

Arberia oggiNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –

Premessa

Gli argomenti qui di seguito trattati hanno quali scenari di studio gli agglomerati arbëreshë in senso generale, non volendo riferire su particolari e interventi che quantomeno andrebbero classificati come malevoli, inopportuni e senza rispetto per la tradizione storica minoritaria.Gli argomenti qui di seguito trattati hanno quali scenari di studio gli agglomerati arbëreshë in senso generale, non volendo riferire su particolari e interventi che quantomeno andrebbero classificati come malevoli, inopportuni e senza rispetto per la tradizione storica minoritaria.

Per non perdersi nel labirinto dei consensi lasciati imprudentemente, per troppo tempo brucare nei campi dell’inconsapevolezza, si vogliono prendere in considerazione solo quelle esternazioni immateriali e materiali posti in essere da chi svolge il ruolo di educatore e per questo ha usato gli ambiti minoritari, “per fare esperimenti”.

Sono innumerevoli i casi che si potrebbero palesemente bandire, in quanto, rappresentano l’esempio di come le istituzioni e i non parlanti hanno affrontato, accolto e fatte proprie, nozioni diffuse irresponsabilmente dalla schiera di neri antiquari; pirati senza scrupoli che sotto mentite vesti si auto elevano a valorizzatori della minoranza, sono proprio loro i “purpignatori malevoli”, che allevano nozioni senza né arte e ne parte, in ambito antropologico, sociale, religioso, consuetudinario, canoro, linguistico e architettonico.

È chiaro che per addentrarsi in ambiti così delicati storicamente elevati sul sottile filo di un rasoio, è indispensabile la conoscenza a largo spettro legislativa, consuetudinaria, dell’idioma oltre che dei luoghi, abbandonati, attraversati, costruiti e vissuti dai minoritari.

Questi indispensabili riferimenti associati agli altri stati di fatto scanditi dalla metrica tipica dei minoritari sono la base su cui adagiare il nocciolo della cultura non scritta arbëreshë.

Si fa rilevare a tal proposito che la difesa delle diversità culturali è tutelata, da specifiche diposizioni europee, dalla Costituzione Italiana, dalle normative e i decreti regionali appositamente legiferati.

Tutte queste in maniera unanime prefiggono l’obiettivo non della mera “non discriminazione” ma la sollecitudine a porre in atto atteggiamenti e misure per il produrre solide prospettive di tutela.

Nel merito delle procedure, di fatto già attuate e riconducibili ad agglomerati, siti rurali o ambiti rionali, esse portano alla memoria insediamenti che sono una farsa della peggiore specie e non tutelano nulla della vecchia consuetudine Arbëreshë.

Oltre a questo dato oggettivo, va aggiunto quanto soggettivamente è violentato all’interno delle dimore, in oltre va rilevato che gli edifici destinati alle attività collettive, le scuole e le chiese, manufatti che devono consolidare e allevare l’identità, nessuna attenzione è rivolta per gli arbër o per l’arberia, come invece viene largamente diffuso.

Il massimo dell’esternazione negativa dopo il concetto di Gjitonia è un’affermazione istituzionale, verso la quale si deve assumere un atteggiamento di ribellione collettiva, in quanto ambisce a divenire regola per le generazioni future o addirittura linea guida; qui di seguito è riportato integralmente:

”la ricostruzione [… ] ha cercato di rispettare l’originaria conformazione: [… ] insediamento di origine arbëreshë, e i rapporti di vicinato disponendo, quindi, le unità abitative suddivise in 5 gjitonie (quartieri) attorno ad altrettante piazze ed una piazza centrale, disposte in modo da riprodurre in pianta la forma dei petali di un fiore”

La preoccupazione verso quanto incamerato da Regione, Province, Comuni, Prefetti, Università e Soprintendenze, ecc., ecc., sono notevoli e non devono passare inosservate, simili attribuzioni non rappresentano la caratterizzazione della minoranza storica calabrese, ma neanche nessuna delle disposizioni che hanno assunto sul territorio le genti che abitarono storicamente e abitano oggi il meridione Italiano.

Se poi dalla teoria si passa alla pratica e si leggono gli elementi finiti, realizzati o messi in cantiere nelle pertinenze della Regione storica Arbëreshë, emerge che:

– gli insediamenti “abbelliti” non riproducono le trame urbanistiche dei paesi nati tra il XV XIX secolo; mancano, in buona sostanza, di ogni qualsiasi connotazione storica.

– La disposizione all’interno degli insediamenti avviene a tavolino basandosi su dati catastali remoti e superati (non si rispettano e si consolidano le originarie vicinanze tra persone e nuclei familiari).

– Il numero dei piani delle unità abitative è passato sistematicamente a un minimo di tre livelli; ciò a differenza del vecchio insediamento che presentava corpi di fabbrica su due livelli nel rispetto della tradizione storica di tutte le regioni meridionali secondo le disposizione regie: sisma del 1783.

– Gli impianti dei tracciati viari configurano estensioni/dimensioni planimetriche con distanze tra le unità abitative, prima non presenti (sgranando in tal modo la possibilità del rapporto fisico tra le persone anziane della comunità ed il muoversi quotidiano degli abitanti) .

Si propongono gli accessi alle abitazioni sulle strade principali, originariamente, erano collocate nelle strade secondarie .

– Le coperture sono eseguite non rispettando la pre-esistente tipologia a falda (semplice o doppia) e rivestimento in coppi a doppio registro; le soluzioni adoperate prediligono quelle piana o addirittura a carena rovesciata .

Su queste ultime non intervengono neanche gli organismi preposti alla tutela del paesaggio che in questo modo viene violentemente modificato .

 

Note agli Elementi immateriali

Premettendo che il caratteristico sviluppo del paese arbëreshë si fonda sulla rigida aggregazione di persone legate tra di loro nell’ambito dell’antica organizzazione di “famiglia allargata”, tale “nucleo sociale di base” produceva un insediamento libero nella sua organizzazione planimetrica e contornato da una sua propria superficie agricola di pertinenza, individuando sul territorio un “Rione”.

La crescita della presenza delle persone all’interno del “rione” configurava poi, fatalmente, ulteriori sub-aggregazioni sociali e di rapporti personali di mutuo sostentamento.

Ciascuna di queste sub-aggregazioni costituisce ciò che viene denominata “gjitonia” .

Va variamente aggiunto in tal merito che:

– Il termine Gjitonia, impropriamente tradotto in italiano come “vicinato”, contiene al suo interno la connotazione particolare di indicare persone che sono legate tra di loro, comunque, da rapporto familiare; il vocabolo “italiano” richiama altri aspetti.

– Il riferimento contenuto nella citazione istituzionale, riporta di una configurazione secondo cinque (5) petali di un fiore che non ha alcun motivabile riferimento alla realtà albanofona e neanche in alcuna comunità che vive gli ambiti agresti e urbani del sud italiano.

– Il Testo riferisce inoltre il termine/concetto di “Rione” in forma di “Quartiere”, mentre quest’ultimo riferisce a un luogo ben definito e circoscritto di un “contesto” urbanizzato (oltre all’interpretazione in senso militare), il “Rione” indica un modello urbano immateriale e irripetibile fisicamente, al cui interno sono presenti tanto l’elemento umano (il gruppo di persone) quanto il loro insediamento; entrambi sono in continua “espansione” e, comunque, rivolti verso le circostanti superfici agresti.

– Sfugge in oltre il modo con cui si trascrivono nella forma corretta in arbëreshë i rioni, che quando ad esempio si tratta di Bregu, Kroi, Katundi, Sheshi o Huda, rappresentano le tappe storiche della crescita edilizia; i primi identificano gli insediamenti originari; gli altri rappresentano, le antiche superfici agresti del nucleo urbano.

Altri elementi di analisi

In gran parte del territorio Italiano la sopravivenza degli insediamenti storici è particolarmente vulnerabile agli effetti di rilevanti eventi fisici (alluvioni, terremoti, frane ecc.) così come per quelli dell’abbandono delle collettività insediate e di quanti, ne hanno responsabilità politica/tecnica.

La “perdita” deve essere intesa tanto nel merito degli elementi fisici ancora sopravissuti, quanto delle presenze vive della struttura sociale e dei loro abitanti.

Nel momento in cui inizia a venire meno la “sicurezza” fisica dei fabbricati, si pone ovviamente la necessità di scegliere se attendere prima come evolvono o si stabilizzano i meccanismi in atto o trasferire “tout court” i residenti.

Ogni nuova localizzazione materiale ed immateriale, pur consentendo la messa in sicurezza “fisica” dei residenti, comporta però la loro separazione da quanto”intangibile” era presente nell’insediamento.

In molteplici, recenti circostanze in tal genere si è anche ricorso a “espedienti” volti ad invogliare i residenti ad allontanarsi dal loro centro di origine.

Gli effetti negativi di tali separazioni forzate si ritrovano ad esempio a Filadelfia nel vibonese, Martirano nel catanzarese, la Martella nel materano e San Leucio nel casertano, ecc.

Lo scrivente, avendo seguito da vicino l’evolversi degli eventi e degli interventi posti in essere in relazione a molti interventi, ha motivo di ritenere che ricorrano molto spesso atteggiamenti verso gli elementi che hanno già portato la compromissione degli elementi fisici del centro storico originario e del tessuto culturale e sociale degli abitanti.

Sono eventi storicamente riconosciuti come imposizioni di massa con l’offerta e l’impegno assunto, con la cittadinanza, di realizzare un nuovo centro abitato connotato da caratteristiche proprie dell’insediamento e della cultura locale, anche se in buona fede, un’offerta che si configurava più come un miraggio invece che come possibilità di perseguire un risultato soddisfacente le richieste e le aspettative della cittadinanza intera.

Così come in altre circostanze e occasioni anche nell’offerta prospettata agli arbëreshë si è fatto ampio abuso di termini che, pur se appartenenti alla cultura Balcano/grecanica, sono pensati e riferiti in maniera infantile se non addirittura sbagliata.

Lo stesso abuso “rituale” dei termini, impropriamente riferiti, comporta l’offuscamento, per non suppostati da appropriata conoscenza storica dell’arbëria, della loro tradizione e delle originarie radici di riferimento.

Procedure e Avvenimenti

Nei tanti casi messi in atto si è cercato di indagare su quali basi, storiche, culturali e legislative si articolava l’evoluzione del progetto .

Trattandosi di “ambiti minoritari” manca sempre il riferimento legislativo che non a caso è perennemente violato.

Nell’esame non si ritrovano riferimenti o documenti storici di nessuna natura se si escludono enunciati senza alcuna base storica o un qualsiasi fascicolo arrecante la dicitura “Relazione Storica” o “Legislativi di tutela” vista la particolare valenza delle opera, destinate a minoritari Arbëreshë.

La perplessità su quanto, poi di fatto, viene anche eseguito lascia ben motivata la necessità di rileggere, anche se a posteriori, iter progettuali ed efficacia del costruito (**).

Sono molto rari i casi in cui abitanti, supportati da linguisti, antropologi, storici, ingegneri e architetti, producono opposizioni per le proprie perplessità sull’esito finale delle opere da eseguire o eseguite.

Anche se in fia ufficiosa la popolazione non condivide unanimemente (condizione necessaria) per questo nella quasi totalità degli interventi di fatto si divide la popolazione in gruppi così suddivisi:

– quelli che accettata suggestionati dal miraggio “del nuovo abellimento del paese arbëreshë a petali di fiore, con le Gjitonie”;

  – quelli che preferiscono migrare in località simili con molta più solidità;

– quelli (più fedeli alla propria identità territoriale e culturale) che rigettata e dovono anche adire le vie legali.

La vicenda nel corso degli anni divengono ancor più drammatiche per gli abitanti dei piccoli agglomerati in quanto così come si sgretolano gli ambiti del costruito storico anche i riferimenti religiosi si adattano a nuove dinamiche alloctone per cui venendo a mancare i cardini identitari su cui è stesa la sottile linea di demarcazione minoritaria si racchiude tutto in una nicchia cui assicurare quanto ormai appare irrecuperabile, l’oasi verso cui dirigersi, pur se consapevoli che non potranno più mettere a dimora i semi della propria identità minoritaria.

L’esito finale, generalmente riporta a elementi finiti che geograficamente potrà anche risiedere sulla stessa linea di meridiano, ma non vi è dubbio alcuno, che il parallelo, da cui è stata estrapolata la radice identitaria è ben distante da quello su cui è depositata la Sapienza e la Storia arbëreshë.

Conclusioni

Allo stato attuale, è opportuno rilevare che gli edificati, devono tutelare la tradizione arbëreshë e seguire/contenere, i dettami, le caratteristiche qui di seguito ulteriormente ribaditi agli attuatori:

I cinque Rioni Storici vanno citati e scritti, in arbëreshë, per un buon avvio.

La Gjitonia, deve poter innescare il ruolo sociale sub familiare, non associarla a toponimi ripetibili in quanto essa é unicamente riferibile a parabole sociali dettate “del tempo”.

Il modulo storico elementare (Shëpia) per secoli, contenitore fedele degli albanofoni, deve assumere un ruolo fondamentale nella stesura dei moduli abitativi; denominata un tempo Kaliva, Katojo o Motiçelet in quanto eso rappresenta il primo contenitore dell’immateriale arbëreshë.

L’aggregazione dei moduli abitatovi, (Benetë o Manxanath) leggendario riassunto degli usi e dei costruiti arbëreshë, rappresenta la sintesi dei parallelismi storici della terra di origine, oltre a rappresentare l’abaco dei patimenti tellurici.

Le coperture; (Shighet), dovevano essere realizzate a falda, con lamia di coppi a doppio registro.

I profferli, (Rhùitoj) frazionarono il piano terra con quello sovrastante; allestiti su fronte strada e segnano un’epoca precisa della storia del meridione.

I palazzi nobiliari (Phëleseth Bulervet) sono realizzati da un piano terra, uno nobile e la copertura, il piano terra adibito a deposito e cantina; il primo piano residenza; quest’ultimo era temperato da un cappello di coperture, spazio tecnico, denominato Canixcari su cui era posta la lamia in coppi, generalmente a padiglione.

Questa tipologia di edificio realizzato nel tardo settecento, generalmente era caratterizzata da “miniati” posti nei prospetti più panoramici o verso i sagrati delle chiese.

La strada principale (Huda Made) accompagna l’isoipsa ideale e regola l’allocamento dei rioni che si dispongono o al disotto o al disopra di questa traccia detta della salubrità.

Le strade (Huda) non sono mai rettilinee e sono perpendicolari ai vicoli.

i Vicoli (Rruga); hanno la stessa prerogativa delle strade, e il loro andamento irregolare serviva a non essere esposti ai venti gelidi in inverno e ad avere un luogo in ombra durante la calura estiva.

Le piazze (lëmi) dei pesi albanofoni rappresentano i luoghi di riunione di eventi tellurici utilizzati per l’accumulo dei materiali edilizi e per non allontanarsi dalle proprie abitazioni ogni volta che queste venivano compromesse da eventi naturali.

Gli ulivi, le acace e i gelsi secolari; la loro soppressione per dare spazio a inutili abbellimenti floreali o architettonici è un’altra ferita prodotta al territorio, l’estirpazione delle secolari essenze, rappresentano la cancellazione di un ben identificato periodo storico che corrisponde all’avvio dell’era industriale.

Questi dati, associati ai fondamentali parametri di sicurezza sismica, che oggi rappresentano la prima misura da adottare devono restituire il senso e la metrica fondamentale per fare Gjitonia.

L’ambiente naturale e quello costruito non può far altro che rigettare la sommatoria di elementi dissimili luoghi distanti, latitudini diverse e parallelismi territoriali impossibili, questi ultimi fondamentali per le tipiche consuetudini arbëreshë.

Il risultato che oggi ci appare è un paesaggio sconosciuto agli arbëreshë e non solo, perché sono luoghi con nozioni notoriamente instabili, distesa di cemento “negative” che trascina nere leggende e allontanano i domani sereni.

Nei fatti, rimangono parti dismesse o prive di senso, che conservano negli anfratti dei “rioni integri”, gli elementi indispensabili per la prosecuzione della consuetudine minoritaria, dall’altra parte un nuovo costruito in cui è immaginabile innestare tali caratteristiche perché la storia materiale e immateriale Arbëreshë non possono essere riversate.

Soluzione

È inutile predisporre modifiche, interventi o aggiusti di qualsiasi misura se non prima di avere la consapevolezza storica di quanto si vuole ripristinare giacché diventano solo gli affanni mirati a contenere innesti che non possono ripristinare i valori Storici culturali, caratteristica della minoranza.

Intervenire in questo modo esula da ogni logica di mercato, giacché, per depositare gli elementi utili al proseguimento della vita minoritaria, impegnerebbe somme molto elevate al solo fine di sperimentare un eventuale allineamento con gli antichi protocolli.

Allo stato delle cose, sarebbe opportuno per gli attuatori rivedere quanto nelle loro disposizioni visto che gli ambiti minoritari non devono prefiggersi come meta il mero abbellimento di un’abitazione ma principalmente hanno il dovere (secondo la costituzione Italiana) di salvaguardare le consuetudini locali, soprattutto quando queste sono minoritarie.

Per quanto sopra, aprire un nuovo dialogo con tutte le istituzioni e le associazioni, rimane l’unico investimento possibile per consentire agli arbereshe di ripristinare in linea storica fatta di riti, consuetudini e modelli di coesione sociale arbëreshë, che economicamente non è possibile innestare nella in nessun altro luogo.

I temerari che oggi parlano e soffrono nel vedere violato uno dei modelli mediterranei più longevi oggi rimangono, l’unica, ultima e “più economica risorsa possibile su cui investire”, per salvaguardare ciò che rimane vivo senza soluzione di continuità dal XV secolo in Italia meridionale.

Note (**)

– allo stato di quanto qui riportato nei sottocapitoli di nota “Elementi fisici ed Elementi immateriali”denotano, l’utilità di adeguati supporti storiografici e legislativi, prima, durante e dopo la stesura del progetti; un iter che doveva essere avviato solo dopo aver adottato gli “idonei strumenti di conoscenza Linguistica, Consuetudinaria e storica della minoranza”.

 

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TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

Posted on 07 marzo 2017 by admin

ClanNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Se dovessi dipingere l’arberia e il suo seguito di addomesticatori, gli darei il corpo di un vigoroso cavallo, inseguito lungo gli anfratti collinari della regione storica, da antiquari napoletani, palermitani, romani, baresi, potentini, leccesi, e cosentini, che cercano di sellarlo non col basto, ma con la sella turca.

Tuttavia viene da chiedersi quanto durerà questa innaturale, vergognosa e insana farsa, che vuole piegare questo antico ceppo linguistico per il volere di inadatti antiquari, allocati alla guida di fantomatiche strutture non per i meriti, ma per la loro appartenenza politica.

Quante cose rimangono ancora indelebili negli ambiti d’arbëria, quante sono in grado di conferire significato alla Regione storica Arbëreshë per sostenerla degnamente?

Quali sono state le frizioni culturali che hanno consumato la volontà di azione e di movimento che in altri tempi e presso altre generazioni tonificava il sistema intellettivo, sociale e morale del nocciolo duro d’arbëria?

Ad oggi non è più un dato che si possa ritenere noto, tuttavia rimane un inestimabile e corposo sistema arbëreshë che va ripreso, consolidato, ripristinato e tutelato con tutte le risorse cultural, sociali ed economiche possibili.

La nebbia sale imperterrita dalle gole della R.s.A. e avvolge ogni cosa, solo chi ha vissuto e vive la parte alta è in grado di conoscere quali saranno gli effetti negli anfratti del territorio.

Intanto da quei luoghi ormai privi di riferimento s’innalzano lamenti di chi non riesce più a distinguere il mare dalla spiaggia, come in un girone dantesco, vivono immaginando di essere in una terra che non c’è.

Quale è la misura quotidiana del patrimonio identitario che viene annienta giorno dopo giorno tra gli ingranaggi di questo secolo, smettiamo di distrarci dalle piante sempre verdi del vicino perché esse non portano frutti, ma solo illusione e la morte del ricordo.

È idoneo chiedersi, per questo, perché si lasciamo ignari praticanti di bottega, a cibarsi delle nostre radici, solo per il piacere effimero di emulare un domani che non ci appartiene.

Perché scambiare la metrica del canto con quello della musica, eppure un grande uomo d’arberia diceva: che nella battaglia infinita tra musica e canto, riteneva quest’ultima quale frutto originario.

Perché non diamo un più alto significato alla nostra consuetudine e come in altri secoli, raffigurati in forma di mari, fiumi, tempeste, sismi e fiamme?

È un eufemismo continuare a ritenere che la cultura è allocato nella mente di nonna Elisabetta, di zia Clementina o abbarbicata negli ambiti murari di una gjitonia che materia non è.

Se dovessimo dare una forma materica al secolo trascorso e quello in corso, non mi viene in mente nulla, se non il grigiore della cenere, che poi sono quello che resta delle radici identitarie bruciate.

Pochi sono i fiori che ancora restano integri, non facciamo che l’inverno (i litiri) li trovi impreparati, diamogli una possibilità e innalziamo solidi presidi (Arbëreshë) per far crescere queste rare piante, le uniche in grado di risvegliare a primavera i sensi di un’antica tradizione.

Non servono venti nuovi in arberia, “perché il vento è uno solo” soffia da est verso ovest e porta con sé profumi e voci rarissimi; solo un arbëreshë li può avvertire e alimentare gli antichi principi di fratellanza che da secoli si rivelano come i più caparbi in tutto il mediterraneo.

Non servono canti alloctoni in luoghi sacri, perché così facendo si violentano i principi della propria identità religiosa, un luogo che t’identifica non deve e non può essere violato da ideologie litirë, che poi è il tarlo che consuma e rende in polvere ogni cosa.

Ogni luogo ha un suo ruolo e gli uomini che li hanno ereditati hanno il dovere di preservarli e lasciarli intatti alle generazioni future, nessuno può arrogarsi il diritto dovere di insudiciarli o di modellarli a propria misura culturale, altrimenti si persegue la via della perdita dell’antica identità.

Non meritate di conoscere dove sono depositate le povere resta del Baffi, se il suo paese, non rispecchia il senso del suo sacrificio; quale nesso avrebbe illuminare un luogo che è lo specchio di una società malata e priva di ogni senso culturale, lo stesso che promuove abbellimenti ed eleva il buon nome di quegli avversari che furono causa della sua dipartita.

Solo una tutela mirata degli ambiti violentati, ormai da molti decenni, potrà restituire senso storico, ma ciò va fatto affidandosi a chi si adopera per restituire la continuità storica più aderente alla realtà, solo così il piccolo borgo avrà modo di acquisire quella veste idonea per accogliere le resta dell’illustre letterato.

La storia non si fa con gli episodi, non si fa con le favole, non si fa con i venti nuovi, non si fa con i discorsi nuovi; il vento come la storia arbëreshë è una sola e non servono personalismi locali a divulgarla, ma occorre impegno, dedizione, professionalità, serietà morale e culturale, quella che manca da oltre due secoli ed è stata in grado di rendere la capitale d’arberia ad un ammasso di episodi senza ne testa e ne coda, allo stesso modo delle province turche da cui sfuggimmo cinque secoli orsono.

Una è la madre E non va mai confusa con altra cosa! Essa va rispettata sempre nel bene e nel male, tuttavia, quand’anche la disperazione l’allontanasse dai suoi doveri, non dobbiamo avere dubbi sulla sua integrità di madre, in quanto i punti di vista dell’inesperienza modificano le immagini che percepiamo, specialmente se alimentate dalla luce del denaro e di tutte le belle cose materiali che ci sono offerte con lo scopo di distrarci persino dal malaffare paterno; un giorno capiremo, ma sarà troppo tardi!

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