Archive | marzo, 2017

LA   STRADA COME L’ARBERESHE

LA STRADA COME L’ARBERESHE

Posted on 30 marzo 2017 by admin

Strada medievale al Sasso della Strega, TolfaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La moderna arberia ha una storia antica paragonabile a quella delle strade romane, comparando le consuetudini dagli antichi Arbëri con quelle strutture viarie dell’impero; si colgono similitudini tra la strada e il senso della consuetudine linguistica arbëreshë.

L’intangibile del significato viario dei romani e il messaggio sociale degli albanofoni è identico, giacché entrambi sono modelli che ad oggi sono attualissimi; la consuetudine arbëreshë, come una strada romana modellata da  capaci esperti, in grado di intuire come quel territorio poteva accogliere un arteria; ponti, viadotti, gallerie sono il risultato per superare gli ostacoli che la natura contrapponeva alla linearità del cammino.

Le pavimentazioni  sono il supporto strutturale che scaturisce dall’analisi per comprendere la capacità portante del terreno, divenendo così la caratterizzazione specializzata dei materiali per lo specifico luogo attraversato.

La meraviglia delle strade romane (come dell’arberia) è legata alla longevità della loro funzione, essa non è solo materiale, in quanto, via di comunicazione, ma un modo per orientarsi quando si smarriva la retta via: per secoli, anche dopo la fine dell’impero, le strade (come la consuetudine e la lingua arbëreshë) ha continuato a svolgere il loro scopo e poi, anche quando s’immaginava che fossero dismesse hanno assunto la funzione di “rotta” continuando ad indicare il cammino per i viandanti.

Proprio l’etimologia testimonia la vicenda della strada; mentre la parola italiana “strada” deriva dall’espressione latina via silice, “strata”, cioè la “via” o la traccia dove passano le merci “ricoperta con la pietra” della quale rimane solo l’ultimo termine che è divenuto “street” in inglese e strasse in tedesco.

In seguito dopo le rotture e la dismissione conseguente a secoli di mancata manutenzione, la via è divenuta “rupta”, cioè  rotta.

Tuttavia pellegrini e commercianti continuavano a “seguire la rotta” come si dice ancora in italiano in termini marinareschi e come si dice comunemente per le strade francesi e spagnole ed inglesi con i termini;  “route”-“rue”, “ruta” “road”.

“La parola Strada, come Arberia, rappresentano l’unica cosa immaginata e posta in essere dall’uomo, che funziona sempre, anche se rotto o dismesso”, l’impossibilità del trasporto delle merci, giustificato dalle cattive costruzioni e manutenzioni, che ancora oggi si fanno, malgrado si siano raggiunti i criteri costruttivi,  manutentivi  e  di  gestione  non tolgono il primato e renderle re e regina dell’intelligenza umana.

E cosi come la strada anche l’arberia per la solidità delle sue radici, anche oggi che appare devastata e manomessa, riesce sempre a indicare la rotta per raggiungere la meta; oggi, infatti, abbiamo un quadro devastato del suo aspetto materiale, tuttavia la sua manifestazione consuetudinaria, “la rotta” ovvero gli l’essenza della sua radice rimane viva e può essere docilmente ripristinata.

Noi che facciamo tanto e senza particolari scopi, come diffusamente è costumanza, dobbiamo solo seguire la vecchia rotta e cogliere il senso del messaggio indelebile di cui è intriso il territorio della Regione storica Arbëreshë.

La via è stata consumata giacché non è stata mai fatta un’adeguata manutenzione, anzi al contrario, perché chi ha avuto occasione, si è portato i pezzi del selciato a casa propria, tuttavia molti segmenti di sono rimasti intatti sul territorio e sono in capaci ancora oggi di fornirci la rotta di quel antico percorso cosi come era quando fu immaginato e costruito.

È obbligo per tutti quelli che sentono e vedono questa rotta come strumento indispensabile della propria identità, intraprendere questo percorso e fornire ogni risorsa e ogni energia per continuare a condividere un messaggio antico, fatto di promessa, fratellanza e consuetudine, che sono il riassunto noto a pochi eletti nel modello di Gjitonia.

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NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ”  Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno  XV, n. 3, pag. 7

Protetto: NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ” Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno XV, n. 3, pag. 7

Posted on 17 marzo 2017 by admin

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SALVIAMO LE POCHE E SOLIDE REGOLE ANCORA INTATTE D’ARBERIA

Protetto: SALVIAMO LE POCHE E SOLIDE REGOLE ANCORA INTATTE D’ARBERIA

Posted on 15 marzo 2017 by admin

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TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

Posted on 07 marzo 2017 by admin

ClanNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Se dovessi dipingere l’arberia e il suo seguito di addomesticatori, gli darei il corpo di un vigoroso cavallo, inseguito lungo gli anfratti collinari della regione storica, da antiquari napoletani, palermitani, romani, baresi, potentini, leccesi, e cosentini, che cercano di sellarlo non col basto, ma con la sella turca.

Tuttavia viene da chiedersi quanto durerà questa innaturale, vergognosa e insana farsa, che vuole piegare questo antico ceppo linguistico per il volere di inadatti antiquari, allocati alla guida di fantomatiche strutture non per i meriti, ma per la loro appartenenza politica.

Quante cose rimangono ancora indelebili negli ambiti d’arbëria, quante sono in grado di conferire significato alla Regione storica Arbëreshë per sostenerla degnamente?

Quali sono state le frizioni culturali che hanno consumato la volontà di azione e di movimento che in altri tempi e presso altre generazioni tonificava il sistema intellettivo, sociale e morale del nocciolo duro d’arbëria?

Ad oggi non è più un dato che si possa ritenere noto, tuttavia rimane un inestimabile e corposo sistema arbëreshë che va ripreso, consolidato, ripristinato e tutelato con tutte le risorse cultural, sociali ed economiche possibili.

La nebbia sale imperterrita dalle gole della R.s.A. e avvolge ogni cosa, solo chi ha vissuto e vive la parte alta è in grado di conoscere quali saranno gli effetti negli anfratti del territorio.

Intanto da quei luoghi ormai privi di riferimento s’innalzano lamenti di chi non riesce più a distinguere il mare dalla spiaggia, come in un girone dantesco, vivono immaginando di essere in una terra che non c’è.

Quale è la misura quotidiana del patrimonio identitario che viene annienta giorno dopo giorno tra gli ingranaggi di questo secolo, smettiamo di distrarci dalle piante sempre verdi del vicino perché esse non portano frutti, ma solo illusione e la morte del ricordo.

È idoneo chiedersi, per questo, perché si lasciamo ignari praticanti di bottega, a cibarsi delle nostre radici, solo per il piacere effimero di emulare un domani che non ci appartiene.

Perché scambiare la metrica del canto con quello della musica, eppure un grande uomo d’arberia diceva: che nella battaglia infinita tra musica e canto, riteneva quest’ultima quale frutto originario.

Perché non diamo un più alto significato alla nostra consuetudine e come in altri secoli, raffigurati in forma di mari, fiumi, tempeste, sismi e fiamme?

È un eufemismo continuare a ritenere che la cultura è allocato nella mente di nonna Elisabetta, di zia Clementina o abbarbicata negli ambiti murari di una gjitonia che materia non è.

Se dovessimo dare una forma materica al secolo trascorso e quello in corso, non mi viene in mente nulla, se non il grigiore della cenere, che poi sono quello che resta delle radici identitarie bruciate.

Pochi sono i fiori che ancora restano integri, non facciamo che l’inverno (i litiri) li trovi impreparati, diamogli una possibilità e innalziamo solidi presidi (Arbëreshë) per far crescere queste rare piante, le uniche in grado di risvegliare a primavera i sensi di un’antica tradizione.

Non servono venti nuovi in arberia, “perché il vento è uno solo” soffia da est verso ovest e porta con sé profumi e voci rarissimi; solo un arbëreshë li può avvertire e alimentare gli antichi principi di fratellanza che da secoli si rivelano come i più caparbi in tutto il mediterraneo.

Non servono canti alloctoni in luoghi sacri, perché così facendo si violentano i principi della propria identità religiosa, un luogo che t’identifica non deve e non può essere violato da ideologie litirë, che poi è il tarlo che consuma e rende in polvere ogni cosa.

Ogni luogo ha un suo ruolo e gli uomini che li hanno ereditati hanno il dovere di preservarli e lasciarli intatti alle generazioni future, nessuno può arrogarsi il diritto dovere di insudiciarli o di modellarli a propria misura culturale, altrimenti si persegue la via della perdita dell’antica identità.

Non meritate di conoscere dove sono depositate le povere resta del Baffi, se il suo paese, non rispecchia il senso del suo sacrificio; quale nesso avrebbe illuminare un luogo che è lo specchio di una società malata e priva di ogni senso culturale, lo stesso che promuove abbellimenti ed eleva il buon nome di quegli avversari che furono causa della sua dipartita.

Solo una tutela mirata degli ambiti violentati, ormai da molti decenni, potrà restituire senso storico, ma ciò va fatto affidandosi a chi si adopera per restituire la continuità storica più aderente alla realtà, solo così il piccolo borgo avrà modo di acquisire quella veste idonea per accogliere le resta dell’illustre letterato.

La storia non si fa con gli episodi, non si fa con le favole, non si fa con i venti nuovi, non si fa con i discorsi nuovi; il vento come la storia arbëreshë è una sola e non servono personalismi locali a divulgarla, ma occorre impegno, dedizione, professionalità, serietà morale e culturale, quella che manca da oltre due secoli ed è stata in grado di rendere la capitale d’arberia ad un ammasso di episodi senza ne testa e ne coda, allo stesso modo delle province turche da cui sfuggimmo cinque secoli orsono.

Una è la madre E non va mai confusa con altra cosa! Essa va rispettata sempre nel bene e nel male, tuttavia, quand’anche la disperazione l’allontanasse dai suoi doveri, non dobbiamo avere dubbi sulla sua integrità di madre, in quanto i punti di vista dell’inesperienza modificano le immagini che percepiamo, specialmente se alimentate dalla luce del denaro e di tutte le belle cose materiali che ci sono offerte con lo scopo di distrarci persino dal malaffare paterno; un giorno capiremo, ma sarà troppo tardi!

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