NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una goccia d’acqua e un granello di sabbia, da soli, sembrano fragili e insignificanti, passano inosservati, ignorati da chi guarda il mondo solo in grande.
Ma quando si chiamano fratelli e sorelle, quando si uniscono, la loro forza si moltiplica, diventano fiume, diventano massa e, trasformano il paesaggio.
Alluvioni e frane non nascono dalla potenza di un singolo elemento, ma dall’unione silenziosa di molti, è per questo che il terreno cambia forma, la terra si piega, il segno rimane inciso nella memoria collettiva dell’uomo.
Eppure, quando il danno o la trasformazione è grande, nessuno guarda a quella goccia o a quel granello e, tutti puntano il dito altrove, nessuno riconosce o avverte la potenza che nasce dalle piccole cose quando si uniscono.
Così è anche per gli arbëreşë, ognuno nella propria individualità, è una goccia, un granello, portatore di storia, cultura e memoria antica.
Ma quando ci si isola, si brilla per un attimo come una stella solitaria e poi si svanisce nel buio, nulla muta, ma quando si sceglie di unirsi, di parlare con una sola voce o, confrontarsi per unire allora si diventa forza viva, fiume che avanza, radice che resiste, cresce e fiorisce.
Il futuro non appartiene a chi si disperde, ma a chi costruisce insieme e, solo uniti, gli arbëreşe potranno lasciare un segno profondo nella storia, non come un ricordo sbiadito, ma come una costellazione che illumina il cielo.
Eppure, quando il danno è fatto e la trasformazione è troppo grande per essere ignorata, nessuno ricorda la goccia o il granello, perché troppo piccoli per essere riconosciuti, troppo simili a tutto il resto per essere individuati, si confondono, si camuffano, scompaiono nell’insieme.
E così, la loro forza rimane invisibile, anche se il segno che hanno lasciato è indelebile, come la memoria collettiva non si costruisce con l’eco isolata di una sola voce, ma con il coro compatto di un popolo che sa chi è e dove vuole andare e, solo così, nessuno potrà più ignorare la loro presenza.
Era il 2016 quando intrapresi un viaggio che non era soltanto geografico, ma interiore, ero alla ricerca di nuovi, frammenti di identità, segni che potessero illuminare il cammino della mia ricerca sullo sviluppo e sui processi identitari, così arrivai in un piccolo Katundë, dove il tempo sembrava aver lasciato intatte le sue orme.
Un ricercatore locale mi accompagnava tra le stradine strette e le pietre consumate di quel centro antico, dove i muri parlavano, in silenzio raccontavano di esodi lontani, di lingue conservate con tenacia, di un’identità che aveva resistito al vento dei secoli.
Mentre camminavamo, lui si fermò di colpo, mi guardò con uno sguardo attento, quasi stupito, e mi chiese a quale famiglia del paese appartenessi.
Rimasi perplesso, perché non avevo radici locali, eppure il suono delle mie parole, il ritmo della mia voce, le mie richieste toponomastiche e la direzione che prendevo prima che lui riferiva, avevano risvegliato in lui qualcosa di familiare.
Gli spiegai che parlavo quel luogo e dei suoi toponimi, per via delle mie ricerche, che ricordavo e portavo con rispetto nel mio modo di fare, come si porta un’eredità preziosa scritta nel sangue che riconoscevo in qui vichi e quelle soglie di casa.
Lui sorrise, ma non era un sorriso comune, era il sorriso di chi riconosce un legame invisibile antico di un suo pari che veniva da lontano e trascinava con sé un’alluvione di sapere antico.
Mosso da quell’incontro, volle che parlassi con altri ricercatori locali, con coloro che avrebbero potuto comprendere la portata di ciò che stava accadendo, non un semplice incontro, ma una possibilità di rinascita culturale.
Ma quando si rivolse a loro, trovò diffidenza, indifferenza e l’ospite veniva percepito non come dono, ma come disturbo, almeno per chi concepiva quei luoghi solitari e non una goccia, un granello simile ad altri sparsi in tutta la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.
Alla fine, dovetti partire e, lui restò lì, fermo davanti alle case antiche e, nei suoi occhi vidi una delusione che non era rivolta a me, ma ai suoi stessi compaesani che non avevano colto la scintilla che poteva riaccendere un fuoco antico.
Quel giorno compresi una verità profonda, l’identità non si conserva solo nei libri o nei riti, ma negli incontri che sanno riconoscerla.
E quando manca l’ascolto, anche le lingue più antiche rischiano di restare sospese nell’aria, come echi che attendono orecchie pronte a raccoglierli.
C’è un momento nella storia in cui le decisioni tecniche e i protocolli diventano più che semplici atti amministrativi, diventano scelte che incidono nella carne viva di un popolo.
Dal 2014 le autorità di esercito civile ha smesso di adottare il protocollo “New Town”, quello stesso strumento che aveva spesso significato sradicamento, spostamento forzato, cancellazione di memorie collettive.
In quegli anni mi trovai a Roma a discutere la sorte di un Katundë, un luogo coinvolto in un piccolo cedimento non naturale, ma comunque residenza viva e colma di memoria, intreccio di storie e identità, minacciato da un trasferimento verso un “nuovo paese moderno”, pensato per efficienza e sicurezza, ma privo di anima.
La popolazione rifiutò di spostarsi e, sentiva, con un istinto che viene da secoli, che non si può trapiantare una radice viva senza farle perdere linfa.
Fu allora che cercarono nella mia ricerca e nella mia voce i motivi profondi di quel rifiuto, non avevo portato cifre né piani tecnici, ma avevo semplicemente raccontato il patire storico degli arbëreşë, popolo abituato a resistere, a portare avanti la propria identità anche quando tutto intorno spingeva all’assimilazione o alla fuga.
Alla fine, quel protocollo di sradicamento non venne adottato, non fu un trionfo personale, ma la conferma che la memoria, quando è viva, può ancora piegare la rigidità delle strutture.
Perché chi non lo sa dovrebbe impararlo, una sola goccia, ripetuta con costanza, può scavare la pietra più dura e, un granello di verità, piccolo ma tenace, può essere più forte di una corazzata in cemento armato. La memoria non ha tempo, attende, scava, resiste, quando trova ascolto, trasforma anche i protocolli istituzionali che da allora non sono più stati applicati.
Passarono anni, anni silenziosi, nei quali la mia ricerca sul Katundë non era stata dimenticata, ma conservata come un seme sotto la terra.
Poi, un giorno, fui rintracciato da chi, in quel tempo, governava agli inizi del secondo decennio di questo secolo e, cercava risposte, voleva sapere dove avessi studiato quel “protocollo” che non si legge nei manuali, ma che insegna a vivere e fare un Katundë, non un progetto urbanistico, ma una visione del mondo.
Mi ascoltò con rispetto, ma nelle sue domande avvertii la distanza tra chi studia per potere e chi impara per appartenenza e, allora risposi con semplicità, ma anche con fermezza: Solo chi nasce ascoltando l’arbëreşe può comprendere davvero ciò che dico.
Perché questa conoscenza non è scritta nei libri, ma custodita nella voce delle madri, nei canti, nelle veglie, nei silenzi delle pietre antiche.
Non era superbia, era consapevolezza e, non si può insegnare un’anima a chi non è disposto ad ascoltarla. Così lasciai quel personaggio illustre alle sue carte e ai suoi progetti, tornai a casa, tra i miei, là dove la lingua non si traduce ma si respira, si parla.
Perché Katundë non fonda, si vive e, chi non lo sente, non potrà mai costruirlo ed è inutile cercarlo nelle vetrine di un museo, nelle narrazioni imbalsamate nelle cerimonie di vestizione, nei gesti delle mani di estranei che impastano prodotti per compiacere chi guarda da fuori.
Non è la somma di spettacoli turistici né il racconto di chi parla senza rispetto, senza garbo, senza ascolto, perché un Katundë è un corpo vivo è una frana gigantesca, costruita nel tempo da innumerevoli gocce di lacrime.
Gocce che hanno salato la terra, scolpito la memoria e dato forma a un’identità che nessuno ha mai davvero contato, raccolto o conservato.
Quelle lacrime non sono solo dolore, ma la materia stessa della resistenza e, ogni caduta, ogni rinuncia, ogni sradicamento mancato o imposto ha lasciato un segno, ha aggiunto un granello a quella frana silenziosa che regge l’anima arbëreşe.
E finché nessuno avrà il coraggio di chinarsi per raccogliere quelle lacrime, per custodirle e non per esporle, il Katundë resterà frainteso, scambiato per folclore, quando invece è storia viva, perché non è un racconto da osservare, è un luogo da vivere e ascoltare in arbëreşë.
Atanasio Pizzi Architetto Napoli 2025-10-10