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LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

LA FORZA DI UN GRANELLO DI SABBIA E DI UNA GOCCIA D’ACQUA ARBËREŞE (gnë pik uj e gnë drish arbëreşe janë thë made si ghënësà)

Posted on 12 ottobre 2025 by admin

greciNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una goccia d’acqua e un granello di sabbia, da soli, sembrano fragili e insignificanti, passano inosservati, ignorati da chi guarda il mondo solo in grande.

Ma quando si chiamano fratelli e sorelle, quando si uniscono, la loro forza si moltiplica, diventano fiume, diventano massa e, trasformano il paesaggio.

Alluvioni e frane non nascono dalla potenza di un singolo elemento, ma dall’unione silenziosa di molti, è per questo che il terreno cambia forma, la terra si piega, il segno rimane inciso nella memoria collettiva dell’uomo.

Eppure, quando il danno o la trasformazione è grande, nessuno guarda a quella goccia o a quel granello e, tutti puntano il dito altrove, nessuno riconosce o avverte la potenza che nasce dalle piccole cose quando si uniscono.

Così è anche per gli arbëreşë, ognuno nella propria individualità, è una goccia, un granello, portatore di storia, cultura e memoria antica.

Ma quando ci si isola, si brilla per un attimo come una stella solitaria e poi si svanisce nel buio, nulla muta, ma quando si sceglie di unirsi, di parlare con una sola voce o, confrontarsi per unire allora si diventa forza viva, fiume che avanza, radice che resiste, cresce e fiorisce.

Il futuro non appartiene a chi si disperde, ma a chi costruisce insieme e, solo uniti, gli arbëreşe potranno lasciare un segno profondo nella storia, non come un ricordo sbiadito, ma come una costellazione che illumina il cielo.

Eppure, quando il danno è fatto e la trasformazione è troppo grande per essere ignorata, nessuno ricorda la goccia o il granello, perché troppo piccoli per essere riconosciuti, troppo simili a tutto il resto per essere individuati, si confondono, si camuffano, scompaiono nell’insieme.

E così, la loro forza rimane invisibile, anche se il segno che hanno lasciato è indelebile, come la memoria collettiva non si costruisce con l’eco isolata di una sola voce, ma con il coro compatto di un popolo che sa chi è e dove vuole andare e, solo così, nessuno potrà più ignorare la loro presenza.

Era il 2016 quando intrapresi un viaggio che non era soltanto geografico, ma interiore, ero alla ricerca di nuovi, frammenti di identità, segni che potessero illuminare il cammino della mia ricerca sullo sviluppo e sui processi identitari, così arrivai in un piccolo Katundë, dove il tempo sembrava aver lasciato intatte le sue orme.

Un ricercatore locale mi accompagnava tra le stradine strette e le pietre consumate di quel centro antico, dove i muri parlavano, in silenzio raccontavano di esodi lontani, di lingue conservate con tenacia, di un’identità che aveva resistito al vento dei secoli.

Mentre camminavamo, lui si fermò di colpo, mi guardò con uno sguardo attento, quasi stupito, e mi chiese a quale famiglia del paese appartenessi.

Rimasi perplesso, perché non avevo radici locali, eppure il suono delle mie parole, il ritmo della mia voce, le mie richieste toponomastiche e la direzione che prendevo prima che lui riferiva, avevano risvegliato in lui qualcosa di familiare.

Gli spiegai che parlavo quel luogo e dei suoi toponimi, per via delle mie ricerche, che ricordavo e portavo con rispetto nel mio modo di fare, come si porta un’eredità preziosa scritta nel sangue che riconoscevo in qui vichi e quelle soglie di casa.

Lui sorrise, ma non era un sorriso comune, era il sorriso di chi riconosce un legame invisibile antico di un suo pari che veniva da lontano e trascinava con sé un’alluvione di sapere antico.

Mosso da quell’incontro, volle che parlassi con altri ricercatori locali, con coloro che avrebbero potuto comprendere la portata di ciò che stava accadendo, non un semplice incontro, ma una possibilità di rinascita culturale.

Ma quando si rivolse a loro, trovò diffidenza, indifferenza e l’ospite veniva percepito non come dono, ma come disturbo, almeno per chi concepiva quei luoghi solitari e non una goccia, un granello simile ad altri sparsi in tutta la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

Alla fine, dovetti partire e, lui restò lì, fermo davanti alle case antiche e, nei suoi occhi vidi una delusione che non era rivolta a me, ma ai suoi stessi compaesani che non avevano colto la scintilla che poteva riaccendere un fuoco antico.

Quel giorno compresi una verità profonda, l’identità non si conserva solo nei libri o nei riti, ma negli incontri che sanno riconoscerla.

E quando manca l’ascolto, anche le lingue più antiche rischiano di restare sospese nell’aria, come echi che attendono orecchie pronte a raccoglierli.

C’è un momento nella storia in cui le decisioni tecniche e i protocolli diventano più che semplici atti amministrativi, diventano scelte che incidono nella carne viva di un popolo.

Dal 2014 le autorità di esercito civile ha smesso di adottare il protocollo “New Town”, quello stesso strumento che aveva spesso significato sradicamento, spostamento forzato, cancellazione di memorie collettive.

In quegli anni mi trovai a Roma a discutere la sorte di un Katundë, un luogo coinvolto in un piccolo cedimento non naturale, ma comunque residenza viva e colma di memoria, intreccio di storie e identità, minacciato da un trasferimento verso un “nuovo paese moderno”, pensato per efficienza e sicurezza, ma privo di anima.

La popolazione rifiutò di spostarsi e, sentiva, con un istinto che viene da secoli, che non si può trapiantare una radice viva senza farle perdere linfa.

Fu allora che cercarono nella mia ricerca e nella mia voce i motivi profondi di quel rifiuto, non avevo portato cifre né piani tecnici, ma avevo semplicemente raccontato il patire storico degli arbëreşë, popolo abituato a resistere, a portare avanti la propria identità anche quando tutto intorno spingeva all’assimilazione o alla fuga.

Alla fine, quel protocollo di sradicamento non venne adottato, non fu un trionfo personale, ma la conferma che la memoria, quando è viva, può ancora piegare la rigidità delle strutture.

Perché chi non lo sa dovrebbe impararlo, una sola goccia, ripetuta con costanza, può scavare la pietra più dura e, un granello di verità, piccolo ma tenace, può essere più forte di una corazzata in cemento armato. La memoria non ha tempo, attende, scava, resiste, quando trova ascolto, trasforma anche i protocolli istituzionali che da allora non sono più stati applicati.

Passarono anni, anni silenziosi, nei quali la mia ricerca sul Katundë non era stata dimenticata, ma conservata come un seme sotto la terra.

Poi, un giorno, fui rintracciato da chi, in quel tempo, governava agli inizi del secondo decennio di questo secolo e, cercava risposte, voleva sapere dove avessi studiato quel “protocollo” che non si legge nei manuali, ma che insegna a vivere e fare un Katundë, non un progetto urbanistico, ma una visione del mondo.

Mi ascoltò con rispetto, ma nelle sue domande avvertii la distanza tra chi studia per potere e chi impara per appartenenza e, allora risposi con semplicità, ma anche con fermezza: Solo chi nasce ascoltando l’arbëreşe   può comprendere davvero ciò che dico.

Perché questa conoscenza non è scritta nei libri, ma custodita nella voce delle madri, nei canti, nelle veglie, nei silenzi delle pietre antiche.

Non era superbia, era consapevolezza e, non si può insegnare un’anima a chi non è disposto ad ascoltarla. Così lasciai quel personaggio illustre alle sue carte e ai suoi progetti, tornai a casa, tra i miei, là dove la lingua non si traduce ma si respira, si parla.

Perché Katundë non fonda, si vive e, chi non lo sente, non potrà mai costruirlo ed è inutile cercarlo nelle vetrine di un museo, nelle narrazioni imbalsamate nelle cerimonie di vestizione, nei gesti delle mani di estranei che impastano prodotti per compiacere chi guarda da fuori.

Non è la somma di spettacoli turistici né il racconto di chi parla senza rispetto, senza garbo, senza ascolto, perché un Katundë è un corpo vivo è una frana gigantesca, costruita nel tempo da innumerevoli gocce di lacrime.

Gocce che hanno salato la terra, scolpito la memoria e dato forma a un’identità che nessuno ha mai davvero contato, raccolto o conservato.

Quelle lacrime non sono solo dolore, ma la materia stessa della resistenza e, ogni caduta, ogni rinuncia, ogni sradicamento mancato o imposto ha lasciato un segno, ha aggiunto un granello a quella frana silenziosa che regge l’anima arbëreşe.

E finché nessuno avrà il coraggio di chinarsi per raccogliere quelle lacrime, per custodirle e non per esporle, il Katundë resterà frainteso, scambiato per folclore, quando invece è storia viva, perché non è un racconto da osservare, è un luogo da vivere e ascoltare in arbëreşë.

Atanasio Pizzi Architetto                                                                                                    Napoli 2025-10-10

 

 

 

 

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LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

LA GIOCONDA ARBËREŞË MANI TESSE CON LE TESTE DI MARITO E MOGLIE

Posted on 08 ottobre 2025 by admin

asaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Una donna arbëreşë si dispone come la Gioconda, con un sorriso appena accennato che trattiene memorie lontane.

I suoi occhi, azzurri e profondi, riflettono il mare Adriatico come uno specchio silenzioso e, in quello sguardo scorrono barche leggere, spinte da braccia operose che cercano una riva accogliente, una terra buona dove il vento non porti più solo nostalgia ma nuove promesse di vita.

Il volto fiero e, segnato da rughe storiche, come la terra che conosce i semi e sa come allevarli, con le mani o gesto iconico, tenendo i palmi, batte l’eco della lingua antica, dell’esilio e della speranza.

Dietro di lei, non colline toscane, ma i suoi occhi azzurri allargano la prospettiva delle onde l’Adriatico, che non è mai stato dimenticato.

Le sue mani non segnano confini ma sono pronte per fare abbracci, o meglio un infinito abbraccio del lato occidentale, quello che accolse, che ascoltò, che custodì, come fa il mare buono che sa cullare le partenze e onorare i ritorni immaginati.

All’orizzonte, la costa si dissolve nella luce e, a est, non c’è chiarezza ma lascia intendere una situazione naturale frastagliato, frammentata, in tutto un est che ad oggi rimane confuso, come un sogno in bilico tra ciò che fu e ciò che non è più.

Ma l’ovest, della prospettiva della nostra madre Gioconda, tutto appare tenerezza, con le colline che si chinano, ulivi che offrono ombra, mani che accolgono altre mani, ed è lì che il popolo arbëreşë trova riparo.

È lì che con le sue vesti di regina della casa rivive, ogni volta che viene nominata, cantata, dipinta e, nel suo sguardo non c’è solo nostalgia, ma resistenza silenziosa.

L’identità non si grida, si porta, come una veste ricamata a mano, come una lingua parlata sottovoce ai figli, come un nome che torna nei canti.

Non ha bisogno di essere riconosciuta per esistere, perché la sua verità è nel gesto semplice del cuore, le dita non formano simboli, ma ascoltano il battito, un battito che non appartiene solo a lei, ma a chiunque sappia ancora sentire il mare anche quando non si vede.

C’è un’immagine che nessun libro di storia riporta, eppure vive incisa nella memoria di chi, senza bandiere né riconoscimenti, ha custodito la verità più profonda degli Arbëreşë.

Non è un dipinto né una fotografia, ma una visione scolpita dal lavoro, dalla resistenza quotidiana, dal silenzio che non cerca gloria ma fa e unisce Gjitonia.

Le vicende degli Arbëreshë non sono state sostenute da alcuna aquila, né quella della patria perduta, né quella delle istituzioni moderne.

Nessuna protezione simbolica, nessun volo alto a garantire giustizia o memoria, perché la loro storia non è stata sorretta da emblemi, ma da fatica, dedizione e coscienza, in tutto da due teste vive, pensanti, operanti che hanno generato presenza senza pretendere di diventare icona.

Non emblema, ma origine, non immagine da esibire, ma sostanza da coltivare, ovvero quella realtà o, quella degli Arbëreşë autentica, mai vissuta come si racconta oggi nei circuiti ufficiali, e mai la natura, così com’è, imprevedibile e libera, potrà renderla possibile se continua a essere forzata dentro rappresentazioni false come una aquila a due teste, che non gi guadano per intendersi.

Tutto ciò che è stato costruito attorno all’identità arbëreshe negli ultimi tempi non nasce dal popolo, non da un potere occulto che non conosce la fatica.

Un potere che, invece di sostenere chi crea, chi lavora, chi custodisce, immagina e, impone visione conforme ai suoi interessi.

Un potere che ha fabbricato immagini vuote, cerimonie senza anima, simboli che parlano di una realtà che non è mai esistita, e mai potrà esistere.

E allora, nell’aria, non si innalza una rabbia sterile, ma una coscienza lucida, non come dottrina chiusa, ma come memoria viva,

Come rifiuto dell’occultamento, affermazione di chi ha tenuto acceso il fuoco mentre gli altri si limitavano a guardare le ceneri sollevate dal vento.

Infatti l’immagine che conta, l’unica che conta davvero, non è fatta per essere stampata nei manuali o celebrata nei congressi, ma vive fuori dalla storia scritta, fuori dai discorsi ufficiali, vive nel canto sussurrato in una casa isolata, nella lingua trasmessa senza scena, nel gesto ripetuto da chi non ha mai smesso di essere.

Vive nelle due teste che, da sempre, portano il peso e la forza della continuità, senza aquila, senza protezione, senza privilegio, ma con la potenza di ciò che non può essere cancellato, ovvero il senso della famiglia.

La Gioconda, con il suo volto sereno ma determinato, potrebbe rappresentare l’emblema delle madri arbëreshe, donne laboriose, silenziose ma centrali nella costruzione della famiglia e della comunità e, crea ambiguità come lo stemma dell’aquila bicipite, simbolo storico ereditato dall’Impero Bizantino e poi adottato dagli Albanesi e dalle comunità arbëreshe.

Quest’aquila, con due teste che guardano in direzioni opposte, è spesso letta come segno di forza e vigilanza, un corpo unico che sorveglia due mondi.

Ma questa immagine può anche essere riletta in chiave più intima e familiare, con le due teste che rappresentare i due genitori, la madre e il padre, che pur condividendo un unico corpo (la famiglia), si guardano sempre e direttamente negli occhi.

creando un equilibrio delicato e, ognuno guarda verso il futuro, il lavoro, il dovere riflesso negli occhi dell’altro/a.

Ma la vera forza di una famiglia, specie in una cultura come quella arbëreshe, dove la trasmissione orale è fondamentale, non sta solo nello stare fianco a fianco, ma nel sapersi guardare negli occhi anche senza parole, nel comprendersi profondamente per costruire insieme.

E quando entrambi “aprono la prospettiva”, voltano inevitabilmente le spalle alla prospettiva che coglie il compagno, la compagna un simbolo, un invito a ritrovare l’intesa per progredire come famiglia e comunità.

L’aquila bicipite è da secoli emblema delle genti arbëreshe, nata dal grembo della storia bizantina, adottata dal popolo diasporico e portata oltre il mare, essa è rimasta impressa sugli stendardi, nei canti e negli occhi di chi ha lasciato la propria terra per salvarne la memoria e, le sue due teste, rivolte in direzioni opposte, sorvegliano mondi lontani che comunque l’altro non sa, ascolta o immagina.

In quella postura fiera, tuttavia, si nasconde una ambiguità sottile e, le due teste non si guardano mai. Ognuna custodisce il proprio orizzonte, il proprio compito, la propria fatica.

Così, come non è uso nelle famiglie arbereshe, madre e padre che non camminano insieme non si incrociano nello sguardo e non costruiscono futuro.

Vivono nello stesso corpo simbolico ma orientati a sopravvivere, più che a costruire e forse potrebbe essere la storia si oggi che non ci appartiene in nulla.

Questa aquila che non si guarda porta addosso la lettera scarlatta: un marchio invisibile, un segno di incompletezza culturale.

Non è vergogna, ma memoria di una parola non ancora detta, di un’identità sospesa, in tutto è la lettera che brucia ma non parla, che pesa ma non costruisce, una lingua lasciata a metà, la tradizione che si tramanda ma non si rinnova, la famiglia che resiste ma non dialoga.

Eppure, nell’immaginario che appartiene ai sognatori e agli eredi di una storia viva, esiste anche un’altra aquila.
Una doppia testa che si guarda negli occhi, non per sorvegliarsi, ma per riconoscersi, diventando l’emblema di chi, pur restando custode della propria eredità, sceglie di confrontarsi con l’altro, con il compagno, la compagna, la comunità.

In quello sguardo reciproco si accende un nuovo alfabeto, un linguaggio condiviso e, questa seconda aquila porta non una cicatrice, ma una Z, l’ultima lettera dell’alfabeto.

Non perché rappresenti una fine, ma perché completa ciò che mancava, rappresenta la chiusura di un cerchio, il tassello che rende intera l’identità arbëreshe, ancora oggi in cerca della sua piena forma scritta, della sua voce autonoma.

Tra la lettera scarlatta e la Z si muove la storia di un popolo, non solo di bandiere e di lingue, ma di famiglie, di donne e uomini che hanno imparato a guardare lontano.

Forse il futuro della cultura arbëreshe non è né solo nel passato né solo nel domani, ma in quello sguardo reciproco, tra due teste che finalmente si guardano e scelgono di parlare la stessa lingua e camminare insieme come fecero Janarj e Adùlina.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-10-08

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FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

FLOTTILLA ARBËREŞË AVVENTUROSA Bënë flottillja me ùshùlë thë kukje

Posted on 03 ottobre 2025 by admin

Storie apparecchiate

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della minoranza Arbëreshë è intrisa di rappresentazioni in forma di resistenza culturale.

E qui, prima che altrove, molti sono intervenuti a costituire una “flottiglia di aiuto e soccorso”, in ogni epoca, le stive delle barche erano colme di lettere scarlatte, dalla A fino alla V, sempre con la Z mancante. Così organizzati, valicavano mari in tempesta, ostinandosi a fornire un’identità che ciclicamente riappariva nelle cronache, spacciata come essenziale per evitarne l’estinzione.

Tante flottiglie, guidate da corsari irremovibili, allora come oggi, issano ancora le antiche vele ormai tutte rattoppate. La bussola? Un pennino issato in un calamaio, immaginando che il mare sia un foglio su cui scrivere il parlato, quando fa tempesta.

A bordo si portano aiuti alfabetari, polverosi, nel tentativo di salvare i bambini in crescita con grammatiche prive di parlato e di ascolto.

Gli ufficiali di bordo erano tutti autoeletti, in nome di una scrittografie a dir poco fumosa, antica di millenni ma sempre tardiva, e per questo inevitabilmente affumicata.

Intanto, le menti più lucide e raffinate venivano lasciate a terra, perché il loro mondo non era fatto di scrittura, ma di pensiero e arte.

Nel frattempo, gli eletti della flottiglia si convincevano sempre più che la salvezza risiedesse nel ritorno dalle terre oltre l’Adriatico, armati di penna, calamaio e qualche verbo coniugato, per consolidare la storia e la cultura di questo popolo diasporico.

Credevano bastasse issare la bandiera della lingua moderna, dell’etimologia, del costume riproposto nelle feste comandate a modo di svilimento, per vincere una guerra culturale.

Ignoravano, però, che si combatteva su mari ben più vasti, non alla portata del loro pensiero monotematico.

Nel frattempo, fuori da quella flottiglia così convinta di sé, sulle colline o nei pressi del mare, lontano da quelle coste, nomi, memorie e accenti degli Arbëreshë, senza penna né calamaio, noti sui palchi dell’eccellenza mondiale, venivano dimenticati o ritenuti non rappresentativi della memoria.

La cultura non ha mai accolto il loro parlato, in senso metaforico o letterale, perché le loro storie e i loro silenzi carichi di significato non rientravano nei dizionari, né nei piani editoriali, televisivi o dello scarlatto immaginario fotografico.

Vivevano invece nella quotidianità, là dove si cercava un ponte solido verso il futuro, senza conoscere le regole della scienza esatta, del vernacolare sociale o dell’editoria.

E così, mentre pochi navigavano verso porti che nessuno conosceva, interi Katundë erano invasi, non da eserciti nemici, ma da un’apatia culturale silenziosa, che trasformava ogni casa in una zattera alla deriva. Non c’erano più timonieri, e la rotta si perdeva ogni giorno un poco di più e, chi aveva fame di identità, si trovava a elemosinare briciole dai tavoli degli Albanisti, dove la lingua arbëreşe, non è considerata più strumento vivo da indagare con cautela e rispetto.

Dove tutto si riduce nell’innalzare dialetti in forma di “come da noi”, tutto intorno si spegnevano gli entusiasmi, le pratiche sociali, le relazioni di credenza, il senso profondo di essere una comunità indivisibile.

Il paradosso era evidente, anzi palese, visto lo stato delle cose e dei fatti e, mentre tanti parlavano di salvezza, solo l’olivetano erano in soccorso dei bambini arbëreşe che naufragavano in tanti.

E forse è proprio qui che la flottiglia ha sbagliato mira, rotta e luogo per esaltarsi o meglio, nel voler guidare dall’alto il solo parlato, dimenticando che una cultura si tiene a galla solo se tutti remano insieme, anche quelli senza voce e salvagente, perché tramandare storie che galleggiano attraverso gli occhi, le mani, il cuore e il genio di luogo è un componimento che sfida il tempo.

Immaginare che una flottiglia di barchette, traballanti e senza rotta specifica, potesse incidere davvero su una regione storica, solida come una corazzata è, forse uno degli atti di presunzione più penosi che la mente umana potesse invaginare una sposa in costume partorire il figlio scrittore sulla cattedra.

La cultura arbëreşë quella autentica, sedimentata nei secoli, scolpita nella carne delle montagne, nel ritmo dei canti e nel silenzio delle madri, è una corazzata sopravvissuta a tempeste, invasioni, esodi, e oblii.

Né il tempo né la dimenticanza sono riusciti a scalfirla mai, tuttavia, in modo assurdo, è stata apparecchiata questa stessa flottiglia fragile, bisognosa di salvataggi improvvisati, come se la sua storia potesse essere raddrizzata da chi arriva tardi e senza orientamento di ascolto.

Queste barchette, spesso costruite con legno riciclato, gonfiato di ego e, titoli fragili, terminando così con il remare non contro la corrente dell’oblio, ma a favore dell’invasore culturale.

Forse non per scelta, forse per ignoranza, forse per l’irrefrenabile desiderio di apparire, comunque si sono travestiti da salvatori, mentre gettavano ancora più sale sulle ferite profonde dei naufraghi arbëreşë.

Hanno preferito così i riflettori della diffusione di massa, le interviste dei viandanti, gli esodi dai Katundë, le pubblicazioni prive di presenza, o di quanti partiti elogiano il proprio titolo e, quelli dove ancora si prega, senza distinguere con quale devozione e orientamento, si crede sia farina più solida della crusca.

Invece di rafforzare la corazzata del grano, hanno puntato i cannoni verso l’interno, convinti che la soluzione fosse il restante, mentre chi era partito per tornare e dare agio al costruito del bisogno, da decenni gli viene negato ogni tipo di natante per tornare.

Hanno finito per aiutare l’invasore, senza neanche rendersene conto, che accoglievano i linguaggi imposti, le estetiche vuote, le retoriche di salvaguardia che non salvano niente e nessuno.

Hanno copiato le effigi della madonna della Romana Pompei, portandola in processione tra le vie storiche Alessandrine.

Allestito immagini storiche con vestizioni moderne, le stesse che non lasciano parole a quanti conoscono il senso della vestizione di ragazza, Donna Sposa, Madre, Regina della casa e del fuoco, Vedova Incerta e Vedova Oculare.

E chi oggi di tutte queste regole tramandate oralmente chine ha fatto le spese? È sempre gli arbëreşë, in tutto, la memoria dei nostri padri e le nostre madri che oggi sono senza voce e, tutti coloro che parlano ancora una lingua senza riconoscimento, ma piena di senso.

Quelli che vivono la cultura, non la spettacolarizzano, quelli che sanno cosa si perde, ma non hanno microfoni per gridarlo, perché studiano discipline dove il parlato serve ad ascoltarla e progettare cosa fare.

Così, la flottiglia ha sbagliato mira, sparando e colpito chi dovevano difendere, aprendo falle e, mentre la corazzata ancora resiste, più sola e affaticata, le barchette si vantano delle loro imprese, senza capire di essere diventate parte del problema, e non della soluzione.

La flottilla, se davvero avesse voluto portare aiuto e, speranza agli Arbëreşë, non avrebbe mai dovuto puntare ad est dell’Adriatico per cercare gloria.

Non era là che si trovava il cuore pulsante della nostra cultura, non là, tra i sogni di ritorni impossibili o nelle nostalgie folkloristiche di un passato ormai ricordo.

L’aiuto doveva puntare a Napoli, verso quella capitale culturale che, nei secoli, seppe accogliere e valorizzare gli uomini penitenti che venivano dai Balcani, non come reliquie etniche, ma come protagonisti della storia europea.

Fu lì, sotto i cieli del Regno di Napoli, nei luoghi dove le famiglie e altri grandi nomi della storia meridionale, seppero riconoscere il valore degli esuli e, dove la minoranza arbëreşe, divenne corazzata culturale, non per concessione, ma per merito, non per compassione, ma per contributo.

Uomini veri, condottieri culturali, filosofi, religiosi, maestri di scienza esatta, architettura e storia, hanno costruito ponti tra mondi, e inventato giornali, non per oziare o tornare indietro, ma per portare avanti una visione globale del luogo che li aveva accolti.

È in quelle corti, in quei monasteri, in quelle terre contese, tra regni e rivoluzioni che l’identità arbëreşë ha preso forma come esempio vivente di coesistenza e resistenza, capace di dialogare senza dissolversi.

Chi oggi vuole aiutare gli arbëreşe, non deve cercare flottilla in forma di manuali linguistici dimenticati o spettacoli da piazza con costumi imprestati romanzando o rendendo idolo il vivere comune.

Deve invece ripercorrere quella rotta verso Napoli, verso la storia che ha saputo dare dignità, non solo folklore, una storia che ha trasformato una diaspora in cultura, una migrazione in testimonianza, una minoranza in modello.

Perché è da quella esperienza, autonoma ma integrata, antica ma proiettata nel futuro, che l’Europa lacerata di oggi potrebbe imparare e, potrebbe trovare risposte nuove alle sue crisi d’identità, ai suoi conflitti nati dalle attività migratorie.

La corazzata culturale arbëreşe, se ricordata nella sua verità e nella sua interezza, può ancora navigare con orgoglio grazie alle sue vele che seguono il vento.

Non per salvarsi, ma per continuare ad esistere e, solo chi prende il timone consapevole che la rotta non è mai facile, e ogni deriva ideologica raggirata, darà forza per trovare la spiaggia dove innalzare ponti, e non caricare zavorra.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                           Napoli 2025-10-03

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NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

Posted on 01 ottobre 2025 by admin

Patto

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nato all’interno del circoscritto del centro antico, quello stretto tra vicoli come vene vive di un organismo di pietra e, non ha conosciuto l’infanzia altrove oltre i muri a secco a cui il tempo e il sole arbëreşe aveva già tolto il legante.

E il tutto compilava un mondo racchiuso e, nel contempo ricco come un ventre gravido di suoni, odori, racconti, e regole non scritte più antiche delle stesse pietre.

Qui non esistevano ancora televisori in ogni casa, né telefoni, né quell’assordante silenzio moderno fatto di distanze vicine.

Lo stesso ambito dove la voce l’ho forgiata ascoltando solo il parlato e il canto materno, il primo suono, la prima grammatica, la prima preghiera.

Le parole, allora, si imparavano con l’orecchio, non con l’occhio ed erano tramandate, non insegnate come le voci delle madri, delle nonne, delle vicine, tutte diverse, ma solidamente unite da un unico canto.

Cresciuto poi nella parte più moderna, quella degli anni Cinquanta, dove le strade si allargavano e i palazzi si alzavano come sfide al cielo, portando dentro una forza che non veniva dal cemento, ma dal tufo, dai camini di casa, da quella fiamma viva che ardeva giorno e notte senza bisogno di essere guardata, una fiamma alimentata della memoria del radicamento.

Al centro di tutto questo scenario emergeva il valore sociale, Gjitonia, non solo come spazio, ma un’idea, una geometria umana o quadrato senza muri, fatto di usci sempre socchiusi, sedie appoggiate al muro, occhi che ti seguivano senza mai spiarti e, qui si cresceva sotto la sorveglianza collettiva, nella libertà vigilata dell’appartenenza.

Ogni porta era una soglia, ogni cortile una piazza, ogni anziano un archivio vivente, si imparava a stare al mondo osservando, ascoltando, assorbendo.

La regola era semplice, ma inflessibile e, qui non servivano punizioni scritte, bastava uno sguardo o il racconto di una vecchia storia per riportare al centro del dibattito il tuo posto nel mondo.

Non era un Eden, no, era un solido luogo dove si affinavano i cinque sensi e dove erano banditi i più irrilevanti fattori di imperfezione sociale.

Questa è l’energia che ha nutrito ogni bambino, dove l’eco dei canti, il profumo del pane, la cenere calda del camino, sono ciò che ancora oggi avvolge.

Non importa dove vai o, quante città attraversi, quante lingue ascolto, perché dentro di ognuno di noi, cammina sempre quel bambino scalzo sul lastricato caldo e avvolgente di Gjitonia.

C’era, in quel luogo antico e circoscritto, una regola non detta ma sempre rispettata, ovvero il parlare piano.
Non era solo per discrezione o pudore, ma per amore e rispetto dei vicoli, per il suono dell’acqua nei catini, per i sussurri delle donne affacciate, per il vento che portava il profumo della terra umida e dei fichi lasciati ad asciugare al sole.

E io bambino, sempre colmo di entusiasmo, incontenibile come la primavera tra le pietre, venivo educato non con rimbrotti o urla, ma con consigli sussurrati, a bassa voce, come si fa con chi si ama.
“Figlio mio, parla piano…” dicevano, “ché se gridi, penseranno che non sei di qui; ti scambieranno per un bambino d’altrove.”

E io, che a quel luogo sentiva di appartenere con tutto me stesso, con la voce, con i piedi nudi, con il cuore, imparai a parlare piano.

Non era paura, ma esclusivo desiderio di appartenenza e, così crescevo, educato dal vicinato intero, da quella comunità materna che mi osservava crescere con occhi buoni, pronta a correggerlo con tenerezza, mai con durezza.

Ogni donna era una madre o una nonna, ogni uomo uno zio, ogni vecchio un saggio con una storia sulle labbra e, ogni consiglio era carezza.

Quando arrivò il momento di andare a scuola, entrai in un mondo nuovo, qui nessuno parlava piano e la voce era squadrata, sicura.

Il maestro chiedeva e, gli altri bambini rispondevano, ridevano, gridavano, ma io no, preferendo rimanere in silenzio, non per timidezza, non per paura, ma per fedeltà di appartenenza solida misurata con il silenzio estremo.

Nel dubbio che il modo di parlare mi tradisse e, svelasse come “uno di fuori” – paradosso meraviglioso per chi non era mai uscito da quella manciata di strade – preferendo tacere.

E il silenzio era cosi radicato e rispettoso per quel luogo di formazione prima, così tanto, che il maestro si convinse che fossi muto e, nel dubbio anche di più.

Un bambino muto, dicevano, un’anomalia, uno da seguire con attenzione, da interrogare con gesti e occhi larghi, ma io non ero muto perché solidamente radicato.

Avevo dentro di me la voce dei luoghi natii, che non era mai silenziosa ma parlava con misura.
E ogni volta che doveva rispondere, pensava: “Se parlo troppo forte, se parlo come loro… forse non mi riconosceranno più, forse perderò il suono della mia terra.”

E così non imparai neanche a scrivere e quando iniziai a farlo mi dicevano che scrivevo come parlavo e qualche anziano, avvolte, mi invitava a cantare per avere conferma dei miei studi.

Una parola dopo l’altra, con la stessa lentezza con cui da piccolo aveva imparato a parlare piano.
Un nuovo modo per dire chi era, da dove venivo, senza gridarlo e senza perderlo.

Quando ero giovinetto e uscii dalle pieghe della Gjitonia, il mondo mi appariva più semplice, ma non per questo meno duro.

Non capivo ancora tutto, ma sentivo profondamente ciò che era giusto e ciò che non lo era e, ricordo ancora quegli sguardi duri, quei giochi dove vinceva sempre il più forte, e quelle voci, spesso adulte, che senza motivo spingevano a schiacciare, a sopraffare, a dominare l’altro.

Non c’era una vera logica in quel comportamento, ma era solo una spinta velata, che veniva accettata come normale.

Ma io non riuscivo a stare zitto e dentro di me qualcosa si agitava, come un fuoco che non voleva spegnersi e, mentre altri chinavano la testa o ridevano con i prepotenti per sentirsi parte del branco, io restavo in piedi, con lo sguardo fisso.

Non per coraggio, forse, ma per necessità, tuttavia la mia coscienza non mi lasciava tregua, anche se in cuor mio tremavo dentro, sapevo che non potevo ignorare l’ingiustizia.

Fu in quegli anni che iniziai a smuovere le prime barriere, non quelle di pietra o di ferro, ma quelle invisibili, dell’indifferenza, della paura e, della rassegnazione.

Lo facevo con piccoli gesti, una parola, un gesto di azione, uno sguardo solidale e condiviso con chi era lasciato indietro.

A volte bastava poco, e il mondo sembrava cambiare per un attimo, ma non avevo ancora le parole per spiegare tutto questo, ma qualcosa l’avevo già appreso.

L’avevo sentito nei racconti dei miei nonni, nelle storie dette a mezza voce nelle sere d’inverno, quando parlavano di tempi difficili, di divisioni profonde, ma anche di uomini e donne che avevano scelto di unire, invece che dividere.

Dicevano che chi tende la mano costruisce ponti, mentre chi alza muri si chiude da solo in una prigione e, fu così che diffuse in me una convinzione semplice ma potente, ovvero: unire è meglio che separare.

Non era solo un pensiero, ma una guida e, ogni volta che il dubbio mi sfiorava, che la rabbia o la stanchezza minacciavano di farmi cedere, prendevo una strada diversa, quella che mi portava verso i saggi.

Non sempre erano i più istruiti o i più ascoltati, ma sapevano stare in silenzio, e quel silenzio che insegnava più di mille discorsi.

Mi accoglievano con uno sguardo sereno, e con poche parole mi davano visioni di un mondo diverso, un mondo dove la fratellanza non era un’utopia, ma un orizzonte possibile.

Non c’era pena nei loro occhi, ma compassione, e nessun rancore ed erano lì, pronti, come se mi aspettassero da sempre.

Così, tra l’inquietudine e la ricerca, nacquero i miei primi passi sulla strada del giusto e, non avevo ancora un nome per quello che cercavo, ma sapevo che dovevo cercarlo.

E in quella che oggi si dice che sia la parte alta del Katundë, capii che il vero coraggio non era farsi temere, ma farsi comprendere.

Non era vincere sugli altri, ma vincere su sé stessi, ogni volta che il mondo ci spingeva a scegliere l’indifferenza e, io, giovinetto, scelsi di non voltarmi mai dall’altra parte.

Poi venne un tempo nuovo, dove le regole erano più rigide e la lingua che avevo sempre parlato e, che mi scaldava la bocca e il cuore divenne improvvisamente sbagliata.

Me lo fecero capire presto, anche senza dirmelo direttamente e, bastava uno sguardo, una smorfia, una risatina dietro le spalle quando aprivo bocca.

Parlavo solo in arbëreşë, quello denso di suoni antichi, carico di storie e fatica, di terra e di gente, in fondo era la lingua di mio padre, dei miei nonni, delle canzoni che si cantavano per strada o nei campi, l’eco del mio Katundë, come lo chiamavano i vecchi.

Ma a scuola, no, sin anche quando prendevo la via per raggiungerla si doveva parlava l’italiano che non mi apparteneva.

Era pulito, ordinato, quasi freddo e, non aveva il sapore del pane caldo al mattino, né l’eco delle risate nelle stalle, perché mi rievocava una maschera, che non mi apparteneva.

E così, piano piano, mi allontanai, non dalla scuola, perché ci andavo lo stesso, con rispetto, ma da quelli che cercava di cancellare ciò che ero.

Rimasi fedele al mio parlato, al mio modo di esprimermi, anche se qualcuno se ne vergognava, anche se i miei compagni, quando uscivamo in giro per Cosenza, abbassavano la voce quando mi sentivano parlare e, cercavano di correggermi, o peggio, mi ignorava.

Ma io no, non cambiavo, perché preferivo camminare da solo, piuttosto e, avvolte cantavo canzoni che avevo imparato da bambino, quelle che raccontavano di amori impossibili, di campi arati sotto il sole cocente, di partenze senza ritorno e di speranze appese alle stelle.

Canzoni che avevano parole dure come pietre e dolci come miele, camminavo per le strade della città con la testa alta e la voce bassa, come per non disturbare nessuno, ma anche per non tradire me stesso.

La mia non era ostinazione, ma era solo fedeltà e, il mio parlato non era solo un modo di dire le cose, era il modo in cui vedevo il mondo.

In quelle parole c’erano le mie radici, i miei dolori, i miei affetti, e in quel canto, c’era la mia libertà e, così imparai, senza saperlo, la solitudine dignitosa di chi rifiuta di cancellarsi per piacere agli altri.

Non c’era rabbia in me, solo una dolce resistenza e quando mi chiedevano perché parlavo ancora in quel modo, rispondevo: “io parlo e canto con la lingua che mi ha fatto uomo.”

Conclusa la parentesi cosentina, e dopo una breve esperienza a Reggio Calabria, partii per Napoli, deciso a portare a termine il mio percorso accademico.

Era un momento di passaggio, non solo geografico ma anche intellettuale, attraverso il quale lasciavo temporaneamente la mia terra per una città che, da secoli, rappresenta un centro nevralgico della cultura e della formazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, ciò che mi portavo dentro, più forte ancora della sete di conoscenza, era un’eredità mai del tutto compresa, né da me né, tantomeno, da chi l’aveva studiata sino ad allora, genitrici compresi.

E poco prima della mia partenza, un rappresentativo esponente della comunità arbëreşë, figura di grande esperienza e memoria storica, mi rivolse parole che mi sarebbero rimaste impresse a lungo:
“L’architettura, e in particolare le abitazioni del nostro Katundë, non sono mai state oggetto di studio da parte di alcuno e, se un giorno tornerai come professionista, forse potrai dare inizio a una nuova stagione di studi, mai affrontati fino ad oggi.”

In quel momento quelle parole suonavano come un incoraggiamento, quasi una benedizione, ma col tempo, però, le ho comprese come un vero e proprio passaggio di testimone, in sostanza un patto.

Perché lì, in quell’annotazione apparentemente casuale, si celava un vuoto storiografico, culturale e identitario che nessuno, fino ad allora, aveva considerato o dato peso all’ambiente costruito, le case, le strade, le piazze, i materiali e le tecniche tradizionali, meritassero uno sguardo analitico, scientifico, critico. La cultura arbëreşë sembrava custodire solo i codici rituali, linguistici e religiosi, ma ignorava il corpo fisico dei luoghi in cui questa cultura era vissuta e si era manifestata per secoli.

Durante gli anni napoletani, mentre i miei studi si aprivano verso visioni più ampie dell’architettura e dell’urbanistica, sentivo crescere in me la consapevolezza di un compito affidatomi per ricostruire, capire e salvare e sostenere la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

E così ho fatto, negli anni, raccogliendo materiali, facendo analisi, rilevando edifici, collaborando con eccellenze del misurare per fare restauro, in sostanza le figure più alte che dirigevano la facoltà di Napoli e come loro mi insegnarono.

Mi confrontavo con anziani le vere fonti locali, scattavo fotografie, ricostruivo trame insediative, sovrapponendo cartografie storiche.

Ho cercato, con metodo e con passione, di ridare voce a un patrimonio silente, che attendeva solo di essere ascoltato in arbëreşe.

Ma oggi, paradossalmente, il mio ritorno non è stato accolto e, le mie ricerche, frutto di anni di impegno solitario e di studio rigoroso, non trovano spazio.

In fondo lo capisco pure perché c’è timore, forse anche diffidenza, verso ciò che metto in discussione, come interpretazioni consolidate, narrazioni ufficiali, componimenti storici mai realmente interrogati.

In un certo senso, la mia opera rischia il “disturbare” un equilibrio fondato su omissioni, consuetudini e semplificazioni accademiche.

Eppure, non posso fare altro che continuare e, se la storia arbëreshe vuole sopravvivere come viva, deve accettare di rileggersi, anche nelle sue forme materiali, nei suoi silenzi e nelle sue dimenticanze.

L’architettura non è solo un fatto tecnico o estetico, ma testimonianza, identità, linguaggio e, nessun popolo può dirsi davvero consapevole di sé se ignora i luoghi in cui ha abitato il suo proprio passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-10-01

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SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

SUSSURRI ARBËREŞË ALLA RICERCA DI ASCOLTO gjitonia shëpitë udatë katochjetë e stalljeta druve cu u rjta

Posted on 30 settembre 2025 by admin

Chiesa CodraNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È una pena infinita osservare inesperti ed estranei allo spirito dei luoghi, avanzare con passi pesanti, quasi longobardi, lungo i vicoli di un centro antico arbëreshë.

Calpestano le pietre senza saperle ascoltare, senza avvertire il suono dei secoli che ancora vibra sotto i loro piedi, non conoscono le mani che le hanno posate, non sentono le voci che le hanno attraversate.

Eppure quelle pietre parla ogni curva, ogni intonaco, ogni finestra chiusa da anni e, chi non sa vedere passa oltre.

Sono questi i centri storicamente noti per essere stati piegati dal tempo e, vederli sottoposti ai cadenzati abbagli, che senza rispetto, immaginano sia una piramidale borgata medioevale, non è certo il modo per darli in pasto ai media.

E quanti si inoltrano in un Katundë, senza chiedere o informarsi prima di cosa e come fare, finiscono nel perdersi, calpestare, disorientandosi e terminare fuori dal costruito, perché si crede sia circoscritto da mura, non avendo misura di quanti ideali si elevano nel perimetro più estremo di un Katundë.

Qui pur se all’aria aperta, le case respirare con difficoltà e, le pareti scrostate, restituiscono echi e, le ombre riconoscono i viandanti, ancora prima che decidano di addentrarsi.

Perché i sassi riconoscono ogni suono che fa domanda anomala, ogni angolo diventa frammento di memoria, e l’aria vibra sottile, in lacrimoso patire per il termine che nel breve a venire diverrà realtà.

Si ode un lamento sommesso, in fondo al vico dove vibra una luce fioca, disturbata dai suoni smisurati e, che non appartengono a questo tempo, chi qui si trova a passare violento non ha misura di ascolto per questo animo arbëreshë.

Si passa sotto un arco, vicino a una crepa e una soglia di casa, da tempo remoto immutata e, a breve niente sarà più come prima anche, se la memoria delle voci riecheggiano il volto di quanti qui hanno vissuto per far crescere sani generi senza preferenze; chi sa ascoltare e vedere intravede anche i segni delle lacrime e il sudore quando tutti videro partire i figli capaci.

Tornare, come promesso, per raccontare cosa è stato, diventa un atto di rispetto verso questi luoghi che da troppo tempo, nessuno ascolta perché lasciati nella disponibilità degli “ischi imbibiti di gocce in minzione”.

Qui nessuno riconosce più le fondazioni, nessuno sa come valutare lo spessore e la qualità dei muri, come neanche gli spessori sovrapposti di calce per il tempo lungo e la fumigine di quello corto sulle pareti depositatesi non per capriccio ma per segnare il tempo impaziente della modernità.

È come se qui il tempo avesse smesso di contare, come se il progresso si fosse arreso davanti alla nuda e dura pietra, della polvere, delle assi inchiodate dei solai in silenzio e, tutti non chiede nulla se non di essere riconosciuto e rispettati per il lavoro fatto.

Camminare tra i vicoli del centro antico è come infilarsi in una cicatrice ancora calda e, ogni angolo conserva memoria di sangue vivo, in ogni muro dove l’eco di un nome, di una voce, di un passo che non tornerà qui ancora tutto è in grado di ricordare.

Tra questi vicoli, la presenza di un figlio buono è sempre viva, non è nostalgia, non è malinconia, ma qualcosa di più sottile e radicato, secondo un legame tra ciò che è stato e ciò che potrebbe ancora essere e, solo chi torna se accolto con giudizio e rispetto, avrà modo di ascoltare e tradurre questo riverbero antico che cerca aiuto per sfidare il tempo.

Il mio Katundë non ha bisogno di essere salvato, ma riconosciuto, confermato e chi torna, chi si prende la responsabilità di raccontarlo, non lo fa per romanticismo o per apparire, ma lo fa perché sente che il tempo non ha senso se le cose qui ancora in vita, non le si aiuta a fiorire alimentandole con la memoria vera.

Addentrarsi negli ambiti di un centro antico senza sapere chi ha tracciato i perimetri di case e chiese, illustrando esclusivamente graffiti e marmi moderni, non è certo un documento storico, ma una farsa mediatica, come lo fu il vendere Toto e Peppino vendere la Fontana di Trevi a un turista americano di passaggio.

Così chi entra nel Katundë, da olivetano non lo fa armato di telecamere o mape di palcoscenico, perché quelle mura le scambiano per cavalieri armati come facevano piratati e ottomani invasori che senza rispetto, esaltavano la loro presenza, perché questi luoghi non chiedono futuro incerto, chiedono ascolto di un figlio.

Trovare qui un vecchio baule con dentro le vesti delle madri o delle nonne, non li si deve indossare e poi scendere a illustrarle lungo il lavinaio, perché quello era il luogo dei suini locali, non certo opportunità per essere sposa.

E ogni parola detta qui senza ragione pesa quanto una pietra, e ogni silenzio che viene disturbato dai comuni viandanti ignari, vale più di un terremoto, tornare e procedere con saggezza, non fa altro che togliere la cenere che copre le cose dimenticate da quanti li avrebbero dovuti amministrare.

Il vestito da sposa non è solo pieghe e colori copiati dalla natura, ma un protocollo che per essere raccontato richiede anni di sapere e non il tempo di infilate il filo nella cruna dell’ago.

Non serve tornare rumorosi, né rievocativi di una realtà che qui non ha mai avuto luogo, infatti alcuni suoni, certi slanci celebrativi, certi racconti gonfiati da chi qui non ha avuto un solo istante di crescita, forse serve altrove, dove riempire il vuoto con l’immaginazione e senza decoro di memoria, crede sia professione.

Ma il nostro centro antico qui in esame, non chiede interpretazioni, non accetta sovrascritture, perché qui le grafiti erano solo opera del gatto irrequieto e, chi torna, se lo faranno tornare davvero, lo fa in silenzio, perché sa che il silenzio non è assenza ma momento di ascolto amplificato, della cassa armonica fatta di anima e tempo.

In questi ambiti ameni chi ha l’orecchio calibrato, non solo può udire, ma comprendere e cogliere ciò che quei muri, quelle soglie, quelle strade, sussurrano ancora, in tutto storie che esistono sempre e tentano di sopravvivere per non essere cancellate.

In un centro antico arbëreşë il passato non si manifesta con clamore, non reclama palco né nostalgia, il passato si deposita, si sedimenta nei luoghi e si plasmano, come fa l’olio quando si versa e diventando trama sottile che solo chi si ferma può percepire o riconoscerne l’essenza.

E allora non serve voce, non servono dichiarazioni, ma serve solo presenza, rispetto e la capacità di ascoltare e lasciarsi dire qualcosa da quel poco che ancora resta e risuona in questi vicoli circondati da soglie di storia.

Entrare in un circoscritto familiare arbëreşë, con preparazione specifica di ascolto e parlato, nella comprensione profonda del valore vernacolare e nella lettura del gesto quotidiano, significa accedere a un archivio del presente che non sta altrove ma depositato in questi scaffali fatti di crepe nei muri.

Qui ogni cosa e scaffale che conserva memoria e, gli oggetti, le tecniche manuali tramandate, non sono reperti muti, ma testimoni attivi di una storia non scritta.

Attraverso il riecheggiare delle mani operose che conoscono i gesti degli avi, si può rilevare con precisione ciò che nessun archivio conosce, ovvero i ritmi, le intenzioni, le modifiche minime tramandate per secoli in quello stesso luogo dove sono diventate operose.

È una storia che vive nel fare, nel dire, nel silenzio condiviso, una storia che resiste al tempo proprio perché non si è mai allontanata dal luogo dove è nata consolidando questi luoghi di consuetudini che segnano i battiti del tempo.

Ogni atto domestico, ogni parola detta secondo la consuetudine locale, ogni utensile posato nello stesso modo da generazioni, custodisce la verità di una memoria collettiva profonda, difficile da decifrare senza l’orecchio e lo sguardo giusto.

Attraverso un’analisi visiva e tattile degli elevati murari, appartenenti all’edilizia vernacolare, in particolare dell’edificato del centro antico e gli ambiti destinati a deposito, stalla e legnaia, è possibile ricostruire le principali fasi costruttive, individuando tanto le epoche di primo impianto quanto eventuali interventi successivi di riedificazione, ampliamento o riparazione.

Tale indagine si basa sul riconoscimento e sulla lettura stratigrafica degli apparati murari, che consente di identificare le tecniche costruttive, i materiali impiegati e le modalità di posa, fornendo così preziosi indizi per una datazione relativa delle diverse fasi edilizie.

In particolare, l’osservazione delle qualità dei materiali costituenti la muratura, come pietre locali di natura calcarea o arenaria, oppure l’impiego di frammenti laterizi e ceramici reimpiegati, spesso legati con malte a base di argilla o calce, permette il distinguere, tecniche più arcaiche e soluzioni più recenti, spesso legate a differenti disponibilità di risorse, a cambiamenti nei modelli costruttivi o all’introduzione di nuove tecnologie.

In alcuni casi, la presenza di materiali eterogenei o di riuso (come cocci, tegole, mattoni frantumati) inseriti in impasti terrosi può suggerire interventi di recupero o fasi di ricostruzione successive a eventi traumatici, quali crolli, incendi o modifiche funzionali dell’edificio.

Un ulteriore elemento fondamentale per l’analisi dell’edilizia vernacolare, soprattutto in contesti post-catastrofici o di ricostruzione, è rappresentato dalla presenza (o assenza) delle pietre angolari, spesso accuratamente squadrate o selezionate, collocate agli spigoli degli edifici.

Queste, oltre a svolgere una funzione strutturale e di consolidamento, costituiscono anche un indicatore del livello economico e sociale del nucleo familiare costruttore.

Nelle abitazioni appartenenti a famiglie più agiate, tali pietre si presentano generalmente ben lavorate, di dimensioni regolari e disposte con tecnica accurata, spesso provenienti da cave locali o da edifici precedenti smantellati in modo selettivo.

Al contrario, nelle abitazioni delle fasce meno abbienti, si riscontra frequentemente l’assenza di angolari ben definiti e, gli spigoli sono realizzati con pietre di recupero disposte irregolarmente, o addirittura senza soluzione tecnica evidente, segno di una costruzione realizzata con materiali di fortuna e con mezzi limitati.

Questo dato costruttivo permette di distinguere le ricostruzioni più strutturate, promosse da famiglie con maggiore disponibilità economica, da quelle più improvvisate o di emergenza, effettuate da chi aveva perso tutto in seguito a eventi calamitosi (sismi, frane, incendi, guerre, carestie).

In molti casi, infatti, i meno abbienti si trovavano a ricostruire sugli stessi ruderi delle case crollate, utilizzando materiali di spogliatura recuperati sul posto o da edifici abbandonati, spesso senza la possibilità di acquistare nuova materia prima.

Questa stratificazione di tecniche e materiali consente di leggere le disuguaglianze sociali direttamente nella muratura, rendendo il manufatto architettonico una fonte storica di prima mano.

La presenza discontinua di pietre angolari, insieme alla qualità delle malte, al tipo di leganti e alla composizione degli impasti murari, diventa quindi una chiave interpretativa per comprendere la geografia della ricostruzione, distinguendo chi ha potuto ricostruire con risorse proprie e chi invece ha dovuto arrangiarsi con ciò che restava.

Questa metodologia, che affianca l’archeologia dell’architettura all’analisi dei materiali, si rivela particolarmente utile in contesti collinari dove la documentazione scritta è spesso assente o lacunosa. L’indagine diretta sulle murature, quindi, rappresenta uno strumento fondamentale per la comprensione delle trasformazioni storiche del paesaggio costruito e delle pratiche costruttive locali tramandate oralmente o per tradizione.

Inoltre, l’incrocio dei dati materiali ricavati dall’analisi diretta delle murature con le fonti storiche relative ad eventi naturali e sociali, quali terremoti, pandemie, carestie o periodi di siccità, consente di contestualizzare con maggiore precisione le fasi di trasformazione degli insediamenti rurali.

Questi eventi traumatici, documentati attraverso cronache locali, registri parrocchiali, o documentazione storica più ampia, spesso trovano riscontro anche nella materialità del costruito di crolli, ricostruzioni parziali, sostituzioni di materiali, o addirittura mutamenti nella funzione d’uso degli edifici.

Nel caso specifico dei Katundë e, i cunei di pertinenza, tali eventi possono aver segnato veri e propri momenti della storia comunitaria, con conseguenze tangibili nell’assetto insediativo, nella qualità dell’edilizia e nelle tecniche costruttive impiegate.

Pertanto, il confronto tra dati rilevati dalle fonti storiche locali permette non solo di datare con maggiore attendibilità alle fasi costruttive, ma anche di restituire una lettura solida alla storia locale, intrecciando le vicende architettoniche con i processi, ambientali e socio-economici che hanno interessato questi contesti collinari fuori dalle pertinenze dell’anofele.

Se di un Katundë arbëreşë non si ha consapevolezza delle sue origini, delle tappe evolutive che lo hanno formato e del paziente lavoro di ripristino portato avanti dagli arbëreşe, allora non si può parlare di nulla. Ogni tentativo di comprensione risulterà vano e, così, chi si avventura con incoscienza o presunzione ad attraversarlo, finisce inevitabilmente per sbattere la propria conoscenza contro un muro.

E purtroppo questo un muro provoca confusione, disorientamento, scambiato per la ‘murazione’ della borgata, o, per dirla in altro modo, della bovara.

I centri storici arbëreşe, perché sostenuti in conseguenza della diaspora Balcana, portano in sé un’identità solida, profonda, che non può essere oggetto di indagine da parte di letterati improvvisati o di chi si accontenta di lettere superficiali.

La loro comprensione richiede invece la sapienza degli Olivetani, cresciuti nei luoghi dell’eccellenza formativa di Palazzo Gravina, dove l’architettura non è solo un mestiere, ma scuola di pensiero, disciplina e abnegazione totale.

Solo chi si è formato in questo edificio di conoscenza, tra i più solidi del meridione, per rigore e ampiezza di sapere, può aspirare a cogliere l’essenza di questi luoghi e tradurla con rispetto e maestria.”

Oggi tutti coloro che affermano di essere transitati sulla via degli Olivetani, magari dopo averne anche solo fissato l’ingresso, custodito come immagine, hanno il dovere di fermarsi, ascoltare, e lasciarsi attraversare dalle parole sagge che solo l’Olivetano autentico può tradurre.

Perché quelle mura antiche non parlano né il latino né il greco, ma una lingua indoeuropea originaria, arcaica solo parlato, che non si studia sui libri ma si apprende attraverso l’ascolto profondo.

È la lingua della pietra, del vento e delle stagioni, una lingua seminata tra gli orti, che non ha fretta di germogliare.

Vuole il suo tempo, pretende silenzio e attenzione, e si dona solo a chi sa davvero ascoltare, perché solo attraverso l’ascolto profondo si può comprenderla, non con gli occhi affrettati del turista o con le parole svuotate del letterato di passaggio, ma con la pazienza di chi è disposto ad attendere il suo frutto.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                    Napoli 2025-09-30

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E VENNE IL TEMPO PER DISINFORMATI MISTIFICATORI E PROPAGANDISTI (Puru Shën Shanasinë vutë pëposhë aresë)

E VENNE IL TEMPO PER DISINFORMATI MISTIFICATORI E PROPAGANDISTI (Puru Shën Shanasinë vutë pëposhë aresë)

Posted on 28 settembre 2025 by admin

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Viviamo un tempo fragile che diventa sempre più sottile, in cui la storia si piega sempre più spesso alle esigenze della narrazione spettacolarizzata.

Le manifestazioni pubbliche, un tempo strumento sincero di ricordo, rivendicazione e rievocazione culturale, oggi si stanno trasformando in palcoscenici per l’autocelebrazione e la mistificazione.

Nel caso specifico della cultura arbëreşë, questa tendenza assume contorni preoccupanti: un sistema sempre più alimentato da disinformati, mistificatori e propagandisti sta progressivamente svuotando di senso la narrazione autentica delle nostre radici.

La regione storica sostenuta e custodita per generazioni dai cultori arbëreşe non è solo un concetto linguistico, ma un sistema complesso di memoria, valori, simboli e pratiche consuetudinarie irripetibili. Essa è frutto di una resistenza silenziosa ma potente, esercitata da chi ha scelto di tramandare lingua, fede, rituali e visione del mondo.

Oggi, però, quella resistenza è minacciata non tanto da forze esterne, quanto da una devianza interna, nutrita da ignoranza, superficialità e una malintesa idea di “promozione culturale”.

Si assiste alla moltiplicazione di eventi in cui il folklore viene ridotto a parodia, la lingua manipolata o esibita fuori contesto, e la storia compressa in slogan approssimativi e, tutto questo, spesso, senza alcun coinvolgimento critico delle comunità stesse, la quali si trovano rappresentate da figure estranee o auto-nominate, prive di competenze storiche, linguistiche o antropologiche, ma desiderose di visibilità e riconoscimento.

Questa dinamica conduce a una perdita progressiva dell’autenticità, poiché ciò che viene proposto al pubblico, spesso al solo scopo di ottenere fondi, premi, consensi o assunzioni, non è più memoria condivisa, ma caricatura funzionale.

Di fronte a questo scenario, il rischio più grave non è solo la falsificazione della storia, ma lo smarrimento del senso stesso di appartenenza.

La cultura arbëreşë, come tutte le culture di minoranza, sopravvive solo se nutrita da un equilibrio delicato tra conservazione e consapevolezza.

Non basta ricordare, bisogna sapere cosa si ricorda e perché, non basta celebrare, bisogna conoscere ciò che si celebra e con quali strumenti.

Occorre dunque un rimedio urgente, anzi necessario per rimettere al centro il rigore, lo studio, la ricerca con responsabilità culturale.

Occorre che i cultori autentici, studiosi, anziani depositari della memoria, insegnanti, traduttori, sacerdoti, poeti, artigiani, tornino ad avere un ruolo guida nel discorso pubblico, sottraendolo alle mani di chi lo ha trasformato in spettacolo per il comune viandante della breve sosta.

La posta in gioco è alta se non si interviene or ora, si rischia di smarrire ogni cosa e, quando una cultura smarrisce sé stessa, non si spegne solo un patrimonio, ma si perde una possibilità di pluralismo, di dialogo, con il futuro.

La strada da percorrere richiede coraggio, rigore e una visione lunga, ma soprattutto richiede di riconoscere l’inganno in corso e, avere la forza di opporvisi, anche quando questo significa rompere equilibri consolidati o mettere in discussione consuetudini rassicuranti, non per chiudersi, ma per tornare ad aprirsi nella verità.

Quattro decenni e più fanno, quarant’otto anni trascorsi a raccogliere dati, testimonianze, microframmenti dispersi nel tempo e tessendo una storia vera, fedele e rigorosa.

Una storia senza protagonisti di secondo ordine, senza lustrini né accomodamenti, in tutto un’opera ciclopica, racchiusa in diecimila pagine di storia, archiviate, commentate, trascritte con pazienza monastica.

Eppure, tutto questo non è bastato, non è servito a fermare la deriva, non ha arginato la marea montana dell’approssimazione, della leggerezza, del pressapochismo.

Questa mattina, la diga della decenza ha ceduto, il limite di capienza della diga dell’ignoranza che ha  straboccato, come un caffè versato da mani inesperte, tutto è precipitato nelle parole false in dialetto albanese, ricostruzioni fantasiose secondo le regole del noce, travestimenti grotteschi di un’identità trasformata in maschera per valorizzare generi incerti.

Le rievocazioni, un tempo sacre, oggi sono ridotte a teatrini improvvisati, non da preti ma miss credenti e, lee voci competenti sono sommerse da grafiti senza patria, che urlano contro il sole che fa ombre riverse.

L’eco del lavoro paziente di decenni è oscurato da una giornata sui social, da un vestito colorato, da un piatto affiliato al natale che non è mai stato.

In questo caso non si mette in dubbio solo il rispetto, una la  sopravvivenza culturale di un luogo specifico e di tutte le sue generazioni che lo abitarono.

Perché quando la storia vera viene soppiantata dalla finzione a o dall’apparire di chi non trova agio nei propri luoghi natii, quando lo studio viene considerato “poco comunicativo”, e quando chi ha dedicato la vita alla ricerca viene ignorato in favore di chi improvvisa, allora la sconfitta non è solo degli studiosi, ma di un intero popolo di un luogo specifico che ha sin anche fatto la storia dell’unità d’Italiana.

Siamo oltre il punto di rottura, eppure, anche adesso, in mezzo al rumore, resta possibile scegliere se rimanere in piedi e, controcorrente, nella verità.

Perché ogni pagina autentica scritta, ogni documento custodito, ogni parola detta con onestà, è una diga che ancora resiste.

Tuttavia trattare argomenti profondi e sacri con leggerezza equivale a profanarli, come ad esempio ridurre la sacralità della Cena di Natale; momento centrale del ciclo rituale arbëreşe e, atto collettivo di fede, memoria, trasmissione, ad un qualsiasi adempimento culinario domenicale, è un atto di svilimento che non ha nulla di innocente.

Essa rappresenta la misura di una trasformazione più ampia e devastante, che trasforma l’identità specifica in superficie piana e, l’eredità in intrattenimento.

Allo stesso modo, la sontuosità della vestizione femminile, che non è solo bellezza, ma codice, gerarchia, dignità sociale, linguaggio sacro dei colori e dei fili, ed oggi è stata ridotta a una sfilata cromatica lungo un lavinaio, come se bastasse il riflesso della seta per dire chi siamo, un poco come dire che l’estetica potesse assorbire la storia, cancellarla, sostituirla in parodia di parlato pronunciato sin anche deforme.

E ancora, si arriva a innalzare il valore di un luogo sacro, chiese, icone, cimiteri, o le soglie di un altare secondo le metriche di chi allevava i figli sotto un noce, confondendo l’intimità del rito personale con il significato della credenza storica e collettiva.

Non si distingue più tra il sacro e il privato, tra la verità rituale e la tenerezza domestica, si fa del vissuto un parametro di misura universale, confondendo la memoria con la nostalgia.

Ma il picco dell’alluvione culturale si tocca quando si afferma che gli arbëreşë tramandano la storia attraverso strumenti a corda o a fiato, ignorando il lavoro secolare di combattenti di parlato e canto.

Quando si mette la narrazione in mano a chi non ha mai letto una cronaca, mai tradotto un testo, mai posto una domanda su cosa significa essere eredi e non solo dissipatori di un’identità trasmessa di voce in voce e canto in canto.

Non si conoscono gli uomini che hanno dato la vita per questa storia, non si distingue il martire dal traditore, il testimone da colui che ha venduto i fratelli per un attimo di gloria o di un discorso che ad oggi attende giustizia calligrafica.

E nonostante questa distinzione sia fondamentale, la linea rossa che la determina e le separa come chi ha costruito le fondamenta dalla folla che oggi danza sul tetto, senza sapere su cosa poggia.

E poi è chi misura con attenzione, in silenzio, quanto la corrente è tempesta e supera la diga che dovrebbe contenere l’ignoranza, ma solo lui sa che siamo a un passo dal disastro definitivo.

Perché la piena è già arrivata davanti l’uscio di casa ed è pronta per trascinare non solo l’oblio, ma l’inversione, la glorificazione, l’inconsapevole, l’applauso superficiale, i premi del vuoto.

Eppure, nel disordine della piena, una voce resta, è del canto autentico, della parola detta con rispetto e non per compiacere.

È la voce che non cerca consenso, ma verità, perché la voce che non si può mettere in scena, perché viene da lontano e chiede umiltà di ascolto, non applausi da podio.

Questa voce non può essere spenta e, finché ci sarà chi la riconosce, chi ne custodisce l’eco, chi si rifiuta di danzare sul nulla, allora nulla sarà davvero perduto.

E il fiume, un giorno, tornerà nel suo letto, non per volontà del caso, ma per scelta consapevole di chi non ha accettato di ignorare quella antica promessa del 17 gennaio del 1977 alle ore 15.30 nel largo dove le poche cose, per chi non possedeva nulla, si misurava con la bilancia dell’oro.

Architetto Olivetano Atanasio Pizzi                                                                 Napoli 2024-09-28

 

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ORA È IL TEMPO DELL’OLIVETANO ARBËREŞË  (Hoj Thanà fijtë dallië e dalljë pà sëriturë sj gnë mosë thë maren përë shimitrotë)

ORA È IL TEMPO DELL’OLIVETANO ARBËREŞË (Hoj Thanà fijtë dallië e dalljë pà sëriturë sj gnë mosë thë maren përë shimitrotë)

Posted on 28 settembre 2025 by admin

Mamma5NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Olivetano Basile) – Per quanti dicono di essere nati con santità di ascolto e comprensione saggia, per seguire il cammino storico, di operato, bonifica e vissuto della minoranza arbëreşe, è confermato che abbiano avuto quale scuola primaria quella di Nocera Inferiore!

La convinzione nasce dal dato che il solo, in grado di ascoltare capire e tradurre gli antichi riverberi, per tracciare il “percorso storico indivisibile”, che non sia stato “ardire Nocereste”, non appartiene alla categoria degli eletti di queste pubbliche apparizioni editoriali, ma i due storici che in Campania sono stati scelti come Olivetani Partenopei.

E oggi l’unica figura in grado a dare senso alla lingua che resiste nel tempo, perché memoria di una diaspora antica priva di atti scritti e, affiancata da un’ugola con sangue dei Caruso, definendo un temine a questo penoso confino di pena mentale diffusa nei Katundë arbëreşe.

Questa metafora nasce dai toni lessicali riverberati nei secoli da una scia di contaminatori seriali o confinati sotto il castello di Nocera, si è adagiata a scrivere imitando i solchi della terra promessa, colmandoli di ricordi e memoria ignota, per poi procedere secondo la linea di una bussola etica che non segue neanche pe errore, gli echi di quel canto antico in arbëreşe.

Se a questo aggiungiamo che i preposti, si sono lasciati incantare dalla coda alfabetata davanti all’istituto di Nocera, dove non apparì mai la “Z”.

Si deduce facilmente che gli eletti “proposti” continueranno a vagare nei vicoli, coprendo di isterismi lessicali, che ancora a oggi non sanno come si costruiscono pennini e sagomare calamai e immaginate quanto tempo serve ancora per capire che serve anche carta e inchiostro.

In tutto una carriera o scia di pensiero povero e rumoroso, colmo di battiti ferrosi assordanti, che generavano e generano un continuo marinare l’ascolto e, diventare viandanti, per poi apparire, nelle note del registro di classe dell’istituto Vittorio Emanuele II di Nocera Inferiore.

Sono queste ondeggianti o instabili figure lljtirë a realizzare il cumulo di episodio albanistici, narrati senza termine, alla spasmodica compilazione di un dizionario, che non voce di parlato, pianto, preghiera, amore, senza ricorrere alla memoria scritta o grafitata.

Così, tra simposi autoreferenziali e bibliografie inventate, hanno disperso l’eredità di oltre cento Katundë, frammento tutti con episodi che vorrebbero indicizzare, reperti per fare ristorazione per turisti distratti.

E di fronte ai canti antichi che risuona nei Katundë, nessun uno, hanno avuto capacità di ascoltare le storie tramandate a voce, il dolore nell’essere stati costretti a fuggire per non pensare, parlare e pregare come imponeva l’invasore Beg.

Gli incauti prescelti santificati dalla politica, oltre ad aver smarrito la via del pensiero hanno reso ogni gesto un atto sconnesso, un’eredità per disperati, come si fa con la cenere di un camino quando termina di riscaldare la si lascia si adagia nel lavinaio di casa per essere dispeso dalla pioggia.

E ogni frammento di quella cenere, si presentano come parlato, che millanta di riscaldare gli animi freddi della storia, oltremodo esaltati in atto che vorrebbe imitare la presenza di valori e forme di un tempo, senza avere consapevolezza che quella è cenere fredda del camino di nonna Elvira, che depositava fuori l’uscio di casa, sotto il noce per impolverare le gesta delle Magare.

Tuttavia quello che oggi rimane, sono le gesta delle nostre genitrici, la manualità di nonne, madri e sorelle, che, teniamo solidamente impresse sul cuore e nella mente, sono loro che alimentano la sapienza dell’Olivetano.

A tal fine torna in mente, quando esse preparavano il pranzo per la famiglia, non per dovere, ma per credenza, con gesti rituali che sfuggono alla modernità e alla ossessione di efficienza, che non deve essere di mero piatto da millantare genuino, ma gesto celebrativo di una consuetudine antica.

Le loro gesta non cercavano applausi, né telecamere o visualizzazioni di merito perché rappresentavano un atto fondativo, che univa ciò che il mondo odierno prova a disegnare per fare sunto svilito.

Non c’è bisogno di decreti né di assemblea, o di giovincelli/e inesperte guidati dal mugnaio matto, perché basta una ciotola di terracotta, il pane che prende forma tra le dita impolverate di bianco delle donne arbëreşë, il profumo dell’erba aromatica raccolta all’alba, in tutto la semplicità che sfiora la liturgia, per compiere memoria, che altrove si smarrisce e, qui si conserva per confermare memoria.

Così, mentre fuori tutto pare vacillare tra il rumore e la frenesia, le nostre nonne madri e sorelle segnano un ordine antico, con la loro manualità che non palesa potere, ma la sostanza della famiglia unita.

Nessuno mai ha visto la propria madre limitarsi a benedire farina con acqua e rami di origano, dentro una ciotola, o preparare pane da infornare, perché questi gesti regolavano, curavano il ritmo della saggezza.

E proprio lì, dove si preparano pietanze con gesta e manualità, priva di titoli accademici, la storia continua a ripetersi nei gesti, fatti con le mani che armate di filo e ago per unire gli strappi di un costume antico.

La manualità in forma di arte nei Katundë è sapere silenzioso, che tramanda parole, gesti e ogni movimento delle mani diventa memoria antica, assumendo un significato che superava il tempo.

In casa e nei campi, il lavoro non conosceva pausa, non si trattava solo di fatica fisica, ma di una dedizione profonda, quasi sacra, che teneva connessi come un fascio, alla terra, alle stagioni, al senso stesso della vita.

Qui non serve orologi per sapere quando seminare, né di ricette scritte per cucinare, ma basta il tatto, l’osservazione, l’esperienza.

Le mani erano strumenti, ma anche archivi di sapere antico, come quando una madre impastava il pane o un padre sistemava la vite e, non facevano solo un gesto pratico, ma ripetevano un rito, ereditato da generazioni che avevano imparato ascoltando la natura e osservando gli anziani.

Oggi, quel sapere è spesso confuso, mescolato, oscurato dalle modernità e, la velocità ci ha tolto il tempo della pazienza, la tecnologia ha promesso comodità, ma ha portato noi lontani da quell’intimità di cose semplici.

Si è persa la fiducia del gesto umile, della conoscenza non scritta e le gesta di un tempo da protagoniste, sono diventate strumenti secondari, mentre la mente vaga tra schermi e notifiche.

Eppure, in quel passato che sembra così distante, c’era una presenza piena, una consapevolezza che oggi manca.

Non c’era bisogno di andare a Barcellona, Madrid o Venezia per sapere se siamo stati vivi o siamo esistiti veramente, perché basta saper accendere un camino, allestire un orto, riparare un oggetto, raccontare una storia da intorno a quel fuoco antico di casa.

Il sapere non chiede di essere compreso, ma semplicemente accolto e chi possiede questa qualità non si vantava, perché la vera sapienza non fa rumore e non grida come fanno quanti scrivono o fanno scrivere ad editi per immergersi nella storia degli arbëreşë.

Forse, ritornare a quel modo di vivere non è possibile, ma ascoltarlo per ricordarlo secondo la metrica del loro silenzio, si trova e si acquisisce più verità di quanta si possa leggere oggi in mille pagine di bugie nate cresciute e pasciute attorno al Collegio delle fratrie.

Fornire immagini del costume, appellandolo con leggerezza “di mezza festa” o “mezzo lutto”, significa svilirlo, assegnando una misura incerta, colma di pochezza culturale osando di fare ricerca senza prima ascoltare come ha fatto l’olivetano che ha guardato, diversamente da chi ha solo fotografato senza osservare, per apprendere e capire.

Ancora più grave è il dato che alcuni giudizi sono stati approvati, timbrati, elevati a verità dai preposti distratti, si proprio loro gli incapaci di cogliere il peso simbolico, l’identità profonda, il respiro antico che vive nei dettagli del costume.

Perché quello che vediamo non è solo raso intrecciato di seta e cotone, non è solo colore, ma una sola e indissolubile memoria di lutto vissuto, fede tramandata e gioia trattenuta con pudore davanti a dio in chiesa e al fuoco del camino in casa aspettando chi lavora nei campi al rientro.

Solo chi nasce e cresce olivetano arbëreshë, può davvero distinguere il fatuo dalla crusca genuina perché ha visto la nonna vestirsi al mattino con gesti precisi, come se ogni giorno fosse un rito e non un tempo di noia.

E lui sempre che con orecchi attenti, ascoltava il raccontare, perché di un velo, un merletto o come deve avvolgere braccia spalle e seno un Gipunë, come deve scendere la zògha e, il motivo di apporre un nastro, perché deve durare, e fare ascolto in silenzio.

Gli altri, per quanto titolati o premiati possano essere, parlano da fuori dietro la porta o in mezzo la Gjitonia e non sanno comprenderne i confini, rimanendo come ventose che da dietro un vetro, vivono il freddo gelido della stagione corta.

Non basta tradurre un canto o trascrivere un proverbio per capire un popolo, ma bisogna respirarne l’aria, per vivere il dolore, la fierezza con ardore antico.

Altrimenti, si finisce per chiamare “folclore” ciò che è sacralità, e “curiosità etnografica” ciò che è sangue, terra e identità di un parlato antico.

E forse non è colpa loro se non vedono, ma colpa vostra che state in silenzio sperando che uno vi inviti a mangiare e bere vino dove mai una madre ha impastato la saggezza culinaria degli arbëreşe davanti al camino che ormai vive spento.

Gli Arbëreşë, per dare vita al Katundë, non hanno innalzato fortezze, ma costruito i muri delle case, pietra su pietra, mettendo al centro la famiglia e la comunità.

Per formare una famiglia, non si sono affidati al caso, ma hanno tessuto a mano il vestito nuziale,
intrecciando fili di tradizione, identità e speranza.

Per creare un’economia, non hanno cercato ricchezze facili, ma hanno rassodato la terra con fatica e dedizione, rendendola fertile con il sudore e con pazienza hanno atteso i germogli.

Per fondare una nazione, non hanno mosso guerra, non hanno conquistato con le armi, ma hanno inventato l’integrazione, il dialogo, dei popoli in pena di camminare.

E per fare memoria, non hanno scritto i libri, ma hanno ricordato con la voce, i gesti, i canti,
tramandando saperi e storie come si tramanda ciò che si vive ascoltando il cuore e l’anima, delle generazioni.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-09-28

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RIGENERA (gnë vaterë arbëreşë te ghë Katundë cë nhenghë hëshëtë me thënhgruitura me djerë lljtirë)

RIGENERA (gnë vaterë arbëreşë te ghë Katundë cë nhenghë hëshëtë me thënhgruitura me djerë lljtirë)

Posted on 26 settembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Negli ordinamenti moderni, le democrazie di Europa, quelle Nazionali e Regionali si sono dotate di leggi che riconoscono il valore delle minoranze storiche, garantendo sulla carta eguaglianza, tutela e partecipazione.

Tuttavia, questa intenzione di pianificare resta confinata sul piano esclusivo del foglio di carta e calamaio dove attingere inchiostro, in quanto gli ambiti di radice o aspetti materiali e immateriali che accolsero e sostennero la qualità della vita degli arbëreşë, continuano a essere ritenuti equipollenti alle logiche maggioritarie e, quindi da non tutelare se non per specifici esempi.

Riconoscere i diritti di una minoranza significa molto più che dichiararla “uguale davanti alla legge”, perché esige interrogarsi quali siano le condizioni concrete per esercitare quei diritti e con quale fine.

Serve soprattutto, intervenire sui contesti, culturali, educativi, economici e spaziali, che strutturano l’inclusione di una diversità consuetudinaria sostanziale.

Valga di esempio la lamentela perpetua di nonna Carmelina, una donna forgiata nella brace delle antiche abitudini, matrona di tempi in cui il calore di una casa si misurava non in gradi ma con la presenza attorno al camino.

Lei, che aveva sempre diretto la sua famiglia come un’orchestra seduta accanto alla fiamma viva, si ritrovò, negli ultimi anni della sua vita, estromessa da quel trono che sapeva come sostenere e dirigere.

Fu il figlio a portarla con sé nella casa nuova, moderna, funzionale, ma fredda per chi sapeva ascoltare le stagioni osservando la danza della fiamma piegarsi e e riscaldava sin anche il forno.

In quella casa, il camino era stato sacrificato in nome del progresso, rimpiazzato da una “macchina del fuoco”, come la chiamava lei, con disprezzo malcelato, una stufa d’acciaio, silenziosa, efficiente, e del tutto priva d’anima, anzi forse macchina del diavolo visti i suoi cerchi superiori, per liberare le fiamme.

Ogni sera, dopo cena, nonna Carmelina si sedeva in silenzio, guardando il punto dove avrebbe voluto vedere il camino ardere la fiamma e, con voce ormai stanca, diceva: “Questa non è una casa, perché qui il fuoco non parla ma resta prigioniero e muto.”

Quelle parole si ripetevano come un rosario, ogni giorno, con lo stesso tono, lo stesso dolore sordo e, figlio la ascoltava, afflitto, incapace di restituirle il tempo andato, ma troppo legato alla modernità credendo che quelle nostalgie potevano essere con un gesto di modernità superate.

Quando Carmelina se ne andò, senza un grido né un rimprovero finale, fu come se anche l’ultima brace della casa si fosse spenta.

Il silenzio che seguì fu più freddo di qualunque inverno, più vuoto di qualunque stanza e il senso di quella fiamma inizio ad ardere in quel figlio senza più una madre riverberando anche nelle case sei vicini dove imperava la macchina del fuoco.

Fu allora che il figlio comprese che non era solo il fuoco ciò che mancava, ma la ritualità, la presenza, il respiro della casa che si faceva corpo attorno al camino.

Non per fede nel passato, ma per rispetto di ciò che aveva costruito la loro identità, ed è così, in un gesto tardivo ma sincero, cominciò costruire sulla parete dove la stufa era adagiata, con un vecchio muratore, e con i rinforzi in ferro di un saggio fabbro che conosceva ancora il segreto di costruire un camino, non fosse solo funzionale, ma capace di realizzare con misura la bocca de fuoco dove una lingua antica inizio ad ardere e parlare.

Ci vollero il tempo di una settimana, per dare il via al nuovo fuoco acceso e, il figlio si sedette di fronte ad esso, nel silenzio e poi assieme a lui, le vicine Adelina e Silvia, imitarono quel gesto per poter sentire e respirare quella antica fiamma arbëreşë e sedere anche loro davanti al camino come regine del fuoco.

Non c’erano più lamentele, ma pareva quasi di sentire, in i crepitii più vivaci degli altri e, una voce bisbigliare: “Adesso sì… è di nuovo casa”

E da quel giorno, ogni sera, il figlio accendeva il camino, non solo per scaldarsi, la stufa sarebbe bastata, ma per tener viva una fiamma più antica, che non riscaldava solo il corpo, ma la memoria stessa.

Immaginate oggi se questa metafora del camino come cuore della casa, come centro del tempo e della parola, la portassimo in processione per le vie del paese, senza dover seguire la musica.
seguiremmo una verità antica che non hanno bisogno di fanfare, ma di silenzio raccolto. Dei suoi credenti, senza urla di giubilo, ma come si porta un dolore sacro, o una preghiera che non ha più bisogno di parole e, prima ancora di commemorare, dovremmo lamentare.

Sì, lamentare apertamente, senza vergogna, la perdita di quel calore che le modernità non sanno più dare.

Perché è vero: si vive più comodi, più veloci, più sicuri, ma ci si scalda meno, non nel corpo, ma nell’anima e, i nuovi camini non crepitano, non parlano, non radunano.

E allora, per le strade del paese, in questo corteo muto, potremmo portare la memoria del fuoco.
Non solo di nonna Carmelina, ma di tutte le voci che si spegnevano lentamente al calore della fiamma, e che oggi cercano spazio tra il ronzio costante delle macchine, degli schermi, delle solitudini moderne.

Il camino, oggi, non è solo un oggetto perduto, ma una domanda che brucia, domandandoci: “Cosa ci tiene ancora insieme, se non abbiamo più un fuoco da guardare in arbëreşe?”

Lo spazio urbano, per quanto accennato, diventa il camino fisico in cui si misurano i diritti, dei centri storici, storicamente, modellate secondo le priorità delle culture e dalla scuola del camino arbëreşe e, la pianificazione urbana, architettonica, la toponomastica, nei monumenti, nelle scuole e nei centri decisionali devono avere come radice questa metafora.

Le minoranze storiche, pur avendo contribuito in modo determinante alla formazione di questi spazi, con lavoro, cultura, memoria e pratiche sociali, si trovano spesso relegate ai margini, non solo geografici ma anche simbolici e funzionali.

Lasciare questi aspetti al “libero pensiero di esclusiva letteraria” o dei meccanismi economici e politici senza indirizzo specifico, equivale a non tutelare nulla.

L’assenza di politiche abitative, di servizi culturalmente accessibili, di luoghi di memoria condivisi o di processi partecipativi autentici, generalmente privi delle figure indispensabili deteriorano senza rispetto la cittadinanza e il luoghi di vita comune.

La contraddizione è evidente: si riconosce un’identità, ma la si svuota di potere. Si afferma un principio di pari dignità, ma non si costruiscono le condizioni per esercitarlo. Si dichiara il valore della pluralità, ma si continua a costruire spazi e istituzioni secondo un modello unico.

Così facendo, si dimentica che l’evoluzione urbana, sociale e culturale, frutto di un’interazione continua tra maggioranza e minoranze.

Le minoranze storiche non sono presenze aggiuntive o “tollerate”, ma sono parte integrante e costitutiva del tessuto nazionale.

Eppure, quando lo spazio viene progettato senza di loro, si nega non solo la loro cittadinanza, ma anche la loro storia.

L’inclusione reale richiede dunque un cambio di paradigma e, non basta più riconoscere formalmente; occorre riconfigurare strutturalmente.

Le politiche urbane, educative, culturali e sociali devono farsi carico delle esigenze specifiche delle minoranze storiche, non come eccezione, ma come parte integrante della norma e, non si deve affidare empiricamente tutto a una legge che lascia indietro lo spazio e i corpi che lo abitano, è una legge che tradisce il suo stesso principio di giustizia.

 A tal fine diventa fondamentale studiare gli ambiti dei centri antichi disegnati dagli arbëreşë, il che significa addentrarsi in una stratificazione architettura, fatta di memoria, identità e storia condivisa.

I centri abitati, nati dall’insediamento delle comunità in fuga dall’Impero Ottomano, sono oggi un patrimonio fragile ma denso di possibilità e pieno di operose intenzioni per fare integrazione.

In essi, il costruito racconta un adattamento profondo al territorio, un uso sapiente delle risorse locali e una concezione dell’abitare che riflette un equilibrio tra uomo e natura, tra esigenze individuali e logiche comunitarie di una ben identificata macro are.

Il saggio quando faceva ricerca di luogo arbëreşë, sedeva sulla sedia a fianco la porta di casa, con una mano dietro la schiena e l’altra a sostenere il mento e, ascoltava.

Le parole delle donne che si rincorrevano come galline nel cortile, ciascuna portava un pezzo, un nome, una data, un fatto mezzo dimenticato o mai confermato.

Ma solo dopo lo scontro acceso, la memoria prendeva forma, come l’impasto del pane dopo una lunga lavorazione.

E alla fine, quando tutte annuivano in silenzio, si poteva dire che quella, sì era la verità del Katundë, più forte di qualsiasi carta d’archivio.

L’architettura vernacolare del vissuto arbëreşë non è mai stata mira di un progetto formale, bensì di un processo continuo dell’indagare il luogo per depositarvi in armonica condivisione consuetudini, la lingua e credenza.

Le case, si incastrano e si sostengono le une accanto alle altre, seguono il declivio del terreno senza modificarlo, guardando verso gli orientamenti solari, senza necessità di difesa perché luoghi di coesione sociale.  

I materiali sono quelli che il paesaggio offre, come la pietra locale per i muri, il legno per le coperture, la terra e la calce per le finiture e, ogni elemento costruttivo è espressione di una sapienza che non ha bisogno di essere codificata per essere efficace.

Le strade strette, i cortili condivisi, le scale esterne parlano di un vivere quotidiano collettivo, in cui lo spazio privato e quello comune si sfiorano e si sovrappongono con garbo e senza prevaricare.

Eppure, anche questi paesaggi dell’anima hanno subito nel tempo trasformazioni, alcune inevitabili, altre più traumatiche.

Rigenerare un Katundë non è semplicemente un’operazione edilizia, ma un processo culturale e politico, che richiede analisi, ascolto, studio, lentezza e passione.

Occorre prima di tutto comprendere le esigenze del “costituito”, ciò che esiste, resiste, sopravvive, per poter poi intervenire con coerenza e rispetto.

La sostenibilità, in questo contesto, non può essere ridotta a una questione energetica o tecnologica o al sogno di costruire Gjitonia come ha tentato di fare alcuni llitirë.

Questo è un concetto più ampio, che riguarda l’integrazione tra memoria e innovazione, tra forma urbana e funzione sociale.

Recuperare l’insieme costruito di un Katundë arbëreşë significa restituire valore allo spazio, ma anche offrire risposte contemporanee ai bisogni delle persone, in tutto riaccendere quel fuoco di servizio, mobilità lenta e coabitazione.

Significa anche pensare a nuovi modi di abitare che sappiano accogliere chi desidera comunità, chi cerca bellezza non come lusso ma come senso.

In questa prospettiva devono rientrare i Katundë per tornare a essere luoghi di accoglienza, come già lo furono nei secoli passati.

Accoglienza non solo fisica, ma culturale e sociale, in tutto un laboratorio in cui sperimentare nuove economie locali, forme integrazione condivisa degli e negli spazi pubblici.

Le architetture storiche, se lette e interpretate correttamente, possono offrire soluzioni contemporanee senza essere musealizzate.

È possibile costruire sul passato senza replicarlo in modo sterile, ma traducendone i principi del modulo, copiati persino dai luminari razionalisti al tempo dell’industrializzazione.

Non si tratta, quindi, di tornare indietro, ma di andare avanti con consapevolezza e, il rischio più grande è quello di trasformare questi luoghi in scenografie, in fondali immobili per un turismo di consumo.

Al contrario, l’unica rigenerazione autentica è quella che parte dalle comunità esistenti o nuove, che scelgono di vivere questi spazi con responsabilità seguendo la meta dell’integrazione.

E l’architettura, in questo processo è il mezzo per ricucire fratture, per ridare senso allo spazio, per costruire futuro senza cancellare il passato o discriminare i nuovi arrivi, perché sono un Katundë detiene la formula dell’integrazione, bisogna solo saperla ascoltare, perché gli arbëreşë storicamente non hanno mai scritto ma vissuto con il parlato e l’ascolto.

Atanasio Olivetano Partenopeo Pizzi                                                                Napoli 2024-09-26

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IL BISOGNO VERNACOLARE DEGLI ARBËREŞE Shëpja Katonë e Moticellje

IL BISOGNO VERNACOLARE DEGLI ARBËREŞE Shëpja Katonë e Moticellje

Posted on 25 settembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi l’Olivetano Arbëreşe) – Tra le linee che definiscono lo spazio di un Katundë, il termine moenia può essere riferito alle mura che circoscrivono le singole abitazioni familiari, innalzate per delimitare spazio e fare casa.

Tuttavia, a differenza delle città chiuse o fortificate, il centro antico dei Katundë arbëreşë è sempre privo di vere moenia, cioè non possiede difese perimetrali condivise.

Questo riflette la natura aperta a contatto con l’agro diversamente, dalle città storiche, infatti qui l’architettura vernacolare dei Katundë arbëreşë, rivela, come una comunità diasporica sia riuscita a radicarsi in un territorio straniero, mantenendo vive la propria tradizione senza l’uso di moenia.

Gli Arbëreşë costruirono nel corso dei secoli il sistema abitativo senza architetti e il loro agire denota, non solo le esigenze materiali della vita quotidiana, ma anche una precisa visione del mondo, in cui il lavoro, la cura, l’apprendimento e l’allevare generi, erano attività integrate in un unico universo culturale.

Le abitazioni non erano mai soltanto case, in quanto luoghi produttivi, ambienti in cui la sfera domestica e quella economica che coabitavano armoniosamente, secondo il governo delle donne; le instancabili “Architetti Arbëreşë”.

Il cortile o spazio libero della casa, fungeva da fulcro delle attività quotidiane ed erano, qui che avevano origine e si svolgevano operazioni legate al vernacolare progetto del bisogno, come ad esempio: la prima spogliatura agricola, la selezione dei semi, ma anche lavori artigianali e ogni progetto di tutela per la conservazione e sostentamento utile alla specie.

L’interno della casa, pur semplice, era progettato e concepito in modo funzionale con baricentro il focolare che rappresentava il cuore simbolico e pratico della vita domestica.

Intorno ad esso si preparavano le cose da cuocere, si discuteva, si tramandavano racconti, saperi e tradizioni.

La casa è per gli Arbëreşë, il luogo dove vivevano, si confrontavano generazioni, in un continuo scambio per sostenere le sostanze primarie radici del germoglio culturale.

All’interno di questo volume abitativo del bisogno, trovava spazio anche la cura della salute con la sua dimensione specifica pur se, in assenza di strutture sanitarie, in quanto la comunità faceva affidamento su pratiche di conoscenze empiriche, con radice di esperienza e osservazione i condivisione con la natura.

Le piante officinali, coltivate negli orti di pertinenza della casa, erano utilizzate per la preparazione di tisane, decotti, impacchi e unguenti.

Alcuni spazi dell’ambiente casa, solitamente ben esposto al sole e riparati dai venti, era riservata alla convalescenza, alla cura dei più fragili e anziani.

La casa non era solo spazio domestico, ma anche il seme di una proto-industria, un luogo dove, ciclicamente, si attivavano catene produttive di prossimità.

In certi periodi dell’anno, la famiglia e la comunità si organizzavano per trasformare e conservare alimenti, come la passata di pomodoro, le conserve, o i salumi, garantendo così scorte per l’inverno. Queste attività, radicate nella tradizione, rappresentavano una forma primitiva ma efficace di economia domestica e cooperazione locale.

Accanto alla medicina naturale, la dimensione spirituale giocava un ruolo fondamentale, con piccoli angoli sacri, addobbati con luminarie votive ad olio, ed erano queste ad accompagnare la credenza come forma di conforto e di guarigione spirituale all’interno di questo spazio a misura della famiglia.

L’apprendimento, nella società era anch’esso parte integrante della quotidianità e, prima ancora dell’istituzione di scuole formali, la trasmissione del sapere avveniva per via orale, dentro le case, nelle chiese, nelle piazze.

I bambini imparavano a memoria preghiere in greco liturgico, canti tradizionali e racconti epici che narravano la storia dell’esodo arbëreşë.

La casa diventava così anche scuola, o un ambiente in cui si educava al rispetto della tradizione, alla conoscenza dei ruoli sociali, e al mantenimento della lingua con essenze specifiche contenute all’interno di quelle mura e della natura che la circondava.

In alcuni centri maggiori, specialmente in ambito ecclesiastico, esistevano spazi adibiti a scuola, spesso molto semplici, ma funzionali, ed era qui coglievano i rudimenti della lingua, della religione e della storia di camino penitente.

L’allevamento e l’agricoltura completavano il quadro di un’economia familiare autosufficiente, dove l’abitare accoglieva sin anche gli animali domestici, in modo da sfruttare il calore degli animali durante i mesi freddi.

Ogni cosa di questo circoscritto costruito dall’uomo e progettato dalle donne, accoglieva sin anche i depositi per gli attrezzi e le manzane per dell’acqua e il tutto costituiva un sistema integrato che univa la casa al paesaggio.

Il confine tra costruito e natura era sfumato e, ogni elemento era pensato per essere fondamentale alla sopravvivenza e la continuità della comunità.

Il paesaggio, modellato nei secoli da mani pazienti, parlava la lingua dell’adattamento e della cura, dove ogni campo coltivato, ogni recinto, ogni tetto in rappresentava una risposta concreta ai vincoli imposti dall’ambiente, ma anche un gesto di appartenenza culturale.

In questo senso, l’architettura vernacolare arbëreşe non si limitava a essere un insieme di tecniche costruttive o un’espressione estetica, ma sistema complesso, in cui ogni spazio riflette una funzione sociale, culturale e simbolica.

L’abitazione diventa il luogo in cui si manifesta la cultura materiale, ma anche il pensiero simbolico di un popolo in esilio, che ha saputo trasformare l’adattamento in forma di resistenza.

Le case delle donne arbëreshë che per rispetto portavano il cognome del marito al plurale, non nascevano mai per caso.

 Non erano solo strutture in pietra e legno, ma organismi viventi, concepiti in simbiosi con il paesaggio e la memoria.

Ogni casa prendeva forma in un luogo preciso, scelto non solo per necessità pratica, ma per risonanza interiore, una piega del terreno, una fenditura tra le rocce, un affaccio sul silenzio.

Erano anfratti che parlavano, e la donna che vi avrebbe vissuto li ascoltava prima ancora che il primo sasso fosse posato.

Il progettista era la madre ed era lei che decideva dove, come e perché una casa dovesse sorgere, in tutto non un architetto nel senso moderno, ma la sapienza del quotidiano, custode di saperi tramandati attraverso gesti, silenzi, e fatica.

La casa non era solo rifugio, ma proiezione del corpo e dell’anima, ogni apertura, era pensata in funzione dei cicli della vita, della luce del giorno, dei riti familiari.

L’angolo per la farina, la nicchia per le erbe, il punto esatto dove il sole colpiva il focolare al tramonto, tutto era previsto, e nulla era superfluo.

Quando la casa prendeva forma, era la donna a sostenerla, con il suo lavoro, la sua presenza, il suo respiro.

E nel tempo, era la casa a sostenere lei, offrendole rifugio, forza e continuità e così, nell’intreccio di pietra e di carne, nasceva un microcosmo in cui si custodivano identità, storie, e segreti, vero resta il dato che non si costruiva solo un’abitazione, ma un destino.

Le case delle donne arbëreşë erano piccole cattedrali del vissuto, silenziose ma vive e, crescevano radicate nella terra e nella volontà femminile, in un equilibrio antico tra natura, necessità e sogno

Gli spazi della casa, di ogni Katundë, del paesaggio, non sono mai neutri o fini a sé stessi, ma sono impregnati di memoria, di riti e di gesti quotidiani che raccontano una storia di resilienza e di coesione. L’organizzazione dell’ambiente costruito rivela così una profonda sapienza progettuale, frutto di secoli di esperienza condivisa, in cui il vivere, il lavorare, il guarire, l’imparare e l’allevare si intrecciano in un’unica trama culturale, silenziosa ma resistente.

Per eseguire questa missione, primaria e fondamentale focalizziamo l’indagine conoscitiva volgendo attenzione nei meriti e lo sviluppo, dei fenomeni acustici e rispecchiare l’evoluzione naturale del parlato e dell’ascolto all’interno degli elementi primari noti come shëpia in forma di Katonë, Kaulljeve e Motëicelliurë.

La filosofia del bisogno si concentra sulla ricreazione dell’esperienza sonora all’aperto riportata negli spazi interni, perché forma naturale ed essenziale per migliorare il benessere delle persone attraverso il suono della voce.

Gli arbereshe sono gli appassionati sostenitori dell’importanza dell’acustica per il benessere dell’apprendimento e, in ogni ambiente e situazione.

E l’insieme si traduce in soluzioni acustiche di alta qualità e, il suono ha un impatto significativo nella nostra vita quotidiana, e il supporto scientifico per migliorare gli ambienti dal punto di vista sonoro all’interno della casa senza dover travalicare il costruito di moenia.

Nasce così l’esigenza di un ambiente sonoro interno ideale per le persone, basato sull’esperienza del suono all’esterno.

Il senso uditivo è naturalmente adattato a un ambiente all’aperto senza riflessioni sonore da soffitti e pareti.

E replicare le qualità acustiche naturali negli ambienti interni, serve ad ottimizzare gli spazi secondo la percezione uditiva naturale, migliorando la chiarezza di voce, suoni e contenuti in ascolto.

Infatti se vi dovesse capitare di entrare o visitare una casa vernacolare quello che subito attrae è il soffitto, che da parete a parete è la chiave per ottenere una vasta superficie fonoassorbente, riducendo l’intensità del suono, abbreviando i tempi di riverbero e migliorando la chiarezza della voce e il comfort uditivo complessivo.

Sostenibilità non è soltanto una parola, è un movimento collettivo per difendere sin anche tutte le consuetudini riferite e, per questo richiede un impegno concreto.

Infatti le pareti di anno in anno assemblano strati di fumigine e calce che crea con il passare degli anni una pellicola fondamentale per riverberare con cautela il parlato.

Anche il solaio, così come veniva fatto, era un’opera o architettura del bisogno diretta dalle donne ed eseguita dagli uomini e, aveva due momenti cruciali in cui la struttura e tutti gli adempimenti più pesanti erano diretti dalle donne ed eseguiti dagli uomini mentre le rifiniture sostanziali all’uso e all’ascolto e, ogni solaio portava la firma non scritta di chi l’aveva pensato, assemblato, finito.

Le madri dicevano: “Se il solaio è buono, non senti nulla, ma se è mal fatto, ti entra nella testa come un tamburo.”

E non era solo un modo di dire, perché i rumori, i freddi, i vuoti non ben chiusi, diventavano col tempo piccole crepe nella convivenza.

Per questo la costruzione del solaio era sempre accompagnata da un’attenzione collettiva, quasi rituale e, nessuno lo faceva da solo, perché un lavoro di casa, ma anche di comunità.

Nei paesi dove le famiglie erano cresciute dentro le stesse mura, si poteva ancora sentire, a distanza di anni, il modo in cui erano stati costruiti i solai.

Alcuni erano elastici, leggermente cedevoli sotto il passo, mentre altri, sembravano assorbire tutto, anche le voci.

Le donne più anziane riconoscevano i materiali dal rumore secco che veniva da sotto. “Questo è o secco,” dicevano, “questo invece è terra cruda con calce. Qui hanno fatto bene.”

Non c’era solaio uguale all’altro, ma tutti seguivano quella logica stratificata che mescolava terra e tecnica, silenzio e resistenza.

Nessuno usava cemento, nessuno parlava di norme, ma piuttosto di tenuta, di isolamento, di pazienza nel fare le cose bene.

Il tempo era parte del materiale e, si doveva aspettare che ogni strato assestasse, che ogni laminato trovasse il suo equilibrio.

Col tempo, quando alcune case vennero rinnovate, i nuovi materiali cominciarono a sostituire i vecchi, solaio di legno fu coperto da gettate di calcestruzzo, le lamie quadrangolari scomparse sotto piastrelle industriali.

Ma nelle case dove ancora si poteva vedere un frammento di quel vecchio solaio, una trave viva, una mattonella consumata al centro, una fuga sottile colma di calce, si leggere ancora la storia.

Si sente il passo lento di chi, sopra, si muoveva piano per non disturbare chi viveva sotto, in tutto un passo che non era solo rispetto, ma parte stessa della struttura.

E oggi, quando quelle case vengono recuperate, spesso si scopre che i solai originali sono ancora là, nascosti sotto strati più recenti, ma ancora sani, ancora capaci.

Basta sollevare un angolo, ascoltare il legno, sentire l’odore della paglia pressata, ed è lì che l’architettura del bisogno diventa memoria solida, che regge non solo i piani superiori, ma tutto quello che nel tempo si è costruito sopra: vite, parole e silenzi.

In tutto l’assetto dell’architettura del bisogno presso gli arbëreshe, erano le donne a stabilire dove cominciava e dove finiva la cosa da fare. Con un bastone, una pietra, o semplicemente con il piede, tracciavano a terra un segno. Dicevano: “Qui ci vuole un muretto basso,” oppure “Qui lo spazio serve largo, per stendere, per stare seduti, per vedere chi entra.” Nessuno chiedeva perché. Gli uomini prendevano gli attrezzi, i materiali, e iniziavano. Non si trattava di obbedienza cieca, ma di fiducia in un sapere che veniva da lontano.

Il primo momento cruciale era sempre quello della costruzione grezza. I materiali si portavano a spalla, si sceglievano le pietre una per una. Le donne non toccavano quasi nulla con mano, ma erano sempre lì. Coordinavano i ritmi. Dicevano quando bastava scavare, quando bisognava alzare di un palmo, quando una pietra era troppo larga o troppo friabile. Le frasi erano brevi, decise. Ogni parola serviva. Gli uomini non si prendevano licenze: se una cosa non era chiara, si aspettava il cenno.

Durante la costruzione, le donne preparavano da mangiare e intanto osservavano. La posizione del sole, il vento, il modo in cui l’ombra cadeva dentro lo spazio nuovo. Le più anziane avevano occhio per tutto. Dicevano: “La pioggia batterà qui prima che altrove, fate in modo che scorra via.” E così si faceva. Non era solo una casa, era una creatura viva che doveva respirare, durare, proteggere.

Il secondo momento cominciava quando la struttura era finita. A quel punto gli uomini si fermavano, le donne prendevano il tempo per sé. Entravano nello spazio ancora grezzo, ancora sporco di terra e polvere, e ci camminavano dentro.

Lo percorrevano in silenzio e poi iniziava il lavoro di fino lee mani femminili che rifinivano gli spigoli, aggiustavano le altezze, riempivano i vuoti.

Le sedute venivano sistemate con piccoli panni sotto le gambe, gli angoli diventavano utili, i ripiani nascevano da nulla.

La cosa più importante era che lo spazio cominciasse a parlare. Non parlava con voce, ma con uso. Le donne ascoltavano col corpo: dove si inciampava, dove faceva freddo, dove mancava qualcosa. Sistemavano. Tutto doveva servire.

Niente doveva essere solo bello, ma tutto doveva avere un senso. Ogni oggetto aveva un posto, ogni gesto doveva poter compiersi senza spreco.

La casa, o la stanza, o il magazzino, diventava così un’estensione della donna che l’aveva pensata. Quando una giovane si sposava e veniva portata in casa nuova, le altre donne venivano con lei. Non era solo un rito: serviva a sistemare, a renderla abitabile, a darle il giusto orientamento. Senza quelle rifiniture, lo spazio restava muto. Con quelle mani, invece, si apriva e cominciava a vivere.

Le donne non firmavano nulla. Nessun nome restava inciso da nessuna parte. Ma ogni cosa fatta bene portava la traccia di chi l’aveva pensata. Bastava entrare in un cortile per capire se lì c’era passata una mano attenta. Bastava sedersi a un focolare per capire se lo spazio era stato finito da una donna che sapeva ascoltare.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-09-25

 

 

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"Katundë Arbëreşë tra Storia, Credenza, Parlato, Ascolto e Urbanistica "

“Katundë Arbëreşë tra Storia, Credenza, Parlato, Ascolto e Urbanistica “

Posted on 23 settembre 2025 by admin

Bimbaa2Atanasio PIZZI Architetto BASILE – Le popolazioni insediatasi nel meridione a seguito della diaspora balcanica, si riconoscono nello storico enunciato secondo cui: il sangue sparso si unisce nel ricordo; (gjàku i şëprishurë su ghàrrùa), il che sintetizza la misura delle innumerevoli gocce, dello stesso sangue, che trovarono dimora nell’ampolla, denominata: Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Tutto nasce dalla necessita di un popolo, stretto tra i flutti di un destino crudele e le fiamme della propria coscienza, decise di partire, non per fuggire, ma per custodire.

Custodire una verità antica, una morale non scritta che scorreva nelle vene come il sangue e che nessun decreto, nessun esercito, nessuna ideologia avrebbe potuto estirpare.

Da quella terra aspra e sacra che si affaccia sull’Adriatico dove le montagne parlano la lingua degli antenati e le acque portano ancora l’eco dei giuramenti fatti contro la luna, essi presero il mare, non per cercare fortuna, ma per restare fedeli e, continuare a essere ciò che erano, in casa loro.

Ogni passo di questo esodo fu un atto di resistenza silenziosa, perché non c’erano armi, né proclami, solo famiglie intere, madri e padri, anziani e bambini che si muovevano con la dignità di chi sa che la propria cultura vale più dell’oro, più della vita stessa.

Essi attraversarono terre sconosciute, valicarono confini invisibili tracciati dai potenti, e si insediarono in nuovi mondi portando con sé non solo il pane e la lingua, ma soprattutto l’anima.

Eppure, la storia ufficiale, quella scritta nei palazzi del potere e nei salotti degli accademici, ha spesso preferito ignorarli. O peggio, confinarli in note a piè di pagina, derubricandoli a fenomeno folclorico, o manipolandoli con ambiguità travestite da analisi.

E quanti oggi alla fine di un inutile carriera di lampi e tuoni che svelano la propria catastrofe, sono proni davanti ai nuovi dogmi del consenso, inventano itinerari di germoglio che questi uomini e donne non hanno mai rappresentato e, rappresentato: la morale di resistenza attraverso i secoli di una discendenza indoeuropea che non ha bisogno di certificati scritti o grafitati.

Ma questa è la loro storia che non chiede gloria e, noi siamo qui per raccontarla, delineando le direttrici fondanti degli insediamenti Arbëreşë, nati delle ondate migratorie ancora poco note e, limitato a nord dal potere romano e inseguiti da est dalla luna che non ha mai smesso si calare e, oggi si traveste di sole.

Essi non si sono fermati a ricostruire un’identità perduta, ma contribuito attivamente alla definizione delle dinamiche abitative, produttive e religiose dei territori in cui sono giunti, costituendo un laboratorio sociale e religioso per calmierare il confronto tra oriente e occidente.

Nelle regioni di Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo e Molise, il Mezzogiorno intero, essi si sono strutturati mantenendo tratti linguistici, religiosi e organizzativi comuni, senza non poche difficoltà per interagirsi con il tessuto locale, secondo le arche strategiche prestabilite.

Queste macroaree si leggono ancora oggi non soltanto come ambiti geografici, ma come sistemi di resistenza e adattamento, nei quali e attraverso i quali, la memoria collettiva e le esigenze del quotidiano hanno modellato ogni cosa, ad uso di codici specifici secondo antiche consuetudini.

La topologia d’insediamento segue le logiche di difesa di iunctura familiare connesso tra centro antico e la natura circostante, secondo gli snodi e le tappe della credenza misura per fare anche una chiesa nuova.

Le architetture vernacolari, i sistemi di aggregazione familiare, i vichi, gli archi i vicoli ciechi e gli otri botanici, sono la forza strategica di una cultura della sopravvivenza e dell’autonomia che bandisce le murazioni del Borgo medioevale.

Qui la casa assume un valore rituale oltre che funzionale attraverso il parlato, l’ascolto della lingua e, rendeva solido il modello fatto di consuetudini solidali mai rinnegate.

I materiali impiegati, l’orientamento delle costruzioni, le modalità di aggregazione, evidenziano un sapere tecnico legato alla memoria collettiva che diviene credenza e ricordo di provenienza.

La chiesa non è solo religione ma anche un simbolo di uguaglianza dove generi e fratrie non si dispongono secondo le forme piramidali dei poteri forti, ma secondo il rispetto fraterno espresso dal governo delle donne arbëreşë.

La chiesa è fulcro insediativo diretto dal sole e, il sacro rende solidale l’uguaglianza civile, le feste, i battesimi, i matrimoni e i funerali sono riti comunitari che uniscono famiglie segnando spazio sacro e spazio abitato.

Il parallelismo ambientale qui ritrovato, mette a confronto le dinamiche e i patimenti del Meridione italiano, evidenziando affinità strutturali, nonostante la diversa matrice culturale.

Questa analogia consente di leggere l’insediamento non come corpo estraneo, ma come una delle tante risposte storiche alla questione dell’abitare il Sud collinare, che ancora oggi interroga la pianificazione, la conservazione e la valorizzazione dei piccoli più moderni incontaminati.

 Così come stupisce il percorso storico di integrazione secondo un progetto antico, di cui ancora oggi, pochi ne hanno saputo trarne i principi o i contenuti di radice, per poi avere i benefici di integrazione mediterranea tra popoli, oggi in affanno, pena e bisogno.

Nel cuore del Meridione, dove le strade si arrampicano lente tra faggi, castagni, gelseti e pietre antiche, esistono luoghi che sembrano resistere al tempo più per ostinazione che per caso.

Sono i piccoli centri montani arbëreşë, ovvero i Katundë, che restano abbarbicati alle alture del cuore mediterraneo peninsulare che sono più delle isole culturali, circondate dal bosco, in tutto centri antichi che non compaiono nelle mappe dei turisti, ma che custodiscono una memoria lunga e profonda, fatta di vento, di silenzi e di voci basse.

Questi centri, non sono semplicemente “aree interne” da sviluppare ma sono luoghi da sostenere con garbo, dove il tempo è segnato dalle campane della chiesa, mentre i frutti stesi al sole davanti casa sono pronti a fare  radici nuove, questo è il ciclico, dove il paesaggio non è sfondo ma risorsa primaria.

In esso si avverte una forma di verità ruvida, senza ornamenti, in tutto la verità di un meridione che ha vissuto ai margini, ma con una densità spirituale difficile da ritrovare altrove.

Camminare tra le vie e i vicoli articolati di questi centri antichi, anche in inverno, quando le nubi rasentano i tetti e le campane scandiscono le ore, ed è qui che si avverte sempre la presenza l’idea di quanti in casa sostengono questi luoghi, dove la modernità non è assente, ma si muove con passi incerti e rispettosi, a volte respinta e, avvolte è lei che ascolta stupita.

Le voci che in ogni casa chiusa, ogni anziano che osserva e ogni bimbo che piange, raccontano un legame profondo con la terra, con la fatica, con la memoria che rende speciali questi luoghi.

L’olivetano arbëreşë adottato da Partenope 

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