Archive | Storia

Minareto o campanile1

VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI LUOGHI ARBËREŞË CITTERIORI (Ibrahim Shaban Likmetaj Kodra, il discepolo di Carrà, Carpi e Funi)

Posted on 12 marzo 2024 by admin

Minareto o campanile1

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolo di “Arberia” e subito riferire di luoghi dove la comunità Arbëreşë, ha disteso il proprio bagaglio identitari antico, al fine di non essere compromesso.

Lo stesso, presentato con il su citato sostantivo, a modo di Stato geopolitico nuovo, nonostante la minoranza si riconosca solo ed esclusivamente nell’enunciato di Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë.

Un esperimento storico disposto da Giorgio Castriota e, conclusosi in accoglienza e integrazione, priva di prevaricazioni o conquista di sorta, se non il solo principio di conservare la propria radice, nel confronto genuino con gli indigeni locali.

Rispolverare tutto ciò seguendo l’itinerario o pellegrinaggio dell’illustre Ibraim Kodra, si può estrapolare il compendio disegnato, secondo la metrica visiva dell’artista, un libero e spontaneo parere di credenza storica smarrita, lo stesso che denota l’accanimento profuso e conservato in quelle rive frastagliate oltre il fiume adriatico, mai mutate dai tempi e dei fatti del passato.

Kodra nasce 22 aprile 1918, a Ishëm, in Albania del nord, da una famiglia di pastori e sin da piccolo, allietava genitori, parenti e amici, disegnano sulla sabbia componimenti delle greggi con uno spiccato senso delle cose osservate,  inizia così la sua avventura sino a Milano dove diventa allievo di Carrà, Carpi e Funi per poi artista famoso in tutto il globo.  

I dipinti dei Katundë Arbëreşë, con grande finezza di monito, profusa dell’artista verso i suoi antichi fratelli, hanno come tema multi colore, continui abbracci fraterni, il cui unico rammarico è riversato nella forma dei campanili, con la croce in forma di luna, per ricordare cose che lui stesso non conosce e, a cui non sa dare valore di tempo e di luogo secondo l’antica e da lui mai vissuta, prospettiva di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato, come struttura di strumenti moderni in resta di ornamenti identitari, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna e riproposti come abusi edilizi degli anni sessanta del secolo scorso.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, rendono e danno misura di un abbraccio, come fanno i familiari quando si dividono e poi si ritrovano, anche se l’artista, avrebbero dovuto conoscere la piega di credenza, che costrinse quelle genti a migrare a guardia dei confini e per non soccombere.

Il grande maestro, di formazione orientale, rimane un testimone/interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, avendo il merito di coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica della terra natia.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, interpretando il senso delle comunità Arbëreşë, secondo una visione Guernica Arbëreşë, storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli Arbëreşë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere, non espresse in urla diffuse dai minareti, che modellarono, la tempra in terra madre, dal giorno dell’abbraccio di separazione.

L’itinerario artistico, di Kodra diventa, atto d’amore e di rammarico, verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto intravedere minareti inesistenti al posto di campanili.

Il sangue non mente e, per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria, vive gli attimi irripetibili di una Gjitonia.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, precisamente pollino che guarda verso lo jonio e, poi prosegue verso il tirreno, dove l’antica “Acqua Bella” scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Crati, qui vede e prende atto delle pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della “carmina convivala”, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre la Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove osserva la piana di Sibari, dal Crati sino al Trionto, terra che dette i natali alla minoranza Arbëreşë il faro, o pietre su cui si ergeva maestosamente, l’intimità ormai senza più vesti.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità, sta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco finalmente prende atto del viaggio Bizantino, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza, da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità Arbëreşë d’Italia, esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui, che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da memoria di minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.  

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta in memoria di una nuova fratellanza.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello di città aperta….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno cinque e oltre, come il numero dei sensi……

P.S. Lo Shëshë non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è Shëşë, noto in storiografia come modulo di Iunctura urbana, componimento urbano articolato in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpj), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redë).

Comments (0)

I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La Calabria oggi come succedeva secoli orsono è salita sugli altari che spettano a chi unisce popoli e fa accoglienza, ma con una sostanziale differenza, ovvero, in terra ferma non è confermata la stessa disponibilità ad unire approdi, colline e monti.

Emerge così il confronto storico da le tre macro aree calabresi, Ovvero la Citeriore, la Ultra e l’Ulteriore, una scia indelebile di stupore diffuso, sin anche quando la si presenta come punta da cui partire per raggiungere isole oltre mare.

Oggi la ribalta politica e dei media, concentra l’attenzioni per i risvolti sociali ed economici d’Europa, grazie al ponte sospeso sullo stretto, un tempo “oltre il faro”, il traguardo da raggiungere co treni veloci, ma qui inesistenti, dove far viaggiare, tutte le sorti future del sud Italia che è già isola.

La Calabria, punta di uno stivale, ha un difetto grande, ovvero, dimentica di essere parte della gamba del corpo europeo, ed è proprio da qui che si sono tessute, le trame disgiunte tra le sue tre figlie Citra, Ultra, Ulteriore e, qui in questo breve, si vogliono evidenziarle per ripristinare lo stato di fatto non più accettabile, nello specifico l’operato politico/culturale che non collega, i suoi piccoli e grandi centri, che giorno dopo giorno perdono vitalità e porzioni ancora non fondamentali, dell’imperterrito scorrere delle stagioni.

Rievocare lo stato e le cose che hanno reso la Calabria protagonista nei secoli, non sta in questa diplomatica, perché largamente diffuse, ma riferire di quanto e cosa la caratterizza dal secolo scorso, è il caso di soffermarsi e sottolineare avvenimenti di radice culturale non di poca importanza.

Nel 1970 venne istituita la regione Calabria con capoluogo politico e sociale Catanzaro, ma gli attriti che anticiparono questa scelta, nate qualche anno prima, fecero riecheggiare le volontà antiche di Valle di Crati, Terra Giordana e del Gran Ducato calabrese, rispolverate e sventolate nelle piazze con colori ed emblemi politici.

Tutte e tre le province portavano sul tavolo, la trattativa in misura e del valore del proprio vento, ma poi ad avere ragione fu la strategica posizione della prima, su tutte le altre due, che vennero giudicate periferia.

Una volta ristabiliti, dalla politica, ruoli, funzioni sociali e formazione, ebbe iniziò la stagione delle autonomie regionali e, nonostante le province siano passate da tre a cinque, con Catanzaro capoluogo di regione e Cosenza, Reggio di Calabria province, assieme alle giovani Crotone e Vibo Valentia, il trittico storico della essenze culturale, continua a formare i calabresi, con venti e trame di tessitura secondo gli antichi risvolti di: Terra di Valle Crati, Terra Giordana e Terra del Gran Ducato.

In Calabria dopo aver elevato i confini politici e amministrativi con capitale Catanzaro, si disposero, temi culturali diversificati nei tre capoluoghi storici, e le discipline culturali poste in essere, continuano a seguire rotte distinte per un capitano che manca come regia super parte, quella in grado di far convergere ed essere eccellenza, come fa la terra con madre natura.

La regione grazie al principio di accoglienza della Sibaritide e del Reggino antico, con le coste colme di abbracci sicuri di approdo, hanno saputo portare a termine, e con successo sconfiggere, le difficoltà prodotte da terremoti, carestie, siccità e ogni sorta di evento naturale malevolo dirsi voglia.

Le genti di Calabria con le sole risorse vernacolari di genio locale, in fraterno confronto con i nuovi ospiti, li approdato prima e poi accolti nei centri collinari, hanno saputo superare ogni avversità, lavorando senza giudicare cose, fatti e uomini, seguendo solo l’aratro trainata dai buoi, per fare solchi assolati di semina buona in questa Biosfera del meridione.

Chine ripide senza misura, superate grazie alla forza dei solidi cunei agrari e, come atleti Crotonesi instancabili, trovare forza per confrontarsi in quell’ambiente naturale, innalzando i valori inestimabili del trittico mediterraneo per vivere bene e in salute.

Una radice sostanziosa che germogliò per dare frutto nei campi dell’agro, silvio e pastorale, poi trasformato dalla “proto industria locale”, in alimento unico, indivisibile e inimitabile.

Si conoscono tutte le epoche della storia di questa regione, grazie alla quale minoranze storiche, qui trovarono porti sicuri e, oggi, invece di essere valorizzate per i loro contenuti storici, sociali antropologici e dell’architettura vernacolare, come esempio di città aperta o metropolitana, sono tutti comunemente classificati come “Borghi”, termine a dir poco inopportuno, per il valore di apertura sociale che denotano quei luoghi di iunctura sociale.

Sono queste stesse minoranze che assemblavano agglomerati urbani, denominati Hora o, Katundë, rispettivamente a impronta Grecanica e Arbëreşë, senza mai produrre sovrapposizioni sociali, di tempo ed etnia, insediandosi in macro aree disabitate o dismesse dagli indigeni locali, i quali essendo in pena, li desertificavano assieme all’agro, gli stessi ambiti, poi secondo le epoche riconosciuti come: Grecanici, Arbëreşë e Occitani, tutti nel breve tempo del confronto con gli indigeni locali, resero vitali e produttivi le terre di pertinenza di quei centri antichi.

Oggi questi centri, di valori, forme e significati vernacolari inestimabili, pur rappresentano circa il 20% dei comini di tutta la regione, sono tutelati solo per la lingua altra che qui si ode echeggiare, ma non certo per l’interezza del modello sociale che qui venne innestato in espressione materiale e immateriale, per diventare il volano primo dell’intera Calabria in arte attività e cultura.

E nonostante ciò si perde tempo senza mai produrre, per opera di tutte le discipline culturali di formazione, un progetto condiviso di indagine e studio, formando gruppo multi disciplinari come faceva l’imprenditore/ingegnere Adriano Olivetti, negli anni sessanta del secolo scorso, ogni volta ricevuto un incarico istituzionale, per valorizzare o intervenire in ambiti di particolare interesse culturale, sociale ed economico, per nuove opportunità di rilancio.

Oggi si va ramenghi, per vicoletti, piazze, case e shëşë dei centri minori, cercando di innalzare ponti con i costume tradizionale Arbëreşë, il ponte che collega, la casa e la chiese, ovvero il componimento la regola o manuale, trattato senza misura con editi, multimediali, televisivi o cartacei, che siano, immaginando che i primi viandanti lì di passaggio, possano avere il ponte di formazione ideale per esprimere il calore in essi contenuto; la storia di ieri, aderente a quella di oggi, per i domani di continua coerenza.

Allo stato delle cose una domanda nasce spontanea: chi deve rispondere alla mancanza di chiarimenti culturali, di questa tessitura orfana di vie, strade e ponti per dare agio, al sistema Antropico, Sociale, Architettonico, Urbanistico e degli esempi vernacolari, per i quali questi centri antichi, fatti con materia di pura resilienza, continuano a rispondere alle ire dei quinquenni?

La consuetudine calabrese rimane intatta, si studia e si progetta realizzando ponti di confronto con altre terre, senza badare a valli, colline e coste, dove scorrono torrenti, fiumi e impatto i mari, si lascia allargare varco affinare coste e, il vicino di provincia li pronto ad aiutare è sempre meglio del viandante, ignoto e sconosciuto che arriva da lontano.

Si dice che in Calabria serve un ponte, di lunghe campate e molto largo, per fare cultura, economia e nuove opportunità sociali; allora non sarebbe il caso di indagare chi, come, con cosa e perché, costruì in forma vernacolare, “il primo ponte sospeso al mondo, con catenarie a pilastri singoli”, il fondamentale ponte, che divenne simbolo di unione sicura e vanto di Regni, Vescovati e Principati, in tutto, consentire la continuità ideale alla strada che dalle Alpi unì l’Italia sino al di qua del faro.

Tutto questo, mentre si costruivano modelli di scienza, fatti di uomini esatti e, non viandanti pronti a salire sul palco per essere illuminati dai riflettori, e questi ultimi non sono certo la forza della Terra nostra calabrese.

Commenti disabilitati su I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

Posted on 10 febbraio 2024 by admin

cicòope dragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.

Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con  diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando  con numerosi esperti partenopei, amici del settore,  in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte  con senso “pratico chiaro”  e,  soprattutto, in grado di veicolare due  cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò  “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano  i maestri della bottega Olivetara  senza mai “oltrepassare” i1  campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.

Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.

In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.

A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?

Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.

Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.

Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.

Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.

In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di  essere diffusa con sapienza in musei dedicati.

Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e

ambiente naturale.

Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.

In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.

Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.

Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.

Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.

In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:

– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;

– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;

– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,

– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;

– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;

– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;

– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo

Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?

È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.

Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:

– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;

– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;

– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;

– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;

– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;

– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;

– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.

È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.

Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.

La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».

Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.

D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.

Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.

Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.),  individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.

Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.

Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.

La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).

Commenti disabilitati su TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

LA CARTA IL CODICE LE REGOLE CHE ILLUMINANO LA VIA DELLA TUTELA ARBËREŞË (Gnë cartë, gnë besë gnë pëlëmbë me dritë satë mëbami mentë)

LA CARTA IL CODICE LE REGOLE CHE ILLUMINANO LA VIA DELLA TUTELA ARBËREŞË (Gnë cartë, gnë besë gnë pëlëmbë me dritë satë mëbami mentë)

Posted on 06 febbraio 2024 by admin

RepBlue60_TaglineYear_Renewals

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con onesta intellettuale la di cui alta formazione è la forza trainante, per questo potranno essere ispezionate come siano effettivamente le case di uno specifico manufatto o luogo storico.

In questo senso la ricerca porta alla definizione della storia e, non si esaurisce nella paziente ricostruzione del passato; perché diventano protagonisti lo sforzo erudito e, la raccolta del materiale documentario, i quali forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, per formulare giudizi o progetti di valore per un manufatto da tutelare.

A ben vedere diviene fondamentale per la tutela del bene, memoria storica comune, il postulato che pone la ricerca e la diagnosi, innanzi al progetto finale da porre in essere.

La compilazione di tesi, editi o relazioni specifiche, sulla storia locale, la lingua, le consuetudini, la toponomastica, i cunei agrari e le Masserie, della trasformazione con mulini e trappeti, l’urbanistica, l’architettura, la religione, tutto questo a partire dalle originarie attività estrattive di genio, dei luoghi di studio, poi additive vernacolari, di espansione post eventi pandemici, sismici e siccità, sono le componenti da tessere, per poi tracciare un percorso solido degli elementi che modellano e oggi la storia restituisce come Katundë Arbëreşë.

Se nel corso di circa un secolo questi ultimi non sono mai stati indagati come suggeriscono la Carta di Atene (1931); Carta Italiana del Restauro (1932); Carta di Venezia (1964); Carta Italiana del Restauro (1972); Carta di Amsterdam (1975); Carta di Washington (1987); Carta di Cracovia (20009).

Di queste, la Carta di Venezia, in questo 2024 in corso, compie gli anni e, per ciascuno di noi tutori del garbo Arbëreşë, dovrebbe almeno indurre a fermarci, riflettere e meditare, quanto sia sfuggito del nostro patrimonio di genio locale, in quanto, sarebbe bastato leggere quanto qui riportato dall’art 1 al 16 e sicuramente avremmo avuto in dono un numero indefinito di eccellenze immutate, ancora presenti nelle prospettive storiche dei Katundë:

Articolo 1:

La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico.

Questa nozione si applica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un significato culturale.

Articolo 2:

La conservazione e il restauro dei monumenti costituiscono una disciplina che si vale di tutte le scienze e di tutte le tecniche che possano contribuire allo studio e alla salvaguardia del patrimonio monumentale.

Scopo

Articolo 3:

La conservazione e il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte che la testimonianza storica.

Conservazione

Articolo 4:

La conservazione dei monumenti impone innanzitutto una manutenzione sistematica.

Articolo 5:

La conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio.

Gli adattamenti pretesi dall’evoluzione degli usi e dei costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti.

Articolo 6:

La conservazione di un monumento implica quella delle sue condizioni ambientali.

Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e colori.

Articolo 7:

Il monumento non può essere separato dalla storia della quale è testimone, né dall’ambiente dove esso si trova.

Lo spostamento di una parte e di tutto il monumento non può quindi essere tollerato che quando la salvaguardia di un

monumento lo esiga o quando ciò sia giustificato da cause di notevole interesse nazionale o internazionale.

Articolo 8:

Gli elementi di scultura, di pittura o di decorazione che sono parte integrante del monumento non possono essere separati da esso che quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Restauro

Articolo 9:

Il restauro è un processo che deve mantenere carattere eccezionale. Il suo scopo è di conservare e di rilevare i valori formali e storici del monumento e si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche.

Il restauro deve fermarsi dove ha inizio l’ipotesi: qualsiasi lavoro di completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e teoriche, deve distinguersi dalla progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca. Il restauro sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio archeologico e storico del monumento.

Articolo 10:

Quando le tecniche tradizionali si rivelino inadeguate, il consolidamento di un monumento può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi di struttura e di conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata da dati scientifici e sia garantita dall’esperienza.

Articolo 11:

Nel restauro di un monumento devono essere rispettati i contributi validi nella costruzione di un monumento, a qualunque epoca appartengano, in quanto l’unità stilistica non è lo scopo di un restauro.

Quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura inferiore non si giustifica che eccezionalmente, e a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, e che il suo stato di conservazione sia ritenuto sufficiente. Il giudizio sul valore degli elementi in questione

e la decisione sulle eliminazioni da eseguirsi non può dipendere dal solo autore del progetto.

Articolo 12:

Gli elementi destinati a sostituire le parti mancanti devono integrarsi armoniosamente all’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché il restauro non falsifichi il monumento, sia nel suo aspetto artistico, sia nel suo assetto storico.

Articolo 13:

Le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso di rapporti con l’ambiente circostante.

Ambienti monumentali

Articolo 14:

Gli ambienti monumentali devono essere oggetto di speciali cure, al fine di salvaguardare la loro integrità e assicurare il loro risanamento, la loro utilizzazione e valorizzazione.

I lavori di conservazione e di restauro che vi sono eseguiti devono ispirarsi ai princìpi enunciati negli articoli precedenti.

Scavi

Articolo 15:

I lavori di scavo devono essere eseguiti conformemente a norme scientifiche e alla “Raccomandazione che definisce i princìpi internazionali da applicare in materia di scavi archeologici”, adottata dall’UNESCO nel 1956.

Saranno assicurate l’utilizzazione delle rovine e le misure necessarie alla conservazione e alla stabile protezione delle opere architettoniche e degli oggetti rinvenuti.

Verranno inoltre prese tutte le iniziative che possano facilitare la comprensione del monumento messo in luce, senza mai snaturarne i significati.

È da escludersi “a priori” qualsiasi lavoro di ricostruzione, mentre è da considerarsi solo l’anastilosi, cioè la ricomposizione di parti esistenti ma smembrate.

Gli elementi di ricomposizione dovranno sempre essere riconoscibili e rappresenteranno il minimo necessario per assicurare le condizioni di conservazione del monumento e ristabilire la continuità delle sue forme.

Documentazione e pubblicazione

Articolo 16:

I lavori di conservazione, di restauro e di scavo saranno sempre accompagnati da una documentazione precisa con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e da fotografie.

Tutte le fasi dei lavori di liberazione, di consolidamento, di ricomposizione e di integrazione, come gli elementi tecnici e formali identificati nel corso dei lavori, vi saranno inclusi.

Questa documentazione sarà depositata negli archivi.

 

Conclusioni per la tutela dei Katundë Arbëreşë

Naturalmente non tutto il patrimonio è perso, importante non rimanere incanalati nella identica deriva e lasciare che le cose si difendano da sole, in quanto ancora un numero rilevante di esempi resistono allo scorrere dell’incuria e del tempo.

A tal proposito servono progetti mirati per riportare all’interno del centro antico almeno una delle prospettive storiche così come furono immaginate e sostenute dai nostri avi, testimoni saranno le nuove generazioni che ne faranno tesoro.

Materiali, componimenti, prospettive ammalorate sono ancora presenti, serve datarli e investirli del giusto valore di pigmentazione storica, poi il tempo modellerà tutele cose a misura della consuetudine e del genio Arbëreşë.

Commenti disabilitati su LA CARTA IL CODICE LE REGOLE CHE ILLUMINANO LA VIA DELLA TUTELA ARBËREŞË (Gnë cartë, gnë besë gnë pëlëmbë me dritë satë mëbami mentë)

LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

Posted on 06 febbraio 2024 by admin

GranadillaNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con tutta l’onesta intellettuale di cui si e capaci, definendo come siano andate effettivamente le case.

In questo senso la ricerca storica non si esaurisce nella paziente e minuziosa ricostruzione del passato; lo sforzo erudito, la raccolta del materiale documentario forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, consentendoci di formulare giudizi di valore e tentare un’opera di sintesi.

Per questo intendere l’origine e la mecca­nica di quegli eventi della storia che ci porta alla condizione nella quale si versa attual­mente.

La premessa conferma il principio che la storia in senso generale sono episodi di una formula, che no trova loco in archivio compilata in ogni sua parte degli scribi del passato e, in attesa di essere trovata, letta per essere interpretata dal primo avventuriero.

Qui, per questo, si vogliono tessere, linee fondamentali, in tutto, una diplomatica onesta, semplice, veritiera, oltre che comprensibile anche al più comune addetto, anche se notoriamente svogliato Arbëreşë.

Non è concepibile che ad oggi tutto l’echeggiare sia riservata solo alla pubblica assemblea, co le effigi del diffuso sancito; “da noi diciamo così”, senza avere memoria di promuovere l’antico progetto mussulmano, in tutto, una forma di negazione delle proprie radici e “tacere sarebbe un modo semplice per apprendere la consuetudine Arbëreşë”.

Esiste una strada che delinea la storia senza irregolarità alcuna e, l’essere caparbi a non smettere di cercarla per seguirla, ti distingue dai comuni locali che, generalmente si fanno incantare solo dai nodi di tessitura irregolari.

Per questo tessere, e riconoscere tempo, persone e morale dei fatti avvenuti nel componimento, consente alle figure, di apparire trionfanti genuine e, certamente non neri di sventura.

E quanti si cimentano a fare ciò, devono saper tessere e setacciare nel contempo le anomalie dei fili compilati, senza predisporre affiliazioni malevole, per diventare fratello vicino ad altri che mirano a fare società buona.

Evitando di sedere nelle fila, dei fannulloni più abietti, che danno vita ad attività poste in essere dalle istituzioni tutte, le stesse che non hanno soluzioni di rimedio a questa vasta deriva, che non vede termine definitivo.

Conferma di questo stato di fatti, cose e attività, sono le numerose figure di eccellenza lasciate in compagnia dei loro esclusivi editi, perché ricercatori di levatura alta” i quale invece di essere ben accolti li preferiscono a quanti si sollazzano con gli inutili editi di riverso culturale basso.

Queste figure illustri, in oltre vengono screditate e lasciate in amara solitudine e, sin anche relegati al confino culturale, dalle istituzioni preposte alla valorizzazione di cose uomini ed eventi.

Nello specifico sono proprio questi a preferite ambigue e spinose figure attratte dall’orbita culturale, espongono oltremodo, fatti mai avvenuti, per la natura e il genio dell’uomo Arbëreşë.

Per questo le cose, le figure e i fatti qui trattati, vogliono essere una rivalsa epocale dei ricercatori “solo di levatura alta”, a impronta dell’aquila ciclopica, che nel volare alto, coglie le cose mai intercettate da quanti si cimentano al chiuso degli archivi, ancora non allestiti, in loro favore. 

Tutte queste cose o eventi rovesci, devono ricevere una energica risposta, dal mondo della Cultura “scacciandoli a pedate nel fondo schiena” dalla capitale della cultura Arbëreşë, scambiata, per spiaggia per attivisti dell’ozio di mente e cuore, ignari del dato che qui dimora l’aquila della cultura e il fido ciclope.

Nel mentre in tutta la Regione storica, si continua a valorizzare l’ironia mussulmana, la stessa che depone il capretto sulla cupola di credenza imperiale.

Un componimento blasfemo irreverente per noi Cristiano Bizantini, che per onorare e ricordare i nostri defunti, non usiamo banchettare con carne, in tutto un emblema, preparato e posto in essere con cattiveria e senza rispetto dall’avversario imperiale.

Vero è che quel componimento è riposto, in capo dell’eroe Arbëreşë, in tutto, un messaggio ironico e blasfemo che vuole sminuire, il valore della tela forte e duratura di opposizione, tessuta dallo stratega Giorgio, trappola di credenza che è diventata ormai vanto incosciente.

È stata una vera e propria imprudenza impedire, rifiutare e, per due volte, interrompere il dialogo che la cultura alta voleva intraprendere con voi preposti politicizzati bassi, a casa mia pure ospitati.

Tuttavia inconsapevoli di vivere e aver respirato o essere stati ventilati da troppa farina nei mulini del fiume Sordo e del torrente Settimo, dove si usa disperdere la poca crusca in favole ad opera degli ignari, presentati come vanto di macina buona, che comunemente negli appuntamenti istituzionali svelano fatiscenti, incoerenti, comunque penosi a voglia per dirsi, argomenti di farina al vento.

Come se tutto ciò non bastasse, nel contempo e caparbiamente si impedisce il dialogo con le eccellenze alte, preferendo belare editi di confusione o commettere soprusi in campi ancora incolti, gli stessi preparati dall’infaticabile contadino colto, che segue semina, crescita e raccolto finale per esporlo come eccellenza.

Chi si occupa di “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”, e mi riferisco a quella che il presidente Mattarella, nel 2019 definì la minoranza storica; “modello di integrazione sostenibile del mediterraneo in età moderna”, non sono certo gli stessi che vanno spargendo incoerenze storiche e territoriali della monocentrica “Arberia”.

E i pochi illustri che sanno, conoscono e, più che conta, hanno consapevolezza della infinita storia degli Arbëreşë, quella vera e realmente accaduta, la parte genuina, meritando per questo più di una medaglia, più di una carta pergamena a titolo ignoto e, molto più di una “laurea ad honorem”, come hanno fatto per il comune o perverso “Antiquario Clerico” a fine carriera.

A ragion veduta o sostenuta da queste irresponsabili fatti, “I CULTORI ALTI”, bisognerebbe riservare almeno una menzione condivisa della Presidenza della Repubblica Italiana e di tutti gli stati che si ritengono figli di questa lingua nata ad est del fiume Adriatico e tutelata identicamente negli ambiti della “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”.

Questa proposta potrebbe lenire le pene profuse, per evitare piaghe culturali in atto, diffusesi nelle cattedre in festa o vento di farina pandemica dirsi voglia.

Studiare e comprendere i sistemi articolati dei centri antichi di radice Arbëreşë, non è semplice, ne può risolversi pubblicando senza ragione, come e perché furono compilati, capitoli, onciari in atti di sottomissione.

Spetta a chi conosce queste cose, spargere semi di sensi; e la conseguente logica per i quali furono allestiti.

Palesemente questo non è semplice, ma cosa più fondamentale, non può essere ritenuta materia di lettura alla portata di un singolo comunemente scriba.

In quanto questi ultimi non hanno visuale ampia per interpretare, come fanno quanti muniti di caparbietà non smettono di indagare per trovare riscontri della storia medioevale, antica e moderna.

Gli stessi con cui bisognerebbe confrontarsi ricevere risposte coerenti o venire in soccorso e, rendere chiari gli argomenti trattati con solidità di senso storico.

Non è concepibile che per rendere sostenibile la storia e i trascorsi degli edificati dai tempi vernacolari, si possa ancora oggi affidare le cose a istituti universitari, i quali si presentano in loco ben consapevoli del misero sapere, ma speranzosi che gli allievi, possano indagare la storia locale, per i voti di lode messi in palio, come si fa nelle fiere e nelle feste padronali.

O allievi che non avendo consapevolezza dell’idioma, Tosco e Ghego usano il traduttore automatico di Google, per fare componimenti in lingua altra e se ciò può andare bene per le parlate indo europee, non lo può essere per l’Arbëreşë che essendo un parlato senza in supporto di scribi alcuni, non sarà mai contemplata in quel sistema di intelligenza artificiale ancora acerbo.

Si ode un lamento diffuso d’aquila bicipite dalle due bocche dello stesso corpo, ma nessuno le ode o non ha consapevolezza del fatto che è componimento del dolore che viene dal cuore,

Benché tutti la vedono stampata, raffigurata o riposta su vessilli multicolore, ma niuno ha mai notato che essa è vestita di “Stollja nera”, espressione di madre devota che vede giorno dopo giorno perire le sue cose materiali ed immateriali e in lutto perenne, fa ricognizione alta nello scorgere sempre meno cose.

E questa è la conferma che tutto volge al termine, nel fare cose che hanno temi o citazioni copiate per riportare a proprio nome senza vergogna, una gloria che non è più possibile.

Purtroppo oggi sono numerosi gli scribi, che fanno queste azioni senza titoli e conoscenza dei temi specifici, apparandosi dietro atti di cose che li possano lavare dall’onta di vergogna inedita spargendo cenere su: Tarantelle con credenza di Taranta; Gjitonia riassunta come libero Vicinato; il Katundë tipico impianto di città aperta, accennata come un Borgo.

Se volessimo aprire su tutto lo scenario storico culturale, come non menzionare il giorno dedicato all’estate Arbëreşë, nello specifico pur se trattata diffusamente nel “discorso” di Pasquale Baffi, viene liberamente esposta come allegoria, per una strage terminata in vittoria di “Giorgio il condottiero onesto”.

Ormai non è più tempo di accogliere con sorrisi di sufficienza sin anche dalle istituzioni, tutte queste inappropriate dicerie senza senso, perché colme di vergogna culturale e sin anche svuotate delle storiche consuetudini.

E visto lo stato delle cose e di fatti avvenuti sino a ieri, urge esporre alla berlina pubblica come si faceva un tempo, lungo la Via Furcillense della Capitale Arbëreşë e, senza alcun favoritismo o distinzione di sorta, la terza volta che verranno a “Ştutare cose base”, saranno accolti come fan carnevale i giullari di corte.

È tempo che le figure quiete, senza alcun titolo culturale, guadagnato da soli sul campo, hanno compiuto, il loro ennesimo danno e, nella definizione della nuova legge 482/99 è arrivata l’ora di invitare le menti alte a riscrivere quell’equilibrio che manca per tutela le cose tangibili e intangibile, associate all’ambiente naturale, scambiato per semplice valle per mugnai matti, questi ultimi, e sono molti, per far elevare una storia mai posta in essere da nessun Arbëreşë, vantano di titoli di bottega altra, che nessuno conosce.

A tal fine, serve nell’immediato, correggere la dicitura “Lingua Albanese” che è altra cosa di “Lingua Arbëreşë” nella definizione della legge 482/99; il tema fondamentale che potrebbe rendere protagonista la minoranza dell’Italia meridionale e non i moderni assemblati idiomatici, prodotti dal mulino oltre adriatico, ben distante dall’originaria crusca Arbëreşë mai prodotta in questi paralleli.

Se ancora nessuno lo avesse notato, esiste anche l’articolo nove della Costituzione Italiana oltre al Decreto del Presidente della Repubblica, del 2 maggio 2001 n 341, Art 1, Comma 3, che sarebbe il caso di annotare, terminando una volta per tutte la malevola, inquietante deriva colturale che si protrae senza rimedio.

Certamente la legge482/99 non darà mai i frutti sperati se non si ha consapevolezza nel distinguere tra conservazione e uso del bene, contravvenendo sin anche alla Carta del Restauro di Venezia del1964, consigli condiviso da tutte le nazioni del vecchio continente e proprio quest’anno compie i sei decenni dalla sua indispensabile attuazione condivisa.

Questa ricorrenza del 2024 potrebbe essere anche occasione di convegni, incontri o dibattiti per dare spazio nei Katundë Arbëreşë alle direttive applicandole in toto, le stesse che tutelano tutti i luoghi che hanno fatto la storia dell’umo, e da ciò nasce spontanea la domanda: perché non applicarla anche per gli Arbëreşë.

Poi con figure eccelse di esperienza confermata sul campo, non per gli scritti vocabolari e temi di simili radici o pubblicazioni ignote, si potrebbe informare gli abitanti di oltre adriatico, quanta eccellenza in Regione storica diffusa degli Arbëreşë è stata posta compromessa del suo genio antico e, non carta penna e calamaio, per fare vocabolari ignoti.

Quante volte gruppi prediletti si riuniscono per inviare messaggi fumosi e, sempre i soliti quattro noti, nati infanti e senza titoli dal 1975, nel promontorio piatto descritto del Sordo.

Tuttavia molto è andato disperso, ma noi cultori liberi e non militarizzati a mo’ di piramide, come usano fare, chi non vive di ricerca, diagnosi e progetti.

Da ciò restiamo l’unica ancora di salvezza sul campo, pronta a dare sicurezza e, portare quella luce che manca al mondo degli Arbëreşë dai tempi di Baffi, i Vescovi Francesco, Demetrio e Giuseppe e poi dopo di loro Torelli, Giura e Scura.

Il primo a immaginare e i tre seguenti fratelli, aprire il collegio in Sant’Adriano, la stessa fratellanza in grado di svilupparlo e dare consistenza di cultura alla struttura:

Tutto questo sino a quando la mira culturale fu portata a buon fine, e sempre un buon fratello depositò le tre parti in lughi di fratellanza, la stessa che accompagna gli eventi di questo storico presidio di cultura fraterna da 1792 senza soluzione di continuità.

Se ancora al fiorire del 2024 si ripetono, riversamenti di aceto, come citava il prelato Eleuterio Fortino negli anni sessanta del secolo scorso, cosa c’è da aspettarsi dada quanti riferiscono promuove e palesano l’idioma delle Alpi oltre adriatico, attestandone però, la radice nel sud di clima mite ai confini con la Grecia.

Questo stato di confusione diffusa, ha generato incoerenze inarrivabili, anche se sarebbe bastato studiare, con più attenzione le vicende o l’operato di Pasquale Baffi.

 Il Sofiota di provincia Citeriore Calabrese, legato alla Principessa Carolina per Fraterno indirizzo di pensiero, cosi come alla pari regnante delle Russia, con le quali divideva le idee dei liberi pensatori per il rinnovamento Europeo.

Fu questo infatti nel 1774-5-6, non essendoci a Napoli stamperie con caratteri alfabetari greci, ad inviare i suoi editi nel nord Europa, dove furono dati alle stampe in forma come da lui voluto, rappresentando “la prima analisi comparata della lingua Arbëreşë” e, comunemente si menzionano solo gli editi e i “discorsi successori” sugli Albanesi, che non sono gli Arbëreşë, oltremodo e in più versioni parentali, dati alle stampe con la, clausola che riteneva errata quella prima edizione con errori tipografici, volutamente distrutta?

E ancora, se è attribuita la trattazione della legge agraria, ai gradi intermedi e proprietari dell’ideale repubblicano, come può uno scendere tra i manifestanti e dire di essere con loro e spartire le cose sue e dei fratelli, usurai?

Non viene da chiedersi come mai una cellula legate all’illuminismo del libero pensiero, era al comando di un forte e consolidato patrimonio e, mel contempo insegna della ribellione, in tutto, un ramo del confuso associazionismo risorgimentale.

A questo punto come non parlare della genuinità di Vincenzo Torelli da Barile di provincia lucana, il germoglio indiscusso della critica teatrale e della editoria, in specie l’Albanese d’Italia.

È stato lui a consentire per la prima volta la diffusione delle cose e ogni elemento caratteristico che distingueva noi Arbëreşë, fu lui che invento un giornalino dove i protagonisti dei racconti erano la musica e la voce del canto, un messaggio antico, che ancora nessuno studioso titolato, conosce è ha mai preso in considerazione.

Furono tatti i dibattiti, ogni volta che usciva un numero, nei locali della cultura vicino al porto di Napoli, dove si riunivano musicisti, compositori e storici della cultura, per comprendere perché il Torelli facesse trionfare in ogni episodio il canto e, nessuno allora come oggi comunemente avviene, coglieva il senso del suo messaggio, quale compilazione eccellente raffigurata dell’arte Arbëreşë.

Cosa dire della luce che in campo architettonico, dell’ingegneria della geologia e della scienza esatta, profuse o meglio inviò da Napoli l’Arbëreşë Luigi Giura di Maschito nato nel vulture Lucano e, vedere nel 2011, da chi dice essere eccellenza, restare basito e interrogarmi su chi fosse questo uomo.

Certo che l’argomento e da approfondire, ma comunque palesa lo stato culturale dove si è arrenata l’eccellenza, ma più di ogni altra cosa dà la misura, della informe culturale, costruita secondo credenze con numerose labilità.

Non sapere o avere consapevolezza di chi fosse Luigi Giura di Maschito, il luminare del fare, che non ha eguali e, ancora oggi nessuno riesce a superare, l’ingegnere e architetto esempio dell’era moderna, capace di superare i romani con le stesse tecnologie e senza nulla aggiungere o bisogno delle conquiste in campo tecnologico del tempo in cui visse.

Gli albanesi che inneggiano liberamente a paradossi culturali senza senso o emblemi mussulmani attribuiti come radice, dovrebbero affidarsi più alle eccellenze allevate e vissute negli Şëşi, per poi recarsi sui campi di tutto il territorio della Ragione storica diffusa degli Arbëreşë, a seminare meriti.

Come questo esempio della nostra stirpe ha saputo elevarsi lo deva alla genialità che avvolge gli Arbëreşë, diversamente dai quanti supini e incatenati alle dicerie del promontorio risparmiato dalle ire del Surdo e del Settimo, attendono di essere battezzati.

Le figure come il Giura sono i pochi che hanno reso possibile il modello di integrazione più solido e genuini dell’Europa meridionale, quella che poggia il piede il tacco e la caviglia nel mare mediterraneo per germogliare colori senza eguali.

Tornando alle cose fatte e rese alle disponibilità sociali dell’allora Regno di Napoli, dopo aver citato lo storico traguardo migliore del genio romano, non si può non citare il principio di collegare le terre con ponti sospesi.

L’opera di genio alto serve ad unire popoli, pensiero e cultura e quanti ancora non lo hanno compreso, dovrebbe alzarsi in piedi, quando citiamo, il ponte sospeso su catenarie a pilastri singolo realizzato dal Giura nel fiume Garigliano, primi esempio al mondo di questo genere e che ha dato avvio alla scuola per unire popoli.

Per questo l’operato degli scribi, non può approdare e confondere pietre che ricordano, con bastono che  reprimono genti, altrimenti bisogna ancora attendere il tempo; punto e a capo

Commenti disabilitati su LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

REPERTI VERNACOLARI ARBËREŞË l’INVISIBILE PRESENZA PER L’ARCHEOLOGICO TURISTA (Zopathë i thë ngrëiturat pà garbë thë viuera)

REPERTI VERNACOLARI ARBËREŞË l’INVISIBILE PRESENZA PER L’ARCHEOLOGICO TURISTA (Zopathë i thë ngrëiturat pà garbë thë viuera)

Posted on 26 gennaio 2024 by admin

oTTAGONO

NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È uso comune in tutti i luoghi teatro indiscusso della storia, con protagonista il genio degli uomini, le tesse che oggi appariscono esposte in fossati o recinti con generi di confine, privi di ogni minimale schema generale del disseppellito planimetrico e altimetrico.

Sono numerose le fosse in componimenti di questo genere espositivo in tutti i centri antichi, dove si possono osservare resta di grammatura e, tutte prive dei minimali episodi di tema completo da acquisire o diffondere.

Ragion per cui, un attento osservatore che si ferma e ode i gruppi di curiosi condotti dalla guida di turno bardato, suo malgrado, si assiste a una scala di sconcerie a dir poco demenziali e scorrette anche in forma grammaticale di lingua europea dirsi voglia.

Per dare termine a questa deriva senza soluzione di continuità basterebbe un QR-Code protetto e, ogni cosa sortirebbe in verità, fornendo alla guida di turno in primis, umanità storica con pin o codice di accesso dedicato, alle cose vere degli Arbëreşë, che non sono esclusiva idiomatica, in tutto, vero è che la realtà delle cose di cui fanno parte quei frammenti di storia, potrebbero diventare, la solida trattazione certificata, mai realizzata da nessuno scriba armato di carta e penna.

Cosa diversa avviene in quella che identifico, siccome munito di alta formazione culturale e, infaticabile onnipresente negli ambiti buoni, come la “Salita della Sapienza Olivetara Partenopea”, perché con righello in mano e, non certo come fan gli altri con carta, penna e calamaio pensando di fare cultura in Istituti o Dipartimenti orientati male e poco assolati, gli stessi che non sono neanche idonei a fare orto, perché orientati senza sole.

Ragion per la quale quando dico e diffondo il principio di “Regione Storia Diffusa Degli Arbëreşë” non esprimo parere solitario, ma concetto condiviso, almeno da sette più una, disciplina e, chi sa studiare alla luce del sole, quando va da est a ovest, non deve attendere mezzo giorno per avere luce e, al buio senza termine impreca il buio d’Arberia.

Se altrove si preferisce recintare i fossi dove ancora i resti vernacolari resistono “infossati”, per continuare ad essere sottoposte alle ire della natura e degli uomini, nei Katundë Arbëreşë, si potrebbe ricostruire ogni cosa senza un minimo di pena per il sottratto, alla storia millenaria di questi luoghi di genio e pena.

Ma non solo questo, infatti attraverso il sistema QR-Code protetto, si possono aggiornare tutte le notizie storiche locali in specie quelle dei Katundë Arbëreşë, che non hanno guide e, vivono alla giornata della prima figura a cui si chiede notizia, non di una strada o un loco, ma della storia che li è avvenuta in millenni di avvenimenti.

In altre parole, invece di apporre lapidi penose di memoria dedicate sin anche ai carnefici, scambiandoli per figure oneste, in tutto, un discreto quadratino codificato ti riporta alle notizie, di un sistema multimediale, fornendoti nell’immediato la reale storia di quel determinato luogo, ameno che siano.

Un modello nuovo per fare turismo culturale e accoglienza della breve sosta, accreditando le note tramite un sistema dedicato, in altre parole un museo a cielo aperto, dove le entrate monetarie avvengono tramite un QR-Code protetto, al quale per ricevere risposte storiche, si in via un obolo monetario, per la visita e le nozioni che si ricevono previo consenso di addebito a carico del turista, lo stesso che in giro affamato di formarsi e conoscere le cose concrete della storia  di quel luogo specifico.

Chiaramente progetti moderni di questa levatura, non possono essere realizzati da singoli ballerini/e, esperti/e, letterati/e senza arte e ne parte, ma da un gruppo di lavoro diretto e condotto da chi ha chiaro il fare intelligenza artificiale e, concerta le competenze specifiche di ogni titolato o di memoria storica locale, facente parte del gruppo, al fine di fornire e dare il meglio di ognuno di loro.

Questo è un modo di realizzare, tutti assieme, una moderna guida turistica locale, una intelligenza artificiale, che fonda le sue radici in quella dell’uomo, l’unico a sapere come fare per raccontare le cose senza errori, del passato, breve o lungo o remoto che sia.

Un progetto multimediale che non ha eguali e finalmente le cose tangibili e intangibile della storia locale, dell’agro e di tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreşë, possono essere diffuse con questo modello artificiale, che proprio per questo, no omette o rende ridicoli le cose serie della nostra storia.

La regia del progetto, si prevede sia allocato in un server unitari di tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreşë, evitando così, il diffondersi di errati editi, che possano apparire contradittori gli uni con gli altri dei cento e più Katundë di detta regione storica e, finalmente anche gli Arbëreşë avranno una storia unitaria e, non solo della sorgente idiomatica, dove sgorgano vocabolari e pronunce gratuite a dirsi voglia.

Commenti disabilitati su REPERTI VERNACOLARI ARBËREŞË l’INVISIBILE PRESENZA PER L’ARCHEOLOGICO TURISTA (Zopathë i thë ngrëiturat pà garbë thë viuera)

IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë  L’ina Casa)

IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë L’ina Casa)

Posted on 22 gennaio 2024 by admin

Ina Casa 2NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I diffusi manufatti abitativi vernacolari, dei centri minori e dell’agro Arbëreşë, qui presi in esame, hanno convinto a perseguire questa pista di indagine o ricognizione, con lo scopo di sensibilizzare le amministrazioni locali; in figure di genere, ordine e grado pertinente.

Il tema mira al recupero di un patrimonio largamente esposto ai disastrosi operatori, che non avendo misura e formazione pertinente hanno lasciato che il valore di questi storici manufatti, venisse deturpato dalle ire del tempo e dell’uomo munito di pico e accetta.

Quello che oggi ereditiamo dopo questo intervallo sciagurato, è lo stato di degrado rilevato, per il nulla fatto, verso questi esemplari unici dell’edificato vernacolare

I quali si sono potuti difendere solo grazie alla buona scelta dei materiali locali impiegati e resistono in autonomia alle avversità, offrendo a noi tecnici, un’ultima opportunità al loro cospetto, perché allievi dalla “Scuola Olivetara” e dare cosi una nuova era di rivalsa dopo l’indagine qui in proposta.

Questi esempi di architettura vernacolare irripetibili, sono ormai sulla via della terminazione e, in molti casi non si tratta più né di conservare e/o restaurare pur se presenti, ma siccome ignorati, hanno preso la via della terminazione.

Questa breve constatazione non vuole essere atteggiamento accusatorio o di giudizio, degli interventi pubblici o privati, posti o non posti in essere, ma piuttosto un tentativo di sensibilizzazione e trarre l’attenzione, su quanto non è stato fatto per la conservazione di antiche strutture, prive sia di rilievo per la memoria e sia di progetti a fini conservativi.

Inoltre si è constatato che gli esempi disponibili quelli vernacolari, monocellulari denominati Katoj, Moticelljè, Kocellja o Kallive, sono stati poco considerati, mancando una seria attenzione o interesse per la conservazione, che avrebbe dovuto seguire le regole del restauro, per la memoria che avvolgono questi luoghi.

Gli stessi e unici in grado di raccontare o meglio il teatro della storia antica e quella più recente sino agli anni sessanta del secolo scorso.

Quella storia che i letterati, o meglio gli scribi che non sanno di carta lucida, matite e righelli, ma carte e penna per annotare e certificare per conto di chi li ha preceduti, favole di miti diversi senza cavallo.

La possibilità di vedere in tempi brevi realizzato un progetto di ricerca vernacolare, con trasparenza per la sua origine ispiratrice dell’inesplorato mondo tangibile e intangibile degli innalzati storici, fatti dagli Arbëreşë.

Il rapporto, tra scuole locali e beni culturali, sarà uno dei passi fondamentali per aprire un nuovo protocollo di tutela innovativo, che parte dal basso per impedire la deriva di abbandono sino ad oggi lasciata alle ire del tempo.

Allargare l’interesse partendo dal basso con le scuole locali, pronte alla formazione nuova e, poi terminare nei piani alti delle istituzioni sino ad oggi assenti, pur se formate, ma mancanti di leggi specifiche verso il vernacolare Arbëreşë

Le considerazioni che qui seguono e prima sono trattate, mirano ad illustrare quali prospettive potrebbero avere le esperienze pregresse del gruppo di lavoro, le stesse utilizzate e riversate per sensibilizzare le nuove generazioni, verso questi manufatti locali, nelle scuole dell’obbligo lì di fianco e, identificate come vernacolare identitario delle proprie famiglie.

È chiaro che prima di avviare questo percorso di tutela, bisogna giungere ai risultati preposti, con l’ausilio di alte indagini in argomento vernacolare e con la stessa sensibilità utilizzare l’analisi, materica, che possa garantire quali sono gli di edifici civili o eventualmente religiosi e, dopo i protocolli di rilievo, da allegare a memoria del progetto di recupero a farsi, onde evitare di incorrere a errori che ne possano smarrire per sempre l’essenza.

Questo lavoro di rilievo grafico, fotografico, e materico serve a identificare e catalogare, ogni cosa dell’edificato vernacolare della ricerca, previo la definizione di un protocollo con la individuazione di fonti archivistiche e bibliografiche dello stato del modulo, anche se inglobato in edifici di epoca più recente gli stessi che caratterizzano numerosi edificati rinascimentali, diffusamente presenti nelle provincie meridionali.

Lo studio e l’analisi ormai sviluppate e pronte ad essere applicate, potrebbero alimentare future attività di lavoro e recupero del patrimonio vernacolare, gli stessi non contemplato nella tutela dei beni culturali e in specie relativi o caratteristica inequivocabile del territorio minoritario Arbëreşë, anche perché, la legge di tutela 482/99 ad oggi, non è arricchita con le disposizioni dell’art. 9 della costituzione Italiana.

Già consapevoli, dalla corposa, ma lacunosa, documentazione custodita dalle istituzioni tutte, si è partiti con il verificare numerosi centri antichi e i relativi cunei agrari, avvalendosi dell’effettivo stato di conservazione dei manufatti in loco.

Il materiale in elaborazione è stato schedato facendo riferimento, quanto più possibile, alle reali condizioni delle strutture e il materiale che compongono i manufatti.

Il rilievo e le indicazioni grafiche fotografiche e di osservazione in presenza, daranno seguito alla composizione di schede sulla base del comparto di indagine specifico, con le quali si vogliono fissare e fermare lo stato delle cose di conservazione in atto.

Tutto questo per avere lo stato all’interno di ciascuna specifica Manxzana (Rione tipico di Iunctura Arbëreşë) dello stato a seguito di specifico sopralluogo, relazione tecnica, oltre a specifica nota descrittiva, contenente i riferimenti di osservazione materica degli elevati e gli orizzontamenti di piano e lamia di copertura, oltre la descrizione del continuo dei manufatti articolati nel corso degli anni, in tutto, lo stato finale del bene culturale vernacolare Arbëreşë.

L’indagine mira a catalogare sia edifici sul territorio preso in esame, sin anche quanti distrutti o resi ruderi dal tempo e dei quali restano frammenti di testimonianza in resti di fondazione ancora, presenti sotto le eventuali colture.

A breve saranno reso noti reperti non catalogati o addirittura noti, dei quali si ha memoria nei vari sopralluoghi effettuati.

Allo scopo e stimolare ulteriori studi da parte degli specialisti o dalle giovani leve che portano la notizia nei propri ambiti familiari come domanda per ricevere risposta scientifica in seguito.

Alla catalogazione seguirà un’ampia informativa storiografica, o aggiornamento sullo stato della ricerca, in ordine della storia locale, la toponomastica, riferita al comune preso in esame.

Per quanto riguarda i materiali, visto il tema di indagine, si mira a produrre o allestire un Prontuario o manuale che ne dia ampia illustrazione.

Saranno date alle stampe illustrazioni fotografiche e grafici di memoria, al fine di fermare lo stato di quanto sarà descritto, e di quanto scoperto, anche inedito.

Con la consapevolezza che indagini di questa caratura, voglio restituire un lavoro unico di questo genere, l’auspicio o l’augurio vuole che quanto a breve esposto, sia un utile strumento per gli specialisti di nuova generazione o studiosi delle cose di storia locale.

Tutto questo ad iniziare con il comparare quanto di vernacolare innalzato nei centri antichi e dell’agro, specie quanto riferibile in prima stipula degli atti di sottomissione degli Arbëreşë.

Gli esempi estratto dai numerosi o risalenti alle disposizioni delle celle monastiche di area bizantina; le vetrine di genio vernacolare primo, la stessa metrica indagata e riproposta in epoca moderna, dai più illustri architetti del razionalismo del secolo appena trascorso.

Commenti disabilitati su IL VERNACOLARE BIZANTINO ARBËREŞË, RADICE DEL RAZIONALISMO DELL’ ARCHITETTURA (Kalliva i thë bëniratë spivetë Thë L’ina Casa)

LA PENA INFLITTA A SOFIA, LA FIGLIA DI FEDE SPERANZA E CARITÀ

LA PENA INFLITTA A SOFIA, LA FIGLIA DI FEDE SPERANZA E CARITÀ

Posted on 09 gennaio 2024 by admin

Cattura sotto sopra

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile Dentico) – Le istituzioni succedutesi nel corso degli anni in quello che nacque come Terra di Sofia, siccome poco attente alle vicende lì in svolgimento, sono state maliziosamente taciute, generando così, mendaci ed ingrate osservazioni da parte di stranieri che svolgono attività senza titoli e meriti di luogo.

Questi, fuggendo le nebbie, le miserie e le turbolenze delle loro contrade natie, non trovando altrove agio, sanità e quiete, adoperandosi, per questo, a riferire anomalie del popolo Arbëreşë, di epoche, luoghi e uomini.

Quello che poi, in definitiva, resta sono il catastrofismo di nomina Kuşetara, steso penosamente al sole, con tutta la sua macchia celebrale indelebile, la stessa che devia la mente di proto figure in perenne evoluzione verso il basso.

Tutte queste poi deturpano le prospettive intatte del centro antico, aprono arcobaleni albanesi in coloriture indigene, tutte pronte a diventare offesa alla memoria di eccellenze locali in grafito di carbonella.

Poteva andare diversamente, ma l’arroganza giovanile diretta e condotta dal “puparo matto”, è risultata essere, più devastante della terminazione di una guerra, un terremoto, un incendio o pestilenza dirsi voglia.

Si potevano esaltare i cunei agrarie della trasformazione o valorizzare il manuale che unisce casa e chiesa, ovvero il costume; si è preferito invece, fare ricircolo di contaminanti, lì dove storicamente si giocava da giovani per imparare a vivere in condivisione e rispetto reciproco di regole fatti e cose senza dover ricorrere a costringere la spossa a sollevar vestiti lungo il lavinaio degli uomini.

Anno fatto Workshop e naturalmente, non si è cercato di perseguire la via comoda per citare cose poco note agli indigeni invasori; ma per il solo scopo di elogiare, se stessi, cose e uomini di seconda filiera o tessitura.

In altre parole invitare il forestiero ad osservare le sconcezze o la definizione di uno Sheshi o della Gjitonia, per incuneare nausea, nel voler affermare a tutti i costi evidenti necessità familiari o di gruppi equipollenti.

Si sa che in un centro antico come quello di Terra di Sofia non tutto può essere lodevole, perché la perfezione non è sempre delle opere umane; ma il richiamare l’attenzione altrui sulle proprie debolezze formative, sa piuttosto di sfacciataggine, rivolta nei confronti di un visitatore ignaro.

Constatata la inesorabile deriva ormai in atto e senza regole, thë kuşet e Sofiesh, si ritiene di dover aprire un nuovo stato di fatto o solida egemonia culturale, per fornire almeno strumenti di lettura, indispensabili, ad arginare la pericolosa decomposizione ad opera degli entusiastici adolescenti, che siccome discoli rinomati, nel lavinaio thë Trapësa fanno “pishiallioca e nulla più”.

In tutto un protocollo che ormai è regola di numerosi e distratta scolaretti; in campo del costruito, la storia, il raffigurato, il costume, le favole, il canto e le ballate, prive di radice o di ogni sorta di garbo Arbër/n.

L’auspicio qui perseguito, mira a far dileguare o almeno allontanare da şeşi, rrughe, orti, trapesi, porte gemellate, sedili di conta e processioni, i giullari di mezza festa o solisti alla esasperata ricerca di dogarsi.

La nota di allontanamento perenne, vale anche per quanti si presentano con i veli d’incoerenza, per essere “Attori Primi” senza vergogna e alcun pudore morale, nell’esporre le cose che dicono essere memoria, in archivi e biblioteche, come se chi vive di consuetudini, ogni giorno si reca dal notaio a certificare le cose che costruisce per i domani.

Tutto ciò per raggirare gli spettatori distratti che non sanno di cultura, architettura, arte e storia, in tutto si potrebbero definire gatti, topi, gufi e volpi che per distrarre pinocchio nel paese che non è meraviglia, piantano monete nel solco seminativo; con lo scopo di convincere, del sicuro germogliare di “sonanti circoscritti primi”.

Ormai la deriva si è allargata fuori misura e, si ritiene sia ormai il tempo di arginare il termine per “allontanare gli infanti senza religione Olivetara, perché le Terre di Sofia non sono mai state, così tanto calpestate, offese o trascinate tanto allungo, nel Vutto dei nobili di sopra”.

Una nuova Bertina è nata cresciuta e pasciuta nel corso di questi ultimi tre decenni e se il limite più basso era ballare e cantare con movenze e sonorità per imitare il turco nemico, con incosciente rinnovamento, si poteva pure sopportare ridendo.

Dal ballo e dal canto passare alla storia e alla scrittura in Arbëreşë per diffondere cose articolate e inesatte, il passo è breve e, gli argomenti diffusi dalla Bertina di turno, come tutti sanno, conducono al tradimento e alla morte di fatti, cose e uomini o meglio, alla cancellazione della radice di del Casale Terra, motivo per il quale, è urgente intervenire e rendere illegittimo il postulato linguistico e storico di Bertina, versione 2024.

Commenti disabilitati su LA PENA INFLITTA A SOFIA, LA FIGLIA DI FEDE SPERANZA E CARITÀ

REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËREŞË INNALZATA, ABITATA E OGGI VISSUTA SENZA RADICI (Iunctura anomala di Vallje, Gjitonia, Rioni, Vestizione, Parlate e Processioni)

REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËREŞË INNALZATA, ABITATA E OGGI VISSUTA SENZA RADICI (Iunctura anomala di Vallje, Gjitonia, Rioni, Vestizione, Parlate e Processioni)

Posted on 02 gennaio 2024 by admin

36384154-albero-con-radici-isolateNapoli (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Se ad oggi volessimo trarre la somma di quanto prodotto, allestito, cucinato, pubblicato, articolato e contorto, per la tutela delle cose storiche Arbëreşë, si potrebbe ipotizzare la quota massima di uno zero assoluto, se si escludono i nuovi episodi qui diffusi.

Dopo aver viaggiato verso Occidente sino al 2010, poi indagato tutti i cento e nove paesi, che compongono la regione storica diffusa degli Arbëreşë e, in fine attraverso, i paesi dell’Est, tutti gli stati europei, dove resistono più di quanto fanno gli Arbanon, altre minoranze meglio istruite dal basso e, non si comprendono le tangenziali attività dipartimenti, i delegati per tutelare le radici.

Questi pur avendo il compito di indagare comprendere, comparare e leggere il territorio, per rendere chiari gli eventi con protagonisti luoghi, cose e uomini, danno adito a sbalorditive e inesistenti leggende, a cui urge rispondere con forza per evitarne la malevola diffusione della vergona raccolta in funzione dei secoli di semina adnati persi.

Qualche dubbio sorgeva già nel corso del 2003, quando a un giovinetto che frequentava le scuole medie, rispondeva alla domanda: come andava a scuola l’apprendimento dello skip, diffusosi grazie alle risorse della 482/99 a tutela della “Lingua Albanese”.

In giovinetto affermò: io esco dall’aula e gioco a pallone, o gioco ad asso pigliatutto, perché quelli; i professori, non so cosa vogliano e dicano, ma non parlano certamente come mia nonna a casa, quando stiamo davanti al camino.

Sicuramente una risposta sconcertante, per l’età del giovane apprendista minoritario, sottoposto alla gogna di tutela attraverso l’indigena Lingua Albanese.

E tale affermazione, fatta da uno scolaretto, abbisognava di un percorso a ritroso per comprendere cosa fosse avvenuto di anomalo, per giungere a insegnare l’Albanese moderno, nelle scuole dell’obbligo Italiane sotto la giurisdizione linguistica Arbëreşë, per meglio dire, indicare la vecchia via e distrarsi ad osservare il giullare colorato che passa danzando.

Altri episodi a dir poco blasfemi furono: le manifestazioni in memoria della Gjitonia; la violenza scalfita nei quadrangolari murari toponomastici bilingue, le leggende legate al costume da sposa, di cui si divulgavano i primati e nessun contenuto; un processo di studio innescato nelle rime apparizioni pubbliche del 2004 ma da un decennio in prova inventata.

Torna alla mente la memoria di Temistocle, il quale diceva, al piccolo Atanasio: parla bene la lingua Sofiota, perché se sbagli nel pronunciarla, adesso che cresci e giochi in piazza o vai in giro da giovinetto, ti scambiano per estraneo e ti portano a San Demetrio, perché bambino disperso.

Oggi questo avviso per bambini ha finito con il portare adulti a Tirana, dove non si perla certo l’Arbëreşë e i risultati sono a dir poco disarmanti, visto le cose che si elevano, si dicono, si promuovono e si valorizzano, per il parlare strano, e non come parlava ballava e cantava lo zio Celestino, quando faceva innamorare sposi e spose.

Ormai si parla e si raccontano cose che prese una ad una vorrebbero che la minoranza Arbëreşë è Indiana Apache con le capanne attorno al campetto per danzare, non si ha misura di cosa sia la Gjitonia, lo Sheşi, il Costume e gli apparati di decoro, questi ultimi in specie, sono esposti con minori, a dir poco, da perseguire penalmente.

Sono stati realizzati musei  mono tematici cosi come le biblioteche, cose secondo le quali,  la memoria degli Albanofoni che vive si rigenera da oltre sei secoli qui in Italia, fosse opera di uno scrittore, o del campanile più alto costruito vicino alla casa del cultore di turno.

Valgano da esempio gli innaturali sostantivi per riconoscere o attestare il tipo di vestizione comune quali: Festa, Mezza Festa (????); Lutto e Mezzo Lutto (?????), che non trova coerenza, forma o applicazione in nessuna delle società dell’antichità, in quanto inimmaginabile applicativo sociale.

Non esiste struttura pubblica, dove si espongono l’intero o completo grappolo del genio, per il quale gli Arbanon erano ben accolti in ogni luogo,  non per l’esecutiva di lingua o scrittura, quest’ultima, è bene che si sappia, tutelata solo da Pasquale Baffi e poi più nessuno. 

Si ode che alcuni paesi di origine Arbëreşë, non hanno costume, perché in Italia vennero da soldati tutti uomini; questa è una via di fuga culturale estrema, che lascia il tempo che trova, infatti gli esuli della diaspora Arbanon erano gruppi familiari compatti e, non avrebbero mai lasciato la famiglia in balia dei turcofoni educatori.

Ragion per la quale, se non si è in grado di studiare capire e comprendere le cose della storia, perché le istituzioni finiscono addirittura di festeggiare con malevole lapidi in memoria e magari al suono do fanfare prime, le quali, perché musici ignorano cose, terminando tutto in banchetti, balli e giullari ubriachi che indicano vie sbagliate.

Commenti disabilitati su REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËREŞË INNALZATA, ABITATA E OGGI VISSUTA SENZA RADICI (Iunctura anomala di Vallje, Gjitonia, Rioni, Vestizione, Parlate e Processioni)

GNË “LLITIRË” VIENË NAPULË PHËR THË BIEGNË KRIPË  (Un Campagnolo viene a Napoli per comprare sale)

GNË “LLITIRË” VIENË NAPULË PHËR THË BIEGNË KRIPË (Un Campagnolo viene a Napoli per comprare sale)

Posted on 18 dicembre 2023 by admin

tabacchiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ogni cittadino residente di Napoli è abituato alle regole del vicolo e, la conoscenza di tutte le cose, le consuetudini e i trascorsi del vivere con le altrui genti, secondo antichissimi protocolli mirati e regolati da quella via dell’accoglienza, confronto e integrazione.

E prima di accreditare la supposizione dei turisti distratti, giunti qui in ore tarde e senza regola, è bene rammentare quali siano le cose che possono e non possono riferire, nell’ambito del comune parlare di cose qui avvenute con pene e valori di rispetto degli altri.

Qui a Napoli ogni cosa deve essere a misura per la sensibilità dei suoi conviventi a memoria, delle cose della storia specie se si tratta degli Arbëreshë, che qui vi giunsero per formarsi e brillare, secondo un patto antico, tra persone per bene e rispettose.

Per questo i turisti colturali distratti, specie dell’ultima ora, qui mai ben accolti nonostante stonati, devono misurare cosa e dove spingersi a elevare canto, perché notoriamente inconsapevoli di storia, uomini, fatti e cose, le stesse che ci appartengono a noi Arbëreshë e qui con rispetto anche se con dispiacere fraterno, fate fiaccolata con il gregge di pecore con le frasche sulla testa, queste attività, potrebbero anche essere intese come ingiuriose dei dotti arbëreshë Partenopei.

Specie se dirette agli educati e saggi che per adesso ridono divertiti dei seminatori fatui, ma potrebbero anche spegnere con argomenti storici la mai avvenuta pena del gregge senza colpa.

Per coloro che non hanno mai potuto visitare neanche le porte della murazioni Partenopea e, non sanno o conoscono, quante sono e quale tesoro, esse proteggono dai comuni avventori colturali.

Gli stessi che sbarcano a Napoli ignudi e con le braccia rivolte al cielo con la speranza che piova pizza margherita dal cielo e, sfamarsi.

Sappiano che non gli sarà concessa un terzo approdo e, la prossima volta, prima di organizzare cose, fatti ad eventi al fine di inveire sulle tavolate imbandite come diceva il Geppetto romanziere, sarà certamente più utile, leggere prima e comprendere cosa esporre e se non sufficientemente formati, trovino genio che spieghi loro, le disertazioni dei partecipanti e singolari figure che, assomigliano molto per il dialetto e le movenze di rito alle Jannare beneventane.

Se poi nello scorrere delle disertazioni avete fame e voglia di pizza, non disperatevi nessuno vi toglie la prelibatezza dal piatto vostro, perché essa si serve appena uscita dal forno, ed è solo di chi la chiede e la paga.

Comuni esponenti senza formazione di crediti acquisiti sul campo, scambiano la Napoli culturale al pari di un giardino di pascolo come quello circoscritto dai regimi succedutisi nei Balcani, dove il bove allevato in cattività, non conosce, o meglio ignora le regole della stalla comune.

Non è un bel sentire espressioni del tipo: solo chi fa parte dei concordati con germoglio di allegorici dipartimenti, può esprimere pareri e ricercare le cose Arbëreshë, pur se constatati i valori alti di cultura e conoscenza dentro l’elevato Bizantino di Napoli.

Ed è per questo che qui le parole devono essere misurate e pesate una ad una e, chi non lo fa, commette peccato e brucerà con i refusi della ignoranza mentale, che cola dalla bocca, il naso e le orecchie.

Queste affermazioni possono valere o passare nei limes dei sottoprodotti, dei lavinai di reflui lenti, del Surdo  e il Settimo, ma non a Napoli, specie davanti alle onde impetuoso del mar Tirreno che si infrangono in gocce al contatto con la scogliera e, dilava le impurità li approdate.

A questo punto una precisazione si ritiene doveroso e indispensabile fare: con molto eco, riverbero e vibrazioni, talli da provocare scuotimento in ogni forma e grado, dei lavinai citati prima, se “il banditore matto”, qui incoscientemente accolto, si è permesso di esprimere pareri, cose, senza senso, garbo, educazione, oltre tutto indirizzando, verso gli intellettuali che in questa città seminano sapere solido e irripetibile, quando gli antenati “di detto banditore” si occupavano a evangelizzare non credenti in prova il genio degli Arbëreshë partenopeo faceva Grammatica.

Blaterare gratuitamente nella capitale della cultura Arbëreshë con queste affermazioni, si fa torto al Reverendo Militare della Real Macedone, G. Bugliaro, voluto da re Carlo III e, in oltre a: P. Baffi, V. Torelli, i Vescovi Bugliari, Francesco e Giuseppe, a G. Feriolo Suocero di De Rada e, P. Scura, ai fratelli L. e R. Giura e tutti gli intellettuali che qui a Napoli, dopo aver fatto solco e semina di cose buone, portarono luce sino alle falde delle inconsapevoli montuosità Balcane.

Nel mentre qui tutti erano incantati ad ammirare, esaltare e distribuire effigi con il cappello mussulmano incuneato nella testa della pecora di Giove, la stesa di chi va per pascoli e, non conosce non sa, anzi non ha misura, del torto divulgato, ignorando quanti stanno ordinati in fila a fare la storia; quella vera naturalmente e non per procura o per ratto.

Quando a Napoli, P. Baffi comparava la lingua Arbëreshë, con il Germanico, il Grecanico, l’Anglofono, i Latinismi, non esistevano in Europa dipartimenti di caratura o funzione equipollente, per questo solo i qui residenti sono gli eredi certificati, di quella storica, cultura e ricerca, unica irripetibile ed inarrivabile, in tutto crusca che non volatilizza, come fa la farina bianca dei mugnai del Crati e dei suoi affluenti.

Diversamente dalla fatua Arberia, che in altre latitudini si preferisce nelle disponibilità di quanti vivono e vegetano quanti per accendere camino usano testi antichi, qui a Napoli quando si fanno e si dicono cose, si piantano radici buone.

Commenti disabilitati su GNË “LLITIRË” VIENË NAPULË PHËR THË BIEGNË KRIPË (Un Campagnolo viene a Napoli per comprare sale)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!