Categorized | In Evidenza, Storia

PRIMA GRECI POI ARBËREŞË E OGGI ARBËRISHËTË sà kamë gjieghëmj ka këtà ljnëdrùnëra

Posted on 12 novembre 2025 by admin

penaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Olivetano Architetto Basile) – Nel caso delle popolazioni diasporiche provenienti dall’antica direttrice della Via Egnatia, esse furono inizialmente chiamate Greci, in riferimento alle credenze religiose e alle tradizioni delle genti dell’Ovest.

In epoca moderna, invece, acquisirono l’appellativo di Arbëreşë, una definizione che riconosce con maggiore precisione la loro terra d’origine, tra le più antiche d’Europa, situata lungo le sponde dell’Adriatico fino allo Ionio.

Alla luce di questo breve accenno va ribadito che nel corso della storia, i nomi che designano un popolo non sono mai semplici etichette, in quanto essi sono i ponti, di memoria, potere e faticoso progredire.

Essi mutano con il variare dei luoghi e dei tempi, trascinando nel contempo il riflesso delle epoche che li hanno resi noti.

Così è accaduto ai popoli dei Balcani trapiantati nella penisola italiana, che da “Greci” divennero “Arbëreşe”, poi “Italo-Albanesi” e infine “arbërishtë”, svuotando il senso di minoranza, della storica radice di luogo, di tempo e di fatto.

Tuttavia questo ultimo appellativo, suona o meglio si ascolta, come un’eco deformata di una radice antica, soffocando il respiro della dignità originaria, nota per essere diretta e indissolubile.

A tal fine è opportuno precisare che ogni parola, quando viene piegata dal tempo o dall’uso superficiale, può trasformarsi da segno di appartenenza in marchio dispregiativo.

E l’italiano, che è lingua d’equilibrio e misura, aveva saputo raccogliere con senso storico i primi appellativi come forme di riconoscimento di questo popolo diasporico; ma il recente ritorno a una dizione che suona straniera anche in terra che è ormai patria, rischia di risvegliare antichi fantasmi di esclusione e disprezzo.

Quando pronunziamo questi nomi dobbiamo riflettere sul significato che pronunziamo e interrogarci nel tempo che corre tra parlato e ascolto se essa è colma di rispetto a di altra cosa.

Perché appellare un popolo non è mai un atto neutro, perché può diventare gesto ontologico, riconoscimento o negazione del suo essere stato parte della storia degli uomini.

Ed è forse proprio in questa sottile frontiera tra il dire, ascoltare e ferire che si misura la civiltà di un’epoca in continuo progredire specie come oggi accade in continuo dualismo di correnti contrapposte.

Eppure, ciò che desta più amarezza non è soltanto l’ironia implicita nel suono deformato di un nome, ma il fatto che essa venga oggi accolta, e talvolta perfino rivendicata, da chi ne è oggetto.

La lingua, quando si piega al consumo o al compiacimento di altrui, diventa un’arma sottile che ferisce l’anima, il cuore e la mente di quanti si sentono coinvolti, in questo inopportuno regredire a citazione dei contrari.

Così, la desinenza “-shëtë”, che pare innocua a chi non ne conosce il peso in ascolto, contiene un veleno semantico e, suona come un distacco, un ridurre ciò che era grande, valoroso, nobile e definito a, qualcosa di sfocato, quasi minimale come lo è un pidocchio “Pie-shëtë”.

È il suono diventa dignità corrosa nell’indifferenza di quanti la dovrebbero rendere resiliente, durature e, duratura, tuttavia questa deriva significa anche riconoscere che il linguaggio non è solo strumento di comunicazione, ma anche di coscienza e quando questa nel tempo viene smarrita giunge il tempo di rivedere con essa anche molte altre cose incomprensibili e sempre a vantaggio di uno dei due fronti paralleli.

Ogni popolo che smette di custodire il senso profondo del proprio idioma, dunque del proprio essere, si consegna a una lenta erosione spirituale che conduce al gesto di negare il ritorno, ma non quello di essere raggiunti per essere inesorabilmente piegati.

Questa deriva ha avuto inizio alla fine del secolo scorso, quando i primi segni del mutamento si confondevano ancora con l’eco delle grandi promesse moderne.

Da allora, passo dopo passo, il secolo corrente ne ha raccolto l’eredità: prima con leggi ambigue, scritte con la penna della cautela e l’inchiostro del compromesso, poi con disegni e visioni che celavano un’ironia sottile.

Sui fogli della regione ritrovata, i campanili si opponevano a minareti illuminati dal sole che sorge, simbolo di un equilibrio imposto e da cui si preferì essere diasporici.

Così, tra norme che smussano identità e arte che ridisegna orizzonti paralleli, prese forma una nuova epoca, ovvero, della confusione elevata a sistema, della tradizione ridotta a ombra, della modernità trasformata in alibi e, tutto ciò divenne sole, quasi inosservato, da una fine che voleva essere un inizio di una nuova invasione sottile e senza rumori o echi di sorta.

Tuttavia il concetto più gravoso di questa deriva è racchiuso nel dato che essa non proviene soltanto da “oltre Adriatico”, dove l’antico disprezzo verso i fratelli diasporici può, seppur ingiustamente, avere radici storiche; ma che provenga dentro il cuore della Regione Storica e, proprio, tra coloro che dovrebbero custodirne l’eredità in parlato è molto grave, anzi penoso.

L’assimilazione cieca di un termine che porta in sé un’ombra di denigrazione è il segno di un’epoca in cui la coscienza si è distratta e, il linguaggio, svuotato di verità, come luogo della dimenticanza.

E in questa deriva del regredire, non vi è solo perdita linguistica ma vi è lo smarrimento stesso della fierezza di un’origine che seppe un tempo essere “Arbëreshë” con dignità e misura, costantemente sostenuta da una lingua, rispettosa essenziale e limpida, infatti per le parti mancanti ci si è affidati agli indigeni italiani che donarono senza esitare il loro sostegno.

Questa deriva, tutt’altro che improvvisa, affonda le radici in un antico modo di classificare, ridurre e, identificare intere regioni o popoli con etichette che ne sfumano l’umanità, la complessità e il valore storico.

Come accadeva con le antiche popolazioni, così accade oggi nella percezione più comune, dove il nome diventa cartina di tornasole di stereotipi e pregiudizi.

Non è diverso, in fondo, dal modo in cui un italiano all’estero può essere chiamato “meridionale”, associando la persona a cibi, comportamenti o tratti culturali semplificati, talvolta con tono ironico, con disprezzo implicito.

Ma nel caso della comunità arbëreshë, il suffisso “-shëtë” porta con sé un peso particolare e, non si tratta di una semplice identificazione geografica o culturale, ma di una stigmatizzazione che assume forme di discriminazione quasi programmata.

L’equivalente moderno di una forma linguistica potrebbe essere paragonato a termini che condensa in sé derisione, esclusione e riduzione dell’identità svuotandola di forma onorifica.

È la trasformazione di un nome originario, ricco di storia e dignità, in un marchio in forma denigratoria, con la voce di un popolo a cui si associa un ruolo senza gloria non è un bel gesto di parlato e di ascolto diffuso che possa essere prima ragionato con favore.

In questo caso, il linguaggio non è neutro, e la storia non è innocua, ogni parola che viene piegata del contesto culturale o sociale, ogni suffisso aggiunto, diventa uno strumento per marginalizzare o, escludere.

La battaglia per il rispetto di un nome diventa così la battaglia per il rispetto della memoria, della cultura e della stessa esistenza di chi quel nome lo porta e ne va fiero.

I rotacismi linguistici, come è ben noto agli studiosi di fonetica e sociolinguistica, rappresentano un fenomeno largamente diffuso, un gioco naturale della lingua che trasforma i suoni e modifica lentamente la pronuncia originaria smarrendo il senso delle parole.

Ciò che però lascia veramente perplessi è che questo mutamento non sia avvenuto in contesti periferici o estranei alla cultura originaria, ma proprio all’interno di quelle flottilla in mezzo al mare che naviga per raggiungere bacini e, difendere la memoria, la purezza di questo storico parlato.

In altre parole, ciò che era chiamato a proteggere e trasmettere il principio del patrimonio di questa comunità lungimiranti nel loro radicamento diventa, in un certo senso, il terreno in cui la perla più solida si piega e sin anche si corrode.

Laddove il linguaggio avrebbe dovuto essere veicolo di continuità e orgoglio, il fenomeno dei rotacismi trasforma suoni suffissi e distorsione, dando l’impressione che persino la propria voce interna tradisca l’eredità dei padri.

È una contraddizione che lascia senza parole: la custodia di una storia millenaria sembra cedere di fronte a dinamiche fonetiche, sociali e psicologiche che ne deformano il valore.

Ed è proprio in questo spazio ambiguo, dove il naturale cambiamento linguistico incontra la responsabilità storica, che emerge la fragilità dell’identità, costretta a confrontarsi con la propria rappresentazione esterna e con l’ombra della derisione.

Tuttavia, ritengo che questa coda dispregiativa, così chiaramente classista e offensiva, non nasca dal nulla, ma sia piuttosto la conseguenza di anni di errori, fraintendimenti e costruzioni culturali erronee.

Basti pensare alla diffusissima teoria secondo cui gli Arbëreshë sarebbero stati analfabeti, incapaci di leggere e scrivere: un giudizio così radicato da essere considerato “fatto compiuto” in molti contesti e, come per dispetto, questa percezione si sia tradotta in pratica è nella compilazione di vocabolari che elencano parole Arbëreshë o Albanese con la corrispondente traduzione italiana.

Il modello è quello di un qualsiasi vocabolario per l’apprendimento di una lingua straniera, dove a ciascun termine della lingua studiata corrisponde il termine nella propria lingua madre.

Ma la conseguenza involontaria e, al contempo gravemente simbolica, infatti crea una sorta di catalogo della “diversità” come alterità da conoscere, quasi sempre filtrata attraverso l’italiano, come se la lingua originale non fosse degna di autonomia.

Provando a consultare molti di questi vocabolari, e a cercare parole di uso quotidiano come “casa”, “gamba”, “aia”, ci si accorge di una tendenza che mira ad evitare l’acculturarsi o apprendere una scrittura o per lo meno a saper leggere uno scritto coerente e privo di pregiudizio del compilato che diventa elaborato inutile.

La lingua, che dovrebbe essere veicolo di identità e memoria, viene così ridotta a oggetto di catalogazione, trasformata in strumento per fare distinzione sociale e culturale in disprezzo dei meno formati.

In questo modo, la coda dispregiativa che oggi si percepisce nel suffisso “-shëtë” non è un fenomeno puramente fonetico o accidentale, ma l’epilogo di un lungo processo in cui la non chiarezza delle mete o degli intenti, hanno sedimentato un marchio di minorità e di marginalità.

È un esempio lampante di come l’errore storico e la distorsione culturale possano trasformarsi nel catalogare e innalzare la minoranza non proprio per il suo operato di accoglienza fatta di abbracci e parole materne che non sono state mai offensive o riduttive.

Per concludere, dopo anni in cui i vocabolari sono stati compilai in forma riversi con l’assunto storico, che non sapessero né leggere né scrivere, e dopo che oggi vengono appellati con una forma chiaramente dispregiativa, resta difficile comprendere quale sia l’obiettivo reale che si intenda perseguire.

La valorizzazione di questo prezioso patrimonio identitario, che rappresenta non solo memoria ma anche accoglienza e integrazione, deve urgentemente iniziare.

Chi meglio di una associazione multidisciplinare, capace di affiancare diverse eccellenze specifiche, può garantire che tutti gli sforzi convergano verso risultati concreti e duraturi.

Proprio come lo Stato italiano, dopo il primo conflitto mondiale, mise in campo strumenti di valorizzazione per il Sud, mostrando come la collaborazione multidisciplinare pose termine alle situazioni complesse e penose, così può essere oggi per le comunità Arbëreşë.

L’esempio del protocollo Olivetti-Adriano per il recupero e la dislocazione degli abitanti dei Sassi di Matera è emblematico, o modello di intervento che coniuga competenza, rispetto culturale e pragmatismo, e che può ispirare ogni azione volta a tutelare la lingua, la memoria e l’identità di un popolo.

In definitiva, la salvaguardia di un nome, di una lingua e di una storia non è un gesto puramente simbolico, perché diventa un atto di giustizia culturale, un dovere etico verso chi ci ha preceduto e verso chi erediterà questo patrimonio.

Riconoscere e valorizzare gli Arbëreşë significa restituire dignità a una comunità, riaffermare il valore della memoria storica e dimostrare che la lingua e la cultura non sono mai oggetti neutri, ma strumenti di civiltà e coesione.

Arch. Atanasio Pizzi direttore – A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-12 – mercoledì,

Leave a Reply

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!