NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Qualora vi dovesse capitare di operare in ambiti minoritari di etnia albanofona la ricerca cui vi dovete affidare per giungere a certezze storicamente comprovate, non va eseguita attraverso le figure mitiche quali, ad esempio: lo scriba, il medico condotto e il traduttore, perché la comunità albanese d’Italia (arbëreshë) fonda la propria cultura nella consuetudine e nella sola forma orale, che può essere compresa e tradotta adeguatamente, dai natii d’ambito.
Non fate mai uso improprio di sostantivi, quali: Arbëreshë, Gjitonja, Katundi, Sheshi, Ruha, Uhda, Shpia perché altrimenti sarete sottoposti alla luce dei riflettori di coloro che in questi ambiti hanno fatto studi appropriati, mentre sicuramente non avrete alcun problema dagli stati generali, che preferiscono cullarsi negli allori; sappiate, essere formiche e non cicale.
Trattate con equilibrio e rispetto quando dovete inquadrare all’interno degli ambiti urbani, senza travalicare nel seminato dell’avena fatua e scambiarla per grano, la Gjitonia; che non è!!!: un quartiere composto da tre quattro case, abitate da famiglie, che affacciano in una piazzetta.
L’enunciato sociale tradotto in lingua italiana, darebbe altrimenti un’interpretazione distorta e inesatta; una tesi secondo la quale all’interno dei sistemi urbani essa si materializzi in uno o più manufatti, ma purtroppo, così non è in quanto, il suo enunciato fonda le radici in principi immateriali e neanche di esclusiva arbëreshë.
Certo è, che, la gjitonia non deve essere identificata in un quartiere o in qualsiasi elemento materico; giacché, in essa gli arbëreshë, diversamente dagli altri popoli mediterranei, hanno depositato i valori della BESA (promessa) e della famiglia allargata , come depositato nel Kanun.
A quanto sopra enunciato va aggiunto che: la Gjitonia non è associabile a un toponimo, in quanto, entità immateriale.
Appare evidente che avviare l’analisi, utilizzando l’enunciato con le considerazioni improprie largamente utilizzate per la conoscenza della comunità Arbëreshë non è un di buon auspicio per un corretto inquadramento della storia urbanistica dei minori; non oso immaginare a quali conclusioni si possa giungere quando si dovranno valutare e interpretare aspetti più intimi, come quelli architettonici, di cui voglio trattare, qui di seguito e per grandi linee i processi.
Evitate di trasformare sistemi urbani complessi, in modelli lineari, cercando di rendere carrabili i percorsi o trasformare i moduli abitativi, sviluppandoli in direzione verticale perché così facendo si modifica in maniera radicale il senso sociale dell’abitare.
Improprio diviene l’utilizzo del profferlo, quando esso è disseminato irrispettosamente lungo le quinte edilizie, perché esso rappresenta una caratteristica tipica di tutto il bacino del mediterraneo, adottato per frazionare le abitazioni a due livelli e utilizzato dalla metà del 1700, e per oltre un secolo, delle comunità albanofone, prima di essere inglobato nelle tipologie nate dopo il decennio francese.
I sheshi (piccole piazze), così anche le tipiche cortine edilizie delle shpìt (case) interrotte dalle rughè (i vicoli), sono gli ingredienti fondamentali che generano gli isolati, fruibili ed abitabili, per la loro tipica conformazione articolata, sia in inverno che in estate.
Le lavine, (lavinai) unico elemento viario in andamento pressoché rettilineo, si può cogliere negli impianti urbani minoritari in quanto fungeva come naturale sistema differenziato dei riciclo dei rifiuti urbani nei periodi piovosi, affidti alla vorticosità dell’acqua, mentre erano utilizzate come strade per collegare i quartieri alle vie principali di costa, una volta in secca.
Le insule storiche del paese minoritario, preso in esame, sono Quattro, rispettivamente denominate: (in arbëreshë) Katundi, Sheshi, Moticèlleth, Brègù; contraddistinte da segni distintivi negli elevati murari, che non devono essere considerati come apparati strutturali o logistici.
I moduli abitativi, espressione evolutiva dai Catoj, le Kalive e Moticelle, (tipici abituri di architettura minore), sono il modello di studio, in quanto, espressione tipica delle abitazioni dei paesi arbëreshë; cosi vale anche per la loro aggregazione modulare, che diviene funzione complessa delle dinamiche storiche, sociali ed economiche non riconducibili a mere riproduzioni digitalmente estruse, in quanto la quarta dimensione del principio di A. Einstein, non può essere riprodotta.
I toponimi dei quartieri vanno trascritti in arbëreshë e non in Italiano, perché altrimenti si diventa irrispettosi verso gli sforzi, che i dipartimenti di Albanologia delle Università di Cosenza, Napoli, Roma, Palermo e Bari compiono per dare certezze, alla affannata forma scritta arbëreshë.
Contravvenendo a queste disposizioni innalzerete, un prodotto indelebile per gli annali dell’architettura, in cui l’agglomerato urbano, potrebbe diventare un esempio per, come non fare un paese, in ambito minoritari solidamente coeso con le caratteristiche sociali, linguistiche e religiose consolidate dalla consuetudine.
È chiaro che a quel punto l’antico centro continuerà a conservare ancora intatte le radicate nozioni, mentre dall’alto del solido promontorio (Breggù), il vecchio borgo, osserva con tenerezza il nuovo già sofferente, inadatto e inabile, perché contenitore d’inesattezze e contraddizioni storiche.
Personalmente mi auguro, che eventi di questo genere non abbiano più luogo, ma la natura dell’uomo è abituata a distrarsi e quanto detto, dovesse presentarsi tra le attività future della Protezione Civile, vorrei suggerire che nel glorioso disciplinare di soccorso, che la fa distinguere in tutto il mondo, sia inserita a pieno titolo, anche la figura dello Storico Esperto D’ambito, che dovrebbe operare in sintonia con i tecnici, al fine di interpretare e portare in auge integralmente, anche il patrimonio immateriale, di coloro che spogliati, delle ricchezze materiali, possano almeno ritrovare i propri ideali in cui identificarsi per mutuamente vivere quei territori.