Categorized | In Evidenza, Storia

NATO ALLEVATO SECONDO LA REGOLA DELL’ ASCOLTO E DEL CANTO ARBËREŞË u lljeva u rita me fialljë i vieshë

Posted on 01 ottobre 2025 by admin

Patto

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nato all’interno del circoscritto del centro antico, quello stretto tra vicoli come vene vive di un organismo di pietra e, non ha conosciuto l’infanzia altrove oltre i muri a secco a cui il tempo e il sole arbëreşe aveva già tolto il legante.

E il tutto compilava un mondo racchiuso e, nel contempo ricco come un ventre gravido di suoni, odori, racconti, e regole non scritte più antiche delle stesse pietre.

Qui non esistevano ancora televisori in ogni casa, né telefoni, né quell’assordante silenzio moderno fatto di distanze vicine.

Lo stesso ambito dove la voce l’ho forgiata ascoltando solo il parlato e il canto materno, il primo suono, la prima grammatica, la prima preghiera.

Le parole, allora, si imparavano con l’orecchio, non con l’occhio ed erano tramandate, non insegnate come le voci delle madri, delle nonne, delle vicine, tutte diverse, ma solidamente unite da un unico canto.

Cresciuto poi nella parte più moderna, quella degli anni Cinquanta, dove le strade si allargavano e i palazzi si alzavano come sfide al cielo, portando dentro una forza che non veniva dal cemento, ma dal tufo, dai camini di casa, da quella fiamma viva che ardeva giorno e notte senza bisogno di essere guardata, una fiamma alimentata della memoria del radicamento.

Al centro di tutto questo scenario emergeva il valore sociale, Gjitonia, non solo come spazio, ma un’idea, una geometria umana o quadrato senza muri, fatto di usci sempre socchiusi, sedie appoggiate al muro, occhi che ti seguivano senza mai spiarti e, qui si cresceva sotto la sorveglianza collettiva, nella libertà vigilata dell’appartenenza.

Ogni porta era una soglia, ogni cortile una piazza, ogni anziano un archivio vivente, si imparava a stare al mondo osservando, ascoltando, assorbendo.

La regola era semplice, ma inflessibile e, qui non servivano punizioni scritte, bastava uno sguardo o il racconto di una vecchia storia per riportare al centro del dibattito il tuo posto nel mondo.

Non era un Eden, no, era un solido luogo dove si affinavano i cinque sensi e dove erano banditi i più irrilevanti fattori di imperfezione sociale.

Questa è l’energia che ha nutrito ogni bambino, dove l’eco dei canti, il profumo del pane, la cenere calda del camino, sono ciò che ancora oggi avvolge.

Non importa dove vai o, quante città attraversi, quante lingue ascolto, perché dentro di ognuno di noi, cammina sempre quel bambino scalzo sul lastricato caldo e avvolgente di Gjitonia.

C’era, in quel luogo antico e circoscritto, una regola non detta ma sempre rispettata, ovvero il parlare piano.
Non era solo per discrezione o pudore, ma per amore e rispetto dei vicoli, per il suono dell’acqua nei catini, per i sussurri delle donne affacciate, per il vento che portava il profumo della terra umida e dei fichi lasciati ad asciugare al sole.

E io bambino, sempre colmo di entusiasmo, incontenibile come la primavera tra le pietre, venivo educato non con rimbrotti o urla, ma con consigli sussurrati, a bassa voce, come si fa con chi si ama.
“Figlio mio, parla piano…” dicevano, “ché se gridi, penseranno che non sei di qui; ti scambieranno per un bambino d’altrove.”

E io, che a quel luogo sentiva di appartenere con tutto me stesso, con la voce, con i piedi nudi, con il cuore, imparai a parlare piano.

Non era paura, ma esclusivo desiderio di appartenenza e, così crescevo, educato dal vicinato intero, da quella comunità materna che mi osservava crescere con occhi buoni, pronta a correggerlo con tenerezza, mai con durezza.

Ogni donna era una madre o una nonna, ogni uomo uno zio, ogni vecchio un saggio con una storia sulle labbra e, ogni consiglio era carezza.

Quando arrivò il momento di andare a scuola, entrai in un mondo nuovo, qui nessuno parlava piano e la voce era squadrata, sicura.

Il maestro chiedeva e, gli altri bambini rispondevano, ridevano, gridavano, ma io no, preferendo rimanere in silenzio, non per timidezza, non per paura, ma per fedeltà di appartenenza solida misurata con il silenzio estremo.

Nel dubbio che il modo di parlare mi tradisse e, svelasse come “uno di fuori” – paradosso meraviglioso per chi non era mai uscito da quella manciata di strade – preferendo tacere.

E il silenzio era cosi radicato e rispettoso per quel luogo di formazione prima, così tanto, che il maestro si convinse che fossi muto e, nel dubbio anche di più.

Un bambino muto, dicevano, un’anomalia, uno da seguire con attenzione, da interrogare con gesti e occhi larghi, ma io non ero muto perché solidamente radicato.

Avevo dentro di me la voce dei luoghi natii, che non era mai silenziosa ma parlava con misura.
E ogni volta che doveva rispondere, pensava: “Se parlo troppo forte, se parlo come loro… forse non mi riconosceranno più, forse perderò il suono della mia terra.”

E così non imparai neanche a scrivere e quando iniziai a farlo mi dicevano che scrivevo come parlavo e qualche anziano, avvolte, mi invitava a cantare per avere conferma dei miei studi.

Una parola dopo l’altra, con la stessa lentezza con cui da piccolo aveva imparato a parlare piano.
Un nuovo modo per dire chi era, da dove venivo, senza gridarlo e senza perderlo.

Quando ero giovinetto e uscii dalle pieghe della Gjitonia, il mondo mi appariva più semplice, ma non per questo meno duro.

Non capivo ancora tutto, ma sentivo profondamente ciò che era giusto e ciò che non lo era e, ricordo ancora quegli sguardi duri, quei giochi dove vinceva sempre il più forte, e quelle voci, spesso adulte, che senza motivo spingevano a schiacciare, a sopraffare, a dominare l’altro.

Non c’era una vera logica in quel comportamento, ma era solo una spinta velata, che veniva accettata come normale.

Ma io non riuscivo a stare zitto e dentro di me qualcosa si agitava, come un fuoco che non voleva spegnersi e, mentre altri chinavano la testa o ridevano con i prepotenti per sentirsi parte del branco, io restavo in piedi, con lo sguardo fisso.

Non per coraggio, forse, ma per necessità, tuttavia la mia coscienza non mi lasciava tregua, anche se in cuor mio tremavo dentro, sapevo che non potevo ignorare l’ingiustizia.

Fu in quegli anni che iniziai a smuovere le prime barriere, non quelle di pietra o di ferro, ma quelle invisibili, dell’indifferenza, della paura e, della rassegnazione.

Lo facevo con piccoli gesti, una parola, un gesto di azione, uno sguardo solidale e condiviso con chi era lasciato indietro.

A volte bastava poco, e il mondo sembrava cambiare per un attimo, ma non avevo ancora le parole per spiegare tutto questo, ma qualcosa l’avevo già appreso.

L’avevo sentito nei racconti dei miei nonni, nelle storie dette a mezza voce nelle sere d’inverno, quando parlavano di tempi difficili, di divisioni profonde, ma anche di uomini e donne che avevano scelto di unire, invece che dividere.

Dicevano che chi tende la mano costruisce ponti, mentre chi alza muri si chiude da solo in una prigione e, fu così che diffuse in me una convinzione semplice ma potente, ovvero: unire è meglio che separare.

Non era solo un pensiero, ma una guida e, ogni volta che il dubbio mi sfiorava, che la rabbia o la stanchezza minacciavano di farmi cedere, prendevo una strada diversa, quella che mi portava verso i saggi.

Non sempre erano i più istruiti o i più ascoltati, ma sapevano stare in silenzio, e quel silenzio che insegnava più di mille discorsi.

Mi accoglievano con uno sguardo sereno, e con poche parole mi davano visioni di un mondo diverso, un mondo dove la fratellanza non era un’utopia, ma un orizzonte possibile.

Non c’era pena nei loro occhi, ma compassione, e nessun rancore ed erano lì, pronti, come se mi aspettassero da sempre.

Così, tra l’inquietudine e la ricerca, nacquero i miei primi passi sulla strada del giusto e, non avevo ancora un nome per quello che cercavo, ma sapevo che dovevo cercarlo.

E in quella che oggi si dice che sia la parte alta del Katundë, capii che il vero coraggio non era farsi temere, ma farsi comprendere.

Non era vincere sugli altri, ma vincere su sé stessi, ogni volta che il mondo ci spingeva a scegliere l’indifferenza e, io, giovinetto, scelsi di non voltarmi mai dall’altra parte.

Poi venne un tempo nuovo, dove le regole erano più rigide e la lingua che avevo sempre parlato e, che mi scaldava la bocca e il cuore divenne improvvisamente sbagliata.

Me lo fecero capire presto, anche senza dirmelo direttamente e, bastava uno sguardo, una smorfia, una risatina dietro le spalle quando aprivo bocca.

Parlavo solo in arbëreşë, quello denso di suoni antichi, carico di storie e fatica, di terra e di gente, in fondo era la lingua di mio padre, dei miei nonni, delle canzoni che si cantavano per strada o nei campi, l’eco del mio Katundë, come lo chiamavano i vecchi.

Ma a scuola, no, sin anche quando prendevo la via per raggiungerla si doveva parlava l’italiano che non mi apparteneva.

Era pulito, ordinato, quasi freddo e, non aveva il sapore del pane caldo al mattino, né l’eco delle risate nelle stalle, perché mi rievocava una maschera, che non mi apparteneva.

E così, piano piano, mi allontanai, non dalla scuola, perché ci andavo lo stesso, con rispetto, ma da quelli che cercava di cancellare ciò che ero.

Rimasi fedele al mio parlato, al mio modo di esprimermi, anche se qualcuno se ne vergognava, anche se i miei compagni, quando uscivamo in giro per Cosenza, abbassavano la voce quando mi sentivano parlare e, cercavano di correggermi, o peggio, mi ignorava.

Ma io no, non cambiavo, perché preferivo camminare da solo, piuttosto e, avvolte cantavo canzoni che avevo imparato da bambino, quelle che raccontavano di amori impossibili, di campi arati sotto il sole cocente, di partenze senza ritorno e di speranze appese alle stelle.

Canzoni che avevano parole dure come pietre e dolci come miele, camminavo per le strade della città con la testa alta e la voce bassa, come per non disturbare nessuno, ma anche per non tradire me stesso.

La mia non era ostinazione, ma era solo fedeltà e, il mio parlato non era solo un modo di dire le cose, era il modo in cui vedevo il mondo.

In quelle parole c’erano le mie radici, i miei dolori, i miei affetti, e in quel canto, c’era la mia libertà e, così imparai, senza saperlo, la solitudine dignitosa di chi rifiuta di cancellarsi per piacere agli altri.

Non c’era rabbia in me, solo una dolce resistenza e quando mi chiedevano perché parlavo ancora in quel modo, rispondevo: “io parlo e canto con la lingua che mi ha fatto uomo.”

Conclusa la parentesi cosentina, e dopo una breve esperienza a Reggio Calabria, partii per Napoli, deciso a portare a termine il mio percorso accademico.

Era un momento di passaggio, non solo geografico ma anche intellettuale, attraverso il quale lasciavo temporaneamente la mia terra per una città che, da secoli, rappresenta un centro nevralgico della cultura e della formazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, ciò che mi portavo dentro, più forte ancora della sete di conoscenza, era un’eredità mai del tutto compresa, né da me né, tantomeno, da chi l’aveva studiata sino ad allora, genitrici compresi.

E poco prima della mia partenza, un rappresentativo esponente della comunità arbëreşë, figura di grande esperienza e memoria storica, mi rivolse parole che mi sarebbero rimaste impresse a lungo:
“L’architettura, e in particolare le abitazioni del nostro Katundë, non sono mai state oggetto di studio da parte di alcuno e, se un giorno tornerai come professionista, forse potrai dare inizio a una nuova stagione di studi, mai affrontati fino ad oggi.”

In quel momento quelle parole suonavano come un incoraggiamento, quasi una benedizione, ma col tempo, però, le ho comprese come un vero e proprio passaggio di testimone, in sostanza un patto.

Perché lì, in quell’annotazione apparentemente casuale, si celava un vuoto storiografico, culturale e identitario che nessuno, fino ad allora, aveva considerato o dato peso all’ambiente costruito, le case, le strade, le piazze, i materiali e le tecniche tradizionali, meritassero uno sguardo analitico, scientifico, critico. La cultura arbëreşë sembrava custodire solo i codici rituali, linguistici e religiosi, ma ignorava il corpo fisico dei luoghi in cui questa cultura era vissuta e si era manifestata per secoli.

Durante gli anni napoletani, mentre i miei studi si aprivano verso visioni più ampie dell’architettura e dell’urbanistica, sentivo crescere in me la consapevolezza di un compito affidatomi per ricostruire, capire e salvare e sostenere la regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

E così ho fatto, negli anni, raccogliendo materiali, facendo analisi, rilevando edifici, collaborando con eccellenze del misurare per fare restauro, in sostanza le figure più alte che dirigevano la facoltà di Napoli e come loro mi insegnarono.

Mi confrontavo con anziani le vere fonti locali, scattavo fotografie, ricostruivo trame insediative, sovrapponendo cartografie storiche.

Ho cercato, con metodo e con passione, di ridare voce a un patrimonio silente, che attendeva solo di essere ascoltato in arbëreşe.

Ma oggi, paradossalmente, il mio ritorno non è stato accolto e, le mie ricerche, frutto di anni di impegno solitario e di studio rigoroso, non trovano spazio.

In fondo lo capisco pure perché c’è timore, forse anche diffidenza, verso ciò che metto in discussione, come interpretazioni consolidate, narrazioni ufficiali, componimenti storici mai realmente interrogati.

In un certo senso, la mia opera rischia il “disturbare” un equilibrio fondato su omissioni, consuetudini e semplificazioni accademiche.

Eppure, non posso fare altro che continuare e, se la storia arbëreshe vuole sopravvivere come viva, deve accettare di rileggersi, anche nelle sue forme materiali, nei suoi silenzi e nelle sue dimenticanze.

L’architettura non è solo un fatto tecnico o estetico, ma testimonianza, identità, linguaggio e, nessun popolo può dirsi davvero consapevole di sé se ignora i luoghi in cui ha abitato il suo proprio passato.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli2025-10-01

Leave a Reply

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!