Posted on 29 ottobre 2020 by admin
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Posted on 28 ottobre 2020 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA
Posted on 25 ottobre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai da diversi decenni gli Sheshi minoritari sono avvolti da ceneri di paglia, quest’ultima, notoriamente illumina nel corso della breve combustione e non aiuta la consuetudine di quanti vivono del calore dei cinque sensi arbëreshë.
Il fuoco è indispensabile per il passaggio generazionale, così viene compromesso e unire gli oltre cento Katundë, sotto bagliori di paglia turca, non fornisce la giusta energia al protocollo, di legna ardente sapientemente governata.
La continuità che univa e dava solidità alle consuetudini della minoranza, quanto non è stato più alimentato con essenze arboree tipiche dei territori paralleli ritrovati, (Kuzareth tronchi calibrati ed essiccati) gli unici in grado di assicurare il calore, anche durante l’esodo notturno, temperando l’ambito delle Kaljve, mentre si attendeva il sorgere del sole per dare continuare alla storica missione.
Ciò nonostante con il passare del tempo, si sono elevate generazioni, preferendo i lampi e i bagliori brevi dei fuochi di paglia turca, esponendo le nuove leve al grigiore delle ceneri volatili, filamenti di scarto del grano, supporto inutile dopo la maturazione che sosteneva al sole l’indispensabile frumento.
Gli sheshi da quel tempo iniziarono a perdere i colori tipici, oltre l’aspetto formale, per i brevi fuochi di paglia, gli stessi che in ogni manifestazione abbagliano e garantiscono episodi di calore che terminano prima che la luce muoia, tramandando per questo eredità in forma di ceneri, la fine del passaggio generazionale, perché privo di forma orale e gestualità.
Il fuoco di paglia notoriamente non garantisce tempi lungi, davanti al camino, anzi una volta accesa costringe tutti ad allontanarsi per il forte calore e poi rimanere disorientati e infreddoliti ancor di più.
Il ricordo va alle nonne che con un tronco padre e tanti piccoli rami o parti di esso ricavati dal taglio con l’ascia (tòprà) alimentavano il “fuoco lento” ma efficace del camino, ritualità questa che avvicinava davanti ad esso e nel contempo garantiva il latte caldo al mattino, il pranzo di mezzodì e la cena della sera.
Un fuoco senza soluzione di continuità, sempre identico e solido come era anche, il passaggio da padre e figlio, e madre in figlia, pochi gesti ritmati con sapienza, senza mai perdere né la continuità della fiamma, né la quantità di calore.
La sera poi, si disponeva tutto in modo tale che al mattino avrebbe ancora continuato un frammento di carbonella, figlia della lenta combustione, quella sufficiente a garantire continuità al senso di fuoco e di casa sempre viva.
Il luogo del fuoco storico, all’interno delle case degli arbëreshë, rappresenta l’ambito delle consegne tra generazioni, l’unico in grado di riverberare favelle antiche e nello stesso tempo illuminare le case, le strade e i vichi (shëpij, huda e rruga), garantendo sin anche l’inviolabilità dello sheshi, anche di notte.
Quando oggi si torna nei luoghi delle consegne e troviamo altri apparati, realizzati dagli addetti locali, secondo i quali ogni tipo di calore e luce, in grado di genera presupposti di sostenibilità identici a quelle antiche, si comprende quanto sia devastante la deriva in atto.
Grazie ai ricordi, ancora vivi in numerosi e valorosi tutori, gli stessi che conoscono, sanno quale sia il senso di quel fuoco, solo essi, possono rifugiarsi nel ricordo con mente lucida per ripristinare gestualità, cui quel luogo è stato addomesticato e attende di essere ripristinato, solo in questo modo potranno essere forniti gli strumenti idonei a dipingere e risvegliare secondo antichi pigmenti gestualità che oggi sono indispensabili, per la continuità della minoranza.
Un abaco di colori caratteristico vivo all’interno di poche case, non violate, potrebbe innescare nuove scintille se le giuste figure depongono con “saggezza nel focolare madre, un tronco padre, per innescare gli arbusti figli” il resto, è fiamma forte e duratura, quella capace di creare i presupposti antichi e trasmettere consuetudini in forma orale, alle nuove generazioni.
Sedere innanzi quella bocca di calore antico, si recuperano i sensi di un tempo non molto lontano, anche se le quinte dello sheshi sono state violate, il passaggio dei valori, secondo consuetudini rimane le stesse, potrà dare vita agli scenari secondo la tavolozza di colori arbëreshë.
Anche se oggi, fuori dall’uscio di queste preziose case, la realtà dello sheshi è invaso da strimpellatori c favelle che ormai seguono le mode di quanti, si sono distratti nell’ascoltare, le parole e il crepitio di quella fiamma lenta, preferendo cenere di paglia turca.
Oggi è bene avere consapevolezza che le parole ritmate dal fuoco lento dell’identità arbëreshë, sono le uniche da ascoltare, anche si preferiscono e sono più semplici da comprendere, il grigio facile, quello capace di uniformare le parlate locali, unificare le vesti delle spose, con posture inopportune e portamenti a dir poco inconsueti.
Come si può ritenere di essere eredi di un patrimonio orale mai ascoltato, se quando si divulga è cenere riversata con la metrica di quanti gli ambiti del fuoco arbëreshë non lo conoscono anzi, ignorano persino l’esistenza.
Come si può ritenete tutori o dispensatori di consuetudini, suonando chitarre, organetti e ogni tipo di strumento, immaginando che l’essere arbëreshë è solo una favole disconnesse dagli ambiti costruiti e quelli naturali.
Visto lo stato di fatto, si ritiene doveroso ripristinare l’antico fuoco, impegnando le risorse pubbliche, al fine di realizzare confronti attraverso piattaforme multimediali, tra chi conosce il fuoco arbëreshë e quanti non sanno, oltre alla moltitudine che confonde cenere di paglia con quella del fuoco lente che faceva parte sin anche della catena alimentare.
Il fine vorrebbe rinvigorire l’originaria radice arbëreshë, coadiuvati, questa volta, da quanti hanno vissuto, visto e ascoltato saggezze, davanti al tepore di quelle antiche fiamme, per ricucire finalmente il senso delle persone, i loro abiti, le case e lo sheshi, ripristinando i cinque sensi Arbëreshë, senza adoperare più toni di grigio, ma gli ori e i colori tipici.
Commenti disabilitati su I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.
Posted on 18 ottobre 2020 by admin
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Posted on 13 ottobre 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Voglio raccontare la regione storica arbëreshë, non per come va verso l’estinzione, ma per quanto è stato realizzato dai suoi figli, al fine di renderla talmente solida da consentirle di riverberarsi identicamente sino a divenire un modello unico di solidità culturale.
Si da inizio a questo breve, seguendo una via che non da merito, ai divulgati in forma di favole, il cui fine voleva comporre una parlata identitaria infima per unire arbëreshë e Arbanon rimasti in madrepatria, non si sa a quale titolo o scopo, se si esclude il velleitario progetto turco.
Non parlerò di ambigue figure, giullari, alchimisti e operatori culturali economici, giacché, si ritiene che non debbano apparire, ma sciogliere e imbibire le radici, come fa la neve quando spunta il sole.
Tratteremo di generi nello specifico del corpo umano, gli organi che lo compongono, l’ambiente e la natura che lo accoglieva, per renderlo parte del sistema naturale; la radice da cui si diramano le forme idiomatiche più antiche in esclusiva forma orale.
Racconteremo come essi edificarono e come depositarono, consuetudini antichissime, oggi alla base dei principi sociali più moderni, delle grandi città e metropoli.
Parleremo di Kastrijoni, l’insieme di Sheshi, il modello urbano aperto e composto di Uhda, Rruga, Shëpi, Kopshëti e Gardë, il labirinto, modellato prima dalla natura, poi dagli uomini per generare il luogo dei cinque sensi: Gjitonia.
Inquadreremo, l’unica forma artistica arbëreshë: il costume nuziale, realizzato sulla base storica di antiche credenze identitarie greco bizantine, le stesse che con grande perizia sono racchiuse in quelle vesti di filamenti, colorati, porporati e dorati.
La figura femminile, l’emblema della crescita, nell’indossarlo durante la finzione matrimoniale religiosa e nel seguito diventa espressione dell’unione, una diplomatica identitaria, per la continuità generazionale.
Saranno trattate le indagini “onciarie”, in specie quelle iniziate alla fine del XVII secolo, quando la direzione generale del Regno di Napoli, si rese conto, dell’avanzare di una nuova classe che non aveva né attitudini, né capacità per amministrare e tutelare il territorio, ma produrre solo interesse privato.
Divulgheremo i modi in cui la direzione generale a Napoli aveva preso consapevolezza di ciò e dell’assistenza di una numerosa e folta schiera di “faccendieri locali” che dirottavano, risorse notevoli, per i loro personali interessi a scapito del territorio che subiva e incassava perdite che ormai non erano più trascurabili.
Così come avevano già fatto gli uomini della regione storica, dopo i periodi di scontro e di confronto con le genti indigene, terminati alla fine del sedicesimo secolo.
Lo stesso periodo in cui anch’essi volsero lo sguardo verso il futuro, guardando, pensando e pianificando secondo le consuetudini e le regole sociali e religiose, importate dalla terra di origine e in arbëreshë.
Questo è un dato fondamentale, in quanto, nello stesso periodo in cui erano terminate le trascrizioni onciari, si dava inizio alla formazione culturale degli arbëreshë attraverso l’Istituto Corsini, prima in San Benedetto Ullano e poi espandendosi, grazie alla florida Scuola Napoletana, di estrazione bizantina, in tutto il regno e in particolare nel Vulture in Lucania e nella provincia citeriore calabrese nella sede di Sant’Adriano, sino a che Sofiota.
Sino a quando non si metteranno in riga, rispettando senza alcun campanilismo il ruoli dei Rodotà, i Bugliari, il Baffi, i Ferriolo, i Giura, i Torelli, lo Scura, a tal proposito si vuole sottolineare, a quale traguardo si mira, quando si parla di altre figure di irrilevante spessore, nel disquisire dell’istituto Corsini quando venne affidato alla scuola Sofiota in Sant’Adriano.
Sono, San Benedetto e Sant’Adriano i due poli che dalla meta del XVII secolo, sino all’unità d’Italia creano quella solidità culturale e identitaria che non trova più eguali.
Nonostante l’intervallo è da considerare come il culmine dell’ascesa culturale degli Arbëreshë in Europa, indirettamente anche per gli Albanesi dormienti.
Oggi se dovessimo esporre cosa abbia alimentato quel glorioso periodo culturale, della regione storica, non troveremmo nessuna pubblicazione che restituisca una dignità storica, se non divagazioni campanilistiche senza senso, in altre parole una calca culturale dove si cerca di sollevare la propria bandierina più in altro possibile rispetto agli altri.
Ciò nonostante, nessuna istituzione si è mai prodigata a produrre una ricerca unitaria e condivisa relativamente, a quale fosse l’impegno preso dagli arbëreshë e per quale ragione essi si siano insediai, secondo precise arche, scontrati e confrontati con le genti indigene e i regnanti, portato a buon fine onorevolmente secondo la “BESA”fatta, persino andare oltre, suggellando la perfetta integrazione all’indomani del 1861.
Alla luce di tutti questi temi assieme ad altri non di minore importanza si vuole sottolineare che siamo giunti alla fine dell’estate Arbëreshë del 2020 e tra poco più di un mene, inizia l’inverno, la seconda delle stagioni arbëreshë.
Sono proprio questi pochi mesi che la mente degli arbëreshë, oggi come allora, assorbe tutta la forza fisica, di quanti si sentono figli di questa minoranza, per pianificare e porre in essere il futuro sostenibile della regione storica.
A questo momento di rinascita sono invitate tutte le categorie amministrative, affinché pongano in essere attività progettuali che mostrino un solido futuro per la minoranza.
Il dovere vi impone di consolidare adeguatamente, quel tragitto consuetudinario che per la sua solidità, dall’unità d’Italia ha consentito la continuità della minoranza, grazie alla Inerzia Culturale, che oggi chiede nuova energia.
Ora è giunto il tempo di cambiare e se non si predispongono le giuste misure in questi mesi, termineremo con lo smarrire quelle preziose direttive di integrazione che giacciono indifese nei vostri ambiti territoriali di macroarea; gli stessi che tutta l’Europa cerca e non può, ne capire e ne vedere, perché tramandati in consuetudini orali arbëreshë.
Oggi si dice di caratterizzare valorizzare e porre a dimora le radici del passato, le stesse che il più delle volte si millanta di conoscere e per distrarre gli spettatori si finisce di strimpellare sonorità, portati da corone, offrendo per completare l’opera, prodotti di scarsa qualità, scambiandoli con quelli dei micro ambiti.
Si parla di costumi, si vestono ragazze, si fanno e si cercano immagini, come se questi fossero la medicina per guarire da mali o ricongiungere arti deformi, per questo è palese lo stato di fatto e sino a quando non sarà predisposto la metodica capace a rendere comprensibile i messaggi contenuti negli ambiti minoritari, continueremo irreparabilmente a disperdere quanto di più prezioso possediamo.
Oggi si va alla ricerca di foto, documenti e onciari, incapaci di proiettarli nel territorio e ricostruire la memoria perduta, sfracello generalizzato imposto, sostenuto e valorizzato pure da una grossa fetta della politica per ricevere consensi.
Fortuna vuole che chi sia partito per studiare, conserva memoria e valori culturali, perché solidamente formato in quelle fucine consuetudinarie che sino agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso funzionavano a pieno ritmo.
Ciò a fatto si che una solida generazione abbiano compreso che inchinarsi a indagare, pur ricevendo sarcasmo, non è un pegno troppo grande da sostenere, ma una risorsa intelligente a favore degli ambiti costruiti e naturali della regione storica.
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Posted on 06 ottobre 2020 by admin
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Posted on 01 ottobre 2020 by admin
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