Archive | ottobre, 2020

CONTRO LA PROPRIA RADICE

CONTRO LA PROPRIA RADICE

Posted on 29 ottobre 2020 by admin

CONTRO LA PROPRIA RADICENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’eroe dei Balcani, riteneva importante appostarsi nelle strette vie che conducevano al campo di battaglia, per disorientare il nemico, incuneandosi nei loro fianchi secondo il principio che: “la migliore difesa è attaccare”, non immaginava che dopo qualche secolo i suoi diretti sottoposti, ne avrebbero fatto un uso improprio contro loro stessi.

Nulla di più coerente e solidamente comprovato si può cogliere vivo nelle consuetudini che caratterizzavano la regione storica, oltre che le terre lasciate al libero arbitrio del “cane d’oriente”.

Un principio che dalla morte dell’eroe, quando era finalmente Giorgio, ha invaso le terre che sarebbero dovute essere del suo popolo, mai unitosi in forma di regno o altra forma, se non diffusamente sparsi e disconnessi,  innescando così la deriva, figlia del senso più malevolo di quel  nobile atto di “tutela”.

L’affermato “la migliore difesa è attaccare” potrebbe apparire provocatoria, ma se analizziamo il senso, esso riassume tutto ciò che avviene o è avvenuto tra le genti che avrebbero dovuto “difendere” la regione storica e gli ambiti di provenienza della radice, dove l’atto di produrre attività “distrugge” ogni cosa.

Così è avvenuto; infatti, la minoranza meridionale, dopo essersi insediata, nelle terre ritrovate e i detti fratelli rimasti a casa, appropriandosi di ciò che restava, tutti assieme non hanno reso nulla per tutelare, difendere o lasciare intatto, quanto pervenuto dalle generazioni precedenti, se non attaccare per spogliare di ogni senso, grado e modo il protocollo ereditato.

Che questa non sia una provocazione, ma uno stato di fatto, si può riassume nell’immaginare, un candido lenzuolo bianco steso al sole imbibito di lacrime di lacrime di dolore.

Tutto quello che si può dire, guardando il candido velo: in ogni ora, latitudine e prospettiva, non cambia perché rimane sempre un lenzuolo bianco, “la resa”, steso sulla regione storica, in attesa si asciughino, le innumerevoli lacrime amare, consapevoli che nulla cambierà, perchè non e alto che un vessillo; “la resa” dopo “l’attacco”.

Ormai è semplice costatare che nel passaggio da padre in figlio, madre in figlia, discendenza laica, clericale e di ogni raggruppamento immaginato per “difendere” secondo principi immateriali, l’atto materiale conseguente ha poi terminato per “attaccare” e ferire mortalmente.

Se oggi noi volessimo analizzare una qualsiasi elemento dei pilastri della regione storica, ovvero: Idioma, Metrica, Consuetudine, costume e Religione, non c’è nulla che sia rimasto indelebile, non per l’evoluzione che ogni cosa del genere umano, ovviamente deve seguire, ma la strada intrapresa dai comunemente tutori, dell’irripetibile protocollo, che contemplava ogni tipo di attacco, proveniente da ogni dove, non considerando, gli  innaturali dall’interno.

I  fondamenti hanno subito ogni tipo di angheria e se solo immaginiamo le pene cui è stata sotto posta “la parlata madre”; questa che per sua nota natura, non avrebbe mai contratto matrimonio o firmato in forma scritta, con generi che non vivessero di promessa data, secondo la sua radice; ciò nonostante è stata “strasciniata” contro il suo volere, con tanto di testimoni dentro plessi, istituti, istituzioni, chiese e ogni presidi atto a maritare.

Una serie di attacchi senza precedenti, da parte di ogni genere di avventore, questi, credendo che il modello fosse in fondo al pari di una povera dona, sola e abbandonata, verso la quale si poteva incutere ogni genere di vessazione, compreso appellarla comunemente come persona, quando in realtà, è stata e sarà sempre, solo ed esclusivamente una divinità di altri tempi.

Questo è solo un accenno di cosa le sia capitato, in tempi che si presupponeva fossero più illuminati e se poi volessimo, addentraci negli ambiti di valori tangibili e intangibili, che la rendono unica e speciale, dovrebbero fare, mea culpa, di come generi, istituzione ed eventi la trattano.

Si dice che la natura degli uomini non conosce tempo e confini, questi gli uomini, appena nascono, iniziano la propri battaglia di sopravvivenza, ed è anche giusto, ma puntare subito e dare pene al seno che hanno ancora in bocca, si ritiene sia malvagio;  azione senza senso, ma forsse giusta per chi inizia a crescere sotto falsi principi, mode e vesti, che imperterriti, vanno in  tondo millantando di cercare il latte di seno perduto.

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LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

Posted on 28 ottobre 2020 by admin

il cercatore arberesheNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’opera compiuta dai caparbi dispensatori di fede, susseguitisi sino alla fine del secolo scorso, fu posta nelle disponibilità dei “Comunemente”, ogni cosa diviene teatro e terminò il senso del culto.

Un manufatto che sin dalla posa della sua prima pietra, alla fine del seicento, è stato illuminato secondo principi atti a indicare persino strutturalmente la via verso la fonte del Fiume Nilo, perché luogo della nascita di credenza storica.

Se da qualche decennio questa direttiva ha smarrito il senso, come fatto dal “Karloberg” e il suo seguito, di saltimbanchi miscredenti, urge, adoperarsi per eliminare gli impropri abbagli di devianza.

Rientrare sulla retta via oggi, e rendere viva la funzione del manufatto in senso di chiesa deve  promuovere attività manutentive, non prima di apporre l’ultima pietra: le schermature in alabastro e ricollocare, l’originario supporto luminoso tipo, in essenza di ulivo.

A tal fine, per rendere ogni aspetto, limpido e cristallino, è  il caso di spiegare, quale sia stata la volontà di una tradizione Ortodossa, che analizzata secondo metodiche di confronto, non sono proprio in linea con i fondamenti seguiti dalle popolazioni della Regione Storica, i di cui sacri perimetri religiosi, li preferisce illuminati senza eccessi e volumetrie circolari predominanti.

L’inopportuna innovazione, incuneatasi circa un decennio or sono ha fatto si che i corpi illuminanti e i relativi supporti in essenza di ulivo locale, ha ritenuto idoneo dimetterli .

Anche se vero, secondo il dire di incauti apprezzatori locali, che “peccassero” di solidità strutturale, sarebbe bastato “confessarli” sotto la guida di pazienti restauratori, per restituire il candore originario senza intaccare, estetica, luce e le prospettive che illuminavano con rispetto.

Gli apparati di luce bizantina erano opera dell’artigiano Gi. Di Benedetto, maestro di manualità antica,eccellenza in tutta la macro area, detta della Presila Arbëreshë.

La manualità del maestro fu anche modello di ispirazione per l’Archimandrita e il sapiente esecutore pittorico, della scuola cretese, che in paese seguiva i lavori per il trattamento delle superfici da affrescare e quanto della verticalità muraria da ricoprire con marmi perché troppo esposte a florescenze di risalita, perché a contatto del perimetro fondale.

La premessa fa da supporto a un dato storico inconfutabile, secondo cui l’illuminazione per una chiesa, specie se affrescata in tutto lo sviluppo delle superfici interne, deve rispettare parametri di luminosità solare e artificiale ben calibrati.

L’intensità solare deve essere filtrata con lastre in alabastro, mentre il sistema indotto con apparati illuminanti calibrati, i due sistemi, non devono violare la luce di credenza, unica fonte da cui alimentare la fiammella spirituale, guida fondamentale per il giusto orientamento.

Se questo è il principio sintetico secondo cui un sacro perimetro deve essere illuminato, non si comprende quali siano stati i presupposti religiosi per non seguirli, credendo che il luogo sia considerato al pari, di un teatro, una sala per riunioni laiche, o salotto di case nobiliari.

Questi ultimi sicuramente ambiti con esigenze diverse e per i quali l’eccedere in forme luminose trova una sua logica, diversamente da come deve essere nei luoghi di culto dove a porre in evidenza è la luce interiore che notoriamente brilla dentro di noi.

Alla “luce” di ciò va affermato che il messaggio pittorico ha bisogno solo di essere accompagnato, non servono distrazione pirotecniche, per raccogliere il senso della credenza, anche perché, così facendo si minimizza il senso del  luogo e si rende al pari di un salone in una comune abitazione con le opere di famiglia apposte alle pareti.

Luce eccessiva all’interno del sacro volume, sminuisce l’unicum divino, deteriorando i valori senza tempo, giunti sino a noi, grazie a piccole fiammelle in lume a olio.

Tuttavia, il prodotto finale del “volume Sacro”, deve mirare a creare prospettive atte ad agevolare l’apprendimento, la visione e il senso, delle icone di fede e credenza, senza esporre le opere pittoriche, con apparati generalmente malevoli alla vita stessa dell’opera, sin anche in senso materiale.

All’interno di una chiesa non deve essere compromesso, il messaggio rivolto ai devoti “la luce divina”  essa deve brillare per il suo significato di raffigurazione, le sacre immagini.

Il senso di “un’opera” da una “non opera” si distingue nel fatto che la prima contiene: soggetto, forme e contenuti, la seconda, si identifica solamente attraverso la formazione culturale di quanti ricevono mandato, per sostenerla, tutelarle e valorizzarla.

L’arte è, innanzi tutto, forma di comunicazione, secondo un punto di vista, essa diventa critica, quanti non sono in grado di leggerne i contenuti ritenendo più idoneo, cancellarli mira a sopprimere la memoria dell’artefice.

Il Croce parlava di “senso artistico” come “un’intuizione che si fa espressione”, in senso “non neutrale”, cioè che diventa posizione e il caparbio prete, assieme al suo fedele artista, avevano idee ben chiare.

La creazione, indubbiamente, una forma di linguaggio autonomo che interpreta il mondo, ponendosi lontano dall’idea di un’arte meramente decorativa, il genio esprime con la sua metrica un punto di vista, un insieme di significati che lui stesso rinviene nella realtà, comparandoli sapientemente ai canoni di credenza.

Anche quando l’arte è l’espressione religiosa di un determinato ambito, si parla di angolo privilegiato della ricerca estetica, questa, senza mediazioni logico-deduttive, si fa specchio del mondo o, comunque, di un universo, di un cosmo in cui l’artista è l’artefice di una visione originale che lo avvicina al lettore nel momento del osservazione senza penitenze.

Se così non fosse, non avrebbe luogo il fine dell’arte che è comunicare messaggi di credenze quel luogo e di tempo.

Accade purtroppo chi eredita l’opera per istituzione, il messaggio da diffondere, specie se comunemente tutelato, diventa una sorta di teatro dove si cerca di incunearsi, come falsi protagonisti, pur se privo di ogni genere di consapevolezza, in grado di rispetti la linea dell’artista primo, in altre parole: la via divina che appare discreta e senza abbagli.

L’atto del comune esperto o gruppi di appartenenza locali, risveglia, tensioni intellettuali, etiche e religiose, creando bagliori personali oltretutto pericolosi, perché allontanano il senso, dell’opera luogo, impedendo al seme del valore di fiorire.

Sostituire i corpi illuminanti di una chiesa senza consapevolezza storica alcuna finisce nell’abbagliare i luoghi di provenienza della nostra credenza religiosa.

È cosi diventa inutile e intitolare a Santi Alessandrini chiese, quando con luci accecanti e rotondità senza misura si impedisce di guardare verso i luoghi della sua provenienza, gli stessi dove ebbe inizio il predicato religioso.

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I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

Posted on 25 ottobre 2020 by admin

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO INGRIGITI,NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai da diversi decenni gli Sheshi minoritari sono avvolti da ceneri di paglia, quest’ultima, notoriamente illumina nel corso della breve combustione e non aiuta la consuetudine di quanti vivono del calore dei cinque sensi arbëreshë.

Il fuoco è indispensabile per il passaggio generazionale, così viene compromesso e unire gli oltre cento Katundë, sotto bagliori di paglia turca, non fornisce la giusta energia al protocollo, di legna ardente sapientemente governata.

La continuità che univa e dava solidità alle consuetudini della minoranza, quanto non è stato più alimentato con essenze arboree tipiche dei territori paralleli ritrovati, (Kuzareth tronchi calibrati ed essiccati) gli unici in grado di assicurare il calore, anche durante l’esodo notturno, temperando l’ambito delle Kaljve, mentre si attendeva il sorgere del sole per dare continuare alla storica missione.

Ciò nonostante con il passare del tempo, si sono elevate generazioni, preferendo i lampi e i bagliori brevi dei fuochi di paglia turca, esponendo le nuove leve al grigiore delle ceneri volatili, filamenti di scarto del grano, supporto inutile dopo la maturazione che sosteneva al sole l’indispensabile frumento.

Gli sheshi da quel tempo iniziarono a perdere i colori tipici, oltre l’aspetto formale, per i brevi fuochi di paglia, gli stessi che in ogni manifestazione abbagliano e garantiscono episodi di calore che terminano prima che la luce muoia, tramandando per questo eredità in forma di ceneri, la fine del passaggio generazionale, perché  privo di forma orale e gestualità.

Il fuoco di paglia notoriamente non garantisce tempi lungi, davanti al camino, anzi una volta accesa costringe tutti ad allontanarsi per il forte calore e poi rimanere disorientati e infreddoliti ancor di più.

Il ricordo va alle nonne che con un tronco padre e tanti piccoli rami o parti di esso ricavati dal taglio con l’ascia (tòprà) alimentavano il “fuoco lento” ma efficace del camino, ritualità questa che avvicinava davanti ad esso e nel contempo garantiva il latte caldo al mattino, il pranzo di mezzodì e la cena della sera.

Un fuoco senza soluzione di continuità, sempre identico e solido come era anche, il passaggio da padre e figlio, e madre in figlia, pochi gesti ritmati con sapienza, senza mai perdere né la continuità della fiamma, né la quantità di calore.

La sera poi, si disponeva tutto in modo tale che al mattino avrebbe ancora continuato un frammento di carbonella, figlia della lenta combustione, quella sufficiente a garantire continuità al senso di fuoco e di casa sempre viva.

Il luogo del fuoco storico, all’interno delle case degli arbëreshë, rappresenta l’ambito delle consegne tra generazioni, l’unico in grado di riverberare favelle antiche e nello stesso tempo illuminare le case, le strade e i vichi (shëpij, huda e rruga), garantendo sin anche l’inviolabilità dello sheshi, anche di notte.

Quando oggi si torna nei luoghi delle consegne e troviamo altri apparati, realizzati dagli addetti locali, secondo i quali ogni tipo di calore e luce, in grado di genera presupposti di sostenibilità identici a quelle antiche, si comprende quanto sia devastante la deriva in atto.

Grazie ai ricordi, ancora vivi in numerosi e valorosi tutori, gli stessi che conoscono, sanno quale sia il senso di quel fuoco, solo essi, possono  rifugiarsi nel ricordo con mente lucida per ripristinare gestualità, cui quel luogo è stato addomesticato e attende di essere ripristinato, solo in questo modo potranno essere forniti gli strumenti idonei a dipingere  e risvegliare secondo antichi pigmenti gestualità che oggi sono indispensabili, per la continuità della minoranza.

Un abaco di colori caratteristico vivo all’interno di poche case, non violate, potrebbe innescare nuove scintille se le giuste figure depongono con “saggezza nel focolare madre, un tronco padre, per innescare gli arbusti figli” il resto, è  fiamma forte e duratura, quella capace di creare i presupposti antichi e trasmettere consuetudini in forma orale, alle nuove generazioni.

Sedere innanzi quella bocca di calore antico, si recuperano i sensi di un tempo non molto lontano, anche se le quinte dello sheshi sono state violate, il passaggio dei valori, secondo consuetudini rimane le stesse,  potrà dare vita agli scenari secondo la tavolozza di colori arbëreshë.

Anche se oggi, fuori dall’uscio di queste preziose case, la realtà dello sheshi  è invaso da strimpellatori c favelle che ormai seguono le mode di quanti, si sono distratti nell’ascoltare, le parole e il crepitio di quella fiamma lenta, preferendo cenere di paglia turca.

Oggi è bene avere consapevolezza che le parole ritmate dal fuoco lento dell’identità arbëreshë, sono le uniche da ascoltare, anche si preferiscono e sono più semplici da comprendere, il grigio facile, quello capace di uniformare le parlate locali, unificare le vesti delle spose, con posture inopportune e portamenti a dir poco inconsueti.

Come si può ritenere di essere eredi di un patrimonio orale mai ascoltato, se quando si divulga è cenere riversata con la metrica di quanti gli ambiti del fuoco arbëreshë non lo conoscono anzi, ignorano persino l’esistenza.

Come si può ritenete tutori o dispensatori di consuetudini, suonando chitarre, organetti e ogni tipo di strumento, immaginando che l’essere arbëreshë è solo una favole disconnesse dagli ambiti costruiti e quelli naturali.

Visto lo stato di fatto, si ritiene doveroso ripristinare l’antico fuoco, impegnando le risorse pubbliche, al fine di realizzare confronti attraverso piattaforme multimediali, tra chi conosce il fuoco arbëreshë  e quanti non sanno, oltre alla moltitudine che confonde cenere di paglia con quella del fuoco lente che faceva parte sin anche della catena alimentare.

Il fine vorrebbe rinvigorire l’originaria radice arbëreshë, coadiuvati, questa volta, da quanti hanno vissuto, visto e ascoltato saggezze, davanti al tepore di quelle antiche fiamme, per ricucire finalmente il senso delle persone, i loro abiti, le case e lo sheshi, ripristinando i cinque sensi Arbëreshë, senza adoperare più toni di grigio, ma gli ori e i colori tipici.

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NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

Posted on 18 ottobre 2020 by admin

Pietra angolare

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Lo studio della Regione storica Arbëreshë eseguita in chiave, materiale e immateriale nasce sulla base di un progetto che ha avuto spunto quando furono attuati i primi dibattiti, immaginati per valorizzare le minoranze ricadenti nelle pieghe della legge 482 del 99, diversamente rendendo ancor più povere di contenuti, specie quelle meridionali.

Era la prima decade del mese di Luglio 2003 e quanto riferito, dai comunemente noti, lasciavano perplessi quanti ascoltavano, parche, fuori dalla sede in cui si disquisiva liberamente, tutti vivevano “il luogo dei cinque sensi” secondo metriche immutate e ignote ai relatori.

Questo ha rappresentato, l’atto, per il quale si è ritenuto essere giunto il tempo di chiudere all’interno del recinto i portatori sani di matite rosso/blu e proteggere il patrimonio materiale ed immateriale, diventato il pascolo dove brucare liberamente.

Difendere quanto restava per le future generazioni arbëreshë, era una missione da non lasciare più al libero arbitrio, oltre a difendere il buon nome di “Zia Clementina” e di quanti come lei avevano preferito diventare muti e sordi per il grande dolore subito.

Se a questo si aggiunge che in occasione dello svolgimento dell’ottava storica si è giunti:

ritenere che l’estate arbëreshë, doveva appellarsi, “Valja di Sant’Atanasio;

le tipiche vesti femminili delle spose arbëreshë, allestite senza alcuna garbo;

un solco di semina, che non fosse di avena fatua, ma dimora di semi identitari non era più prorogabile .

Questa ha rappresentato la chiusura della stagione di cultura libera, immaginando ill danno che avrebbero prodotto le monotematiche figure con le tasche colme di ombre che celavano dannose alchimie.

Dare avvio alla fase definitiva del progetto, iniziato un trentennio prima per la valorizzazione dei cinque sensi Arbëreshë, è diventata una missione, in memoria di “Zia Clementina” che diceva sempre che l’acqua della fontana di fronte al suo uscio, sarebbe stata sempre amara, coprendo dal quel dì,  gli altri quattro sensi.

Il progetto a sua memoria, e di quanti come lei che avevano vissuto intensamente i sensi tipici della regione storica, ha avuto così inizio, peregrinando attraverso stati di fatto ritenuti complementari, rispetto al tema linguistico di una nonna muta.

È importante premettere che la pianificazione degli abitati storici, rurale e le relative reciprocità sono il teatro a cielo aperto dei luoghi notoriamente schiavistici, ragion per cui le implicazioni che tale questione comporta, diventando argomento fondamentale per leggere in forma puntuale l’evoluzione  insediativa.

La nascita di questi ambi costruiti e naturali, hanno una radice antica, le cui peculiarità vanno ricercate nella presenza della katundë-servizio, nati a seguito di infrastrutture stradali, che poi erano dei veri e propri tracciati avventurosi ma comunque indispensabili perche complementari alle vie di costa e quella interna.

Questi rientravano negli interessi dei pochi membri dell’aristocrazia che ne sfruttava le produzioni agricole intensiva, connessa all’innalzamento di luoghi costruiti per la conservazione e il conseguente trasporto dei prodotti ad opera dei poveri residenti.

La localizzazione di questa tipologia insediativa, associata principalmente alle specifiche produttive nascevano principalmente dall’analisi territoriale, scegliendo la più idonea posizione topografica, alla luce della disomogenea morfologia, avendo come riferimento tempi e regola di consegna del prodotto finito. 

La specifica territoriale, le produzioni agricole connesse si riflettono nella struttura degli ambienti stessa; infatti, esse hanno funzione di abitazione e “modelli proto industriale” per la trasformazione delle derrate alimentari.

La fertilità del suolo in queste zone permetteva l’innestarsi delle strutture rurali per la coltivazione della vite, della vite e nelle stagioni di riposo dei cereali, favorendo così l’impianto di strutture dedite alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti e di derivati.

Oggi servirebbe produrre la fase esecutiva per valorizzare le pietre angolari dell’architettura e delle urbanistica ritenuta, “dai mono tematici”, di estrazione indigena, quando sarebbe bastato munirsi di una lampada ad olio per illuminare le menti buie di chi non è stato in grado di guardare oltre il proprio naso.

L’analisi ambientale, l’evoluzione dei territori, l’urbanistica, l’architettura, quest’ultima prima in forma estratti e poi additiva, sono gli argomenti che grazie ai riferiti cartografici, i trattati archivistici, editoriali e le notizie locali, hanno disegnato la prospettiva ideale che non teme confronto.

Tutto ciò è stato realizzato avendo piena consapevolezza delle parlate locali e per questo ricucire, con arte, lo strappo ormai secolare tra elementi tangibili, presenti sul territorio e quelli intangibili, della memoria di quanti ancora sono veri arbëreshë.

Si precisa altresì che ogni elemento studiato, ha avuto applicato disciplinari di ricerca comprovata, diversamente da quanti ritenendo sufficiente restringere gli ambiti alla sola parlata, hanno tralasciato, cosa e quanto fosse ancora intrisa di consuetudine, manualità, tipiche degli arbëreshë.

Soprattutto in sede locale per la verità di elementi, si sono realizzate ricerche, verso aspetti interlacciati tra le terre poste a est e a ovest, prospicienti il mare adriatico e lo jonio.

Le metodiche utilizzate non prendevano spunto dai comportamenti di quanti, riversano stanca­ti tesi enucleabili, sin anche imbibiti di contributi degli eruditi dei secoli passati, brandendo in ogni genere di occasione il volume, la ballata, o l’abito perfetto senza essere in grado di verificarne, il senso e il contenuto di tempo, luogo e società.

Inoltre il più delle volte i risultati, sono utilizzati in mere esigenze di un irrazionale campanilismo e a quelle di un cieco provincialismo, generando ostacolo, più che utilità ad una serena ed equilibrata ricostruzione degli eventi.

Si potrebbe apparire genericamente, ingenerosi se non si attribuisse agli ingegnosi locali, notizie e informazioni anche di interesse e d’impianto locale, generalmente assenti nei contributi più accreditati.

Tuttavia pur se presenti, restano solo elementi grafici cui non si da valore alcuno e ne si possono confrontare con quanto emerge dai fogli branditi al vento e accreditati come  fonti di saggezza o capitolo di storia.

In questo stato di gregge perenne è parso opportuno tenerne in osservazione, quanto prodotto da quanti vivono all’addiaccio, o meglio fuori dai presidi della cultura, scavando senza meta nelle buie notti, senza consapevolezza se si compiono atti di violazione.

Paradossalmente in questi buchi neri, sono inciampati proprio i nomi più affidabili della storia, inficiando notevolmente il continuo cammino verso una regolare andatura di fatti ed eventi in rispettosa successione.

Si ritiene comunque doveroso rilevare che le manchevolezze sono molteplici, esse hanno una radice antica, colme di inesperienze e poca dedizione alla ricerca, perché in capaci incrociare dei dati.

Valga di esempio la legge 482/99 che pur citasse, nella sua comune trattazione citasse testualmente, “le delimitazioni degli ambiti territoriali e sub comunali in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche”, nei fatti non è stata, posta alcuna rilevanza all’aspetto territoriale costruito e non, quale fondamento per ogni trattazione.

Si è preferito inquadrare la minoranza come “il luogo”, dove i fenomeni di resilienza dovevano ritenersi incamerati nell’atto idiomatico di un luogo ideale, come se l’orografia e l’ambiente non avesse ne forma e ne colori.

Lasciando in questo modo, al ruolo di mera quinta colma di nebbia, l’ambiente costruito e quello naturale, pur se in origine sono state queste a essere cercati e modellati per comprendere se rispondevano alle metriche degli uomini che vi hanno vissuto.

Un Katundë o Kastrjonì, rimane comunque espressione degli uomini e le donne che l’hanno costruito, vissuto e sostenuto, sin anche, quando l’incoscienza e l’interesse degli uomini, lo esasperano al punto di chiudere Case, Chiese e Luoghi condivisi.

La scelta delocativa in genere ha come prassi storica l’incolumità, comunemente illustrata con la promessa di saper predisporre, nel breve di una stagione, un paese arbëreshë nuovo (?).

Quando tutti siamo ben consapevoli che la storia degli uomini non si compie in sunti catastali, scambiati per temi di gjitonia, illuminando l’immateriale degli uomini come si fa con i quartiere, i rione, o luogo comunemente vissuti di ogni genere, come se i paesi minoritari fossero luoghi del banco dei pegni dove imprestare, uova, lievito e vino.

Solo chi è sciocco può credere a ciò, a questi hanno preso impegno di fare ciò, sappiano che “l’architettura storica” non è come un villaggio turistico, un centro commerciale, un parco di divertimento, solo perché scimmiotta geometrie, diffusamente piane inclinate o arcuate in forma di carene rovesciate.

La storia non deve ridursi in sintesi volumetrica, privando i mal capitati abitanti del fattore tempo, quest’ultimo il regista naturale che dirige, i flussi dell’energia naturale per modellare gli elementi costruiti, di luogo e di uomini, secondo caratteristiche intrinseche ed estrinseche irripetibili.

Non si possono abbagliare le persone umiliando gruppi familiari di gruppi minori, a inchinarsi e disconoscere se stessi oltre la propria radice identitaria.

Alla luce di questi brevi accenni è indiscutibile che un Katundë o un Kastrjonì rimane sempre arbëreshë, assieme agli ambiti orografici, pur se questi sono considerati pericolosi e pronti a scivolare a valle; specie se dopo poco tempo, nonostante si continui ad ostinarsi a vietarne l’accesso negli ambiti dell’antico centro antico, a monte si allestiscono parchi eolici, che non certo confermano le teorie delocative imposte, per eventi non naturali certamente prossimi!

Per usare un eufemismo è bene sapere che pur se titolati, quanti ambiscono a inerpicarsi nei trascorsi storici di minoranza, deve avere il quadro completo di cosa voglia vedere, assaporare, toccare ascoltare e sentire; non può immaginare che uomini paesaggio tempo e natura, nel corso dei secoli si possano sintetizzare in una favola in una canzone o nei tratti desertici dell’Algeria.

Valga di esempio il Katundë di Ginestra degli Schiavoni in provincia di Benevento, i cui trascorsi ricordano che dopo essere stati fortemente caratterizzati dalle consuetudini arbëreshë, di matrice Greco Bizantina, innalzando l’agglomerato per secoli, anche a scuola religiosa e formare clerici sino alla fine del concilio di Trento.

Il Katundë di G.d.S. dopo essere stata spogliata della sua istituzione religiosa, ha smarrito sin anche l’espressione idiomatica, ciò nonostante dopo circa un secolo, il prete latino, cui era chiesto, da uno storico locale, se il paese avesse conservato elementi caratterizzanti la minoranza, faceva notare che non vi fosse rimasto nulla.

Tuttavia aggiungeva, che nonostante la popolazione usasse la lingua di macro area locale Beneventana e seguisse le ritualità latine, trovava strano, l’onorare i morti e altre ritualità, secondo consuetudini non contemplate dal calendario Latino.

Ginestra d.S. è stato luogo di studio nel 2017, per questo, attraverso le sue pietre angolari, rioni tipici, collocati come era consuetudine arbëreshë.

Infatti sono stati intercettati media collina dove è allocato il paese, la chiesa e il suo rione clericale, cui era accostato il rione detto promontorio, il labirinto e gli spazi di espansione facilmente identificabili come sheshi o luogo di confronto o movimento.

Ciò non lasci alcun dubbio sul dato che, pur se da oltre due secoli non si conservano valori identitari riferibili all’idioma, la radice urbana e il valore territoriale, secondo le fondamenta arbëreshë, continuano riverberarsi senza mai perdere la via maestra.

Gli esempi in tale orientamento sono molteplici e comunque servono a rilevare che un centro antico di radice arbëreshë, rimane sempre tale anche quanto l’identità idiomatica si smarrisce, per eventi sociali o religiosi imposti a seguito delle conclusioni di Trento.

Vero è che nonostante una moltitudine di Katundë, sia stata impoverita della matrice religiosa, lo parla ancore in un numero di Agglomerati pari al settantacinque per cento di un totale di circa 110 Katundë, il rimanente venti cinque percento segue le direttive religiose importate anche se trasformate in bizantine di lingua arbëreshë.

Tuttavia tutti i paesi, altri si potrebbero individuare con studi mirati, conservano l’impianto urbano e architettonico identicamente intatto, riconoscibile all’impianto e dall’orografia tipica a soddisfare le consuetudini di questa straordinaria minoranza.

Oggi è giunto il tempo di confrontarsi sulla legge 482 del 99, correggere gli errori, integrando nuove esigenze pervenute, ma più di ogni altra cosa, rilevare che la minoranza italiana, non è “Albanese” ma Arbëreshë.

Occorre produrre protocolli identitari senza protagonismi e ben comprendere che: ogni manifestazione, deve essere allestita coerentemente con quanto di storico ancora possediamo, compreso l’unico elemento artistico ereditato dalle generazioni passate; il costume arbëreshë, e terminare lo stillicidio di vestizione, che sarà a breve argomento di una pubblicazione, giacché solo nel vedere come è allestito, esposto o indossato, dire che lascia perplessi è un eufemismo.

Per questo occorre migliorare le disposizioni delle leggi regionali che non sono solide al punto di caratterizzare i centri arbëreshë, al fine che al viaggiatore errante possano apparire, credibili, unici e senza porte ventose medioevali che spazzano e rendo irriconoscibili gli ambiti della storia.

Disporre che l’appellativo dei centri minori qui trattati sono i “Kastrjonì o Katundë” non Borghi! quest’ultimo, in specie appartiene ad altri popoli, disposti più a nord e comunque non nei tempi e nei luoghi, secondo le esigenze culturali delle genti di radice, Arbanon, Arbëri e Arbëreshë.

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C’ERANO UNA VOLTA

C’ERANO UNA VOLTA

Posted on 13 ottobre 2020 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Voglio raccontare la regione storica arbëreshë, non per come va verso l’estinzione, ma per quanto è stato realizzato dai suoi figli, al fine di renderla talmente solida da consentirle di riverberarsi identicamente sino a divenire un modello unico di solidità culturale.

Si da inizio a questo breve, seguendo una via che non da merito, ai divulgati in forma di favole, il cui  fine voleva comporre una parlata identitaria infima per unire arbëreshë e Arbanon rimasti in madrepatria, non si sa a quale titolo o scopo, se si esclude il velleitario progetto turco.

Non parlerò di ambigue figure, giullari, alchimisti e operatori culturali economici, giacché, si ritiene che non debbano apparire, ma sciogliere e imbibire le radici, come fa la neve quando spunta il sole.

Tratteremo di generi nello specifico del corpo umano, gli organi che lo compongono, l’ambiente e la natura che lo accoglieva, per renderlo parte del sistema naturale; la radice da cui si diramano le forme idiomatiche più antiche in esclusiva forma orale.

Racconteremo come essi edificarono e come depositarono, consuetudini antichissime, oggi alla base dei principi sociali più moderni, delle grandi città e metropoli.

Parleremo di Kastrijoni, l’insieme di Sheshi, il modello urbano aperto e composto di Uhda, Rruga, Shëpi, Kopshëti e Gardë, il labirinto, modellato prima dalla natura, poi dagli uomini per generare il luogo dei cinque sensi: Gjitonia. 

Inquadreremo, l’unica forma artistica arbëreshë: il costume nuziale, realizzato sulla base storica di antiche credenze identitarie greco bizantine, le stesse che con grande perizia sono racchiuse in quelle vesti di filamenti, colorati, porporati e dorati.

La figura femminile, l’emblema della crescita, nell’indossarlo durante la finzione matrimoniale religiosa e nel seguito  diventa  espressione dell’unione, una diplomatica identitaria, per la continuità generazionale.

Saranno trattate le indagini “onciarie”, in specie quelle iniziate alla fine del XVII secolo, quando la direzione generale del Regno di Napoli, si rese conto, dell’avanzare di una nuova classe che non aveva né attitudini, né capacità per amministrare e tutelare il territorio, ma produrre solo interesse privato.

Divulgheremo i modi in cui la direzione generale a Napoli aveva preso consapevolezza di ciò e dell’assistenza di una numerosa e folta schiera di “faccendieri locali” che dirottavano, risorse notevoli, per i loro personali interessi a scapito del territorio che subiva e incassava perdite che ormai non erano più trascurabili.

Così come avevano già fatto gli uomini della regione storica,  dopo i periodi di scontro e di confronto con le genti indigene, terminati alla fine del sedicesimo secolo.

Lo stesso periodo in cui anch’essi volsero lo sguardo verso il futuro, guardando, pensando e pianificando secondo le consuetudini e le regole sociali e religiose, importate dalla terra di origine e in arbëreshë.

Questo è un dato fondamentale, in quanto, nello stesso periodo in cui erano terminate le trascrizioni onciari, si dava inizio alla formazione culturale degli arbëreshë attraverso l’Istituto Corsini, prima in San Benedetto Ullano e poi espandendosi, grazie alla florida Scuola Napoletana, di estrazione bizantina, in tutto il regno e in particolare nel Vulture in Lucania e nella provincia citeriore calabrese nella sede di Sant’Adriano, sino a che  Sofiota.

Sino a quando non si metteranno in riga, rispettando senza alcun campanilismo il ruoli dei Rodotà, i Bugliari, il Baffi, i Ferriolo, i Giura, i Torelli, lo Scura, a tal proposito si vuole sottolineare, a quale traguardo si mira, quando si parla di altre figure di irrilevante spessore, nel disquisire dell’istituto Corsini quando venne affidato alla scuola Sofiota in Sant’Adriano.

Sono, San Benedetto e Sant’Adriano i due poli che dalla meta del XVII secolo, sino all’unità d’Italia creano quella solidità culturale e identitaria che non trova più eguali.

Nonostante l’intervallo è da considerare come il culmine dell’ascesa culturale degli Arbëreshë in Europa, indirettamente anche per gli Albanesi dormienti.

Oggi se dovessimo esporre cosa abbia alimentato quel glorioso periodo culturale, della regione storica, non troveremmo nessuna pubblicazione che restituisca una dignità storica, se non divagazioni campanilistiche senza senso, in altre parole una calca culturale dove si cerca di sollevare la propria bandierina più in altro possibile rispetto agli altri.

Ciò nonostante, nessuna istituzione si è mai prodigata a produrre una ricerca unitaria e condivisa relativamente, a quale fosse l’impegno preso dagli arbëreshë e per quale ragione essi si siano insediai, secondo precise arche, scontrati e confrontati con le genti indigene e i regnanti, portato a buon fine onorevolmente secondo la “BESA”fatta, persino andare oltre, suggellando la perfetta integrazione all’indomani del 1861.

Alla luce di tutti questi temi assieme ad altri non di minore importanza si vuole sottolineare che siamo giunti alla fine dell’estate Arbëreshë del 2020 e tra poco più di un mene, inizia l’inverno, la seconda delle stagioni arbëreshë.

Sono proprio questi pochi mesi che la mente degli arbëreshë, oggi come allora, assorbe tutta la forza fisica, di quanti si sentono figli di questa minoranza, per pianificare e porre in essere il futuro sostenibile della regione storica.

A questo momento di rinascita sono invitate tutte le categorie amministrative, affinché pongano in essere attività progettuali che mostrino un solido futuro per la minoranza.

Il dovere vi impone di consolidare adeguatamente, quel tragitto consuetudinario che per la sua solidità, dall’unità d’Italia ha consentito la continuità della minoranza, grazie alla Inerzia Culturale, che oggi chiede nuova energia.

Ora è giunto il tempo di cambiare e se non si predispongono le giuste misure in questi mesi, termineremo con lo smarrire quelle preziose direttive di integrazione che giacciono indifese nei vostri ambiti territoriali di macroarea; gli stessi che tutta l’Europa cerca e non può, ne capire e ne vedere, perché tramandati in consuetudini orali arbëreshë.

Oggi si dice di caratterizzare valorizzare e porre a dimora le radici del passato, le stesse che il più delle volte si millanta di conoscere e per distrarre gli spettatori si finisce di strimpellare sonorità, portati da corone, offrendo  per completare l’opera, prodotti di scarsa qualità, scambiandoli con quelli dei micro ambiti.

Si parla di costumi, si vestono ragazze, si fanno e si cercano immagini, come se questi fossero la medicina per guarire da mali o ricongiungere arti deformi, per questo è palese lo stato di fatto e sino a quando non sarà predisposto la metodica capace a rendere comprensibile i messaggi contenuti negli ambiti minoritari, continueremo irreparabilmente a disperdere quanto di più prezioso possediamo.

Oggi si va alla ricerca di foto, documenti e onciari, incapaci di proiettarli nel territorio e ricostruire la memoria perduta, sfracello generalizzato imposto, sostenuto e valorizzato pure da una grossa fetta della politica per ricevere consensi.

Fortuna vuole che chi sia partito per studiare, conserva memoria e valori culturali, perché solidamente formato in quelle fucine consuetudinarie che sino agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso funzionavano a pieno ritmo.

Ciò a fatto si che una solida generazione abbiano compreso che inchinarsi a indagare, pur ricevendo sarcasmo, non è un pegno troppo grande da sostenere, ma una risorsa intelligente a favore degli ambiti costruiti e naturali della regione storica.

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IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

Posted on 06 ottobre 2020 by admin

AAAAAAAA1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Di sovente quanti indossano o espongono il costume, arbëreshë, nelle manifestazioni di ogni ordine o grado, non sono, il più delle volte, consapevoli che non si tratta di una comune trattazione, ma sacri messaggi di buon auspicio su base pagana e religiosa per la famiglia che si va a formare.

In quelle vesti, che in diversi modi sono palesemente esposte o trattate a dir poco inopportunamente, è contenuto il disciplinare d’iniziazione e di augurio, di una nuova famiglia della minoranza storica Arbëreshë.

Parlare e trattare degli elementi che compongono le preziose vesti, non è un compito di facile attuazione, perché le vesti che sono giunte sino a oggi sono una sintesi moderna di quel disciplinare che in circa tre secoli di consegne generazionali ha smarrito grosse porzioni del protocollo di memoria.

Questo motivo ha indotto lo scrivente a disegnare una sorta di “esploso” di tutti gli elementi (il filo e l’ago compresi)che compongono il vestito matrimoniale, poi in seguito, con dovizia di particolari e perizia storica della memoria ereditata, è stato ricomposto il mosaico di elementi, secondo un ben identificato parallelismo di significati edificanti e mete da perseguire, secondo le basi delle vigili leggi consuetudinarie,  da  seguire  dai i due sposi per la continuità  e fornire nuova linfa alla specie.

 I contenuti e i messaggi che le vesti in senso di forma, colori  e diplomatiche, sono incaricate di riverberare, sono numerose, non certo in questo breve possono essere rievocate, quello che si può fare, sono accenni, cui poi i in altra sede, saranno forniti dettagliatamente come analisi.

La vestizione che poi è il prodotto finale di un’accurata composizione sartoriale è fatta di postura e quindi di un adeguato spessore di tacco, che dovranno produrre i giusti presupposti di portamento per coprire e avvolgere senza esternare le forme femminili dai fianchi sino a sfiorare la pinta delle scarpe sul davanti.

Dalla vita, è un susseguirsi di regole dove, dopo aver indossato il merletto “imbosato” sulla camicia bianca che si estende sino alle ginocchia,  posizionando “prima sutana e poi la zoga”, queste con le apposite bretelle, sovrapposte, devono essere calibrate con saggezza e arte sartoriale, per descrivere alla  base di entrambe, un piano perfettamente orizzontale.

Sia suttana che la zoga rappresentano figurativamente gli emblemi delle due figure maschili della sposa, secondo le rigide  regole Kanuniane.

La parte posteriore e i fianchi, la veste deve descrivere su tutto il semi arco posteriore, prima una semi curva a sbalzo affinché la linea perpendicolare verso terra, non interferisca con nessuna delle parti anatomiche femminili sino al piano orizzontale idealizzato in precedenza.

Dopo indossato le zoga e il merletto, calibrato il tutto, si passa alla vestizione del gjpuno, che deve avvolgere le spalle descrivendo la zoga, una linea sui fianchi, sino alla prossimità del seno per avvolgerli per meta e curvare oltre la linea baricentrica di questi, per poi risalire e girare attorno al collo, ripetendo lo stesso tragitto sull’altra “baffa del corpo”.

La testa della sposa è un emblema di significati materni, la cui origine fonda nella storia di Zeus riflesso nel cappello dei Dogi veneziani, ed emulato nel copricapo di Scanderbeg.

La Kesa per questo rappresenta l’emblema dorato di crescita, che copre le nudità dei capelli femminili raccolti a modo di fonte këshetë; per questo ogni elemento come quest’ultimo, sono caratteristiche figurative e subliminali, che attraverso la vestizione vantano un quadro augurante e bene augurante, il continuo della specie sotto quell’ombrello di inculturazione.

Questa  non deve essere intesa come un espediente unico di quella giornata, ma quanto indossato, rappresenta il totem della famiglia, “il libro mastro identitario” di quella specifica coppia; tutte le persone che lo vogliono generalizzare o banalmente indossare, quanto usano anche frammenti ricomposti con altri, se non adeguatamente calibrati, indossati ed esposti, sono irrispettosi, verso tutte le nostre madri, le ultime ad averle utilizzate con saggezza, eccetto un paio di eccezioni,  che con diligenza abnegazione e rispetto le hanno portate in dosso, al fine di inculturare, quanti in grado di percepirne il senso e il valore.

Il costume tipico arbëreshë delle fasce bizantine della Calabria citeriore e un libro non scritto, com’è consuetudine della minoranza; lo  legge solo chi ha percorso le tappe dell’inculturazione locale, diversamente da quanti s’inventato, lettori provetti.

Questo dato ormai alla deriva, più devastante, ha raggiunto il suo culmine proprio un anno addietro, quando i vantatori seriali essendo stati preferiti alle persone di cultura, si sono dilettati a dare spettacolo stendendo a terra il proprio gonfalone , disponendo donne in costume inginocchiate attorno.

Certamente le consuetudini di capitolare dei popoli, non saranno il nocciolo culturale di queste figure, ma se non si rendono conto di quello che hanno fatto, dopo un anno dall’accadimento, la tragedia finale è in atto; non per i pochi che sanno e tirano per rimediare, ma per le capre che credono che i prati verdi, sono per brucare, correre e belare.

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QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

Posted on 01 ottobre 2020 by admin

DSC_34NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – I beni tangibili e intangibili del patrimonio culturale della minoranza storica arbëreshë, avrebbero dovuto esse considerati indistintamente, eccellenze da tutelare, dopo essere state opportunamente catalogate, nelle forme e nei luoghi dove si sono sviluppati secondo le esigenze degli uomini e del tempo.

Ciò nonostante “i detti saggi generali” hanno preferito seguire la deriva del mono tema, tralasciando progetti, in grado di predisporre strategie di sostenibilità, accomunando l’intangibile con il modello abitativo minoritario di base, in ogni loro aspetto caratterizzante.

Alla luce di ciò “i saggi” saranno ricordati, nei secoli a venire, per lo spreco di fondamenti andati dispersi o espressi senza adeguata cognizione, in specie l’esperienza abitativa; la culla, dove è stata allevata la radice identitaria della minoranza nel corso dei secoli.

Ciò nonostante la cosa che più duole si racconta nel fatto che non è stato un momento di sbandamento o di perdita della retta via, ma una scelta politica studiata a tavolino, il cui fine mirava a lasciare al libero arbitrio, la fonte primaria d’insediamento, nonostante apparisse evidente l’importanza del modulo abitativo tipo e della sua radice nel corso dei secoli.

E nonostante quest’ultimo, assieme all’ambiente naturale abbiano contribuito, in maniera fondamentale, al riverberarsi identicamente nel tempo della propria tradizione identitaria, le vicende storiche della minoranza arbëreshë, cono state considerate irrilevanti e per questo imprestato dalle genti indigene.

La deriva cosi sostenuta e voluta ha finito nel ritenere quale elemento complementare lo studio e l’analisi storica dell’architettura minore, ovvero l’ambiente costruito secondo le necessità del luogo naturale, senza porre alcuna riguardo per i valori in essi conserva o contenuti, sicuramente difficili da interpretare da comuni ricercatori, questi in specie ha  portato lo scrivente, da diversi decenni a lamentare la carenza di studio in tale disciplina o direzione dirsi voglia.

Un campo lasciato al libero arbitrio, dove a germogliare è stato la faciloneria diffusa di studiosi contemporanei senza alcun titolo specifico, i quali ritenendosi eccellenze incontrastate e forti della loro posizione politico/culturale, hanno assunto verso questa storica disciplina un atteggiamento molto soggettivo, tradottosi nel breve di un decennio, in supervalutazione delle influenze architettoniche maggiori, calettandole gratuitamente  nell’intimo del costruito Arbëreshë.

Una diffusa compagnia di non titolati della storia dell’architettura ha immaginato modelli costruiti all’interno dei centri antichi, quali manufatti realizzati nel tempo di una stagione, come avviene in epoca moderna, collocandoli e stimandoli come elementi di una circoscritta e ben definita parentesi storico edificatoria.

A tal proposito e per meglio comprendere il discorso è opportuno fare una premessa; notoriamente gli arbëreshë quando riferiscono di una casa, una dimora o manufatto architettonico in generale lo pronunzia al plurale, ad esempio, la casa di Bugliari è detto le case dei Bugliari (shëpitë e Bulërveth).

Ciò è riferibile al corso del tempo, in quanto, la casa, nata sotto forma estrattiva si era evoluta nel tempo sino a diventare prima manufatto additivo a piano terra, poi  elevato in altezza e in fine diventare espressione nobiliare, ovvero le diverse case che avevano avuto nel corso di cinque secoli una ben identificata famiglia, cambiata con le vicende sociali del tempo e dell’economia crescente secondo le dinamiche e le necessità di quel ben identificato gruppo familiare.

Genericamente oggi si rende merito al paese arbëreshë e agli ambiti dove si parla l’antica lingua ritenendo che dove questa non si riverbera più, quell’ambito è magicamente diventato indigeno, come se si fossero volatilizzati per incanto i trascorsi della storia tra uomo e ambiente costruito.

Ebbene non è così, in quanto un ambito abitato per secoli dalla minoranza, non smette di essere un luogo segnato solo perché non si parli l’antico idioma, come se fosse vera la leggenda dello Skirrò, che senza alcun rispetto o vergogna diceva, che la “sua arberia” era dove due arbëreshë si erano fermati a parlare per poi partire, in poche parole untori di territori.

Come se i membri della minoranza fossero untori seriali di territorio, per il loro modo di colloquiare spargendo saliva e chissà cosa altro, fortunatamente non è così, giacché, la stria ci da meriti più consistenti e di altra natura.

Prendendo spunto da questa volgare affermazione si può dedurre che un termine più razzista, omofobo e privo di alcuna consistenza storica e spregevole poteva essere partorito dall’inadeguatezza dell’uomo.

Egli sin dalla notte dei tempi ha avuto tempo per migliorarsi per poi prendere la china e distruggere quanto innalzato e se volessimo fare una disamina di quanto dura questo principio, ci sono grandi margini entro i quali avrebbe potuto correggere tale affermazione, tuttavia si continua imperterriti su tale deriva, e non si fa errore nel ritenere questa, la più ignobile e denigratoria affermazione che, la storia ricordi.

Gli arbëreshë hanno una tradizione di accoglienza e di principi sociali, consuetudinari che farebbe invidia alle più moderne società avanzate ideologiche e di pensiero, essi non sono un’utopia, sono realtà culturale, che si riverbera da secoli nel silenzio delle ideologie di partito, ritenendo che la magia della loro esistenza è racchiuso nel loro modo autonomi a rispettosa dello stato shëshi.

Ritenere che la regione storica arbëreshë sia fatta esclusivamente di espressione idiomatica, associata alla consuetudine alla metrica canora e alla religione greco bizantina è un errore storico senza eguali, in quanto il vetusto ed irriverente enunciato, è un prodotto alchemico studiato a tavolino, senza avere consapevolezza di luoghi, immaginando che solo i prodotti archivistici e scrittografici possano delineare il corso della storia.

L’unico e solo progetto d’indagine tiene conto degli ambiti attraversati bonificati e costruiti dagli arbëreshë, la vera espressione scrittografica, fatta di solchi colmi di sudore e sangue sulla terra dove essi fermarono per essere utili e uniti con gli indigeni.

Le case arbëreshë non sono le case kotra o le Albanesi  kulla, in quanto la prima non esiste, in quanto un mero abuso edilizio realizzato con materiali delle industrie negli anni del dopo guerra del secolo scorso; mentre la seconda è un elemento fortificato del XIX secolo, quando gli albanesi preferirono allocarsi nelle zone più a valle pianeggianti, e per difendersi realizzarono questa sorta di fortino verticale che non fa parte della storia degli insediamenti collinari.

La casa tipica degli arbëreshë è un modulo tipo che ritroviamo in tutti i cento dieci paesi che formano la regione storica, e quando di questo modulo tipo, non vi sia traccia, basta indagare abitazioni più recenti, per trovare al suoi interno la perla abitativa, come quando si separa  lo scafo di un’ostrica.

I Kastrijonì (i Paesi o Katundë, dirsi voglia, ma non Borghi) erano dunque, un’unità territoriale, con una società organizzata secondo radice antichissima, dove trovavano dimora i meccanismi istituzionali in grado di preservare tutti gli aspetti immateriali.

Sono questi ambiti a divenire vere e proprie purpignere, che dal XII secolo, sono state in grado di consentito alla radice, importata dalla terra di origine, di fiorire e riverberare quegli elementi che senza uno sheshi, senza una casa non avrebbero avuto modo di durare tanti secoli. 

Il modello in origine limitava persino di contrarre matrimoni all’interno del proprio ambito e tra gruppi esterni e comunque indigeni. 

La tutela e la valorizzazione dei Kastrijonì Arbëreshë e Albanesi, attraverso un’attenta analisi degli elementi giunti sino ai giorni nostri, è ancora in grado di fornire una traccia solida, che nessun documento è in grado di fornire.

Ciò ha fatto nascere negli ultimi anni la conseguente necessità di pervenire alla conoscenza delle tipologie in grado di offrire risposte alle vicende del passato ponendo in analisi l’edificato delle varie epoche, associandole a forme di dimore prima estrattive e poi additive.

Esse sono riscontrabili in specie negli insediamenti nell’Epiro nuova e nell’Epiro vecchia, relativamente al tardo medioevo, poi in seguito, dal XV secolo, in quelli arbëreshë del meridione italiano e di tutta la fascia del’entroterra collinare adriatico.

Le capitolazioni, che per il loro significato sono un atto di sottomissione non possono riferire della storia degli arbëreshë, ma le pietre si; tanto meno la possono rilevare i catasti onciari, questi per i presupposti secondo cui vennero realizzati a dare risposte alla questione meridionale, essa rimane viva e pietosamente frena ogni ambito del sud, diversamente dai paramenti murari che raccontano, con le loro consistenze verticali, orizzontali, inclinati e i tipici affacci, come si trasformava i paesi minoritari.

Per terminare questo breve è bene ricordare che gli storici dell’architettura sono una cosa, quanti corrono per fotografare documenti sono altra cosa, comunque risultano essere più affidabili i primi, gli unici in grado di collocare adeguatamente nel progetto della storia, cosa e chi ha vissuto quella terra.

 

P.S.  Se siete documentaristi ed esperti lettori della Regione storica arbëreshe, scrivete un libro basandovi su questa immagine: ma devono essere almeno mille pagine se siete veramente bravi.

L’immagine non sta in archivio ne in biblioteca e ne in un museo, la trovate in Via lëm letiri a Santa Sofia.

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