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QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

Posted on 01 ottobre 2020 by admin

DSC_34NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – I beni tangibili e intangibili del patrimonio culturale della minoranza storica arbëreshë, avrebbero dovuto esse considerati indistintamente, eccellenze da tutelare, dopo essere state opportunamente catalogate, nelle forme e nei luoghi dove si sono sviluppati secondo le esigenze degli uomini e del tempo.

Ciò nonostante “i detti saggi generali” hanno preferito seguire la deriva del mono tema, tralasciando progetti, in grado di predisporre strategie di sostenibilità, accomunando l’intangibile con il modello abitativo minoritario di base, in ogni loro aspetto caratterizzante.

Alla luce di ciò “i saggi” saranno ricordati, nei secoli a venire, per lo spreco di fondamenti andati dispersi o espressi senza adeguata cognizione, in specie l’esperienza abitativa; la culla, dove è stata allevata la radice identitaria della minoranza nel corso dei secoli.

Ciò nonostante la cosa che più duole si racconta nel fatto che non è stato un momento di sbandamento o di perdita della retta via, ma una scelta politica studiata a tavolino, il cui fine mirava a lasciare al libero arbitrio, la fonte primaria d’insediamento, nonostante apparisse evidente l’importanza del modulo abitativo tipo e della sua radice nel corso dei secoli.

E nonostante quest’ultimo, assieme all’ambiente naturale abbiano contribuito, in maniera fondamentale, al riverberarsi identicamente nel tempo della propria tradizione identitaria, le vicende storiche della minoranza arbëreshë, cono state considerate irrilevanti e per questo imprestato dalle genti indigene.

La deriva cosi sostenuta e voluta ha finito nel ritenere quale elemento complementare lo studio e l’analisi storica dell’architettura minore, ovvero l’ambiente costruito secondo le necessità del luogo naturale, senza porre alcuna riguardo per i valori in essi conserva o contenuti, sicuramente difficili da interpretare da comuni ricercatori, questi in specie ha  portato lo scrivente, da diversi decenni a lamentare la carenza di studio in tale disciplina o direzione dirsi voglia.

Un campo lasciato al libero arbitrio, dove a germogliare è stato la faciloneria diffusa di studiosi contemporanei senza alcun titolo specifico, i quali ritenendosi eccellenze incontrastate e forti della loro posizione politico/culturale, hanno assunto verso questa storica disciplina un atteggiamento molto soggettivo, tradottosi nel breve di un decennio, in supervalutazione delle influenze architettoniche maggiori, calettandole gratuitamente  nell’intimo del costruito Arbëreshë.

Una diffusa compagnia di non titolati della storia dell’architettura ha immaginato modelli costruiti all’interno dei centri antichi, quali manufatti realizzati nel tempo di una stagione, come avviene in epoca moderna, collocandoli e stimandoli come elementi di una circoscritta e ben definita parentesi storico edificatoria.

A tal proposito e per meglio comprendere il discorso è opportuno fare una premessa; notoriamente gli arbëreshë quando riferiscono di una casa, una dimora o manufatto architettonico in generale lo pronunzia al plurale, ad esempio, la casa di Bugliari è detto le case dei Bugliari (shëpitë e Bulërveth).

Ciò è riferibile al corso del tempo, in quanto, la casa, nata sotto forma estrattiva si era evoluta nel tempo sino a diventare prima manufatto additivo a piano terra, poi  elevato in altezza e in fine diventare espressione nobiliare, ovvero le diverse case che avevano avuto nel corso di cinque secoli una ben identificata famiglia, cambiata con le vicende sociali del tempo e dell’economia crescente secondo le dinamiche e le necessità di quel ben identificato gruppo familiare.

Genericamente oggi si rende merito al paese arbëreshë e agli ambiti dove si parla l’antica lingua ritenendo che dove questa non si riverbera più, quell’ambito è magicamente diventato indigeno, come se si fossero volatilizzati per incanto i trascorsi della storia tra uomo e ambiente costruito.

Ebbene non è così, in quanto un ambito abitato per secoli dalla minoranza, non smette di essere un luogo segnato solo perché non si parli l’antico idioma, come se fosse vera la leggenda dello Skirrò, che senza alcun rispetto o vergogna diceva, che la “sua arberia” era dove due arbëreshë si erano fermati a parlare per poi partire, in poche parole untori di territori.

Come se i membri della minoranza fossero untori seriali di territorio, per il loro modo di colloquiare spargendo saliva e chissà cosa altro, fortunatamente non è così, giacché, la stria ci da meriti più consistenti e di altra natura.

Prendendo spunto da questa volgare affermazione si può dedurre che un termine più razzista, omofobo e privo di alcuna consistenza storica e spregevole poteva essere partorito dall’inadeguatezza dell’uomo.

Egli sin dalla notte dei tempi ha avuto tempo per migliorarsi per poi prendere la china e distruggere quanto innalzato e se volessimo fare una disamina di quanto dura questo principio, ci sono grandi margini entro i quali avrebbe potuto correggere tale affermazione, tuttavia si continua imperterriti su tale deriva, e non si fa errore nel ritenere questa, la più ignobile e denigratoria affermazione che, la storia ricordi.

Gli arbëreshë hanno una tradizione di accoglienza e di principi sociali, consuetudinari che farebbe invidia alle più moderne società avanzate ideologiche e di pensiero, essi non sono un’utopia, sono realtà culturale, che si riverbera da secoli nel silenzio delle ideologie di partito, ritenendo che la magia della loro esistenza è racchiuso nel loro modo autonomi a rispettosa dello stato shëshi.

Ritenere che la regione storica arbëreshë sia fatta esclusivamente di espressione idiomatica, associata alla consuetudine alla metrica canora e alla religione greco bizantina è un errore storico senza eguali, in quanto il vetusto ed irriverente enunciato, è un prodotto alchemico studiato a tavolino, senza avere consapevolezza di luoghi, immaginando che solo i prodotti archivistici e scrittografici possano delineare il corso della storia.

L’unico e solo progetto d’indagine tiene conto degli ambiti attraversati bonificati e costruiti dagli arbëreshë, la vera espressione scrittografica, fatta di solchi colmi di sudore e sangue sulla terra dove essi fermarono per essere utili e uniti con gli indigeni.

Le case arbëreshë non sono le case kotra o le Albanesi  kulla, in quanto la prima non esiste, in quanto un mero abuso edilizio realizzato con materiali delle industrie negli anni del dopo guerra del secolo scorso; mentre la seconda è un elemento fortificato del XIX secolo, quando gli albanesi preferirono allocarsi nelle zone più a valle pianeggianti, e per difendersi realizzarono questa sorta di fortino verticale che non fa parte della storia degli insediamenti collinari.

La casa tipica degli arbëreshë è un modulo tipo che ritroviamo in tutti i cento dieci paesi che formano la regione storica, e quando di questo modulo tipo, non vi sia traccia, basta indagare abitazioni più recenti, per trovare al suoi interno la perla abitativa, come quando si separa  lo scafo di un’ostrica.

I Kastrijonì (i Paesi o Katundë, dirsi voglia, ma non Borghi) erano dunque, un’unità territoriale, con una società organizzata secondo radice antichissima, dove trovavano dimora i meccanismi istituzionali in grado di preservare tutti gli aspetti immateriali.

Sono questi ambiti a divenire vere e proprie purpignere, che dal XII secolo, sono state in grado di consentito alla radice, importata dalla terra di origine, di fiorire e riverberare quegli elementi che senza uno sheshi, senza una casa non avrebbero avuto modo di durare tanti secoli. 

Il modello in origine limitava persino di contrarre matrimoni all’interno del proprio ambito e tra gruppi esterni e comunque indigeni. 

La tutela e la valorizzazione dei Kastrijonì Arbëreshë e Albanesi, attraverso un’attenta analisi degli elementi giunti sino ai giorni nostri, è ancora in grado di fornire una traccia solida, che nessun documento è in grado di fornire.

Ciò ha fatto nascere negli ultimi anni la conseguente necessità di pervenire alla conoscenza delle tipologie in grado di offrire risposte alle vicende del passato ponendo in analisi l’edificato delle varie epoche, associandole a forme di dimore prima estrattive e poi additive.

Esse sono riscontrabili in specie negli insediamenti nell’Epiro nuova e nell’Epiro vecchia, relativamente al tardo medioevo, poi in seguito, dal XV secolo, in quelli arbëreshë del meridione italiano e di tutta la fascia del’entroterra collinare adriatico.

Le capitolazioni, che per il loro significato sono un atto di sottomissione non possono riferire della storia degli arbëreshë, ma le pietre si; tanto meno la possono rilevare i catasti onciari, questi per i presupposti secondo cui vennero realizzati a dare risposte alla questione meridionale, essa rimane viva e pietosamente frena ogni ambito del sud, diversamente dai paramenti murari che raccontano, con le loro consistenze verticali, orizzontali, inclinati e i tipici affacci, come si trasformava i paesi minoritari.

Per terminare questo breve è bene ricordare che gli storici dell’architettura sono una cosa, quanti corrono per fotografare documenti sono altra cosa, comunque risultano essere più affidabili i primi, gli unici in grado di collocare adeguatamente nel progetto della storia, cosa e chi ha vissuto quella terra.

 

P.S.  Se siete documentaristi ed esperti lettori della Regione storica arbëreshe, scrivete un libro basandovi su questa immagine: ma devono essere almeno mille pagine se siete veramente bravi.

L’immagine non sta in archivio ne in biblioteca e ne in un museo, la trovate in Via lëm letiri a Santa Sofia.

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