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UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

Posted on 02 luglio 2024 by admin

GenerazioniNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per millenni gli Arbëreşë hanno trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca, titolando il corpo umano e gli atti naturali per il suo sostentamento.

I generi che ancor oggi come un tempo hanno quale consuetudine primaria la cultura orale, senza alcun adempimento scritto grafico, non possiedono ne documenti, e ne grafiti di memoria, ma ha solo le cose locali riferite in base ai trascorsi storici e di quelli portati nel cuore e nella mente dalle terre prime parallela.

Essi sanno solo ciò che ricordano e per ricordare hanno bisogno di formule come ausili mnemonici, per questo ancora oggi in epoca globale hanno una relazione stretta con le paro­le profondamente diversa rispetto agli altri generi che fanno uso di sperimentazioni nuove.

Resta il dato fondamentale, ovvero, che un Arbëreşë usa l’apparato uditivo per ascoltare e non quello visivo per leggere. Tra i suoi sensi l’orecchio sarà quello considerato più importante, perché esso vive all’interno di una cultura in cui non esistono né testi scritti a mano né stampe o grafiti di memoria che non fanno parte del protocollo, infatti, il sapere è organizzato in modo tale da poter essere facilmente mandato a memoria.

In questa cultura del parlato, ogni cosa si traduce la conoscenza in pensiero o memoria dirsi voglia, espressa ciclicamente all’interno di moduli bilanciati di specifici contenuti ritmici e, per questo, deve strutturarsi in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espres­sioni formulaiche, in tutto, temi semplici in forma di proverbi costantemente uditi e rammentati con facilità da una generazione all’altra.

Essi così diventano contenuto formu­lato e ritmico per un facile apprendimento e ricordo, in altre for­me a funzione mnemonica, di pensiero intrecciato ai sistemi di memoria, che determinano anche l’unità del significato.

Nelle culture orali primarie, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa ritmica, in quanto il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista fisiologico, determinando l’unitario legame fra ritmi orali, un insieme fatto di pro­cesso respiratorio, i gesti della simmetria del corpo uma­no nelle antiche parafrasi aramaiche, greche e dell’ebraico.

Si racconta che questa usanza è stata utilizzata in tutte le antiche civiltà del vecchio continente, conoscessero a memoria nella loro interezza.

Tutte queste civiltà come gli Arbëreşë fanno ancora oggi passa­no la vita «ruminando», meditando cioè in continuazione, brani, ma tali incredibili performance mnemonica resta possibile anche dal fatto che i testi sacri si ripetono nei perimetri di credenza e sino a pochi decenni addietro come da secoli in esclusiva forma orale.

Chi di noi non ricorda i nostri genitori frequentatori assidui delle chiese Bizantine rispondere al parroco con rime ritmiche in lingua Greca conoscendone il solo esclusivo valore di credenza.

Tutto diventava un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile e, questa caratteristica si sono perdute con le traduzioni nelle lingue moderne a seguito delle disposizioni Vaticane degli anni settanta.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quinte essenziali.

Frasi, proverbi e mas­sime del tipo «Rosso di sera bel tempo si spera», «Divide et im­pera», «Sbagliare è umano perdonare è divino», «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio», «Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore», tutte queste e molte altre in Arbëreşë sono facilmente reperi­bili nei racconti o il fraseggiare delle Gjitonie, in tutto gli ambiti vissuti dove la memoria non termina mai, perché ambito di cultura orale dove nulla si propone come occasione, ma radice del consuetudinario locale più intimo che forma sostanza di pensiero, per il quale diventa ogni cosa pensiero mnemonico, poiché la radice che segna e da tempo al parlato ereditato.

Nelle culture orali primordiali, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria solida.

La memoria diventa il custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare, in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato e sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole.

Per questo chi nasce Arbëreşë allena la mente ad essere memoria solida un insieme di Iunctura, come lo sono le strade i vichi, porte, vicoli stretti e articolati dove l’accoglienza del viandante vale se si lega al patto di fratellanza e accoglienza.

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ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

Posted on 26 giugno 2024 by admin

011NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.

una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.

Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.

La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran conside­razione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché co­noscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.

Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.

Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.

Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.

In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.

Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.

Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specia­listi, tuttavia altri mezzi di più fa­cile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.

In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.

Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.

Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.

Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.

Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.

In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.

Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.

Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.

E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.

Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.

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DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

Posted on 15 giugno 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Uno dei più dolorosi episodi delle umane miserie, può definirsi la pena più antica del genere umano, in altre parole, mettere a disposizione dell’offerente tutte le intime cose del pagante; e ogni cosa si consolida in prostrazione fisico/morale.

I protagonisti sono sempre due, una meno illustre, alla spasmodica ricerca di viandanti o “faccendieri mercatali senza scrupolo” e, l’offerente disposto ad ogni cosa pur di ricevere compenso.

Entrambi lottano, per la propria sopravvivenza, fisica o morale dirsi voglia e, i vestimenti hanno sempre come scenario angoli di strade, piazze, lavinai e palazzi, dove non vi è mai nata erba buona, perché luogo buio e usurante, che riconduce e sottane usate come lenzuolo coprente.

Tutto davanti la casa dei clerici che chiedono, preghiera alla clientela, generando fedeli con mira del sacrificio in sole dieci paternostri, dopo aver avuto quanto richiesto, con poca spesa.

Questo atto antico pur se bandito da ogni credenza, con prescrizioni, ricompare sempre primeggiante, balda, sfrontata ed impudica, perché il bisogno di donazioni, premiata con l’olio concimato dalla pelle in decomposizione, di memorie antiche.

Sono note le vicissitudini dalle sue fioriture nella Gjitonia bizantina, fino ai giorni nostri e, i ricavi, prima di essere frantoiati sono depositati per arroganza lì dove è sepolto l’antico fonte battesimale.

Noi studiosi e divulgatori di questo lavoro di ricerca, poniamo ogni pena dove tutto ha origine, sia nel bene che si può ottenere conoscendo le cose e quindi, per il male prodotto, in tutto, una memoria che restituisca decoro e pudibondo all’involucro che si addice al buon costume e, alla pubblica onestà di questo luogo.

I quadri appariscenti e senza vergogna saranno coperti, ed apposite note serviranno a evidenziare il degrado umano, a cui hanno portato all’avvilimento di coloro che frequentano gli antri, ove infelicissime creature trafficano del loro onore senza avere mai un momento di vergogna o ripensamento pudico.

L’esposizione del cattivo gusto a buon vedere degli artisti, rappresenta il più efficace rimedio all’apparire come venditori di sé stessi, pronti ad infettarsi con sereno e gioioso animo di unione falsa per danaro.

Tuttavia nonostante le tante apparizioni pubbliche e private, i prodi addetti, non hanno avuto interesse verso niente e nessuno se non lasciare impronta con il loro godimento ai posteri, non con immagini benevole ma il tanfo del degradarsi della loro radice infetta, oltremodo ornata di femminei acconciamenti in pose di vilissimo, stesi a riposo, nel pieno delle proprie attività utili a ricondurli negli orti ornati con feci e cose deteriorate.

Noi sveliamo turpezze e brutture, ma speriamo che da queste abbiano beneficio, in rifugio tutti coloro che vi porteranno lo sguardo per rimanere sconcertati o offesi.

Se un tale orrore dovesse ancora oggi invade gli animi, i tristi fondaci rimarranno deserti, con l’infamia certa del commercio, di chi vende anima e corpo, ai compratori a buon mercato, gli stessi che non sanno fare famiglia, Gjitonia, Shëşë e Katundë.

Resta solo chi si occupa di storia, naturalmente quella vera, a partire dalla parlata, con argomento i trascorsi del governo delle donne, quello degli uomini e, solo quanti hanno segnato con attività benevole, le cose che hanno reso la minoranza l’esempio europeo di famiglia e integrazione.

Certamente sentir parlare di Gjitonia locale nominando l’addolorata madre “Clementina”, che morì sofferente in attesa del figlio che non rincasò mai, ad opera di una discendenza ignorante, blasfema e scostumata, che di quel nome inopportuno ne faceva bandiera.

Non da meno sono le tante storie diffuse in maniera inopportuna, in diverse occasioni e tutte nate da quella generazione di generi maschili e femminili in perenne competizione, le stesse che da oltre quattro decenni fanno danni e disperdono al vento quel matrimonio tra canto vecchio e musica nuova, in attesa che nasca la famiglia culturale, in questo secolo appena iniziato.

Scrivo de mio paese di costumi storia uomini architettura e i cunei agrari e della trasformazione, ma vengono preferiti infanti sena arte, siccome sanno rompere le cose, si sentono fabbri che sanno ferrare gli asini, che come loro per la poca manualità, diventano zoppi e ciechi non riconoscono neanche gli odori che emana il ferro caldo quando si aletta sull’unghia del quadrupede.

Arrivare ad udire che per la crescita demografica locale, si lasci nelle disponibilità e nella direttiva culturale di chi è nato da rapporti pagati a buon mercato o con semplici amuleti di mercatele produzione, rappresenta il termine storico dove sprofonda il buon gusto la cultura, valorizzando quanti vogliono apparire e non hanno un minimo di energia per retro illuminarsi.

L’acqua scorre è noto segua il tempo e, mentre il tempo non si ferma, l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, nei luoghi ameni; qui l’uomo che osserva dalle prospettive desertiche e vuote, prende spunto da quelle scalfitture di acqua lenta e saggia, costruendo bisogni dettati dal tempo che passa.

Questa è una metafora che potrebbe aiutare molti addetti acerbi, ma purtroppo la media culturale risulta essere molto bassa o più volte labile dirsi voglia, qui fa da mediatore il vento che miete le cose deboli, deformando quelle più solide, risparmiando solo la saggezza, quella fatta di materia che ne tempo, ne acqua e ne vento, possono mutare.

Questa è una prospettiva che parte e trovano largo spazio in quest’opera pronta per le stampe, in cui l’autore – in anticipo su altri piccoli celebranti – fornisce certezze e, non parla di mondi paralleli di alcun che, in alcun dove avuto luogo.

Qui si inizia a trattare le Metodologie di radice mai utilizzata di tempi post industriali secondo le metodiche di “Percorsi di finalità Agili”, specie in campo di ricerca storica, sviluppo e indagine arbëreşë.

Un atto che se opportunamente, reso solidale, tra gli addetti potrebbe rappresenta l’atto o immagine atta a riaprire il portone dei liberi pensatori, del monte Echia, chiuso per disprezzo verso i regnanti di cultura anomala.

Nello specifico i “Percorsi di finalità Agili”, largamente diffusi nella ricerca a fini di progetti condivisi, specie se approvata da un numero di addetti, che per capacita professionali, progettuali, ricerca e conferma, delle attività, in  protocolli, restituiscono come atto finale un progetto/indagine, frutto di un confronto a cui non serve il timbro del dipartimento falsamente illuminato  o, blasonati attori non parlanti, perché il risultato ottenuto  è il nettare di una armata culturale che verifica e approva ogni fatto contemplato nel progetto, trattato dall’inizio alla fine dello studio condotto non da poveri e disarmanti singoli praticanti senza lumi.

Storicamente le cose tramandate dagli Arbëreşë sono definite o riportate da singole figure, le quali, per quanto possano essere precise, dopo il 1799 riportano elementi di caratura non, riconoscibili a discorso pregressi e presentati nel 1807 come novità e, non può essere farina di elementi capaci delle misure di fraterna fedeltà o di promessa data.

Oggi l’agio di sedere innalzato su una cattedra non può o non deve consentire libertà di arbitrio, o libera interpretazione per i frequentatori “solitari di archivi, biblioteche o vutti” per fare lavine che non fanno strade e ne segnano memoria.

Un tale disse un di: venite a me, non come maestri o professori, ma semplici scolaretti senza futuro e, così, potrete ambire un giorno a divenire genere colto senza peccato di prostrazione.

Privati, Gjitonie, Sheshi, Istituti, Istituzioni, sociali e di credenza, da troppo tempo realizzano editi, garantendo la loro genuinità storica, secondo la regola del riversamento di aceto di vino altrui, o meglio, in favore di quanti non hanno mai avuto modo di confrontarsi ed osservare, ragion per la quale le cose della storia degli arbëreşë sono opera di variegate garanzie editoria ripescate nel torbido incompreso di archivio biblioteche senza un futuro.

Sono innumerevoli le attività, le pubblicazioni e gli appuntamenti mai il frutto di gruppi di lavoro multidisciplinari, ma solo opera di liberi attivisti che non trovando altro agio si dilettano a definire i trascorsi arbëreşë come mera espressione linguistica in attività di consuetudine a memoria di battaglie epiche o di scritto tradotti all’incontrario.

Questo spinge a ritenere indispensabile sottoporre con adeguatezza all’attenzione le eccellenze certificate, oltre modo senza alcuna verifica o confronto pubblico, che ne definisca mai la genuinità, di cose non proprio in linea con i trascorsi di un ben identificato intervallo storico, sia in terra madre che in quella parallela del fiume Adriatico, sino allo Jonio.

A i tanti attivisti che hanno scambiato un buon maestro con un pessimo padrone ve tutto il nostro augurio di cose buone, ma non certo faranno mai storia o sveleranno cose che la storia della minoranza attende da secoli e non trova ancora agio e pace.

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DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

Posted on 30 maggio 2024 by admin

Ina Casa 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La deriva culturale da cui sfuggimmo e, per la quale siamo diventati esuli integrati in queste terre parallele, è racchiuso nel concetto di non aver voluto soccombere e quello che oggi si palesa a casa nostra e, ormai divenuto più sopportabile.

Nonostante la volontà di fare bene e meglio esprimendo e affermando tutto il patrimonio ereditato per discendenza diretta, ha ritrovato nuovamente pena identica qui in terra parallela di quanto i nostri antenati sfuggirono sei secoli orsono.

Due cose sono certe; la prima è lo sfaldamento culturale avuto inizio nel XVII secolo con il vertice di pena nel sessantotto del secolo scorso; la seconda è la caparbietà turcheggiante che non ha mai smesso di inseguirci per piegarci e, oggi dopo il sessantotto hanno riprese le manovre di sottomissione, di consuetudinari, linguistica i costumi e la credenza.

Oggi la deriva, senza confini ci insegue e ci insegna a ballare secondo le anche islamiche senza pudore, siamo invasi secondo le credenze dei loro miti, vendendo sgretolarsi la credenza portata oltre adriatico con non poca pena e sacrifici dai nostri avi.

Vanno dicendo che bisogna rinnovarsi e le parlate devono essere rinnovate, perché le cose antiche non hanno più senso in questo mondo globalizzato e chi volesse studiare o entra nei canali riconosciuta da quella corte ambigua senza credenza, fa meglio a rimane isolate a fare il contadino che ciba lo stomaco e lascia deserto il cuore la mente e l’animo nobile, quello che  abbiamo ereditato dai nostri umili ma sapienti genitori.

Che si cibavano di crusca di grano e non di veli o nebbie generate, dalla “farina fatua” lasciata incautamente nell’aia a prendere sole degenere, non è certo il meglio della cultura che fa la regione storica.

Noi siamo Arbëreşë, voi non so cosa; tuttavia se si esalta l’opera del mugnaio matto, che espone le macine senza l’acqua che le fa ruotare; rappresenta la deriva di un figlio degenere, come chi prestava il grano per entrare nelle famiglie e manomettere le risorse del sudore altrui.

Gli esempi sono molteplici ed oggi, pochi ne conoscono il senso o il valore storico e, se questo accade non viene per caso, visti i temi in fermento, con i quali si trattano integrazione, ponti e, credenze, senza avere misura, di quanto apporto fornì nella storia d’Europa il genio arbëreşë.

La storia degli Arbëreşë è fatta di lavoro sudore, studio, credenza, legalità, genio e diffusione editoriale senza confini o generi da sottomettere o distruggere i popoli di cui erano parte.

A tal fine e per comprendere meglio la misura delle cose, chi si reca negli ambiti, in specie i Katundë della “Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë”, da oggi in avanti, provvedesse prima di tutto a confrontarsi con quanti studiano, analizzano e promuovono il territorio senza soluzione di continuità da molti decenni e, non con le istituzioni che essendo volontà popolare a scadenza di mandato, mancano di quella formazione storica continuata dalla radice indivisibile.

Venite in “Regione storica Arbëreşë”, ma mi raccomando, onorate i condottieri dell’ordine del drago quando non erano più ricattati per la propria famiglia in ostaggio e il suo popolo che con sacrifico allevava e sosteneva le proprie radici.

Le vostre fatue ragnatele, sono il motivo per il quale, le nostre discendenze preferirono migrare e disegnare paralleli ambientali di genio e di cuore, con credenza antica, la stessa che voi viandanti non dedicate tempo di confronto, con i veri saggi locali, quelli eletti dal tempo e dalla saggezza locale, nel più riservato silenzio ovvero i: nemo propheta acceptus est in patria sua; perchè: Jaku jonë i shëprishur sù harrua!

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I PAESI ARBËREŞË DA VISITARE ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DA VIANDANTE (Janë e na vighë ghindë zotë e i mami për lindrunërà)

Posted on 20 marzo 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono comunità alloglotte insediatasi, con i relativi modelli abitativi nel meridione italiano, fatta di tradizioni, parlate, uomini, religione e, una solida Iunctura culturale, ancora inesplorata, in specie dai percorsi turistici che contano.

Queste macroaree sono episodi della storia mediterranea che non mutato, resilienti nel corso dei secoli, in tutto, modelli di integrazione e convivenza sociale, tra i più solidi e duraturi della penisola Italiana.

Genti che per convivere non hanno dovuto fare uso di scontri, prevaricazioni o sottomissioni di sorta con gli indigeni locali, ma convivenza di “civile Gjitonia”, quella portata dalle colline dell’oltre adriatico e, innestata nel meridione italiano.

Gli stessi ambiti segnati, prima dai Greci fannulloni, poi da Bizantini e Longobardi in lotta, seguiti dai monaci Cistercensi dei fortilizi di grancia, in quelle terre note, o facilmente individuate, in epoca moderna come Regno di Napoli, oggi Italia centro meridionale.

Ed è qui che le genti, in specie Arbëreşë, non hanno mai smesso di valorizzare e mantenere vive le antiche tradizioni o le cose portate nel cuore e nella mente dalle loro terre di origine dai Balcani.

Le stesse poi depositate in questi “Paralleli Meridionali” con rispetto, saggezza e genio di luogo, mostrandosi sempre operoso e mai distrarsi nell’assumere atti di protagonismo o prevaricazione verso gli altri.

Questi Agglomerati o Nuclei Abitativi Aperti, in stretta aderenza ai cunei agrari e della trasformazione, relativi, si identificano in Katundë.

Essi non hanno nulla a che vedere con gli impianti medioevali murati ai piedi di castelli o i sistemi in difesa o circoscritti dirsi voglia, identificati come “Borgo”.

In quanto gli Arbëreşë, facevano uso di modelli abitativi aperti e non murati, la unica difesa era l’impianto urbano di lenta percorrenza o di “iunctura familiare”, più idonei delle banali e violente mura o elevati, per dividere le classi sociali dall’agro operoso.

Qui tutto era familiare tutto era condiviso e nulla poteva essere violato o prevaricato da altri, chiunque essi fossero, e non poteva essere considerato mira per emergere.

Tutti i centri antichi e i relativi cunei agrari Arbëreşë, oggi sono itinerari molto suggestivi e colmi di significati antichi, anche se la poca attenzione che molte amministrazioni governative e locali, in diversa misura, usano rivolgere per identificarli, tutelarli senza mai valorizzarli e tutti, danno la misura con il definirli, identificarli o appellarli comunemente in “Borghi”.

Nonostante sia evidente che, se un Borgo risulta essere un sistema chiuso, un Katundë e un sistema aperto, se un Borgo ha diverse classi sociali, un Katundë vive di parità sociale, se un Borgo ha la nobiltà a guida sociale e politica, un Katundë vive del governo operoso degli “uomini” e delle “donne” che amministrano le cose in egual misura e cooperazione, senza mai superare i limiti di competenza civile tra generi.

Tutti i paesi, Villaggi, Contrade, Frazioni, Katundë minoritari, hanno caratteristiche distintive simili, sia nella disposizione dei rioni e, degli elementi urbanistici/architettonico, in tutto, un esempio di storia urbana di città aperta.

La stessa vissuta al fine di integrarsi, confrontarsi e dare agio ai loro abitanti senza distinzioni o elitarie di sorta e, nonostante la peculiarità che anticipava i tempi delle società che ancora oggi annaspano, solo a pronunziare quello che per gli Arbëreşë era regola, questi paesi vivono solitari e senza alcuna legge che tuteli questi aspetti, nel mentre si valorizzano, esclusivamente le forme idiomatiche appellandole di lingua altra.

Lasciano per questo, gli impianti urbani e le valenze Vernacolari alle ire del tempo, alle attività ideologiche della politica e al riversamento dei contenuti storici ad opera dei castellani, sempre più ostinati a credere che nel deserto si possa trovare una fonte di vino buono.

Le stesse ideologie locali che ad oggi giorno, la politica e delle metropoli moderne, sognano quale ideale irraggiungibile, ipotizzandoli solo come percorsi scolari e nulla più.

Nonostante, tutti questi piccoli centri antichi e, i loro cunei agrari fossero in origine abitati da indigeni, ma le vicende della natura, in forma di carestie, terremoti e pestilenze diedero modo di essere abbandonati e lasciati all’incuria di tempo affiancata dalla natura, solo grazie alla caparbietà degli Arbëreşë, questi oggi appaiono fieri sostenuti dai valori maturati, tra uomo e ambiente naturale preservato in maniera egregia.

Ed è la Calabria dove si contano circa sessanta tra paesi e frazioni o casali, su quattrocento sette, della regione intera, di Katundë Arbëreşë mentre tutto il meridione in sette regioni accomuna, ventuno macroaree in oltre cento dieci paesi con Napoli Capitale.

Questi tutti e senza alcun dubbio storico, sono caratterizzati da fenomeni sociali dove non vi era alcuna forma di borghesia o nobiltà altolocate se non, la nobile arte del prete di dire messa, per i quattro rioni tipici, secondo i quali si componeva la iunctura della; Chiesa Kishia, il fulcro, di unione tra i rione degli indigeni locali: Ka rinë rellët; Bregu per l’avvistamento e il controllo del centro in espansione; Kalive le tipiche residenze disposte in modelli articolati e lineari dagli Arbëreşë; che poi diventano componimenti urbani o perimetro del nuovo centro urbano denominato; Şëşi, (in Arbëreşë) e l’insieme formava un Katundë, che in Arbëreşë, ha il senso di luogo di confronto e di movimento operoso.

Indicavo un numero complessivo dei Piccoli centri antichi aperti, della Calabria e, solo di quelli ricollocati e innalzati dagli Arbëreşë, esclusivamente in zone collinari, oltre la quota, livello mare di quattrocento metri.

Questi, rispettivamente: molti hanno conservato il senso totale delle linee guida urbanistiche, architettoniche e i valori identitari; pochi anno parso le direttive religiose; e, pochissimi solo la memoria toponomastica.

In Calabria i paesi Arbëreşë sono allocati in quella che si identificano in tre itinerari delle Provincia di Cosenza, Crotone e Catanzaro; la prima con la Macroarea della Cinta Sanseverinese, suddivisa in sub m.c., del Pollino, delle Miniere, della Mula e, della Sila Greca; la seconda, con la Macroarea del Centro Jonico; la terza; con la Macroarea dei Due Mari, Tirreno e Jonio, quest’ultimo identificato come il confine storico del Gran Ducato di Calabria o del thema di Reggio Calabria della Costantinopoli imperiale.

Per quanti volessero addentrarsi all’interno di questi ambiti e rivivere sensazioni antiche, che neanche la globalizzazione ha ancora fermato; la prossima stagione lunga, ormai iniziata, (ovvero l’Estate) sia il motivo valido per recarvi, come residenti della breve sosta, assumendo le vesti di chi torna a casa propria, e si trova a vivere o avvertire i cinque sensi natii.

Per questo è il caso di risiedere nei presi e poi recarsi e fermarsi, simulando stanchezza per cogliere in ogni anfratto di questi luoghi, i fatti e attività sociali dal modello dei cinque sensi, ovvero al Gjitonia, dove si ode e si sentono, valori antiche che in nessun luogo è possibile rivivere.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

Non chiedere mai cosa sia uno Shëşë, noti in storiografia come moduli di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato e disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa sia Gjitonia, Costumi, Strade, Pietanze e bevande tipiche; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario della credenza e, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia di quei luoghi, ma cercate di cogliere i valori che ogni persona è in grado sviluppare, nell’attimo in cui siete avvolti dal silenzio che innescano questi luoghi e sensibilizzano i vostri cinque sensi.

Solo così potrete avvertire attimi irripetibili e, vi troverete immersi in una dimensione nuova, fatta di odori, sapori, suoni, e prospettive, che se accarezzate con le mani lievemente, diverrete anche voi nuovi abitanti di questi luoghi colmi di storia e di leale passione, la stessa che rende e accoglie il passante che vuole vivere momenti non per distrarsi ma per essere migliore.

Mi raccomando, visitate i paesi Arbëreşë, non come turisti distratti, ma come figli che tornano nei luoghi materni.

Se poi la scintilla di tutto ciò non si innesca, chiedete dello scrivente e il fuoco della passione leale arderà dentro di voi e avvertirete le pene nobili degli infaticabili e leali Arbëreşë.

 

Napoli, dove il tempo scorre e cancella le cose della storia che conta.  

 

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OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

Posted on 09 marzo 2024 by admin

Governo delle donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno di ogni Katundë di radice Arbëreşë, l’otto marzo rappresenta la giornata per onorare tutte le donne che hanno dato vigore e preparato nel corso dei secoli, dal primo vagito, alle prime pronunzie e attività, all’interno della Gjitonia, a generazioni poi divenute illustri.

Le stesse figure che poi sono state gioia e orgoglio di queste nonne, madri, sorelle, zie o, vicine di casa, in tutto il governo della formazione culturale prima, di ogni uomo di coltura Arbëreşë, rendendo così, questa terra, di approdo e buona accoglienza. ancor più solidale.

Al tempo che oggi corre, sono in molti a chiede, perché la storia della Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë, non abbia avuto eccellenze femminili in prima fila o, note nel corso della storia di questo popolo.

La risposta è molto semplice ed è racchiusa nell’assunzione dei ruoli, che articolava in modo semplice e chiaro questo popolo, nei meriti di ogni genere umano, che nel silenzio rumoroso del luogo dei cinque sensi, ogni figura ha assunto e indossato la sua veste, con orgoglio e, senza mai perdere il senso o la rotta del proprio ruolo.

Se gli uomini avevano il loro governo o meglio la loro piattaforma per operare e brillare, lo trovavano fuori dalla dimensione dei cinque sensi, ovvero la Gjitonia.

È il questo luogo senza confini, denominato:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë” composto da Nonne, Madri, Zie, Sorelle e Vicine di casa, che ogni genere nascituro, veniva allevato senza soluzione di continuità, da questa filiera femminile, che non lasciava mai solo niente e nessuno, sostenendo e rimanendo sempre vigile al fianco per sostenere o a guardare le spalle, quanti qui crescevano formati di valori irripetibili, sino a quando in grado di camminare per completare il proprio genio.

Un Arbëreşë nasce da una madre e da un padre, ma dal primo vagito, viene adottato e preparato a parlare, ragionare, comportarsi e agire con pensiero, secondo un codice linguistico, non fatto di confusione e mille parole, ma semplici e basiche pronunzie grammaticali in Arbëreşë.

Le stesse che non vanno oltre il corpo umano e le cose per sostenersi, sempre seguito dal governo delle donne, all’interno della Gjitonia e, grazie a questa scuola di vita, che ebbero modo di formarsi e abituati a pensare in lingua madre senza mai un momento di esitazione.

Chi di noi non ricorda, queste figure sempre pronte a sostenerti e non lasciati mai solo, quante volte, persa la madre, la sorella, la nonna, non si è sentiti affiancare, dieci, cento o mille nuove nonne, madri, sorelle, li pronte a dare solidarietà per sostituire la figura smarrita per, essere seguiti nei momenti più bui della vita in adolescenza.

Questo era un governo, una scuola, solidale che non costava nulla, tutti erano formati per essere buone figure, poi le vicende successive fuori da questo luogo senza confini e barriere di sorta, ti consentivano di brillare ed affermati nei campi, dove pensare, immaginare le cose Arbëreşë e, tutto diventava  terreno fertile per germogliare fiori e frutti buoni.

Gli esempi che qui potremmo rievocare sono molteplici e fondamentali, resta un dato inconfutabile: ovvero, tutte le figure Arbëreşë più eccellenti, a iniziare dall’alba dell’illuminismo, hanno visto emergere uomini illustri Arbanon, grazie a questo stato o regno locale, composto di sole donne.

E se gli Arbëreşë hanno avuto innumerevoli figure della cultura, dell’editoria, della scienza esatta, della magistratura e le eccellenze clericali, tutte queste provenivano o meglio sono il risultato di un governo condotto e diretto da una sola regina, con la sua corte fatta esclusivamente di donne Arbëreşë.

Quanti di noi non ricordano di aver appellato sorella, zia, nonna e altri sostantivi parentali, figure della Gjitonia, che poi non erano parenti, infatti quella era una forma di riconoscenza del supporto offerto dalla:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë”, composto in quei momenti di formazione sociale, grazie ai quali le cose della vita sono state più semplici da affrontare e superare brillantemente.

Bata citare la storia di Donica Arianiti Comneno, accolta a Napoli dopo la Dipartita del consorte Giorgio Castriota, ed è qui che per la fiducia che la regina Giovanna III aveva in lei, perché donna Arbëreşë, le affidò i suoi figli, giacché troppo impegnata ai doveri di corte, ed è così che altri pari a Napoli le diedero fiducia in tale attività di regia Gjitonia.

A tal fine si potrebbero citare numerose figure in eccellenza Arbëreşë e, ogni volta senza commettere errore rievocativo, tra le quinte della propria Gjitonia apparire, un riferimento Nonna, Madre Zia o Sorella da ringraziare.

Per cui concludendo, il giorno dell’Otto marzo per gli Arbëreşë non è solo una giornata di giubilo e di festa ma è l’inizio di una estate colma di sole e luce.

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REPERTI VERNACOLARI ARBËREŞË l’INVISIBILE PRESENZA PER L’ARCHEOLOGICO TURISTA (Zopathë i thë ngrëiturat pà garbë thë viuera)

REPERTI VERNACOLARI ARBËREŞË l’INVISIBILE PRESENZA PER L’ARCHEOLOGICO TURISTA (Zopathë i thë ngrëiturat pà garbë thë viuera)

Posted on 26 gennaio 2024 by admin

oTTAGONO

NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È uso comune in tutti i luoghi teatro indiscusso della storia, con protagonista il genio degli uomini, le tesse che oggi appariscono esposte in fossati o recinti con generi di confine, privi di ogni minimale schema generale del disseppellito planimetrico e altimetrico.

Sono numerose le fosse in componimenti di questo genere espositivo in tutti i centri antichi, dove si possono osservare resta di grammatura e, tutte prive dei minimali episodi di tema completo da acquisire o diffondere.

Ragion per cui, un attento osservatore che si ferma e ode i gruppi di curiosi condotti dalla guida di turno bardato, suo malgrado, si assiste a una scala di sconcerie a dir poco demenziali e scorrette anche in forma grammaticale di lingua europea dirsi voglia.

Per dare termine a questa deriva senza soluzione di continuità basterebbe un QR-Code protetto e, ogni cosa sortirebbe in verità, fornendo alla guida di turno in primis, umanità storica con pin o codice di accesso dedicato, alle cose vere degli Arbëreşë, che non sono esclusiva idiomatica, in tutto, vero è che la realtà delle cose di cui fanno parte quei frammenti di storia, potrebbero diventare, la solida trattazione certificata, mai realizzata da nessuno scriba armato di carta e penna.

Cosa diversa avviene in quella che identifico, siccome munito di alta formazione culturale e, infaticabile onnipresente negli ambiti buoni, come la “Salita della Sapienza Olivetara Partenopea”, perché con righello in mano e, non certo come fan gli altri con carta, penna e calamaio pensando di fare cultura in Istituti o Dipartimenti orientati male e poco assolati, gli stessi che non sono neanche idonei a fare orto, perché orientati senza sole.

Ragion per la quale quando dico e diffondo il principio di “Regione Storia Diffusa Degli Arbëreşë” non esprimo parere solitario, ma concetto condiviso, almeno da sette più una, disciplina e, chi sa studiare alla luce del sole, quando va da est a ovest, non deve attendere mezzo giorno per avere luce e, al buio senza termine impreca il buio d’Arberia.

Se altrove si preferisce recintare i fossi dove ancora i resti vernacolari resistono “infossati”, per continuare ad essere sottoposte alle ire della natura e degli uomini, nei Katundë Arbëreşë, si potrebbe ricostruire ogni cosa senza un minimo di pena per il sottratto, alla storia millenaria di questi luoghi di genio e pena.

Ma non solo questo, infatti attraverso il sistema QR-Code protetto, si possono aggiornare tutte le notizie storiche locali in specie quelle dei Katundë Arbëreşë, che non hanno guide e, vivono alla giornata della prima figura a cui si chiede notizia, non di una strada o un loco, ma della storia che li è avvenuta in millenni di avvenimenti.

In altre parole, invece di apporre lapidi penose di memoria dedicate sin anche ai carnefici, scambiandoli per figure oneste, in tutto, un discreto quadratino codificato ti riporta alle notizie, di un sistema multimediale, fornendoti nell’immediato la reale storia di quel determinato luogo, ameno che siano.

Un modello nuovo per fare turismo culturale e accoglienza della breve sosta, accreditando le note tramite un sistema dedicato, in altre parole un museo a cielo aperto, dove le entrate monetarie avvengono tramite un QR-Code protetto, al quale per ricevere risposte storiche, si in via un obolo monetario, per la visita e le nozioni che si ricevono previo consenso di addebito a carico del turista, lo stesso che in giro affamato di formarsi e conoscere le cose concrete della storia  di quel luogo specifico.

Chiaramente progetti moderni di questa levatura, non possono essere realizzati da singoli ballerini/e, esperti/e, letterati/e senza arte e ne parte, ma da un gruppo di lavoro diretto e condotto da chi ha chiaro il fare intelligenza artificiale e, concerta le competenze specifiche di ogni titolato o di memoria storica locale, facente parte del gruppo, al fine di fornire e dare il meglio di ognuno di loro.

Questo è un modo di realizzare, tutti assieme, una moderna guida turistica locale, una intelligenza artificiale, che fonda le sue radici in quella dell’uomo, l’unico a sapere come fare per raccontare le cose senza errori, del passato, breve o lungo o remoto che sia.

Un progetto multimediale che non ha eguali e finalmente le cose tangibili e intangibile della storia locale, dell’agro e di tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreşë, possono essere diffuse con questo modello artificiale, che proprio per questo, no omette o rende ridicoli le cose serie della nostra storia.

La regia del progetto, si prevede sia allocato in un server unitari di tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreşë, evitando così, il diffondersi di errati editi, che possano apparire contradittori gli uni con gli altri dei cento e più Katundë di detta regione storica e, finalmente anche gli Arbëreşë avranno una storia unitaria e, non solo della sorgente idiomatica, dove sgorgano vocabolari e pronunce gratuite a dirsi voglia.

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WELCOME, BIENVENIDO, BIENVENU, HUĀNYÍNG IN TERRE DI SOFIA (Mirëse na erdëtith nëdë deretë Arbëreşë)

Protetto: WELCOME, BIENVENIDO, BIENVENU, HUĀNYÍNG IN TERRE DI SOFIA (Mirëse na erdëtith nëdë deretë Arbëreşë)

Posted on 24 gennaio 2024 by admin

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L’AQUILA A DUE TESTE ARBËREŞË RESTA IN GABBIA E NESSUNO FA COSE PER LIBERARLA

L’AQUILA A DUE TESTE ARBËREŞË RESTA IN GABBIA E NESSUNO FA COSE PER LIBERARLA

Posted on 18 gennaio 2024 by admin

Sant'Elmo

NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se dopo sei secoli di studi, convegni e appuntamenti, con inizio, svolgimento e termine svoltisi esclusivamente con l’eterno tema culturale di allestire “insiemi di scritti unitari”, oggi riceviamo in eredità, l’inutile deriva a cui si deve porre termine.

È giunto il tempo di scuotere la cultura e le figure più titolate non per forma curriculare, ricordando agli impavidi scribi, che una minoranza non è mera favola di favella di corte ignota.

La cultura e mi riferisco a quella fatta dai maestri di scuola, secondo le regole di un tempo, gli stessi che seguivano regole di forgiatura della crusca locale in “Ragione Storica” e, non andavano secondo le gesta di quanti approdarono, levando le braccia al cielo, favellando lingua ignota, perché senza regole di bottega Dogale o lume di Hora.

Oggi la cultura, quella nuova naturalmente fatta di senso compiuto, preferisce indagare le cose tra gruppi di molteplici discipline e, usa volare in alto, affinché prendere visione globale della storica regione diffusa del meridione Italiano.

Sono numerose le figure istituzionali e di comuni cittadini che oggi si recano al cospetto dell’aquila bicipite, inchinarsi perché fedeli al suo valore, tuttavia nel corso dei secoli nessuno si è mai chiesto come fare o se è il caso di liberarla per lasciarla volare secondo natura.

E vedere, finalmente il suo particolare volteggiare, libero senza ferri paralleli verticali/orizzontali, gli stessi che ne violano la sua libertà culturale non certo mono cefalico.

Un volo libero a tu per tu con il vento e il suo cuore grande, lo stesso che da tempo è stanco di rimanere accovacciato sulla spalla del padrone, e anche quando in liberta ascolta sempre l’inutile battito di chi lo tiene legato.

Perché non lasciare spazio all’avanzare del sapere della radice antica, di cui lei ne è l’emblema storico e terminare di ascoltare il cuore nemico, che la tiene in gabbia da lungo tempo.

È così che si smarrisce il ritmo del cuore unico e forte dell’aquila bicipite, che alimenta due punti di vista e apre scenari ampi di ricerca nuova.

Questo, stato di fatto ha dato spazio a quanti vivono nel buio delle loro botteghe, ostinandosi a costruire solite gabbie, per lo storico volatile che ci rappresenta e vorrebbe volare in alto, e inviare grida di giubilo per le cose buone e di allarme per quelle, che sono di più, mancate.

Il volo dell’aquila nella Regione storica diffusa degli Arbëreşë, resta l’unico esperimento possibile in età moderna e, l’osservare con libertà bicipite, potrà giudicare le cose ancora non fatte e, scientemente ignorate in queste terre buone; questo potrebbe essere un buon inizio di una nuova era, o giorni dirsi voglia, specie di mattina, con il sorgere del sole, che illumina da est la radice storica del mediterraneo buono.

Un punto di vista nuovo e, certamente molto alto a cui nessuno ha mai immaginato di dare scena, per osservare le cose compromesse dei due pensieri, che sia da ovest e sia da est hanno sempre immaginato confronti cruenti o di ricatto dirsi voglia, senza mai fermarsi e comprendere i bisogni di quei popoli, in continuo fermento.

Solo dall’alto di un volo silenzioso e in sicurezza, sarà possibile ascoltare le discronie, le diacronie oltre tutte le incongruenze prodotte in questo storico intervallo di deriva scura, dove le cose buone, di uomini e natura non sono germogliate per poter fiorire una primavera di coerenza.

In vero, mancano vie di comunicazione, dei luoghi vicini e lontani, dove approdare e, sin anche l’aquila bicipite non sa dove fermarsi per riposare, quando appagata delle cose viste e sottolineate nel panorama della fannullona Sibari, perché preferite altre pratiche di conservazione le stesse che non fanno servizio per tutta la comunità che fa resilienza continuata, e spera di non vedere il solito sole tramontare ad ovest.

Il senso di questa frase vuole indicare che esiste un diffuso gruppo di cultori titolati, a cui è stato chiesto di ricercare, pur se allo stato delle cose e dei fatti restano tutti divisi perché percorrono strade senza meta e, mai sortiti a terminare uniti la china più semplice; tuttavia e senza il loro ausilio, basterebbe educarli tutti a fare un percorso rettilineo per prendere quota e volare uniti.

Un percorso rettilineo largo a sufficienza e lungo come una pista per aerei, lì dove gli abitanti della Sibari antica, seminarono cose ancora oggi capaci di rispondere alle ire del tempo e della natura.

Un approdo e una strada Jonë, che partendo dall’aeroporto di Sibari dovrebbe abbracciare tutto il meridione Arbëreşë per seminare i meriti pregressi e poco noti della Regione Storica Diffusa e, per la prima volta nella storia moderna, si potrebbe costruire un termine a modo dei greci, per ripartire con le vie del cielo e, diffondere il modello che oggi diverrebbe l’esempio per tutto il mediterraneo, perché l’unico riconosciuto come esempio dal tempo, dalla storia e dagli uomini.

Cosi Sibari si approprierebbe del suo ruolo antico, di approdo per popoli in cerca di una nuova possibilità per la vita e, diventare un polo d’integrazione moderno, fulcro Mediterraneo a impronta dell’aquila bicipite, la stessa che unisce pensieri, alimentati da un cuore unico forte e indivisibile.

Non è più tempo di fare i discorsi, oggi siamo al tempo dei progetti e dell’agire, fare la storia moderna, non serve alternare soluzioni, vicino le pieghe dei pensatori sani, gli unici pronti a costruire e programmare, futuri di memoria buona e cose utili.

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LAUREA IN PARLATAO VERNACOLARE ARBËR IN CRUSCA LOCALE (Mendë për Mëma Papàu e ime moterë)

LAUREA IN PARLATAO VERNACOLARE ARBËR IN CRUSCA LOCALE (Mendë për Mëma Papàu e ime moterë)

Posted on 09 ottobre 2023 by admin

Inizio della LaureaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Dal XV secolo ha avuto inizio l’avventura che voleva l’Arbër, la lingua esclusivamente parlata da millenni supportata dalle spianate delle favole, la metrica del canto e, rigorosamente non scritta, come altre lingue indo europee,  esposta alla pubblica Furcillense, come la Greca e Latina, lette per gli innumerevoli e personalistici alfabetari.

Inizia così, un tortuoso calvario, che pone da un lato cosa poteva essere utile a quanti inventarono l’Albania, ma non certo a quanti da quelle arche, preferì l’esilio e rimanere fedele al canto, evitando poeti e scribi.

Canto e poesia, per il valore, potrebbero sembrare innocue, non dannose o pericolose, ma per il supporto che esse offrivano alla pubblica Furcillense della cultura, in quell’epoca, apparata come fucina per sottomettere e piegare popoli, videro schierarsi tutti i portatori sani della lingua parlata, disdegnare e, voltare le spalle a quelle terre preferendo l’esilio.

Quanto qui trattato è un teorema complicato e, non alla portata dei comuni compilatori librari o ricercatori di atti archivistici, i quali, ritenendo la lingua parlata, poetizzata e scritta, più penetrabile, del solido cantato che segue il consuetudinario parlato, hanno cercato di violentarla.

Anche se non è da poco sottolineare, la prima quale evoluzione incontrollata e, la seconda, solida identità inviolabile, preferendo insegnare e proporre  la prima, perché di semplice dominio.

Il parlato arbëreshë, infatti, si eredita vivendo con il cuore e fissando nella mente, ogni anfratto, episodio o figura, nei decenni del vivere in fraterna e leale solidità locale, al punto tale che essa rappresenta una vera e propria, laurea depositata nel cuore e nella mente, perché incisa con la consuetudine e nessuno mai potrà rimuovere, sia esso istituto, istituzione o università moderna, in  argomenti o progetti sostenibili.

Voglio sottolineare che alcuni mesi addietro, è venuto un gruppo a manifestanti in riva al mare partenopeo,  minacciando misure denigratorie, se non addirittura improprie, nei confronti di quanti non possiedono certificati in forma scritta, o affiliazioni a istituti di misurare del parlato Arbëreshë e la storia consuetudinaria, provando a velare  il valore dell’attestato di studio sul campo che per la luce che emana no teme veli di sorta, come se essa, sia di carta straccia o da Lavinaio marciano, in titoli autografati.

Ragion per la quale vorrei raccontare come la “Laurea in vernacolare storico arbëreshë in crusca locale parlata” si può ottenere e solo chi non conosce luoghi uomini e cose può contestarla gratuitamente e senza ragione.

Se nasci nello sheshi più operoso del tuo Katundë, ti trasferisci in età di camminare e iniziare a parlare in quello più nobile del paese.

Qui i tuoi nuovi i tuoi vicini di casa, per non redarguirti e interrompere i tuoi immaginari giochi infantili colmi di entusiasmo rumorosi posti in essere, ti fermano avvisandoti che cosi parlando, potesti essere scambiato per un bambino disperso e ti portano nella piazza del paese e la sua frazione limitrofa.

Per questo ragionevolmente ti fermi e, responsabilmente chiedi lumi per la tua pronunzia, applicando questo protocollo ogni volta che i tuoi vicini appaiono i quali ti garantiscono che sei sofiota e non altro, che poi diventa l’avvio perfetto per iniziare il percorso di crusca locale in Arbëreshë.

Se poi aggiungi il primo esame elementare, secondo il quale, in prima elementare devi essere bocciato perché muto.

Almeno a detta del professore Perri, che per nove mesi la cattedra la teneva nella bottega del sarto, attaccato alle corde della chitarra, facendo ridere mia madre, che riferiva a tutto il vicinato in delirio, il diktat secondo cui “il ragazzino è muto, sordo ….. e, non comprende l’italiano”, questo è il primo titolo o esame che ti viene assegnato sul campo, dove stai crescendo con il voto di trenta in loco con chiacchiericcio diffuso dalle finestre di tutto lo sheshi.

In seguito, ripetuto l’anno il maestro Baffa M. solleva i velo del colloquiare e scrivere italiano, illuminando così una nuova via di dialogo, che comunque restava relegata nel tempo breve, dell’aula scolare e dei compiti svolti a casa.

Tutto questo nei cinque anni delle elementari, avendo come guida di espressione linguistica prima, i miei genitori, i vicini, C. Miracco e il figlio T.M., oltre a tutte le persone in discendenza, che abitavano i rioni superiori del paese, noti casati nobiliari, provenienti dai governariati antichi del cento sud, di quelle terre, quando ancora non era appellata Albania.

Le scuole medie continuano sulla stessa scia, a tal fine si ritiene rilevare il disappunto nel corso dell’esame di terza, quando ho rifiutato di esprimermi in forma orale Latina, per avere l’attestato completo e, accedere a tutte le università, ritenendo  che conoscere l’Arbër/n antico, fosse più idoneo, di altre.

Questi sono i riferimenti del comune parlare, mentre le direttive comportamentali e conoscere attività agro silvicole e pastorali, tipici dei cunei agrari, ancora oggi eccellenza locale insuperabile, sono eredita di sapori, odori e appellativi indimenticabili, direttamente tramandati da mio Nonno, Pizzi Giovanni Vincenzo, mia Nonna Caruso Francesca, dal Fratello e dalla mogli, le memorie storiche sofiote, della trasformazione, conservazione e distribuzione dei prodotti  pastorali, ovvero Caruso Vincenzo e sua moglie, Bria Maria Antonia, a questo elenco di eccellenze della parlata e gli appellativi in lingua Arbër, potrei aggiungere altre e alte sonanti figure, ma preferisco fermarmi a queste eccellenze, per non eccedere verso i laureati, che sono tanti, della crusca locale Arbër.

Un fatto resta inconfutabile, essi sono la storia delle consuetudini, i costumi e le attività della stagione breve e di quella lunga.

Sono queste attività dipartimentali della vita dei non Katundë sino al secolo scorso, a fare la differenza tra un arbëreshë con “laurea sul campo in crusca”, da quanti seguono la via degli istituti, i quali si allontanano a dismisura della “pura e storica lingua nostra”.

P.S.

Nell’immagine il piccolo a Studi già avviati e con i suoi docenti e, già nessuno avrebbe posto dubbi sulla sua brillante carriera vernacolare.

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