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MODULI ABITATIVI, SKITE E GJITONIA, QUALI ATTIVITÀ DI TUTELA? (Tue priturë satë dalë diali)

MODULI ABITATIVI, SKITE E GJITONIA, QUALI ATTIVITÀ DI TUTELA? (Tue priturë satë dalë diali)

Posted on 30 giugno 2019 by admin

MODULI ABITATIVI, SKITE E GJITONIA, QUALI ATTIVITÀ DI TUTELA

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – È sempre più ricco il palcoscenico dei repliche, che imperterrite dissolvono frammenti del disciplinare sociale dei “cinque sensi arbëreshë”.

Figure monotematiche sciupano senza parsimonia un considerevole numero di elementi intangibili della consuetudine arbër, al punto tale che non avendo più argomenti da dissolvere, ha iniziato a gratare,  le murature storiche, le stesse che danno corpo e forma alla culla naturale del disciplinare minoritario.

Esse si configurano e si materializzano: nell’urbanistica, l’architettura, e l’ambiente antropizzato, in tutto, gli elementi finiti del genius loci importato identicamente dalla terra d’origine.

A tal fine è idoneo sottolineare che non sono opere di mera cucitura muraria, giacché, rappresentano i giacigli costruiti per conservare le radici culturali arbër.

Attivarsi per prosciugare questa malevola deriva portata avanti, da chi disquisisce di architettura senza titoli specifici, intrecciando gratuitamente: kish,; palazzi, profferli, kalive, katoj, moticele, sheshi; gjitonie, kroitë, kopshët; dimenticando addirittura l’insieme edilizio arbëreshë detto Katundë, è un dovere di chi ha titoli idonei e capacità di lettura per farlo.

Anche perché frequentemente si è attratti dalla macina televisiva che tritura e globalizza ogni cosa; da cui il  convogliatore della mediocrità  appella erroneamente e banalizza i katundë definendoli in maniera impropria “borghi”.  

A tal proposito è bene specificare che la denominazione di “borgo” è riservata a complessi di  epoca medioevale, le cui peculiarità principali si configuravano nel le mura di fortificazione che difendeva le attività mercatali e civili, per queste disposizioni materiali ed immateriali  il borgo si differenzia dal villaggio, dal paese e dal casale.

I Katundë, della regione storica arbëreshë, hanno un diverso impianto urbano, in quanto, si sviluppano in armonia con le pieghe orografiche e in funzione dei legami familiari per realizzare la più solida articolazione edilizia.

Essi conservano gli ingredienti, che fanno degli arbëreshë, i pionieri del policentrismo urbano, definito anche come diffuso, nati da casali disabitati dal XV secolo, e non prima!

Questo dato li rende particolarmente difficili da leggere in quanto appartengono agli impianti urbani detti “aperti” fatti di architettura detta minore, di conseguenza  esclusiva lettura per figure titolate  e competenti in specifici campi di studio .

Per questo gli agglomerati arbëreshë, sono uno degli esercizi più complicati da leggere e tradurre per i media, in quanto, l’edificato nasce e si sviluppa in tempi molto dilatati, oserei dire, nel caso specifico nell’intervallo compreso in almeno quattro secoli,  dalla posa della prima pietra sino alla configurazione con cui li identifichiamo e cerchiamo di comprenderli oggi.

Lo sviluppo prima planimetrico, poi altimetrico e in fine la forma architettonica catalogabile secondo le tre direzioni fondamentali, avviene durante periodi storici e sociali ben identificati

Essi hanno inizio nel XV secolo, con uno spazio recintato su cui nasce il tugurio o la casa monocellulari in paglia; poi in mattunazi cotti al sole; agli inizi del XVI secolo, gli elevati e la copertura, furono sostituiti, materiali tipici locali; il modello così realizzato iniziò a essere aggregato, quale modulo base, in sistemi articolati e in rari casi anche linearmente; l’espansione e la successiva occupazione del lotto (recinto) avviò la conseguente obbligatorietà di crescita verticale; nel XVII secoli l’aggiunta dei profferli divenne indispensabile per i frazionamenti familiari; il miglioramento termico con i sottotetti segna il XVIII secolo; in seguito durante il decennio francese, l’integrazione dei profferli con gli elementi identificativi dell’architettura segna gli edificati alla fine del XIX secolo con la caratterizzazione nobiliare con le facciate più prestigiose composte da ingresso ad arco, affiancato dalle due finestrature con inferriata dei depositi, al primo piano balconi, finestre coronate in pietra, cornicione di coronamento con le   tipiche aperture di ventilazione e tetto a padiglione oltre a un numero considerevole di segni architettonici negli angoli del lotto e il tipico seggio i fianco all’ingresso dei depositi.

Queste sono per grandi linee le stratificazioni del centro storico dalle origine sino alla fine dal XIX secolo, è secondo questo ordine che nascono gli agglomerati diffusi.

Essi non sono identificabili in un modello, come accade nell’edificato storico delle città che generalmente vennero, costruisce e presero forma in tempi brevi.

Quando si tratta dei Katundi che costituiscono la regione storica diffusa arbëreshë si deve stare molto attenti nel paragonarli ai paesi indigeni ad essi limitrofi, in quanto la lama sottile che li divide è  più affilata di quella di un rasoio, divide le due cose preziese ma dissimili  e quando ti rendi conto del versato è tardi, nulla può essere più ripristinato e a perdere è sempre la minoranza storica.

Sono anni che sento dire la gjitonia come il vicinato, i paesi arbëreshë uguali a quelli indigeni, i costumi, le musiche e così via discorrendo, per enunciati sintetici e poco attenti abbarbicati o resi simile ad altro.

Personalmente ritengo, in conformità a studi questi argomenti e portati a buon fine, non sia così nella maniera più assoluta e chi dice il contrario o è un litirë o non ha sufficiente memoria di archiviazione per connettere gli elementi ad essa riferibili.

A proposito della gjitonia, se qualche replicante ritiene sia simile al vicinato si deve far spiegare dai ricercatori dipartimentali di fine secolo scorso, dove hanno copiato tout court, magari vi risponderanno nei trattati de locativi, fatti realizzare dell’imprenditore  ing. A. Olivetti, in campo sociologico,  psicologico,  architettonico, antropologico, geologico e legale, per la conoscenza degli abitanti dei  Sassi di Matera, quando ebbe l’incarico governativo di terminare senza ferire la consuetudine della classe operaia, che viveva ancora in vergognosa arretratezza.

A proposito dei modelli urbanistici e architettonici dei paesi della regione storica, non possono essere intesi come gli stessi di quelli indigeni, in quanto, l’architettura è il frutto dalla consuetudine di uomini e l’uso che questi fanno del t dell’ambiente naturale per antropizzato.

Le musiche tipiche degli abitanti della regione storica diffusa non possono essere assolutamente simili a quelle delle genti indigene, in quando la lingua arbër non possiede forme scritte, giacché essendo la metrica canora la sua regola è incomprensibile che una lingua non comprensibile a nessun abitante del bacino del mediterraneo, possa contenere sonorità a modo di tarante, tarantelle; tantomeno, le “clarinettate  e tamburettiate” Turchesche.

È tempo che la regione storica diffusa arbëreshë, prenda consapevolezza di queste derive che trascinano il patrimonio culturale materiale e immateriale allo sbando, intraprendano la via della pensione.

La chiesa, le istituzioni tutte è tempo che facciano affidamento a uomini in grado di garantire supporti idonei nelle varie discipline; uomini arbëreshë in anzi tutto, capaci di individuare la rotta più breve verso la luce tagliente del mattino, quella che si apre sull’orizzonte e scoprire, senso e garbo. 

Non resta altro che rivolgersi agli amministratori di ogni ordine e grado e a chi dispone o ha nelle disponibilità il futuro e la tutela della Regione Storica Diffusa Arbëreshë; invitando tutti a rivedere il sistema degli “stati generali”, al fine di attuare progetti multidisciplinari a garanzia della sostenibilità del modello sociale tra i più singolari di tutto il mediterraneo.

Il futuro della regione storica arbëreshë, non ha più a disposizione altri tempi per i replicanti, uno è il tempo che vi resta e avete ancora nelle vostre mani, se saprete coglierlo potrete dire, io c’ero è ho contribuito per non far frazionare la perla d’integrazione più luminosa del mediterraneo.

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IERI LA LUNA NUOVA “CHIAMAVA” IL MAIALE OGGI  IL SOLSTIZIO LE SAGRE CULTURALI

IERI LA LUNA NUOVA “CHIAMAVA” IL MAIALE OGGI IL SOLSTIZIO LE SAGRE CULTURALI

Posted on 24 giugno 2019 by admin

IERI LA LUNA NUOVA “CHIAMAVA” IL MAIALE OGGI IL SOLSTIZIO LE SAGRE CULTURALINAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Come ormai consuetudine di questi tempi e con la stessa pena, mi appresto a scrivere questa nota, certo del dilagare della deriva culturale che non termina o cambiare rotta.

Le sagre e gli eventi a modo culturale si esauriscono nell’atto di ingurgitare una salsiccia o bere vino, nei bicchieri diamantati, come ricordavano, non poco tempo addietro sin anche gli organi di controllo della legalità, non solo culturale.

Di questi eventi continuano a rimanere cenerentole, gli stati di fatto della storia, l’ambiente, il territoriale, le articolazioni urbane e le architetture, lasciate attorno ai tavoli in attesa di confronto; diversamente dalle sorelle linguistiche salite sui tavoli, (secondo lo scrivere dalle eccellenze culturali)che non smettono di ballare senza decenza.

Quello che comunque si coglie da questo vero è proprio costume d’irriverenza, è la totale mancanza di una visione generale di quello che si dice e si fa, continuando a diffondere messaggi privi dei minimali connotati per un idoneo passaggio del testimone tra generazioni.

Il comportamento si esaurisce nell’atto dell’apparire previo naturalmente l’allestimento di presidi tra i più allegorici avendo cura di spogliarli preventivamente di ogni più elementare indumento per la decenza.

In poche parole si semina perplessità ed indignazione, in quanto ancora si ignora che i confini della vituperata gjitonia, che prima degli anni novanta consentiva questo modo di comportassi, tuttavia da due decenni con le tecnologie della comunicazione di massa, tutti siamo osservati e questo modo di comportassi, non è più ammissibile, in quanto sminuisce il valore storico della minoranza.

Motivo per il quale, la novità di costume, il ritratto storico, il capitolo o la vestizione perfetta sono immediatamente riconosciuti, se veri o falsi e posti alla stregua di episodi senza luogo ne tempo, singoli segmenti di una discorso molto pi esteso e articolato, per cui non interessa a nessuno, se non un ristrettissimo numero di addetti, amici e parenti compresi.

La minoranza storica più solida del mediterraneo è molto più di singoli filamenti che non hanno lo spessore per fornire la solidità storica già trovata e che attende solo di essere divulgata, in maniera diffusa.

Occorre per questo aprire a nuovi stati di fatto, che nono si possono trovare nell’amalgamare episodi senza ne tempo e ne luogo, occorre utilizzare canali multidisciplinari, al fine di rendere solide le fondamenta di quel ponte che unisce Balcani e Meridione Italiano.

Purtroppo gli appuntamenti di oggi giorno e quelli in atto di questa stagione  “culturali”, sono simili alla luna nuova dopo l’epifania.

E quanti hanno vissuto nei piccoli centri minori, ricorderanno il pranzo prima della lavorazione e confezionamento degli indispensabili alimenti, che a mangiare partecipavano non chi aveva contribuito alla “fine del suino”, ma solo quanto si erano adoperati a tenere ben salda la coda sacrificale animale.

Il pranzo (la storica abbuffata a base di sufrithë) è un’avvenimento indelebile nelle menti di ogni abitante cresciuto nei piccoli Katundë ( è sempre opportuni ricordare che non sono borghi), giacché, la festa dello sheshi, s’insinuava all’interno della privata abitazione e diventavano quel pomeriggio, il luogo di Lucullo.

Qui gli elementi più rappresentativi sedevano a tavola assieme ai cultori di spicco (i giullari locali)  e mentre le donne cucinavano, i detentori incontrastati della regia, per prolungare ed allietare la storica buffata e farla durare il più a lungo possibile; i registi di questo evento intrigavano, inebriavano e ammagliavano i partecipanti, con racconti e avvenimenti di pura immaginazione, ironizzando sugli assenti “nemici” e valorizzare i presenti “amici intoccabili”.

Questo chiaramente era la parabola della luna nuova “ la chiama del maiale” ; è spontaneo chiedersi cosa sia successo di anomalo per rendere questo appuntamento della consuetudine di sostentamento locale, dove non si buttava nulla pecche utile, in manifestazioni  dove tutto si consuma senza lasciare traccia, fermo restando sull’ironizzare verso gli assenti “nemici” e valorizzare i presenti “amici intoccabili”..

Ritengo che essere acculati, come storicamente noto in tutte le parti del maiale, ne i conti e ne la storia, tornano, specie confrontando l’evento lunare con quello del solstizio di primavera: nel primo,  si adopera ogni cosa per produrre e tenere alto il valore economico e sociale ; nel secondo, si fa l’esatto contrario, consumando  risorse senza alcun rispetto e persino su cosa di irreparabile si compromette, modelli preziosi che non appartiene nemmeno dei partecipanti, in quanto affidata per porgerla alle generazioni future.

Tuttavia, a ben vedere nell’esperimento lunare,a fare da padrone sono sempre ed esclusivamente le stesse figure, le quali, con dignità locale mantenendo sempre vivo e atteso l’appuntamento.

Diversamente in quello solare, la dispersione di elementi tangibili alla fine degli eventi, senza cautela e professionalità, disperde e spoglia di significato, frammenti irripetibili del nostro idioma sociale , la  consuetudine, la metrica, la  religione, interlacciati senza soluzione di continuità con gli ambiti attraversati, vissuti e costruiti dagli esuli balcanici.

Motivo per il quale, a ben vedere i due eventi una differenza sostanziale la mantengono; un tempo il maiale veniva allevato in casa e serviva per il comodo e il sostentamento della famiglia; invece oggi si  comprano i pezzi, di carne più magra e non  secondo il disciplinare di ogni famiglia, comunque non ha lo stesso sapore, ma agli amici inconsapevoli si racconta che sono fatte allo stesso modo come li facevano i nostri genitori, ma non è vero,  è non la stessa cosa!

La casa vecchia dove stagionare lentamente le prelibatezze è stata ristrutturata, gli intonaci non sono di strati di calce usata per imbiancare, ma di premiscelati, il solaio in legno è stato sostituito con uno più pesante in cemento armato, la finestra per la ventilazione è di alluminio, i pavimenti di cotto sono di marmo e al posto del camino è stato apposto il termosifone.

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LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

Posted on 18 giugno 2019 by admin

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Come sanciva nel suo discorso sugli Albanesi, impropriamente attribuito ad altra inquietante figura, il Baffi riteneva che per lo studio della storia di un popolo, non si deve andare altre una certa misura, altrimenti si perde il senso della ricerca.

In conformità a questo principio, inizio ad analizzare cosa e quanto ha prodotto il miracolo linguistico tramandato oralmente nelle regioni dell’antico regno di Napoli o delle due Sicilie.

A tal proposto  il limite del confine dell’infinito di ricerca parte ai tempi quando venne diviso in themati l’impero romano unificato, la conseguente traccia di ricerca condotta, pone ad indagine l’intreccio tra uomini,  rapporti sociali, rapporti economici, luoghi e tradizioni da tutelare.

S’inizia con l’affermare che nel VI secolo D.C. dopo  aver allocato la capitale dell’impero di Oriente ed Occidente a Costantinopoli, venne diviso il territorio unificato, in themati e le disposizioni del nuovo modello convogliava le disposizioni civili e militari, nell’elemento perno dell’Impero, ovvero, i soldati contadini (gli Stradioti).

Fare un parallelismo delle consuetudini, della famiglia stradiota e quella arbëreshë descritta nel protocollo Kanuniano, è facile, anzi oserei definirli i prodotti sociali di una sola radice.

Questo ha caratterizzato in maniera particolare genti che vivevano le terre che ebbero come scenario gli scontro tra gli eserciti musulmani da quelli cristiani

Tra questi un ruolo fondamentale lo ebbero i territori dei governarati arbër e quelli a esso appena confinanti, avendo come scontro storico la battaglia della Piana dei Merli combattuta il 15 giugno del 1389.

Essa rappresenta una pietra miliare, della via perseguita dai turchi, per conquistare Roma e l’intero occidente.

I territorio che accomunavano con simili ideali i governarati arbër, divennero il luogo ultimo per frenare il bellicoso progetto mussulmano.

Le battaglie che in queste spianate, anfratti e gole ebbero luogo, diedero lustro alle capacità innate del popolo arbër, per la difesa dei territori di pertinenza o linee da difendere, al punto tale che furono attuati accordi di mutuo soccorso,  tra la nobiltà locale Balcani e in seguito con quelle oltre Adriatico.

Ebbe così inizio un scambio di difesa in forze di uomini mezzi e armi, che da un lato garantiva una linea bel lontana dalle coste occidentali dell’adriatico e dall’altra  aiuti fondamentali per non soccombere all’invadenza turca.

Intanto nelle terre del regno di Napoli, le trame francofone, e le preoccupazioni relative d’invasione resero indispensabile predisporre nel 1448 le opportune linee di difesa in Sicilia, Calabria e Puglia, insediando gli arbër che nel contempo rassodavano e mettevano a coltura terre incolte o dismesse per la insalubrità diffusa.

Quando nel 1460 le politiche del papato e quelle francofone, resero incontrollabili gli atteggiamenti dei baroni verso il re di Napoli, fu lo stesso Giorgio Castriota (che dalla fine del 1443 aveva fatto comprendere ai turchi, il senso della famiglia Kanuniana) a gestire la situazione nella famosa battaglia di “terra strutta” e poi predisporre i presidi idonei a frenare ogni tipo di ribellione.

Nel 1468, anno della morte del valoroso condottiero, secondo gli accordi dell’Ordine già in atto; fu l’anno prima della morte del condottiero che Giorgio ebbe  in affido la figlia di Vlad III Principe di Valacchia, Donica Comneno raggiunge Napoli ospite a corte con la “bambina” e i due figli “Giovanni e Vojsava”.

Appare evidente che a questo punto caduta quella linea per la difesa dell’occidente, il limite deve arretrare e quali presupposti migliori per approfittarne della presenza della moglie e i figli di Giorgio Castriota a Napoli e accogliere famiglie arbër, al fine di predisporre un controllo serrato degli d antagonisti più efferati e disegnare aree specifiche dove far insediare gli arbëreshë, liberi per i primi cinque decenni di muoversi  nei territori del regno secondo un progetto strategico studiato a tavolino.

Nascono cosi, la linea dell’infinito calabrese,  il limitone pugliese  e la linea del fortore, a queste si aggiunsero per i principi più irriducibili, presidi  mirati, vere e proprie linee di controllo, come quella del tarantino contro gli Orsini che contavano oltre dieci agglomerati, la Sansaverinense con oltre venticinque agglomerati e quella del Sarmento altri dieci agglomerati, contro i Principi di Bisognano.

La definizione capillare delle linee di controllo, sarà trattata in uno specifico grafico che allo stato è in puntuale definizione; resta un dato inconfutabile, a ogni linea d’insediamento, corrispondono un numero considerevole di agglomerati arbëreshë, in funzione dell’ostilità dei principi verso il re .

Sta di fatto che dalla prima migrazione del 1448 sino agli albori del 1500 le disposizioni degli arbëreshë seguono una regola precisa, che non è mai casuale o lasciata al caso, perseguendo sempre  due fini complementari: il primo economico e mirava a mettere a regime territori incolti o comunque abbandonato; il secondo, creare una sorta di cortina per il controllo del territorio dei principi ribelli.

Questa disposizione delle genti arbëreshë nel territorio del regno di Napoli non viene mai dismessa, vero è che dopo la realizzazione degli atti di sottomissione e le vicende religiose mai dismesse dal papato, gli arbëreshë furono sempre tutelati nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale, linguistico, consuetudinario e religioso, indispensabile per difendere le direttive reali a mai quelle locali.

Conferma di ciò sono le disposizioni di Carlo III, il quale una volta insediatosi a Napoli, per la sua difesa e del suo seguito istituisce il reggimento Real Macedone del Regno di Napoli, non affidandosi dell’esercito; il reggimento, la cui estrazione  di matrice arbëreshë preferiva esclusivamente elementi provenienti dalle terre balcaniche; persino il cappellano militare era di medesima discendenza, il Reverendo Giuseppe Bugliari, naturalmente arbëreshë ka Shën Sofia; ma questa è un’altra storia.

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LA PERCEZIONE PERFETTA

LA PERCEZIONE PERFETTA

Posted on 17 giugno 2019 by admin

LA PERCEZZIONE ERFETTANAPOLI di (Atanasio Pizzi) – L’intervento qui riportato, indaga l’humus culturale della regione storica e vuole definire il debito culturale accumulato verso i luoghi, i protagonisti e le attività utili a comporre il quadro della cultura storica e cosa ha attratto gli addetti a volgere l’interesse verso il tramonto della cultura.

Quando nell’estate del 2004 entrai nella sala consiliare del comune Sofiota ad ascoltare cosa era riferito in merito al tema “la gjitonia”; dire che rimasi stupefatto è puro eufemismo.

Appariva evidente un’impronta d’isolamento geografico e storico, lasciando il campo aperto a una storia dominata dall’approccio di una filosofia locale o attinta dalle fonti impermeabile all’esperienza dell’individualismo.

Notai da subito il profilo culturale degli oratori  e nessuno aveva consapevolezza di cosa diceva e cosa lì a pochi passi nello sheshi di “Zia Klentina Magazinitë” aveva avuto luogo non molto tempo prima a torto dei loro enunciati.

Ritenni che la mia percezione dello stato culturale fosse veritiera, oserei dire perfetta, in quanto, non vi era alcuna attinenza con la realtà, degli uomini, degli avvenimenti e delle persone; istintivamente mi sono apprestato ad uscire da quel buio culturale.

Quel pomeriggio dell’estate del 2004, fu calpestata gratuitamente, la memoria, la dignità e i trascorsi storici di tante persone di nobile morale.

Era palese che nessuno degli oratori si fosse mai guardato attorno o si era informato di cosa fosse quel luogo di incontro, ne tanto meno cimentato in studi a largo spettro o confrontato le vicende storiche che avevano visto protagonisti la Scuola Sofiota.

Si narravano episodi privati del luogo, del senso, dello spazio, del tempo e delle persone coinvolte, in poche parole si raccontavano frammenti sconnessi di un tempo mai vissuto o che trovava applicazione nei trascorsi storici esclusivamente arbëreshë.

Iniziò cosi un periodo di indagine per confrontare le mie ricerche con un numero considerevole di addetti di quelle rappresentazioni, così come di tante altre; lo specificare domande di epoca degli uomini e dell’edificato storico, nessuno erano in grado di rispondere e il più delle volte adduceva personali e campanilistiche spiegazioni, come ad esempi:

“Scuola Sofiota” era ritenuta come l’operato di un povero di prete (Gnë zop Zotë);

Il valore dello Sheshi dei “Bugliari di sopra” era associava alla cantina di Joscari;

Gjitonia abitualmente identificata come simile al vicinato;

Bagliva e di Kaliva, due elementi senza nesso;

Luigi Giura, Vincenzo Torelli, si ignorava chi fossero;

Rione e Quartiere la traduzione inconsapevole di gjitonia;

Pagliashpitë; un toponimo di paglia ;

Valje, il  ballo albanese del 24 aprile del 1476;

primavera Italo-Albanese, il buco nero degli arbëreshë per imitare le Valje;

Cavallerizzo, un’operazione umanitaria che aveva distratto molti cuktori;

Il Collegio Corsini, la perfetta operazione immobiliare;

Dare senso al ricordo di Giorgio Castriota senza doverlo appellare Scanderbeg, è un po come raccontare un episodio fantozziano;

Gli insediamenti della Regione Storica arbëreshë, troppo complicato, in quanto ancora è ignoto il vocabolo regione;

Il confini dell’infinito grecanico, il buco nell’ozono;

Il sogno perseguito dai cultore? imitare i Fratelli Grimm;

Quando ho iniziato, negli anni settanta del secolo scorso, la mia esperienza sul campo del restauro e della valutazione delle consistenze architettoniche, per il migliore rilievo; un vecchio ed esperto architetto, mi diceva sempre di essere diffidente sempre dovunque e comunque, nei confronti di quanti nella loro esperienza curriculare presentavano la propria maturità sviluppata esclusivamente nel chiuso dei dipartimenti.

Il vecchio amico, riteneva e aveva ragione, che i curriculari abitualmente, non mettevano a confronto le nozioni del chiuso, con quanto ancora del costruito storico resta indelebile all’aperto, rimanendo per questo molto indietro con la conferma dei dati.

Queste ha subito per decenni, la storia con protagonisti gli arbëreshë, le cui esaustive diplomatiche, anno trovato collocazione e dovizia di particolari nel territorio.

A questo puto si ritiene indispensabile iniziare con le dovute cautele e realizzare lo studio perfetto, che non sia solo il frutto di percezione ma confronto tra scrittografia territorio e memoria.

Ogni addetto che si occupa e si sforza di approfondire per divulgare nozioni della regione e per la regione storica, deve essere citato per i titoli che possiede e non per quelli che si vorrebbero che non avesse, per apparire superiori o più titolati; chi fa il fotografo è fotografo chi fa l’architetto è architetto, chi fa degenerare presidi lo porta sulla coscienza e così via dicendo senza mai dimenticare i titoli che sul campo hanno meritato quanti hanno lavorato per il bene comune .

È tempo di non dire più messa, in italiano/latino; identificarci nel vicinato, appellandolo gjitonia; cantare valjie, dicendo che sono balli; appellare Giorgio Castriota, con il nome di quando era il nostro nemico.

Se siamo arbëreshë un motivo storico ci deve essere, dobbiamo solo studiare e ricercare i riscontri nel territorio; non serve copiarlo nelle pieghe dei Sassi di Matera; per apparire più credibili; gli arbëreshë lo sono di natura!

Chi lo fa ed è nativo di un luogo che non trova collocazione in nessun contesto, se non risvegliare armonicamente i cinque sensi arbëreshë, può fare altro e ricercare altre cose.

Solo i prescelti sono in grado di avvenire con il cuore e con la mente, la percezione perfetta, quella unica e sola trasportata, dalle terre natie sei secoli ormai sono.

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L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

Posted on 10 giugno 2019 by admin

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORINapoli (di Atanasio Pizzi) – La storia la scrivono i vincitori, il tempo poi lentamente consuma le spigolature e rende la visione dei fatti chiara e priva di ombre.

Gli scritti storici, tendono a giustificare i vincitori, arricchendo con dovizia di particolari gli scontri, la sopraffazione e le pene inflitte ai vinti che non terminano mai di essere oggetto di giudizio dei vincitori e i loro sottoposti.

I vinti, oltre a soccombere materialmente, sono obbligati a rinunciare ai propri principi morali, senza che alcuno produca una nota sui motivi per i quali  è stata scelta la via dello scontro.

Quanto qui di seguito viene esposto racconta di un antico e caparbio popolo, gli arbëri, i quali  facendo leva sulla solidità identitaria, certi di innestare la propria radice culturale su nuove terre parallele, sopravvalutarono, purtroppo, quanti avrebbero dovuto produrre i nuovi recinti per la difesa dell’immateriale in loro possesso.

I vinti arbëreshë dal XIV secolo, (dopo la morte del loro condottiero Giorgio Castriota, secondo quanto afferma Giovanni  Fiore da Cropani, “volgarmente denominato Scanderbeg”), furono accolti nei territori dal Re di Napoli, per rifiorirli e nel contempo controllare Roma e i baroni ribelli.

I profughi diedero avvio al loro illusorio percorso di tutela, prima abbandonando quanto di materiale possedevano, attraversarono mari e poi risalirono le chine delle colline meridionali, alla ricerca degli ambiti paralleli alla terra di origine, portando le cose immateriali più intime, compreso l’alias della medaglia a due teste, di matrice turca Scanderbeg.

Questo fu il primo grave errore subliminale sottovalutato, che ha dato la misura dell’ingenuità dei profughi, i quali, scappavano dalle loro terre per non essere sopraffatti, inneggiando al nome turcofono del condottiero da seguire.

Forti di quanto era rimasto impresso nella loro mente, s’illusero che sarebbe stato sufficiente attraversare nuovi territori e una volta bonificati quelli per vive, sarebbe iniziata la loro  parabola di pace e prosperità.

Purtroppo non è stato così, infatti, dopo un’intervallo di confronto con le genti indigene, gli antichi abitanti della odierna Albania, (gli arbërë) immaginarono che la disfatta in terra madre, ad opera dell’invasore turco, fosse terminata e la via verso la libertà di culto e di pensiero, secondo gli antichi dettami, non avrebbe più avuto chine da superare.

A ben vedere e con il seno di poi, così purtroppo non è mai stato e neanche per un battito di ciglio, in quanto, prima la deriva religiosa imposta dai latini, poi, l’ostinazione di imporre una scrittura, in seguito, l’imposizione di svuotare la metrica del canto e riempirla di poesia, hanno portato  le genti della regione storica arbëreshë, a compiere un “cerchio di tutela culturale” che li ha riportati nello stesso risultato da cui si erano illusi di sfuggire sei secoli, ormai sono.

Una vicenda paradossale che se analizzata con dovizia di particolari storici, senza alcuna forma, politica o clericale di parte, si potrebbe definire la beffa storica.

I motivi e le tappe che descrivono questa parabola illusoria, in quanto gli Arbëri miravano a quanto qui si seguito elencato:

  1. Non soccombere alla pressione di una religione dissimile dalla greco ortodossa;
  2. Non  assumere consuetudini ignote fuori dalle regole degli stradioti riassunte nel Kanun;
  3. Non parlare attingendo  in modelli scritto grafici;
  4. Seguire esclusivamente la propria metrica canora;
  5. Tutelare  i propri usi e costumi;
  6. Tutelare ambiti del costruito storico;

Non serve molta conoscenza della storia arbëreshë, per rendersi conto che questa è la realtà che non dovevamo vivere e nonostante tutto viviamo a dispetto di ogni principio per il quale fu scelto  l’esilio; ed è per questo che risulta facile segnare il punto a chiusura  dell’ironico cerchio, che poi è lo stesso punto dei calori sociali da dove eravamo partiti, a conferma di ciò si riassume  ogni cosa nelle note seguenti:

  • I profughi arbëri una volta stabilitisi nelle terre a loro assegnate, secondo uno schema ben ideato dai re Aragonesi, furono subito al centro dell’attenzione della chiesa, che per la perdita di risorse economiche, faceva leva sui riti dissimili a quelli latini e nel tempo di pochi decenni fece volgere le preghiere non più verso oriente; già alla meta del XVI secolo, di cento comunità arbëreshë, se poco più di venti sono state parzialmente graziate lo devono all’infinita crociata che Roma attende ancora di architettare.
  • Dopo questa prima fase nasce il plesso per la modellazione di prelati, per imporre lettere prima greche, poi latine, poi il mix di alfabeti che hanno fatto sorridere tutta l’Europa culturale e la grande massa degli arbëreshë che miravano al progetto di fuga, preferirono mantenere le distanze da questa blasfemia culturale.
  • Intanto le vicende culturali poste in essere spezzano molte tradizioni storiche, anche se le masse in maniera palese non avvertono materialmente nessuna ferita che si può ritenere tale; così si protrae sino a dopo la seconda guerra mondiale, quando la tendenza di caratterizzare gli ambiti costruiti, a seguito del boom economico, avvia a una deriva che nel corso di pochi decenni fa ritornare le genti della regione storica nelle stesse condizioni, cui sei secoli or sono cercarono di divincolarsi.
  • Nei fatti analizzando gli elementi materiali ed immateriali su cui oggi si regge la storica regione, si nota facilmente che sono mutate tutte le consuetudini laiche e clericali, secondo disciplinari alloctoni e non trovano ragione di essere in nessuna delle consuetudini arbëreshë.
  • La lingua imposta e proposta, mira a quella skiph di radice e metrica turca, oltretutto irrispettosa del fatto che noi arbëreshë siamo gli unici detentori della radice originaria.
  • L’inesperienza di caratterizzare gli edificati e gli ambiti urbani ha impresso  una deriva folcloristica paradossale, facendo apparire come il luogo di costumi e costumanze tipiche o riferibili alla radice turca, se poi a questo associamo le feste, le sagre, le danzate del ventre in costume, associata a sventolio di fazzoletti, il ritratto dell’harem è completo; asi vuole ribadire il concetto di “ritratto”, giacche, se si volesse riprodurre una rappresentazione filmica, la tragedia per gli arbëreshë sarebbe completa, in quanto le sonorità di tamburi, clarinetti e vocalità sono la conferma che pur essendo fuggiti e allocati lontano dalle regioni di matrice imposta, gli emissari culturali inviati dai mandamenti turchi, hanno saputo fare un ottimo lavoro di piegatura all’interno dei nostri katundë, quella piegatura culturale, consuetudinaria, metrica e religiosa da cui pensavamo di essere sfuggiti.

Complimenti ai turchi e in particolar modo a tutti gli “emissari” che pur di apparire, hanno venduto l’anima e il “buon cuore” della loro memoria.

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LATIFONDISTI CULTURALI DELL’ARBERIA; (Gli agricoltori disciplinati attendono lo spazio di competenza nella regione storica arbëreshë)

LATIFONDISTI CULTURALI DELL’ARBERIA; (Gli agricoltori disciplinati attendono lo spazio di competenza nella regione storica arbëreshë)

Posted on 03 giugno 2019 by admin

Sacro graalNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Il fenomeno del latifondo ha avuto grande rilievo nell’Italia centro-meridionale, nell’assegnare grossi possedimenti e produrre semplici colture, prive di un qualsivoglia modello innovativo  seminativo, preferendo molto spesso il mero fine del pascolo.

I proprietari spesso si curavano solo di garantirsi una buona rendita per consolidare il titolo di proprietà.

L’attribuzione territoriale dinastica, particolarmente diffusa nel Meridione, con l’abolizione della feudalità, peggiorò la situazione per via dell’aumento delle tasse e la riforma agraria del 1950, restrinse i possedimenti superare a 300 ettari (3 km²); a memoria di ciò rimane l’esempio dei terreni agricoli abruzzesi della Piana del Fucino, un latifondo di oltre 14.000 ettari (140 km²) che fu diviso tra 5.000 famiglie di contadini.

Riversare questi parametri di latifondisti nella coltura della regione storica arbëreshë, non si compie errore, ne serve molta immaginazione per comparare i circa 3.500 km², ancora oggi suddivisi tra i quattro mandamenti di Sicilia, Calabria e  Basilicata; Campania e Abruzzo; Molise e Puglia.

Quattro famiglie note per l’ostinata consapevolezza di seguire i dettami della deriva che storicamente ha reso fallimentari i latifondi.

I proprietari territoriali per evitare di essere estromessi, dai possedimenti colturali, hanno preferito fare terra bruciata verso quanti miravano verso nuovi stati di fatto e partecipare al consolidamento storico culturale di quei territori e farli emergere dalla nebbia che li avvolge e li consuma.

Occupare un territorio non vuol dire possedere il Sacro Graal per il suo bene, ne tanto meno essere i detentori dei libri sacri; i latifondisti nei fatti non sono altro che i detentori di fotocopie monotematiche, con le quali non sono in grado di fornire alcuna dignità produttiva a un territorio, che mentre loro si distraevano nei palazzi del potere, diventato regione storica.

In definitiva quattro famiglie monotematiche che si possono raffigurare in sofferenti figure predisposte in fila indiana e quanto il primo della fila inciampa, diverrà un rito per gli altri al seguito; essi sono cosi legati alla consuetudine di movimento che ormai dagli anni settanta del secolo scorso non producono più nulla e per il sostentamento del loro cammino, riversano vino da una bottiglia all’altra senza rendersi conto che è diventato pessimo aceto.

Ritenere che la regione storica non sia possa essere considerato altro che un latifondo dove pascolarvi pecore e bovini, è un atteggiamento irresponsabile specie nei tempi che corrono, in cui, il bisogno di coltura delle nuove generazioni è una emergenza improrogabile.

Si potrebbero aprire stati di fatto unici nello scenario politico, sociale e delle inquietudini odierne, in cui le vicende con protagonisti gli arbëreshë, (che non sono albanesi secondo il teorema dell’etnocentrismo), potrebbero diventare un esempio da seguire e da emulare per i processi di integrazione in atto e di cui non si conoscono risposte.

Smettiamola di ostinarci a scrivere il lingua standard per gli arbëreshë, (pascolo) in quanto è più costruttivo (seminare) rendere nota la storia di uomini unici che hanno reso possibili le parole con cui il presidente S. Mattarella, si è rivolto, lo scorso sette novembre a San Demetrio Corone alle genti della regione storica (che non è latifondo arbëria): Gli arbëreshë, costituiscono una storia di integrazione e accoglienza che ha avuto pieno successo un esempio di come la mutua conoscenza e il reciproco rispetto delle culture siano strumento di crescita per le realtà territoriali e per i Paesi in cui le diverse comunità sono. In preservazione delle antiche origini, la reciproca influenza, la fusione armonica di lingua, cultura e tradizioni, sono state nei secoli e sono ancora oggi il “valore aggiunto” di queste comunità. Realtà che svolgono un’essenziale funzione di ponte tra i due “popoli di fronte”, come spesso ci si riferisce ad Albanesi e Italiani”.

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