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ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

Posted on 31 marzo 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad oggi bisogna accertarsi e con parsimonia delle cose che del palco su cui si è partecipi a diffondere cose senza senso storico e, per il solo fine di stupire turisti e comuni viandanti sempre affamati o pronti a digerire ogni cosa commestibile/fumosa, dirsi voglia.

Accertato che sia uso comune riportare teoremi riversati, secondo il tempo e le occasioni che corrono, qui in questo breve, si cerca di fare chiarezza a largo spettro per poi stringere la mira su luoghi, fatti, cose, uomini e in dettaglio illustrarle.

Tracciare un percorso storico e identificare cosa ha reso possibile, nella penisola mediterranea, le forme di accoglienza e integrazione, senza avere consapevolezza della “Regione Etnica Diffusa Kanuniana Accolta e Sostenuta per gli Arbëreşë “denota come siano stati condotti gli studi e i relativi approfondimenti utili ad interpretare contenuti di archivio, biblioteche o notarili atti, relativi ai trascorsi di questa chiacchierata minoranza.

Il tutto, non conduce certamente a risultati con il comunemente divulgato identificativo di radice, secondo cui una porzione della odierna Albania Balcanica, che geograficamente è allocata al centro nord estremo, denominata storicamente Arberia è la patria di quanti vantano radici di cultura Graca che si trova al sud della stessa nazione, e tutti; non hanno mai danzato per aver trionfato in  guerre o fatto stragi.

Nasce così la necessità, di una nuova indagine, secondo cui a migrare dopo la morte dell’eroe Giorgio, il 1468, non furono solo la gente del nord, o del sud, ma da tutta l’antica terra balcanica, ma diffusamente venne lasciata nelle mani di quanti si prestarono ad essere piegati secondo credenza d’oriente.

Poi se si odono le diffuse Vallije allestite in azioni mirate, emerge la necessità di analizzare le cose della nostra storia con più attenzione, racchiuso nel componimento a titolo di questo breve.

Sostantivo acerbo, amaro e forgiato, o addirittura, fumosa opera di comuni viandanti, che presentano pietanze garantite, da precedenti viandanti, per questo genuine, in quanto “benedette”, con rametti di origano intrise nell’ aceto, come fanno “le Jannare”.

Tuttavia, e con pena immensa, in questo breve, si vuole evidenziare, senza affondare nel citato pantano “benedetto”, e mi riferisco a quel trapeso, ormai non più, né Terra e tantomeno luogo o memoria condotta delle tre figlie; Fede, Speranza e Carità, che nel contempo hanno preferito, minareti a campanili.

Qui in questi ambiti stretti e lunghi, che fanno centri antichi, come la natura preferisce, hanno avuto i natali le figure di eccellenza più elevate tra gli Arbëreşë, grazie al presidio scolare monastico denominato “ Arcivescovile”, elevato alla fine del XVI secolo, giacché, luogo ameno soleggiato e difeso dalla natura,  per questo ha dato avvio alle formazione culturale di numerose figure locali su base greca e Latina e diventare eccellenza, quali prelati, rappresentati di cultura e legalità, i quali nel breve tempo di pochi decenni riecheggiarono ben oltre i confini del regno e dell’Italia unita, perché esempi di cultura prima irripetibile.

Una vera scuola che da questi luoghi di Terra che richiama le finezze Alessandrine, ed è qui si vuole accennare anche il nero che si alimentava dei reflui del butto vescovile, per poi diventare vergogna nel decennio francese.

Lo stesso che violando il senso di Terra, se si esclude l’elevato Romanico del XVIII secolo, elevato ancor prima dello scuro natalizio, a seguito del quale, il calvario di questo luogo, non ha avuto soluzioni di continuità, visti i risultati della profonda deriva che pur se nota, fa danno.

Essa inizia il 1799 a Napoli, con l’episodio dell’arresto, la conseguente esecuzione e il su drammatico epilogo di cattiva esecuzione di Pasquale Baffi, a cui segue con la costituzione del vergognoso monte del grano lungo la odierna Via Masci, un elevato costituito in elementi di esclusiva spogliatura tellurica.

Qu sono nate le figure che hanno immaginato aperto e poi chiuso quanto divenne esausto il presidio culturale della terra citeriore, fulcro culturale atto a indicare la via dell’unità, culturale, sociale, politica, religiosa e dei segni, in tutto, un cerchio perfetto descritto da un compasso buono, che senza mai apparire o averne avuto mai merito, ha posto in essere, solo bene per i vicini fraterni.

La deriva vera è propria ha inizio, con la strage, avuto luogo dal 12 al 18 agosto del XIX, lungo i lavinai di Terra a terminata davanti a un privato granaio, ma con pegno poi pagato, sedici anni dopo, alle spalle dei granai della capitale del regno, per ironica sorte; e da allora sempre con più veemenza si è lasciato spazio e tempo alla libera deriva.

Una vera e propria pandemia culturale che sparge gratuita cattiveria, perché di regia diavolesca, la stessa che vive e vegeta in questi luoghi e se non si corre e passare con urgenza, a rifoggiarla, di questo centro antico, non rimarrà più nulla.

Va sottolineata la parentesi avuta luogo e tempo nel XX secolo, una fiamma di ripresa durata sino alla metà degli anni cinquanta, epoca in cui venne allestita sin anche la Festa dell’estate o meglio l’inizio dell’integrazione, spenta sempre di più dai venti sessantottini, che hanno generato un vortice culturale secondo cui erano battaglie o stragi per il santo patrono: Vallje.

E negli anni ottanta si è dato inizio, con al calpestare la toponomastica, affidandola a ignari viandanti indigeni, iniziando così a produrre e allocare, progetti in elevati, allestendo percorsi pubblici per i quali sono stati cancellati o rimossi: sedili, fontane, varchi, vichi e ogni oggetto vernacolare di Iunctura storica.

Furono così trasformati i luoghi ameni, in parcheggi per autovetture d’occasione o foriere senza stagione e, in alcuni casi cancellare completamente gli antichi e valorosi percorsi da soma, in regola Kanuniana.

Non sono state rispettate scalinate, vichi, orti botanici, aie, sottoportici e tutti i lavinai, i quali senza riguardo, sono stati sotterrati con croci parallele in ferro, a memoria perpendicolare, in favole di inutili percorsi veicolari senza alcun bisogno condiviso, disperdendo il senso generale dell’impianto urbano di “Iunctura storica”, la stessa che fa di questi luoghi “NON BORGHI”.

Cosa dire poi della sovrapposizione o la deposizione per le memorie storiche locali, le quali sono menzionate e ricordate in episodi che ritenere inopportuni è dire poco offensivi se non ironici, in molti casi, ma tutto ciò non è nulla,     se accenniamo come la cultura, qui è stata violata, con episodi secondari o di infantile interpretazione, coinvolgendo sin anche le massime autorità, che distratte partecipano ed elevano i neri calpestando il bianco fatto di pene, sacrifici e principi violati.

E come se non bastasse, sono state sin anche violentate le prospettive storiche, dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso, sostituendone il valore materico, che le rendeva uniche, elogiando madri comuni con quelle chiuse nel dolore, completando l’opera ritenendo che un centro antico sia il luogo dove depositare coloriture alloctone di altri paralleli terrestri, per seguire la moda che anche in questi luoghi ameni, solo la globalizzazione poteva ferire e uccide, con incosciente giubilo e senza rimorso della pena inflitta a Clementina.

Adesso inizia l’estate per gli Arbëreşë, con tempi e ritmi in gruppi di genere che innalzano Vallja; a questo punto è il caso di suggerire con il vestitevi in costume, ricordando che quelle vesti sono bandiera e, nel portamento sarebbe il caso di fare gesti garbati e mai inconsulti, specie per la memoria e l’onore di “vostro padre”, come tradizione vuole.

Ricordate che quando cantate, chi vi sta accanto, alterna vocalità di genere, per poi terminate nel canto che unisce voi e gli altri, riverberando in questi ambiti ameni, i valori di fratellanza in terra parallela quella solida ritrovata, naturalmente.

 

P.S. per quanti cercano di fare, dire o enunciare:

  • La Sposa in Pubblico, danza saltella, non fa sollevare le vesti, non fa coda o ruota,  né prima di esser sposa, aver al collo la fascia nera;
  • Bërlòcù, non è ne per bimbe o adolescenti; ma è solo per donne adulte che fanno famiglia, perché maritate;
  • Lavina Jònë; è dove il tempo, l’acqua, vanno per mano e riempiono buche, e fanno strade;
  • Chi non sa e conosce le Vallije, leggesse Serafino Basta dottore di Civita -1835;

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI E DISEGNA, PERIMETRI DI CASE, VIE, VICHI E PIAZZE (Chi Studia Tutela Valorizza e Tramanda)

Posted on 25 marzo 2024 by admin

sale

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’acqua scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, le persone che osservano dalle rive desertiche, prendono spunto dai suoi suggerimenti, e costruiscono con il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare storica memoria, ai luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva, come: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Cangellë, Sentinë, Morrë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Valga come esempio primo il Lavinaio, refluo torrentizio che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, grazie al fondamentale corso naturale dove attingere sabbia per la crescita dell’edificato originario.

Risorsa offerta dalla natura, dove fermata la sabbia con apposite barriere, in diverse grammature ed usi, grazie alle quali, venne sin anche edificata la chiesa padronale di estrazione latina del Katundë arbëreşë.

Qui grazie allo scorrere dell’acqua, operosa nel rifinire la sabbia, nel tragitto che faceva sino a valle, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare si depositavano finemente in diversa grammatura, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere nel fiume. 

In tutto acque che scendono da monte, segnando i tracciati, poi divenuti progressivamente strade vichi e scalinate, in quel tempo, fondamentali per orientarsi, secondo un progetto naturale, del centro antico in crescita.

Il tutto, fu poi per opera dell’uomo, percorso che conduce nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace, o tiene velate cose, tuttavia rimane vigile e in attesa che le sia ridata voce, dove essa scorreva o cadeva, segnando il luogo e la storia.

Infatti è stato sufficiente lasciarla libera di scorrere, affinché componesse secondo natura, quei percorsi ben seguiti dagli uomini, perché espressione di iunctura; o meglio tessitura fatta di trame di acqua e di tempo, ben accolta dall’uomo, che non le ha più abbandonate.

Ho sempre immaginato, che l’edizione di un testo, portato a buon fine, potesse sollecitare i migliori propositi revisionando e arricchi­re le cose della storia e la scienza in contenuti senza riserve, in tutto dare vivacità e “freschezza” come lungo i lavinai del passato, hanno consentito di attingere e poi in epoca moderna fa lo scorrere condiviso dell’acqua, che appartiene indistintamente a tutti.

A tal proposito si vuole sottolineare quel due di maggio del 1935, quando furono invitati tutti i fruitori in Terra di Sofia, in un luogo comune su base ottagonale, perché identificato luogo religioso sociale e religioso dei cinque sensi, per fare una festa e accogliere l’acqua nuova, senza distinzione di rioni o Gjitonie, ma rappresentanza di tutto il centro antico a quei tempi in spasmodico ardire per essere rilanciati, dopo il secondo inverno nero mondiale.

Lo stesso che dagli anni ottanta del secolo scorso, venne strappato dalla prospettiva dell’intellighenzia beneaugurante degli ignari di turno, posto molto di lato, senza una cognizione di causa, perché già prima era stato negato anche lo scorrere del fondamentale liquido naturale, che unisce e disseta le menti dei giusti.

Ed è così che il deserto storico, sociale e religioso ha iniziato a prendere il sopravvento; la pietra cementizia ottagonale, diventata desertica e, per diversi decenni, poi apparisce impropriamente alimentato con riciclo infantile, con la speranza che unisca persone a cui si vieta di usarla, in tutto impedire quegli atti sociali e di fede, che uniscono e dissetano le persone e le cose genuine.

Ed è così che il quadrangolare fontanazzo evidenzia solamente le pene dell’acqua, che non scorre come fa la Storia, ma gira su sé stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda.

In questo breve sicuramente mancherà la citazione degli attori principali ma, il testo resta un esame di eccellenza, perché da quando il riciclo ha avuto inizio, la Storia del Katundë dove tutto è diventato piatto e non sfogliare pagine di storia buona, come fa l’acqua.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico sempre presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Katundëtë; dove oggi il tempo e l’acqua, van per mano e riempiono buche, e ingannano il comune viandante ignaro.

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I PAESI ARBËREŞË DA VISITARE ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DA VIANDANTE (Janë e na vighë ghindë zotë e i mami për lindrunërà)

Posted on 20 marzo 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono comunità alloglotte insediatasi, con i relativi modelli abitativi nel meridione italiano, fatta di tradizioni, parlate, uomini, religione e, una solida Iunctura culturale, ancora inesplorata, in specie dai percorsi turistici che contano.

Queste macroaree sono episodi della storia mediterranea che non mutato, resilienti nel corso dei secoli, in tutto, modelli di integrazione e convivenza sociale, tra i più solidi e duraturi della penisola Italiana.

Genti che per convivere non hanno dovuto fare uso di scontri, prevaricazioni o sottomissioni di sorta con gli indigeni locali, ma convivenza di “civile Gjitonia”, quella portata dalle colline dell’oltre adriatico e, innestata nel meridione italiano.

Gli stessi ambiti segnati, prima dai Greci fannulloni, poi da Bizantini e Longobardi in lotta, seguiti dai monaci Cistercensi dei fortilizi di grancia, in quelle terre note, o facilmente individuate, in epoca moderna come Regno di Napoli, oggi Italia centro meridionale.

Ed è qui che le genti, in specie Arbëreşë, non hanno mai smesso di valorizzare e mantenere vive le antiche tradizioni o le cose portate nel cuore e nella mente dalle loro terre di origine dai Balcani.

Le stesse poi depositate in questi “Paralleli Meridionali” con rispetto, saggezza e genio di luogo, mostrandosi sempre operoso e mai distrarsi nell’assumere atti di protagonismo o prevaricazione verso gli altri.

Questi Agglomerati o Nuclei Abitativi Aperti, in stretta aderenza ai cunei agrari e della trasformazione, relativi, si identificano in Katundë.

Essi non hanno nulla a che vedere con gli impianti medioevali murati ai piedi di castelli o i sistemi in difesa o circoscritti dirsi voglia, identificati come “Borgo”.

In quanto gli Arbëreşë, facevano uso di modelli abitativi aperti e non murati, la unica difesa era l’impianto urbano di lenta percorrenza o di “iunctura familiare”, più idonei delle banali e violente mura o elevati, per dividere le classi sociali dall’agro operoso.

Qui tutto era familiare tutto era condiviso e nulla poteva essere violato o prevaricato da altri, chiunque essi fossero, e non poteva essere considerato mira per emergere.

Tutti i centri antichi e i relativi cunei agrari Arbëreşë, oggi sono itinerari molto suggestivi e colmi di significati antichi, anche se la poca attenzione che molte amministrazioni governative e locali, in diversa misura, usano rivolgere per identificarli, tutelarli senza mai valorizzarli e tutti, danno la misura con il definirli, identificarli o appellarli comunemente in “Borghi”.

Nonostante sia evidente che, se un Borgo risulta essere un sistema chiuso, un Katundë e un sistema aperto, se un Borgo ha diverse classi sociali, un Katundë vive di parità sociale, se un Borgo ha la nobiltà a guida sociale e politica, un Katundë vive del governo operoso degli “uomini” e delle “donne” che amministrano le cose in egual misura e cooperazione, senza mai superare i limiti di competenza civile tra generi.

Tutti i paesi, Villaggi, Contrade, Frazioni, Katundë minoritari, hanno caratteristiche distintive simili, sia nella disposizione dei rioni e, degli elementi urbanistici/architettonico, in tutto, un esempio di storia urbana di città aperta.

La stessa vissuta al fine di integrarsi, confrontarsi e dare agio ai loro abitanti senza distinzioni o elitarie di sorta e, nonostante la peculiarità che anticipava i tempi delle società che ancora oggi annaspano, solo a pronunziare quello che per gli Arbëreşë era regola, questi paesi vivono solitari e senza alcuna legge che tuteli questi aspetti, nel mentre si valorizzano, esclusivamente le forme idiomatiche appellandole di lingua altra.

Lasciano per questo, gli impianti urbani e le valenze Vernacolari alle ire del tempo, alle attività ideologiche della politica e al riversamento dei contenuti storici ad opera dei castellani, sempre più ostinati a credere che nel deserto si possa trovare una fonte di vino buono.

Le stesse ideologie locali che ad oggi giorno, la politica e delle metropoli moderne, sognano quale ideale irraggiungibile, ipotizzandoli solo come percorsi scolari e nulla più.

Nonostante, tutti questi piccoli centri antichi e, i loro cunei agrari fossero in origine abitati da indigeni, ma le vicende della natura, in forma di carestie, terremoti e pestilenze diedero modo di essere abbandonati e lasciati all’incuria di tempo affiancata dalla natura, solo grazie alla caparbietà degli Arbëreşë, questi oggi appaiono fieri sostenuti dai valori maturati, tra uomo e ambiente naturale preservato in maniera egregia.

Ed è la Calabria dove si contano circa sessanta tra paesi e frazioni o casali, su quattrocento sette, della regione intera, di Katundë Arbëreşë mentre tutto il meridione in sette regioni accomuna, ventuno macroaree in oltre cento dieci paesi con Napoli Capitale.

Questi tutti e senza alcun dubbio storico, sono caratterizzati da fenomeni sociali dove non vi era alcuna forma di borghesia o nobiltà altolocate se non, la nobile arte del prete di dire messa, per i quattro rioni tipici, secondo i quali si componeva la iunctura della; Chiesa Kishia, il fulcro, di unione tra i rione degli indigeni locali: Ka rinë rellët; Bregu per l’avvistamento e il controllo del centro in espansione; Kalive le tipiche residenze disposte in modelli articolati e lineari dagli Arbëreşë; che poi diventano componimenti urbani o perimetro del nuovo centro urbano denominato; Şëşi, (in Arbëreşë) e l’insieme formava un Katundë, che in Arbëreşë, ha il senso di luogo di confronto e di movimento operoso.

Indicavo un numero complessivo dei Piccoli centri antichi aperti, della Calabria e, solo di quelli ricollocati e innalzati dagli Arbëreşë, esclusivamente in zone collinari, oltre la quota, livello mare di quattrocento metri.

Questi, rispettivamente: molti hanno conservato il senso totale delle linee guida urbanistiche, architettoniche e i valori identitari; pochi anno parso le direttive religiose; e, pochissimi solo la memoria toponomastica.

In Calabria i paesi Arbëreşë sono allocati in quella che si identificano in tre itinerari delle Provincia di Cosenza, Crotone e Catanzaro; la prima con la Macroarea della Cinta Sanseverinese, suddivisa in sub m.c., del Pollino, delle Miniere, della Mula e, della Sila Greca; la seconda, con la Macroarea del Centro Jonico; la terza; con la Macroarea dei Due Mari, Tirreno e Jonio, quest’ultimo identificato come il confine storico del Gran Ducato di Calabria o del thema di Reggio Calabria della Costantinopoli imperiale.

Per quanti volessero addentrarsi all’interno di questi ambiti e rivivere sensazioni antiche, che neanche la globalizzazione ha ancora fermato; la prossima stagione lunga, ormai iniziata, (ovvero l’Estate) sia il motivo valido per recarvi, come residenti della breve sosta, assumendo le vesti di chi torna a casa propria, e si trova a vivere o avvertire i cinque sensi natii.

Per questo è il caso di risiedere nei presi e poi recarsi e fermarsi, simulando stanchezza per cogliere in ogni anfratto di questi luoghi, i fatti e attività sociali dal modello dei cinque sensi, ovvero al Gjitonia, dove si ode e si sentono, valori antiche che in nessun luogo è possibile rivivere.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

Non chiedere mai cosa sia uno Shëşë, noti in storiografia come moduli di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato e disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa sia Gjitonia, Costumi, Strade, Pietanze e bevande tipiche; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario della credenza e, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia di quei luoghi, ma cercate di cogliere i valori che ogni persona è in grado sviluppare, nell’attimo in cui siete avvolti dal silenzio che innescano questi luoghi e sensibilizzano i vostri cinque sensi.

Solo così potrete avvertire attimi irripetibili e, vi troverete immersi in una dimensione nuova, fatta di odori, sapori, suoni, e prospettive, che se accarezzate con le mani lievemente, diverrete anche voi nuovi abitanti di questi luoghi colmi di storia e di leale passione, la stessa che rende e accoglie il passante che vuole vivere momenti non per distrarsi ma per essere migliore.

Mi raccomando, visitate i paesi Arbëreşë, non come turisti distratti, ma come figli che tornano nei luoghi materni.

Se poi la scintilla di tutto ciò non si innesca, chiedete dello scrivente e il fuoco della passione leale arderà dentro di voi e avvertirete le pene nobili degli infaticabili e leali Arbëreşë.

 

Napoli, dove il tempo scorre e cancella le cose della storia che conta.  

 

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Chiesa Codra

IL DICIANNOVE DI MARZO PER GLI ARBËREŞ, È IL GIORNO PER CONOSCERE IL NUOVO SOLE (Motj Satë ndëromj)

Posted on 19 marzo 2024 by admin

Chiesa CodraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le stagioni all’interno della Regione storica Diffusa degli Arbëreşë scandiscono le attività terrene secondo un legame inscindibile tra uomo, natura e credenza.

Un macro cosmo, dove i protagonisti erano e restano a tutt’oggi l’uomo, i luoghi addomesticati e la variabile naturale, quest’ultima ritenuta dalla credenza popolare a servizio dalle divinità.

Queste ultime, nel periodo della semina erano chiamate in causa attraverso manifestazioni che valorizzavano il buono, rappresentato o raffigurato dalla religione e il male era ritenuto pagano, avevano così inizio manifestazioni ben oltre i limiti del buon senso o del semplice raffigurato.

Tuttavia, a scandire lo scorrere del tempo nelle attività delle genti operose arbëreshë sono “l’inverno” (Dimër) e “l’estate” (Verà); le uniche e sole “due stagioni” a cui si legano tutte le attività terrene.

E anche Aristotele nei suoi trattati riferiti degli uomini; prediligeva, in quanto Greco, quanti vivevano negli ambiti collinari, in quanto strategicamente idonee per la formazione degli uomini; e i detti luoghi forgiavano e rendeva più propensi alle attività produttive oltre alle arti.

La stagione che iniziava il 19 marzo e terminava il 30 novembre, climaticamente la più soleggiata e, per questo consentiva la migliore crescita produttiva, sociale e artistica, diversamente, dagli anarchici delle zone di mare e gli associali delle aree montane.

Lo stesso calendario con i dodici mesi, qui in seguito, riportato in arbëreshë, racchiude questo teorema, in altre parole non è altro che l’espressione condivisa di due tappe temporali: la prima trova la rinascita dalla luce e il sole; la seconda il buio la notte, per consentire il riposo della natura e isolare gli omini.

Per gli Arbëreshë questi valori o tracce le ritroviamo attraverso le attività Kanuniane ligie alla socializzazione, alla produzione e il passaggio di testimone, per le nuove generazioni.

Senza mai distrarsi evitando di fare guai continuati con i giovani, ai quali se da una parte gli si dava fiducia per onorare luoghi e cose di una determinata famiglia, ma poi subito rimuovere e armarli di zappa per rassodare campi, in questa lunga stagione di rinnovamento, se non si dimostravano saggi nelle attività e le cose che eventualmente richiedevano il buonsenso atteso, nell’inverno trascorso e nelle stagioni di pena profusa.

E anche in questo caso, l’estate e l’inverno avevano un loro significato preciso, sia come pena trascorsa al buio della luce del camino in casa e come termine per la stagione della libertà, il sole che illumina ogni cosa fatta ed esposta.

L’estate e l’inverno, rispettivamente iniziano e terminano: il 19 di Marzo, il giorno di San Giuseppe; il 30 Novembre giorno di Sant’Andrea, due momenti largamente condivisi, vera e propria credenza popolare, in cui le allegorie all’interno della regione storica diffusa, si ripetono identicamente in ogni dove, con riti propiziatori in cui il pagano, quello che offrirà il sottosuolo (gli Inferi), si armonizza con il cielo (il Divino) per rendere vivibile la vita degli uomini sulla terra (il Purgatorio).

Gennaio – Jamari – Mese dedicato a Ianus (Giano), Dio bifronte, che segnava simbolicamente il passaggio dal vecchio al nuovo anno; Ianuain latino significa “porta”.

Febbraio – Fjovari – deriva da februa “purificazione”, il mese in cui si praticano le attività per la purificazione dei campi prima della semina.

Marzo – Marsi o Shën Sepa – Mese dedicato a Marte, dio della guerra o il mese dell’Equinozio di Primavera cade generalmente, alla fine della seconda decade di marzo e, a tal proposito è bene citare un antico detto: (S. Giuseppe il -19 marzo porta il candeliere in cielo perché sarà sole per illuminare l’estate.

Aprile – Prilj – dall’etrusco Apru, Afrodite dea greca e prima ancora, fenicia: essa rappresenta la dea della forza vitale, sotterranea, che induce le gemme a fiorire.

Maggio – Maji – il mese di Maia, dea della fertilità, era in questo mese che nell’antichità si praticavano i rituali mirati alla fertilità dei campi e si apponevano amuleti per allontanare il malefico.

Giugno – Querishtua o Curishtua – il mese dedicato alla dea Iuno, cioè Giunone; tuttavia è anche il mese delle ciliegie (quèrshi) e dalla mietitura (Cuermi), tagliare accorciare, raccogliere il grano.

Luglio – Lionarj – Dedicato a Gaius Iulius Caesar, Giulio Cesare,

Agosto – Gushti – Dedicato a Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus, l’imperatore Ottaviano Augusto.

Settembre – Vjesgt – Settimo mese dell’antico calendario di Romolo che vedeva settembre come settimo mese da marzo, e per alcune culture la numerazione si dilunga sino al dodicesimo mese dell’anno; tuttavia in questo mese cade l’Equinozio di Autunno (22 o 23 Settembre) nel quale il Sole sorge esattamente a Est . Va in oltre ricordato che: “San Michele -29 settembre- porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.

Ottobre – Shën Mitri o Vreshët – ottavo mese dell’antico calendario di Romolo, gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati consuetudinari/religiosi legati alla raccolta delle uve, da qui Shën Mitri o Vreshët.

Novembre – Shën Mërtini o Vereth – nono mese dell’antico calendario di Romolo gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati religiosi e legati alla maturazione del vino da qui Shën Mërtini o Vereth.

Va in oltre ricordato che: “Sant’Andrea -30 Novembre – porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.

Dicembre – Shen Ndreu – decimo mese dell’antico calendario di Romolo esso rappresenta anche la fine del Solstizio d’Inverno che cade il 21 o il 22 Dicembre.

In questi tre mesi ultimi mesi il Sole nel cielo è stato sempre più basso ed il suo percorso sarà sempre più breve.

Napoli, 2024-03-19 dove il tempo scorre non per tutti indifferente

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Minareto o campanile1

VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI LUOGHI ARBËREŞË CITTERIORI (Ibrahim Shaban Likmetaj Kodra, il discepolo di Carrà, Carpi e Funi)

Posted on 12 marzo 2024 by admin

Minareto o campanile1

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolo di “Arberia” e subito riferire di luoghi dove la comunità Arbëreşë, ha disteso il proprio bagaglio identitari antico, al fine di non essere compromesso.

Lo stesso, presentato con il su citato sostantivo, a modo di Stato geopolitico nuovo, nonostante la minoranza si riconosca solo ed esclusivamente nell’enunciato di Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë.

Un esperimento storico disposto da Giorgio Castriota e, conclusosi in accoglienza e integrazione, priva di prevaricazioni o conquista di sorta, se non il solo principio di conservare la propria radice, nel confronto genuino con gli indigeni locali.

Rispolverare tutto ciò seguendo l’itinerario o pellegrinaggio dell’illustre Ibraim Kodra, si può estrapolare il compendio disegnato, secondo la metrica visiva dell’artista, un libero e spontaneo parere di credenza storica smarrita, lo stesso che denota l’accanimento profuso e conservato in quelle rive frastagliate oltre il fiume adriatico, mai mutate dai tempi e dei fatti del passato.

Kodra nasce 22 aprile 1918, a Ishëm, in Albania del nord, da una famiglia di pastori e sin da piccolo, allietava genitori, parenti e amici, disegnano sulla sabbia componimenti delle greggi con uno spiccato senso delle cose osservate,  inizia così la sua avventura sino a Milano dove diventa allievo di Carrà, Carpi e Funi per poi artista famoso in tutto il globo.  

I dipinti dei Katundë Arbëreşë, con grande finezza di monito, profusa dell’artista verso i suoi antichi fratelli, hanno come tema multi colore, continui abbracci fraterni, il cui unico rammarico è riversato nella forma dei campanili, con la croce in forma di luna, per ricordare cose che lui stesso non conosce e, a cui non sa dare valore di tempo e di luogo secondo l’antica e da lui mai vissuta, prospettiva di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato, come struttura di strumenti moderni in resta di ornamenti identitari, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna e riproposti come abusi edilizi degli anni sessanta del secolo scorso.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, rendono e danno misura di un abbraccio, come fanno i familiari quando si dividono e poi si ritrovano, anche se l’artista, avrebbero dovuto conoscere la piega di credenza, che costrinse quelle genti a migrare a guardia dei confini e per non soccombere.

Il grande maestro, di formazione orientale, rimane un testimone/interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, avendo il merito di coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica della terra natia.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, interpretando il senso delle comunità Arbëreşë, secondo una visione Guernica Arbëreşë, storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli Arbëreşë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere, non espresse in urla diffuse dai minareti, che modellarono, la tempra in terra madre, dal giorno dell’abbraccio di separazione.

L’itinerario artistico, di Kodra diventa, atto d’amore e di rammarico, verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto intravedere minareti inesistenti al posto di campanili.

Il sangue non mente e, per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria, vive gli attimi irripetibili di una Gjitonia.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, precisamente pollino che guarda verso lo jonio e, poi prosegue verso il tirreno, dove l’antica “Acqua Bella” scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Crati, qui vede e prende atto delle pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della “carmina convivala”, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre la Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove osserva la piana di Sibari, dal Crati sino al Trionto, terra che dette i natali alla minoranza Arbëreşë il faro, o pietre su cui si ergeva maestosamente, l’intimità ormai senza più vesti.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità, sta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco finalmente prende atto del viaggio Bizantino, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza, da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità Arbëreşë d’Italia, esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui, che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da memoria di minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.  

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta in memoria di una nuova fratellanza.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello di città aperta….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno cinque e oltre, come il numero dei sensi……

P.S. Lo Shëshë non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è Shëşë, noto in storiografia come modulo di Iunctura urbana, componimento urbano articolato in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpj), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redë).

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OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

Posted on 09 marzo 2024 by admin

Governo delle donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno di ogni Katundë di radice Arbëreşë, l’otto marzo rappresenta la giornata per onorare tutte le donne che hanno dato vigore e preparato nel corso dei secoli, dal primo vagito, alle prime pronunzie e attività, all’interno della Gjitonia, a generazioni poi divenute illustri.

Le stesse figure che poi sono state gioia e orgoglio di queste nonne, madri, sorelle, zie o, vicine di casa, in tutto il governo della formazione culturale prima, di ogni uomo di coltura Arbëreşë, rendendo così, questa terra, di approdo e buona accoglienza. ancor più solidale.

Al tempo che oggi corre, sono in molti a chiede, perché la storia della Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë, non abbia avuto eccellenze femminili in prima fila o, note nel corso della storia di questo popolo.

La risposta è molto semplice ed è racchiusa nell’assunzione dei ruoli, che articolava in modo semplice e chiaro questo popolo, nei meriti di ogni genere umano, che nel silenzio rumoroso del luogo dei cinque sensi, ogni figura ha assunto e indossato la sua veste, con orgoglio e, senza mai perdere il senso o la rotta del proprio ruolo.

Se gli uomini avevano il loro governo o meglio la loro piattaforma per operare e brillare, lo trovavano fuori dalla dimensione dei cinque sensi, ovvero la Gjitonia.

È il questo luogo senza confini, denominato:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë” composto da Nonne, Madri, Zie, Sorelle e Vicine di casa, che ogni genere nascituro, veniva allevato senza soluzione di continuità, da questa filiera femminile, che non lasciava mai solo niente e nessuno, sostenendo e rimanendo sempre vigile al fianco per sostenere o a guardare le spalle, quanti qui crescevano formati di valori irripetibili, sino a quando in grado di camminare per completare il proprio genio.

Un Arbëreşë nasce da una madre e da un padre, ma dal primo vagito, viene adottato e preparato a parlare, ragionare, comportarsi e agire con pensiero, secondo un codice linguistico, non fatto di confusione e mille parole, ma semplici e basiche pronunzie grammaticali in Arbëreşë.

Le stesse che non vanno oltre il corpo umano e le cose per sostenersi, sempre seguito dal governo delle donne, all’interno della Gjitonia e, grazie a questa scuola di vita, che ebbero modo di formarsi e abituati a pensare in lingua madre senza mai un momento di esitazione.

Chi di noi non ricorda, queste figure sempre pronte a sostenerti e non lasciati mai solo, quante volte, persa la madre, la sorella, la nonna, non si è sentiti affiancare, dieci, cento o mille nuove nonne, madri, sorelle, li pronte a dare solidarietà per sostituire la figura smarrita per, essere seguiti nei momenti più bui della vita in adolescenza.

Questo era un governo, una scuola, solidale che non costava nulla, tutti erano formati per essere buone figure, poi le vicende successive fuori da questo luogo senza confini e barriere di sorta, ti consentivano di brillare ed affermati nei campi, dove pensare, immaginare le cose Arbëreşë e, tutto diventava  terreno fertile per germogliare fiori e frutti buoni.

Gli esempi che qui potremmo rievocare sono molteplici e fondamentali, resta un dato inconfutabile: ovvero, tutte le figure Arbëreşë più eccellenti, a iniziare dall’alba dell’illuminismo, hanno visto emergere uomini illustri Arbanon, grazie a questo stato o regno locale, composto di sole donne.

E se gli Arbëreşë hanno avuto innumerevoli figure della cultura, dell’editoria, della scienza esatta, della magistratura e le eccellenze clericali, tutte queste provenivano o meglio sono il risultato di un governo condotto e diretto da una sola regina, con la sua corte fatta esclusivamente di donne Arbëreşë.

Quanti di noi non ricordano di aver appellato sorella, zia, nonna e altri sostantivi parentali, figure della Gjitonia, che poi non erano parenti, infatti quella era una forma di riconoscenza del supporto offerto dalla:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë”, composto in quei momenti di formazione sociale, grazie ai quali le cose della vita sono state più semplici da affrontare e superare brillantemente.

Bata citare la storia di Donica Arianiti Comneno, accolta a Napoli dopo la Dipartita del consorte Giorgio Castriota, ed è qui che per la fiducia che la regina Giovanna III aveva in lei, perché donna Arbëreşë, le affidò i suoi figli, giacché troppo impegnata ai doveri di corte, ed è così che altri pari a Napoli le diedero fiducia in tale attività di regia Gjitonia.

A tal fine si potrebbero citare numerose figure in eccellenza Arbëreşë e, ogni volta senza commettere errore rievocativo, tra le quinte della propria Gjitonia apparire, un riferimento Nonna, Madre Zia o Sorella da ringraziare.

Per cui concludendo, il giorno dell’Otto marzo per gli Arbëreşë non è solo una giornata di giubilo e di festa ma è l’inizio di una estate colma di sole e luce.

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