Archive | febbraio, 2020

Mostra "l'oro arbëreschë a Napoli

Mostra “l’oro arbëreschë a Napoli

Posted on 28 febbraio 2020 by admin

Mostra

NAPOLI (da Un’idea di Atanasio architetto Pizzi)

L’ORO ARBËRESHË A NAPOLI (Haretë Arbrëshë në Napulë)

 

Il Mediterraneo nella storia rappresenta il bacino che unisce, uomini, civiltà, consuetudini, religioni e pratiche di vita differenti.

Napoli sin dai tempi dei suoi fondatori Cumani, fu per le sue peculiarità climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, questo spinge l’ideatore di questo progetto a illustrare quale patrimonio culturale sia stato accumulato in secoli di incontri e confronto tra popoli di radice dissimile.

Attraverso l’idea di progetto, di seguito illustrato, si vuole evidenziare il seme dell’accoglienza  e illustrare, le eccellenze della minoranza Arbëreshë, la storica popolazione dell’Epiro che, dal XV secolo, preferì allocarsi nell’allora regno di Napoli.

Porre  in  evidenza gli aspetti storico/sociali, di  nicchia  partenopea,  assieme  a  quelli  notoriamente divulgati, di estrazione ambientale ed estetica, serve a dare completezza al luogo dove furono elevati i valori di democrazia, convivenza e giustizia del meridione.

Il centro antico partenopeo è sempre stato un luogo baricentrico del mediterraneo e per questo vi trovarono approdo, romani, greci, bizantini, normanni, francesi, spagnoli, austriaci e tante altre popolazioni o dinastie di rilievo; ognuna di essi avendo depositato temi indissolubili, nel tempo, si trasformarono in forza, per la popolazione oltre il costruito storico che divenne per questo unico   e difficile da imitare o riprodurre, dal punto di vista storico, sociale e di confronto tra popoli.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto, dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine verso le periferie, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica di un tempo e quelli di oggi della multimedialità.

La città metropolitana oggi, e il suo centro antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione di essenza Greco Bizantina e poi anche quella arbëreshë.

L’excursus storico, parte proprio nel cuore del centro antico, in quello spazio dove oggi è collocata la statua che raffigura giacente il fiume Nilo; allestito secondo le regole tipiche del sedile lungo il decumano inferiore, dove la piazza intersecava anche la strada che conduceva alla “porta ventosa”detta vico degli Alessandrini.

Il sistema piazza, decumano, vico e porta, erano gli ambiti frequentati da numerosi commercianti sin dai tempi di Nerone.

L’imperatore, apprezzando notevolmente le adulazioni di queste popolazioni di scuola greca, ne fece venire molti altri: fu così formarono in questa città, una piccola colonia, detta “Nilense” ispirati dal nome del fiume benefico della madre patria.

Il monumento, rappresentato con la figura di un vecchio sdraiato, sul lato sinistro su un rozzo sasso da cui sgorga acqua; l’anziano si presenta nudo nella parte superiore del corpo e le parti inferiori coperte da una veste; sotto i suoi piedi sorge la testa di un coccodrillo e intorno bambini gioiosi, che simboleggiano il prodigio naturale  del fiume le cui acque, secondo la credenza locale, fecondava le terre, le donne e ogni essere che si abbeverasse.

Nei pressi di questo monumento, si presume che vi sia stato un tempio, che gli Alessandrini dedicarono ad Iside, si racconta in oltre, che nel pronao del tempio si depositavano le tavole votive, che attestavano le grazie ricevute dal “Fiume”, la maggior parte delle quali erano di marinai Alessandrini scampati da naufragi.

Davanti al frequentatissimo tempio sostavano donne vestite di bianco che cantando le lodi della dea salutare, dopo le preghiere si trascinavano carponi con la faccia, sul pavimento del tempio, pregando per la salute e il benessere dei loro cari.

Si presume che da queste credenze popolari siano state ispirate quelle partenopee degli ex voto o dei santuari dove tra sacro e profano, si onorano alcuni santi locali.

La via oggi di Mezzocannone, nella sua parte inferiore alle origini dell’espansione muraria era interrata fra le alture dell’Università e di S. Giovanni Maggiore.

Il tratto della cinta, che in origine coincideva con il lato orientale di questa via, fu mutato dopo il 326 a.v. C., l’anno del trattato di alleanza con Roma, per accogliere gli abitanti della città vecchia, (Parthenope) nella cinta della nuova (Neapolis) e così furono ampliate le mura nella parte di occidente con l’unione dell’altura di S. Giovanni Maggiore in principio esclusa dalla città.

Per evitare successivi affanni economici il muro dal vicoletto Mezzocannone a poco oltre la rampa di S. Giovanni Maggiore fu conservato, realizzando a poca di stanza e parallelamente un altro muro, incassando la via fra le due murazioni, chiusa da una porta nell’estremo superiore dalla “Porta della Ventosa”.

Nelle annotazioni delle strade e i vicoli ricadenti nel perimetro di questa  regione,  non  e  superfluo ricordare la strada che si apriva sulla porta, appellata l’Alessandrina per la rilevante presenza di mercanti di quelle terre riuniti qui a pregare e negoziare.

La conferma è resa dalle citazioni di Svetonio e di Seneca; il primo scriveva: autem modulatis Alexandrinorum modulationibus , qui de commeatu Neapolim confluxerunt, e  Seneca: Subilo nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae preamitti solent et nunciare sequuturae clasis adventum.

Camillo Tutini, lega la strada in epoca cristiana riferendo che in questo vico vi fosse stata edificata una chiesa dedicata a S.Atanasio Patriarca d’Alessandria, come si raccoglie dal libro delle visite della Chiesa maggiore Napolitana, ove si legge: S. Athanasius Alexandrinus in regione Nili, in vico dicto Alessan- drinorum.

Alla fratria ricadente in questo rione del decumano inferiore, erano ascritte un numero considerevole di nobili famiglie, tra le più antiche, infatti  dimoravano nei loro sontuosi palazzi di rappresentanza allocati nell’impianto ad impronta greca, gli:

Acquaviva • Afflitto • Avalo • Barberini • Bologna • Brancaccio • Capano • Capua • Capuano • Capece • Carafa • Cardenas • Cavaniglia • Dentice • Filingiero • Frezza • Gaetano • Gallerati • Galluccio • Giudice  •  Guevara • Luna • Milano • Montalto • Piccolomini • Pignatelli • Sangro • Sanseverino • Sarracino • Sersale • Spinelli • Ulcano.

A seguito della diaspora balcanica, varcarono l’Adriatico, apprendisti, soldati, contadini e clerici, con lo scopo di riscattare un mestiere, bonificare terre, difendere lingua, consuetudini e la religione.

Identificati notoriamente come “Greci”, va precisato che tutte le popolazioni del levante seguivano il rito  cosi  denominato,  pertanto  l’appellativo  “va  inteso  più  come  riferito  alla  religione  che  alla nazionalità”; riconducibile ai discendenti di quanti abitarono gli antichi themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus.

Nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, comunemente denominato dai turchi, “Scanderbeg” fu posto alla testa dell’esercito in difesa di quelle terre per contrastare l’avanzata degli ottomani.

Il condottiero distinguendosi in numerose battaglie della cristianità, oltre ad onorare il patto dell’ordine del drago, ereditato dal padre, in difesa degli Aragonesi contro le armate Angioine rappresenta il bilico per la divisione dei ruoli del suo popolo.

Durante la sua permanenza  nette  terre  dell’allora  regno di Napoli,   ebbe  modo  di tracciare “le Arché dell’infinito arbër”, linee strategiche dìinsediamento, avevano anche lo scopo di preservare la radice originaria degli arbereshe e nel contempo ripopolae Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) indispensabili punti di avvistamento e controllo dei territori, o meglio focolai delle ideologie Angioine.

Altra nota degna di citazione è la visita a Napoli di Giorgio Castriota, la sosta a Portici, ospite di nobili locali, la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla via della Libertà).

È da qui che si mosse la mattina seguente, per giungere nella capitale dal lato orientale della città, proprio nel rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguito si diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per il quale, Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota preferì, Napoli alla cristiana Roma e alla lagunare Venezia.

La nobile vedova dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara, proprio a ridosso del decumano inferiore e prima di piazza del Gesù.

Tommaso Assan Paleologo nel 1518 costruì a Napoli una chiesetta padronale dedicata a SS. Apostoli e nel 1522 eresse un altare gentilizio nella basilica di San Giovanni Maggiore la chiesa prospiciente l’antica via degli Alessandrini.

Fu scenario di accoglienza la piazza del Nilo e la strada detta degli Alessandrini ora detta Mezzocannone, quando, cadute Corone e Modone, Carlo V accolse con tutti gli onori l’esodo delle popolazioni cristiane giunte a Napoli con le navi di Gian Andrea Doria.

Nel luglio del 1534 va citato l’episodio, in quanto, solo in quella giornata vi giunsero a Napoli più di 8000 esuli, di questi più della metà trovarono accoglienza nelle regioni del regno.

Questi cenni e molti altri caratterizzarono la storia di Napoli e del meridione italiano in senso di accoglienza il cui seme ha iniziato a germogliare dalla piazza del Nilo, il decumano inferiore e le vie limitrofe, espandendosi in ben sette regioni del meridione italiano.

Divenendo per questo teatri di vita a cielo aperto dove anche gli arbëreshë furono e sono tutt’oggi protagonisti in quanto portano alta la bandiere del modello d’integrazione più solido del mediterraneo. Oggi le gesta di Zoti Gjergj detto Scanderbeg in favore di Ortodossi, Bizantini, Alessandrini e Cristiani rappresentano una parentesi incancellabile degli accadimenti a partire, dal XV secolo.

Le gesta dell’eroe e la disponibilità partenopea del mutuo soccorso racchiudono il senso dell’integrazione e il rispetto dei popoli diversi, vero è che proprio per questa opportunità le genti di queste terre furono divise in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria, ma con compiti e menzioni da portare avanti.

Gli Albanesi si assunsero l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e identificata come Shqip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, accumunati dalle ereditata forma orale; nella consuetudine; nella metrica del confronto canoro fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in pacifico rispetto con le genti indigene.

L’integrazione di queste popolazioni nei territori ritrovati cosi come nella capitale Partenopea, avvenne a seguito di quattro distinte fasi storiche di sedimentazione:

  1. 1. la prima, di scontro o del nomadismo e identificato come dei “Materiali alterabili”;
  2. 2. la seconda, di avvicinamento o dei “Materiali inalterabili”;
  3. 3. la terza, di confronto con le comunità indigene “Festa di primavera”;
  4. 4. la quarta, della formazione politico culturale “Le menti Arbëreshë”;

Quando a Napoli nel 1734 si insediò Carlo II di Borbone, Il 26 febbraio del 1733 a San Benedetto Ullano (CS) aveva aperto i suoi battenti, il nuovo seminario di formazione per la minoranza Arbëreshë, con 17 alunni e 3 professori, ben presto la regione definita dalla Piazza del Nilo, il Decumano Inferiore oltre i cardini superiori e inferiori ad esso connessi, divennero i luoghi di riferimento per gli esuli, in senso di valori culturali, sociali, economici, della scienza esatta, della politica e della religione.

Un fiume di rinnovamento allineato alle politiche unitarie e di riscatto del meridione, senza distinzione di appartenenza sia sociale e sia religiosa.

È l’era degli uomini illustri e Napoli si confronta con il resto dell’Europa, ed è in questo capoluogo ad offrire alle menti più illustri il palcoscenico ideale per confrontarsi con Bugliari, Baffi, Torelli, Giura, Scura, Masci, Crispi, e tanti altri illustri che per le loro idee liberali contribuirono al rendere più efficaci aspetti in ambito culturale economico e scientifico, con lo stesso entusiasmo degli indigeni, che li consideravano fratelli.

La piazza del Gesù con le emozionanti prospettive delle chiese li allocate, sono il luogo più rappresentativo per riunirsi in religiosa “concelebrazione religiosa pontificale”, già spazio per la dimora dei Sanseverino nella capitale del regno e che per una serie di annoverate vicissitudini divenne l’emblema religioso che domina la Piazza.

Lo stesso nobile casato della Calabria i nobili che accolse la parte più consistente di migranti del XV secolo e oggi conservano identicamente gli elementi caratteristici in seno alla lingua le consuetudini la metrica e la religione, dopo che la diaspora ebbe inizio.

Cenni del rito greco -bizantino

Gli esuli Arbëreshë, in seguito dell’imperare dominazione ottomana, fuggirono dalle terre natie nel XIV sec.,per non essere soffocati anche della propria credenza religiosa; e si insediarono, secondo le arche disegnate in comune accordo tra il re Alfonso I d’Aragona e il condottiero Giorgio Kastriota, nell’allora Regno di Napoli.

Gli esuli legati alle peculiarità del rito Greco-Bizantina alla fine di questa secolare vicenda, videro elevarsi l’Eparchia di Lungro, in Calabria, promulgata da Papa Benedetto XV con la bolla “Catholici fideles ritus graeci…”, del 19 Febbraio del 1919.

Poi affiancata , nel 1937, dall’Eparchia di Piana degli Albanesi sotto la giurisdizione di un proprio eparca in Sicilia, con bolla Apostolica Sedes di papa Pio XI.

È opportuno focalizzare questa nascente finestra di confronto tra la chiesa di oriente e quella di occidente, citando brevemente le frizioni che nascono dopo l’insediamento degli esuli, con la realtà dottrinale, seguita dai Vescovi locali.

Inizialmente  gli  arbëreshë  furono  lasciati  ai  riti  dei  prelati  che  li  accompagnarono  nei  territori  di pertinenza delle varie Diocesi latine, immaginando queste ultime, che costoro pur avendo le proprie tradizioni liturgiche e religiose orientali, ben presto avrebbero seguito la via dei latini.

Lo scopo mirava al dato che sarebbe bastato fermare vietando il canale di ricambio di nuovi prelati provenienti dalle terre di origine “i nuovi ortodossi” per questo furono argomento e bersaglio, di accuse, violenze, soprusi, vessazioni di ogni genere, però, non sufficienti a piegarli alle tradizioni liturgiche e religiose latine, e oggi in ossequio, al tempo “ ortodosso”; secondo il rito cattolico greco-bizantino.

La soluzione di questa secolare vicenda raggiunge l’inizio della soluzionwe nel 1742 con l’intuizione di Samuele Rodotà di San Benedetto Ullano, che con l’istituzione del Collegio Corsini, consenti di formare nuovi prelati, in terra meridionale, nominati dal vescovo di Bisignano.

Prima nella sede Ullanese sulla sinistra del fiume Crati e poi in quella destra, lungo lo scorrere dello stesso fiume, nel convento di Sant’Adriano nei pressi di San Demetrio Corone, tutto ciò sino alla vigilia dell’istituzione della prima diocesi, dell’Eparchia di Lungro, la quale apre formalmente il colloquio tra le chiese di oriente ed occidente, tutt’oggi legato da un costruttivo e florido confronto.

Al fine di lasciare un impronta indelebile si vogliono porre in essere le seguenti manifestazioni:

  • In occasione si  auspicano di una concelebrazione religiosa pontificale di rito Greco Bizantino.
  • Raduno dei sindaci dei paesi della regione storica, con gonfalone e ragazza vestite in costume tipico
  • Convegno: storia Arbëreshë e le Arche del regno;
  • Mostra “ NAPOLI E L’ORO ARBËRESHË”;
  • Conferenze, tavole rotonde, per la popolazione scolastica della città metropolitana;
  • Conferenze, tavole rotonde, museo archeologico di Napoli;
  • Conferenze, tavole rotonde, nei plessi Universitari;

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IL “CORONAGRIMM 64” DELL’IDIOMA ARBËRESHË NON SI RIESCE A DEBELLARE

IL “CORONAGRIMM 64” DELL’IDIOMA ARBËRESHË NON SI RIESCE A DEBELLARE

Posted on 27 febbraio 2020 by admin

DiogeneaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’ostinata ricerca di favole e racconti locali, riferiti in arbëreshë, senza alcuna attenzione nel comprendere se appartengono ai focolari del territorio o esclusivamente alla minoranza storica, non si riesce ancora a debellare dal 1964.

Nonostante le innumerevoli avvisaglie che avrebbero dovuto far desistere, non tanto i poco formati allievi, ma chi sedeva e aveva il dovere storico culturale a privilegiare, il percorso tracciato dai fratelli Grimm.

Ciò nonostante si è proceduti nel legare il senso delle favole alle parlate, secondo le diplomatiche che consentirono alle nazioni germaniche di sottostare all’innalzato idioma standard.

Tuttavia è poco noto che i fratelli Germanici non partirono dalle favole, per tracciare una lingua unitaria, ma dal corpo umano e gli elementi naturali comuni, in altre parole tutto ciò che consentiva la vivibilità sul territorio, o meglio vita condivisa tra uomo e natura.

Questo è un dato rilevantissimo che è sfuggito a chi si è adoperato in questa disciplina, presumibilmente, si può ipotizzare che nella foga di voler primeggiare essi non hanno  neanche terminato di leggere la frase, che descriveva, l’operato dei fratelli germanici, incentrato tra ambiente costruito, quello naturale e l’uomo.

Una distrazione imperdonabile misura e il valore, di quanti da un numero di decenni superiore alle preziose dita di una mano, imperterrito non smette di produrre danno e seminare inutili diplomatiche come facevano i romani.

Esiste un principio secondo il quale le radici danno linfa, solidità del tronco di un albero e i rami con le foglie forniscono il giusto equilibrio energetico per tutelare il sistema vitale.

Se si comprende questo principio, si è in grado di dedicarsi a progetti di una tutela condivisa, altrimenti si finisce di emulare modelli alloctoni che non hanno alcuna referenza, per sostenere nel tempo, la solidità di un idioma privo di segni e tomi condivisi.

Il dato, lascia a dir poco perplessi, se non basiti, vista la distrazione storica degli addetti, nel tralasciare elementi fondamentali, per una ricerca svolta secondo i canoni della progettualità.

Essi sono la fase: ricerca, preliminare, definitiva e in ultimo l’innalzamento esecutivo sul territorio.

Quanti sino a oggi si sono adoperato per produrre elementi utili in campo linguistico, letterario, storico, sociale, antropologico, urbanistico e architettonico, all’interno della regione storica arbëreshë,  senza seguire i protocolli storici, non ha fatto altro che produrre inutili focolai di contaminazione.

Come si può ritenere utile o legare le caratteristiche di una popolazione che tramanda il proprio essere con la sola forma orale, immaginando come legante della regione storica dove essi vivono le favole del focolare.

Una teoria priva di senso, che se mai voglia essere per pena, presa in considerazione può assumere eventualmente il ruolo di ambito “ultra, ulteriore”, il che la pone molto distante dal “citeriore“ di una lingua antica.

Una lingua per essere analizzata compresa ed eventualmente tutelata, la si deve scanzire iniziando da presupposti storico identitari, per poi muoversi secondo le tematiche di progetto; avendo come prioritari la figura umana e l’ambiente?, mi spiego; se una radice linguistica si vuole attribuire a una minoranza storica, essa deve partire non dai racconti del focolare che è un adempimento di necessità secondario e ben lontano dalla sua origine, ovvero, la descrizione e al modo di appellare il corpo umano; Apparati, Organi e Sistemi, ben legati alle opportunità che offre l’ambiente naturale per la sopravvivenza”.

Una teoria che nasce secondo i canoni storici del progetto e in specie gli architetti adoperano e senza di esse non segnano arche, per evitare sconcertanti e inopportuni adempimenti, a favore degli usufruitori, per evitare di  rendergli nuove pene e disagi.

Questa è la radice, questo è il suo cuore, questi sono i suoi sensi di origine, le favole e le altre musiche culturali, lasciamole a quanti fanno valje in forma di ballo, gjitonie come il vicinato, rioni e quartieri, immaginando ancora che gli Arbëreshë sono gli odierni Albanesi e non non sanno dei valorosi Arbanon.

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L’ATTO DELLA VESTIZIONE E DELL’APPARIRE “ME STOLJTH”

L’ATTO DELLA VESTIZIONE E DELL’APPARIRE “ME STOLJTH”

Posted on 18 febbraio 2020 by admin

jaku i sprischiur su harruaU.K .(di Atanasio Basile Pizzi) – Quando si indossa uno dei vestiti nuzioli caratteristici delle macroaree della regione storica Arbëreshë, è indispensabile, a meno di non voler giocare con le proprie radici culturali, sapere che quell’atto riassume la storia, il presente e il futuro di un popolo, che rimane legato a un’identità culturale, tramandate attraverso quella vestizione e i conseguenti gesti di portamento.

Avviare una trattazione e indicare cosa sia auspicabile fare e non fare, sarebbe troppo semplice e conveniente per quanti si addobbano, dicendo di vestire “stoljith Arbëreshë” e non lo fanno, anzi, per ogni figura di genere vestita bene, ne corrispondono almeno una dozzina “ghë setë”, senza garbo, coerenza e completezza dell’ apparire.

Il costume tipico è la trattazione di valori cristiani e pagani profondi, un messaggio per lo sposo e le genti della comunità, è credenze in ordine di valori inscindibili.

Il giorno delle nozze, un tempo, rappresentava l’inizio di una nuova generazione, un nuovo gradino aggiunto all’ultimo dove si stazionava, il passaggio di testimone di valori e credenze antichissime; il costume è la vetrina di tali auspici e le movenze davano il senso della vita e la via migliore per affrontarla.

Queste sono state da sempre abbarbicate e sintetizzate nella scelta delle stoffe e dei colori, la manifattura di ogni elemento, ogni piccolo particolare indispensabile a coprire il corpo della donna; essa rappresentava la natura, la terra florida per generare, gli indumenti rappresentavano la storia, ogni suo gesto era messaggio, un invito a produrre ed augurare domani prolifici, per il gruppo familiare che andava a formarsi, sintetizzati dal manufatto che veniva valorizzato dal modo in cui veniva indossato ed esposto.

Zoga, sutanini, gipuni, merletto, Kesa, shiali, le mille pieghe, i ricami, la scelta dei colori predominanti e ogni genere apparato o episodio sartoriale/artigiane indossato è messaggio.

Tali rimangono le gesta di piegare, l’arrotolare o il posizionare le vesti prima, durante e dopo la funzione religiosa.

Ogni cosa ha un senso e un tempo attraverso il quale apparire in forma pubblica o privata, certamente non è coerente ad esempio alzare la zoha davanti al marito, mentre si è sull’altare della chiesa davanti al prete,  l’ “indumento arrotolato”  non  va posto mai pubblicamente in quanto è indice  di fertilità pronta, piacere da condividere, intimità estrema; cosi come non si deve mai, pubblicamente sollevare il “padre” che non deve essere usato con imprudenza, facendo intravedere il bianco candore della “ligna”.

Cosi come le bretelle del “Suttanino” non si devono intrecciare o stare sullo stesso piano di quelle che sostengono la “Zoga” ne tantomeno indossare un “Gipuno” corto che non descriva le linee tipiche della doga pontificale, la stessa sibtetizzata attraverso linee costruite tra la parte sommitale del capo e la costruzione della pettinatura su cui va depositata la “Kesa”.

Questi sono alcuni dei messaggi che il costume tipico Arbëreshë, deve inviare e purtroppo non avendo consapevolezza di cio che esso conserva gelosamente nelle diplomatiche create dai saggi esecutori di quelle vesti, è come possedere una ricchezza inestimabile e nel contempo vivere in un’isola i cui conviventi sono generi che attendono solo di agredirti, al fine di cibarsi delle povere resta.

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Il CANTO GLI ARBËRESHË E IL SUONO DEL PAESAGGIO

Il CANTO GLI ARBËRESHË E IL SUONO DEL PAESAGGIO

Posted on 17 febbraio 2020 by admin

CaptureU.K .(di Atanasio Basile Pizzi) – Trattare l’argomento delle Valje, il loro significato e cosa rappresentato per gli Arbëreshë, che vivono gli ambiti della regione storica è un argomento molto profondo e non si puo concludere nel tempo di un ballo o nel ricordo di una strage a favore di una delle parti antagoniste, iniziata prima e finita proprio dopo Pasqua.

A tal fine sarebbe il caso di approfondire e rendere merito allo “strumento metrico” che regola la parlata e la storia Arbëreshë, sin dalla notte dei tempi.

Di essa ha trattato G. Schiro ritenendola espressione canora condivisa tra generi; Pasquale Scura, che valorizzando il senso puramnente canoro della manifestazione e Vincenzo Torelli  nel suo periodico rendeva merito all’epressione del canto rispetto all’ambientazione, creata da strumenti musicali che li riteneva complementari.

Canto e musica sono gli elementi che oggi producono sensazioni e attivano ricordi, sollecitando i sensi, un tempo per gli Arbëreshë l’ambientazione era l’ispirazione per produrre il canto, ed è per questo che la musica rappresentata la quinta, l’ambito dove operare, festeggiando e ritrovandosi esclusivamente in tonalità canore ispirate dall’ambiente circostante.

Il canto rappresenta il pennello che attinge i colori e rifinisce il quadro, l’unica espressione metrica prodotta negli scenari delle terre da coltivare, nei vigneti da rasodare uliveti da tutelare, un trittico musicale mediterraneo unico per far vibrare le note delle stagioni.

La quinta che ispirava e da il ritmo al canto condiviso sono le vallate assolate, l’ambientazione del luogo di lavoro è la musica, le bracciia le mani, le gambe e i piedi strumenti di lavoro; la voce ispirata da ciò rendeva più dolci le lunghe giornate di operosità, linfa con cui alimentaris ed elogiare o ironizzare il futoro, colmo di domani.

Sono gli studi degli ambiti geografici, l’interazione tra canto, spazio e luoghi, sono essi a stabilire relazioni tra canto, paesaggi e regioni: il canto viene ispitato dalle sonorità e dalle prospettive «paesaggio sono» e identità locale il medium capace di diffondere nello spazio idee, oggetti o rappresentazioni storico/ culturali.

La valjia è tutto questo, canto di genere, accompagnato dalle sonorità  prodotte dalle quinte che la nanura mette a dispone nel corso delle stagioni, in precisi e determinati luoghi.

Ritenere che le vajie siano altro, non è un buon segno di tutela, cosa fare per rendere innoffensiva questa deriva storica è semplice, si dovrebbero attivare dipartimenti le cui fondamenta abbiano come legante indispensabile l’analisi secondo i canoni delle ricerche e solo in seguito di ciò, produrre, concreti e solidi progetti di tutela.

Questo sia in campo canoro come si è acennato in questo breve e poi sia di altri temi, molto più compromessi, di cui si conoscono le ilarità,  preferendo volgere lo sguardo e l’interesse su altro per non fare torto a quanti si sono cimentati senza regole, garbo ed esperienza .

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GJITONIA: L’ INCUDINE E IL MARTELLO PER LA FORGIATURA DEGLI ARBËRESHË

Protetto: GJITONIA: L’ INCUDINE E IL MARTELLO PER LA FORGIATURA DEGLI ARBËRESHË

Posted on 09 febbraio 2020 by admin

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