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LA PARTECIPAZIONE DISCIPLINARE COME FONDAMENTO DEL PROGETTO DI RICERCA

LA PARTECIPAZIONE DISCIPLINARE COME FONDAMENTO DEL PROGETTO DI RICERCA

Posted on 28 novembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ogni progetto di ricerca autentico deve fondare su principi imprescindibile della partecipazione ordinata di competenze multidisciplinari coinvolte secondo il protocollo istituito da Adriano Olivetti.

L’apporto multidisciplinare non può essere ridotto a una semplice somma di saperi, né tantomeno a un mosaico disordinato di contributi, giacché deve, procedere secondo una regia metodologica che sappia valorizzare ogni singola disciplina nel rispetto del suo linguaggio, delle sue finalità e dei suoi strumenti interpretativi.

Solo in questo modo la ricerca riesce a diventare un organismo vivo, nel quale la pluralità delle competenze non genera conflitto o dispersione, ma al contrario costruisce un campo comune di indagine, in grado di rivelare il senso profondo dell’opera o del principio storico che si intende indagare e sostenere nel presente.

La partecipazione deve essere intesa come forma di responsabilità condivisa, non come un terreno di prevaricazioni o di esibizionismo individuale.

Ogni disciplina è chiamata a offrire il proprio contributo non in termini di supremazia, ma di servizio verso l’obiettivo generale del progetto ad uso della comunità.

Ciò richiede un equilibrio delicato, perché ogni competenza possiede una propria dignità e una propria autonomia scientifica che non deve essere sacrificata o compromessa in alcun modo.

Al tempo stesso, nessuna disciplina può aspirare a diventare il perno assoluto dell’intera ricerca, poiché l’eccesso di prevalenza rischia di oscurare gli altri punti di vista e di condurre a interpretazioni parziali o persino distorte.

L’autentica collaborazione scientifica nasce, dunque, dall’ascolto reciproco e dalla capacità di riconoscere i limiti e la forza del proprio campo di studio, integrandolo con ciò che altre prospettive possono offrire.

In tutto deve esse come un arazzo, fatto di fili e trame intrecciate che rendono visibili la prospettiva unitaria della storia

Un progetto di ricerca ben strutturato richiede quindi una architettura metodologica, che stabilisca in modo chiaro le funzioni, i ruoli e i confini di ciascun contributo disciplinare.

Questo non significa irrigidire il percorso, ma costruire una trama ordinata in cui ogni sapere possa esprimersi con coerenza e ordine metodologico, infatti, non il progetto non deve assume il ruolo di una gabbia, bensì una condizione di libertà e, consentire alle diverse competenze di dialogare senza confondersi, di mescolarsi, annullarsi, ma di convergere verso un risultato comune senza perdere la propria identità.

In tale orizzonte, la ricerca diventa un laboratorio di collaborazione, un luogo in cui la pluralità dei metodi si traduce in forza interpretativa e in capacità di leggere la complessità dei fenomeni in ogni forma e grado.

Ogni progetto che miri a comprendere principi idiomatico, storico, artistico, scientifico, sociale e di credenza, deve dunque assumere questo protocollo partecipativo come fondamento.

La storia stessa ci insegna che nessuna opera può essere pienamente compresa attraverso un’unica lente interpretativa, giacché occorre una visione corale che sappia connettere le testimonianze, le forme, i linguaggi e le intenzioni che hanno contribuito a generarla.

Solo così il progetto di ricerca può diventare atto di restituzione credibile e incontestabile, ovvero un modo per restituire al presente la forza e il significato di un’opera del passato, facendo emergere quello che ancora può riverberare nel nostro tempo.

Questa restituzione, tuttavia, non avviene per semplice ripetizione, ma attraverso un processo critico che si nutre di analisi, confronto e interpretazione condivisa.

In conclusione, la partecipazione disciplinare, ordinata, rispettosa e metodologicamente strutturata, rappresenta non solo un requisito etico della ricerca, ma anche delle forze in grado di generare nuovi orizzonti di senso condivisi e non egocentrici.

Essa consente di leggere le tracce della storia, di comprenderne la forza generativa e di trasformarla in conoscenza viva, capace di parlare al presente e di orientare il futuro.

Ogni progetto che ambisce a essere autenticamente scientifico e resiliente, deve partire dalla consapevolezza che nessuno sguardo è sufficiente da solo, ma che proprio nell’armonia dei punti di vista si trova la vera energia della ricerca in forma di ventaglio e non di un tunnel con una stella nel buio profondo.

Vero resta lo stato di fragilità in cui versano oggi gli oltre cento Katundë arbëreşë, la realtà storica e culturale che, per essere intesa come luogo egocentrici di studio e di memoria, perché considerato campo di semina fioritura e raccolto dei privilegiati di ricerca, formazione e tutela identitaria della minoranza diasporica.

Al contrario, ciò che emerge attualmente è un quadro complesso, spesso critico, in cui la tradizione sopravvive più per inerzia comunitaria che per una visione condivisa o istituzionalmente riconosciuta, vedi legge 482/99.

Infatti la condizione contemporanea appare talvolta persino peggiore rispetto a quella che, in epoche passate, bussava alle porte dell’emigrazione e, mentre in quell’epoca storica la diaspora fu una necessità inevitabile, oggi assume una forma più sottile e per certi versi più pericolosa, perché non sempre riconosciuta come tale, mancando sin anche un Giorgio condottiero.

In assenza di una chiara definizione degli orizzonti europei e, di una cornice culturale che comprenda pienamente il ruolo dell’Unione come tutela della pluralità linguistica/storica, si è dato avvio a una diaspora consuetudinaria, lenta silenziosa o a dir poco ambigua.

Non si tratta più della diaspora drammatica e manifesta, che spezzava le famiglie e svuotava i paesi in maniera evidente, infatti oggi è una dispersione discreta, talvolta invisibile, alimentata da processi di omologazione culturale e, da un progressivo indebolimento della coscienza comunitaria.

Si emigra non solo fisicamente, ma anche mentalmente e simbolicamente, nel mentre le radici si fanno fragili, la lingua rischia di diventare un frammento residuale di memoria, e gli echi di credenze e pratiche tradizionali finiscono con l’apparire sempre più come elementi folklorici, non pienamente riconosciuti nella loro portata storica per la sostenibilità identitaria.

Questa condizione presenta tratti inediti nel susseguirsi di eventi e, la diaspora attuale non è dichiarata, né programmata, ma il risultato di un processo graduale che disorienta, il divenire della continuità tra generazioni, di un indebolimento culturali locale, in assenza di una strategia condivisa di salvaguardia.

Ciò che un tempo era il cuore pulsante di un Katundë, oggi sembra ridursi a un residuo di tradizione, spesso evocato ma raramente compreso.

Si parla di identità, ma spesso senza strumenti per definirla; si parla di storia, ma senza luoghi in cui raccontarla e proteggerla, perché tutto è stato manomesso, si parla di artigianato e nessuno sa distinguere gli echi che li identificava.

Il rischio più grande non è solo la perdita di un tassello specifico, ma la perdita del senso di appartenenza, cioè di quella dimensione affettiva, simbolica e comunitaria che fa di un luogo un mondo solido, fatto di tradizione che segna un inizio nel corso del tempo.

Per comprendere la portata del problema, occorre leggere i Katundë arbëreşe come la Napoli che si presenta solo nei tasselli greco e romani, fatta soli di stenopoi e plateai, considerandoli gli archivi viventi della memoria e, questo secondo Francesco Saverio Bruno era colpa della mancanza di cooperazione locale.

Infatti, Napoli dalla via Furcillense sino al mare, come i Katundë arbëreşë collinari non sono solo centri etnici, ma veri e propri laboratori di storia, in cui si intrecciano memoria Greca, Balcanica, Alessandria e di tutto il Mediterraneo, per allestire prospettive di cittadinanza europea allargata e fraternamente condivisa.

Tuttavia, la mancata valorizzazione di questi luoghi ha generato un vuoto epistemologico, giacché, non esistono spazi di ricerca strutturati, non esiste una rete sistematica tra comunità, università e istituzioni, che possa renderli non solo luoghi della sopravvivenza ma luoghi del pensare.

Senza un progetto condiviso, il rischio è che la storia venga ricordata solo come un capitolo concluso, anziché come processo vivo da restituire al presente e tramandare per il futuro.

La sfida oggi non è soltanto quella della preservazione, ma del rivitalizzare e, solo così, si può veramente parlare di tutela instaurando o pianificando un progetto di dialogo con le tipicità e le tradizioni di luogo, per poi fare le domande del presente.

A tal fine servono nuove metodologie, nuovi centri di studio, organizzati secondo il progetto della cultura partecipata, sostenuta da una didattica capace di rendere visibile ciò che oggi è ancora disperso o magari depositato incoscientemente in un cassetto antico che è di chi ha partecipato a un determinato frangente storico.

Per questo, la città come Napoli o i piccoli centri della regione storica diasporica, non devono diventare musei della memoria, ma officine di identità o, luoghi di studio, di formazione, di scambio culturale e di progettazione europea per formare nuove generazioni.

Solo in questa prospettiva, la diaspora moderna non dovrebbe essere vista come destino inevitabile, ma come punto di osservazione privilegiato per comprendere le criticità del presente e avviare percorsi di ricomposizione comunitaria e culturale.

In conclusione, ciò che manca oggi non è soltanto la volontà politica o istituzionale, ma prima ancora una coscienza unitaria della storia, capace di superare le frammentazioni locali e di comprendere che l’identità non può essere custodita in solitudine: essa vive e prospera solo nel dialogo, nella ricerca e nella capacità di riconoscere il proprio valore all’interno del più ampio orizzonte europeo.

Occorre dunque restituire alla capitale e a tutto il suo regno, la dignità che offrono i centri di studio, non per nostalgica conservazione, ma per una rinascita culturale che renda visibile al presente la forza di ciò che il passato ha consegnato ai nostri padri, i quali con saggezza hanno saputo stendere alla luce del sole.

 

Atanasio Arch. Pizzi – A.R.S.A. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

Napoli 2025-11-28 / venerdì

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DA BALCANI DEI GOVERNARIATI AI BALCONI ALBANISTICI

DA BALCANI DEI GOVERNARIATI AI BALCONI ALBANISTICI

Posted on 24 novembre 2025 by admin

GJIROKASTER, ALBANIA - JUNE 07, 2014: Unidentified locals in a street scene at the center of historic town of Gjirokasteron June 07, 2014 in Gjirokaster, Albania. World Heritage Site by UNESCO

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se i Balcani furono lasciati dagli Arbëreşë, adesso non possono fare Balconi per emulare regione storica”; questo proverbio, per gli arbëreshë, non deve essere inteso solo come detto diffuso, ma un paradigma che palesa lo stato in cui si svolgono le cose che dovrebbero essere identità, senza confronto tra la montagna istituzionale e il palco locale.

Di fronte all’immobilismo delle istituzioni tutte, il solitario “Immortale Arbëreşë” è costretto a muoversi lungo percorsi tortuosi colmi di asperità e chine faticose e, farsi carico della tutela dei valori storici, identitari, oltre a difendere la lingua, le tradizioni e la memoria collettiva, racchiuse in quelle cavita o solchi di quella desertica montagna.

Giacché quando le istituzioni non riesce a produrre azione secondo i principi solidali di una genuina montagna, la responsabilità di preservare la cultura, ricade inevitabilmente sui piccoli solchi che generano fioritura, grazie al dolce sudore dei degli operosi e infaticabili cultori di pensiero e, sono proprio questi a rendere l’eco che la montagna si rifiuta di accogliere, nel più chiaro messaggio di appartenenza.

Ed è grazie a queste azioni instancabili che gli abitanti, le famiglie, le parrocchie, le associazioni locali si “imbibiscono” dell’antico valore consuetudinario arbëreşë.

E se l’attenzione si sposta dal piano immateriale, lingua, rituali, usanze, a quello materiale e territoriale, gli spazi abitati, le architetture, i paesaggi, la distanza tra tutela dichiarata e tutela reale si rivela quasi oceanica.

E per gli arbëreşe, il paradigma del “Maometto che va alla montagna” non è solo una necessità, ma è diventato l’unica risorsa di sopravvivenza di quella identità che di giorno in giorno s riverbera sempre di meno.

Infatti, a conferma di questo paradigma, sono stati quasi sempre i singoli professionisti, intellettuali, studiosi, linguisti, ecclesiastici, educatori, ad assumere il ruolo di veri protagonisti (la montagna) della storia arbëreşë, a iniziare dal Settecento fino ai giorni nostri.

Le istituzioni, di ogni ordine e grado, sono rimaste per lo più inerti, osservatrici distante e, incapaci di assumere una responsabilità organica verso la tutela delle attività portate nel cuore e nella mente dei diasporici provenienti dai Balcani.

Se volessimo denunciare o, più cautamente, evidenziare questa sproporzione tra l’azione del singolo e quella istituzionale, il risultato sarebbe evidente: persino la legge 482 del 1999, pur nata per la salvaguardia delle minoranze ma, rappresenta la prova formale di un lassismo sistemico, o forse di una vera e propria deriva istituzionalizzata, o meglio il punto di non ritorno del vivere senza più orizzonti che possano illuminare la memoria.

La norma esiste, ma spesso non viene applicata con efficacia, lasciando che la tutela resti sulla carta mentre la vitalità dei territori e della lingua continua a dipendere dall’iniziativa di pochi, non da una visione collettiva e strutturata, o magari segnando per gli altri che verranno la strada colma di echi da seguire.

Ad oggi non si ascolta nemmeno un principio di una probabile coerenza ma di contro e con metodo, si moltiplicano, teorie e narrazioni che potremmo definire paradossali, scollegate dalla realtà geografica, storica e identitaria sin anche del luogo.

Infatti sono preferiti e proposti teoremi astratti, privi di riferimenti precisi al tempo, al luogo e soprattutto all’appartenenza culturale delle comunità arbëreşe che non vive nei borghi medievali o nelle antiche Hore greche, ma negli articolati Katundë.

È come se i territori fossero evocati solo nominalmente, appellati in modo generico, senza alcuna volontà di riconoscere la loro specificità storica, linguistica e antropologica.

Questa mancanza di coerenza non è solo un errore metodologico ma il segno di una distanza profonda tra la realtà vissuta e le narrazioni istituzionali, che non conosce il valore di città chiusa medioevale e città aperta rinascimentale.

Si parla dei luoghi senza parlare con i luoghi; si parla degli arbëreşë senza coinvolgere le menti più allenate a ricordare, parlare e ascoltare.

Così, mentre si produce un linguaggio burocratico e confuso, i territori concreti con i loro nomi, le loro memorie e le loro ferite rimangono ai margini del discorso ufficiale anzi gli si impedisce di parlare perché non sono abituati a imitare il gallo sopra la montagna inquinata.

Si ricorre sempre più spesso ad appellativi di matrice greca, germanica o medievale, senza verificare la loro reale attinenza storica e collocazione geografica.

Questi riferimenti, applicati in modo arbitrario, finiscono per essere estranei alla storia e all’identità degli arbëreşe e non appartengono né al loro tempo, né ai loro luoghi, né alla loro struttura consuetudinaria.

Come se ciò non bastasse, vengono talvolta copiate idee altrui, senza un’adeguata certificazione scientifica o storico-documentale e magari per necessitò copiare i titoli di tema senza avere un progetto condiviso da porre in essere per andare e salire su quella montagna che ancor non si muove.

Questo processo, privo di metodo e di fondamento, conduce spesso alla produzione di pubblicazioni che non fanno che ampliare la deriva culturale: testi che, anziché chiarire, confondono; anziché costruire, disgregano.

È un fiume di contenuti “contaminati”, privi di connessione con le pieghe della storia, con il vissuto comunitario o con il costruito materiale degli arbëreshë.

Il risultato è una stratificazione di narrazioni improprie che non solo non rappresentano la realtà arbëreshe, ma la deformano, alimentando ulteriormente quella distanza tra istituzione e territorio che ormai ha raggiunto proporzioni preoccupanti.

Oggi siamo letteralmente invasi da statue incappucciate, segnate da emblemi di matrice musulmana, come se questo fosse il volto autentico della nostra memoria.

Ma nessuno ricorda, o forse non vuole ricordare, anche se la porta del maschio Angioino lo dimostra che e la nostra identità non è mai stata rappresentata da un pecorone, docile e lamentoso.

Il nostro simbolo era un drago: nobile, fiero, antico, che nel corso della storia non ha mai smesso di gridare rabbia e dolore.

Loo stesso che resistite nei secoli, portando con sé la memoria di una diaspora, di un sacrificio, di una speranza.

Ridurre tutto ciò a un’immagine passiva e incerta significa oscurare la forza che ha attraversato la storia arbëreşë e significa dimenticare che quell’identità non è sopravvissuta per caso, ma per dignità.

Il simbolo della comunità non è dunque un silenzio rassegnato, bensì un grido che ancora chiede ascolto.

E finché quel drago continuerà a vivere nella memoria dei pochi che lo riconoscono e sanno come valorizzarlo, ci sarà ancora spazio per una narrazione autentica, capace di scuotere la polvere accumulata sui secoli e restituire verità a un popolo spesso raccontato da altri, raramente da sé stesso.

Nel corso degli ultimi decenni si è smarrito il senso dell’essere Katundë non si riconoscono più i suoi colori, i suoi suoni, le sue forme.

Oggi si confonde sempre più spesso il senso dei rioni con la semplice toponomastica e il nome sostituisce il vissuto, in tutto, l’etichetta diventa più importante della memoria.

Si arriva persino a mescolare ciò che accade davanti alla soglia di casa con ciò che viene definito rione, come se tutto fosse equivalente, come se il luogo non avesse più livelli di significato.

In questa sovrapposizione, si perde la misura del parlato e dell’ascolto e, le parole non vengono più accolte né comprese, non arrivano alla mente e, ancor meno, al cuore.

Eppure è proprio lì, nel cuore e nella mente, che il linguaggio dovrebbe dare accesso al sapere, spalancando le porte della conoscenza che i rioni, un tempo, custodivano gelosamente.

Il rione non è solo un nome su una mappa, ma una trama di relazioni, racconti, gesti quotidiani e, quando si confonde la toponomastica con l’identità, si rischia di cancellare la voce dei luoghi e di ridurre la memoria a mera registrazione burocratica.

Si è interrotta sin anche la trasmissione del sapere legato agli atti di vestizione e, non si racconta più il ruolo, il significato di indossare zoha, gupun, merletto, né tantomeno cosa rappresenti e cosa voglia dire, portare con orgoglio una kesa.

Forse queste ultime memorie sono diventate troppo complesse per essere comprese, troppo profonde per essere spiegate con parole semplici.

E allora si preferisce riposizionarle nel comò, dove possano restare intatte, difese persino dalla polvere di chi, passando distrattamente, trascina i piedi a terra senza sapere di calpestare una storia.

Il Katundë non è solo un luogo fisico, ma è universo simbolico, continuamente confuso o scambiato per altro senso di un abito, di un colore, di un gesto rituale, che fa smarrire non soltanto una tradizione, ma una parte consistente dell’anima collettiva.

Oggi, molti si accontentano di termini carpiti, raccolti qua e là, come fossero etichette da applicare alla realtà.

Ci si ferma ai titoli, senza comprendere la sostanza, anche se un termine preso in prestito non potrà mai spiegare né risolvere i percorsi della credenza che, per secoli, hanno attraversato le vie dell’agro.

La fotografia di un luogo o la descrizione di uno stato penoso non bastano a restituire la verità di quei luoghi di segnatura, dove il sudore veniva lasciato lungo il cammino, prima di rientrare a casa, dopo una giornata di lavoro agricolo vissuta come atto di fede e appartenenza.

L’agro non era solo spazio di produzione ma, era spazio di credenza, di ritualità, di relazione con il cielo e con la terra.

Ridurlo a semplice scenario, osservato e descritto da lontano, significa ignorare la sua anima profonda e, quando si perde quella visione, il titolo resta, ma la storia si spegne.

Tutto questo fa sì che la montagna Balcana, un tempo luogo di identità e di resistenza, diventi oggi sempre più un semplice Balcone da cui affacciarsi e osservare da lontano, credendo di poter comprendere la prospettiva di un luogo della storia con un solo sguardo fugace, come se bastasse un titolo o un gesto superficiale per racchiudere secoli di memoria.

In questo atteggiamento si rivela un egocentrismo moderno, dove la convinzione di ciò che si vede da un balcone sia sufficiente per comprendere la vita della montagna.

Ma la montagna non è un panorama, è un vissuto, non è un punto di osservazione, ma un percorso da attraversare, in quanto essa è radice, non vetrina.

E confondere il balcone con la montagna significa trasformare la storia in immagine, e l’identità in spettacolo.

P.S. L’arbëreşë non si insegna, si impara davanti al focolare domestico accompagnati dagli abbracci materni.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-24 / lunedì

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IL PARLATO L’ASCOLTO E IL CANTO DEGLI ARBËREŞË PENA E STORA DI ALFABETI INUTILI

IL PARLATO L’ASCOLTO E IL CANTO DEGLI ARBËREŞË PENA E STORA DI ALFABETI INUTILI

Posted on 19 novembre 2025 by admin

AbbbbbNAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Le società sono state plasmate, nel corso della storia, più dalla natura che dalle cose inventate dall’uomo per riportare espressioni scritte che fanno memoria.

L’alfabeto e la stampa hanno favorito un processo di frammentazione, basato sul distacco e sull’analisi dei singoli elementi parlati che dovevano essere identificati da una lettera.

Questo dato di lettere e alfabetari del parlato, rappresenta, la deriva che assale gli arbëreşë che non sanno e non riescono ad affiancare al parlato lettera e inflessione unitari.

A peggiorare questo fenomeno si sono aggiunte, le tecnologie dei lampi elettrici, che non danno costanza quella sostanza luminosa indispensabile a unificare parlato col lo scritto e, per questo motivo, diviene impossibile comprendere i mutamenti culturali senza ragione specifica e sociale.

Gli studiosi della comunicazione hanno sottolineato unanimemente che i media attraverso i quali oggi l’uomo comunica, influenzano il suo modo di pensare e, di conseguenza le società in cui vive.

Se volgiamo lo sguardo al passato prossimo e remoto del mondo della comunicazione, possiamo riconoscere tre grandi rivoluzioni che hanno segnato momenti decisivi nella storia dell’umanità.

La prima è la rivoluzione chirografica, nata con l’invenzione della scrittura nel quarto millennio a.C., che ha permesso di fissare il pensiero su un supporto stabile e di tramandare conoscenze in modo duraturo. Successivamente, la rivoluzione gutemberghiana, resa possibile dall’invenzione della stampa, a metà del quindicesimo secolo, dando così un nuovo impulso alla diffusione delle idee, permettendo la circolazione dei testi su larga scala e favorendo l’espansione delle conoscenze.

Infine, la rivoluzione elettrica ed elettronica, avviata con l’invenzione del telegrafo e proseguita con la nascita della radio e della televisione, che ha introdotto modalità di comunicazione sempre più rapide, immediate e interconnesse, modificando profondamente il modo in cui le persone percepiscono il tempo, lo spazio e la realtà sociale.

Queste trasformazioni non hanno solo cambiato i mezzi di comunicazione, ma hanno influenzato anche il pensiero, la cultura e l’organizzazione delle società, segnando tappe fondamentali nell’evoluzione del rapporto tra uomo, informazione e memoria.

Alla luce degli strumenti di comunicazione che sono stati utilizzati nel corso del tempo, possiamo distinguere almeno quattro tipi di culture che si sono succedute negli ultimi sei millenni.

La prima è la cultura orale, che trasmette le conoscenze esclusivamente attraverso la parola parlata e la memoria collettiva.

A questa si è affiancata la cultura manoscritta o chirografica (dal greco kheir = mano e graphon = scritto), che fa uso della scrittura, una tecnologia silenziosa della parola capace di fissare il pensiero e conservarlo nel tempo.

Successivamente si è affermata la cultura tipografica, basata sul libro stampato, che ha reso possibile una diffusione più ampia e rapida del sapere.

Infine, si è sviluppata la cultura dei media elettrici ed elettronici, nella quale le informazioni vengono trasmesse in maniera sempre più massiccia e veloce tramite la televisione senza alcuna vergogna.

La conseguenza più evidente di queste rivoluzioni è stata l’aumento progressivo della velocità con cui circolano le informazioni, una velocità spesso marginale, utile solo a coprire il tempo della loro apparizione, ma raggiunta a costi e con modalità sempre più ridotti.

Questo itinerario storico, per gli arbëreşë, trova un emblema simbolico nel corso della storia specialmente dei due primi riferiti e, il gesto ricordato da tutti gli storici di Pasquale Baffi che, poco più che adolescente, scagliò il calamaio pieno d’inchiostro e il pennino contro il suo maestro di greco poco attento a suo divulgato.

Secondo Baffi, infatti, quell’insegnante era impreparato e privo di una formazione adeguata e, all’epoca, la regione storica sostenuta dagli arbëreşë, viveva una condizione culturale particolare, infatti si utilizzavano pergamene a doppia faccia, in cui la parte interna, destinata alla lettura del sacerdote, durante la messa, era scritta in greco, mentre chi assistevano alla celebrazione potevano osservare sul retro le immagini realizzate nello spazio esterno dell’opera arrotolata.

Nonostante ciò, gli arbëreşë, continuarono ancora per molto tempo a tramandare storia, fatti e memorie attraverso il canto e le rime, facendo della tradizione orale un veicolo essenziale di conservazione dell’identità e della memoria collettiva.

Sempre Pasquale Baffi, nel 1774/75/76, analizzò il parlato arbëreşë e mettendolo a confronto con le lingue indoeuropee, nel tentativo di individuarne una radice comune da cui potere avviare una forma scritta.

Al termine del suo lavoro comparativo, redatto interamente a mano, non poté stamparlo in Italia, poiché le rotative di tipo gutemberghiano, non disponevano ancora di tutti i caratteri necessari, grechi e latini.

Fu quindi costretto a inviare i suoi scritti nel Nord Europa e, mentre a Napoli egli subiva la pena di “Piazza Mercato”, il suo fidato collaboratore, che in realtà non era tale, stampava più volte, dopo la sua morte, il discorso senza comprenderne il significato profondo di quella comparazione storica, che rimane unica e ignota ancora oggi.

Quegli scritti, copiati a mano, venero letti dai non formati e, nessuno fu in grado di interpretare il loro reale valore storico e linguistico, spesso travisato o frainteso dallo stesso compagno di banco, copiatore discolo stolto e introverso.

Quando poi, nell’Ottocento e fino ai giorni nostri, ebbe inizio questo lungo calvario, molti portarono al collo la lettera “A”, senza conoscerne il significato profondo che rappresentava, vagando tra innumerevoli edizioni e figure parlanti tutti a fare processione della “zeta perduta che ancora oggi nessuno conosce”.

Questo percorso ha offuscato il valore autentico della radice della lingua arbëreşe, che non si fonda sui modernismi noti a tutti, ma su parametri essenziali: essa parte dal corpo umano, nomina le cose naturali indispensabili alla vita e trova forza nel canto, nella rima e nelle favole, che ne custodiscono la memoria.

Da qui prende avvio la storia degli olivetani, ma non quelli che nascono arbëreşë e mantengono viva la loro identità, ma di coloro che siedono dietro una scrivania o salgono sul palcoscenico, immaginando che “arbëreşe” sia un titolo da conquistare, e non una condizione di chi vi nasce e la vive nel quotidiano con senso passione e dovere.

Un’altra difficoltà è stata quella di aver letto le opere dei fratelli Grimm, ma di averne compreso solo in parte il significato, perché letto solo le prime die righe del capitolo.

E quanti credevano di aver capito il senso del metodo germanico, si fermò al semplice postulato delle favole, senza leggere fino in fondo e cogliere la chiave della loro opera.

Da ciò nacquero, gli scrittori arbëreşë, una disciplina alla ricerca della favola più antica, come se in essa potesse celarsi la “zeta perduta”, o quelle lettere magiche a unissero definitivamente parlato e scrittura.

Personalmente preferisco definirmi un arbëreşë parlante e non un arbërishtë scrittore e, la mia lingua materna vive nella voce, nei gesti, nelle intonazioni, nei racconti ascoltati in casa. È fatta di memoria e di respiro, non di regole e di ortografia.

Non ho il bisogno, né forse il diritto, di inventare una scrittura che non appartiene davvero alla nostra storia. Se proprio dovessi costruirla, sembrerebbe una lingua adagiata su una terra parallela: quella da cui i miei avi furono costretti a fuggire.

Per questo, scrivere in italiano mi sembra più dignitoso che tentare un latino o un greco reinventato, almeno così dimostro coerenza con ciò che mi ha formato: le vicende del passato, le radici che mi hanno cresciuto, le voci che hanno nutrito la mia memoria.

Sono arbëreşë perché sono stato formato con la saggezza della casa, fuori la soglia di casa, dentro la chiesa che fa Katundë arbëreşë e scrivo solo l’essenziale, perché è qui che ho ascoltato le parole che hanno valore per continuarle a sostenere vive.

Per questo non cerco lo scritto del llitirë, non mi interessa costruire un alfabeto artificiale, ma preferisco custodire ciò che resta vero e spontaneo nel parlato.

La mia identità non è sulla pagina di quel calamaio scagliato, ma è nell’eco di una lingua che vive ancora fra le nostre mura, nei saluti, nei proverbi, nei silenzi condivisi e più di ogni altra cosa non mi considero uno scrittore di arbërishtë: sono un testimone parlante di ciò che ci ha reso e ancora oggi ci rende vivi.

Non sono un prodotto di quella deriva senza respiro, “che vegeta in fondo al mare a bruciare”, come dicevano le nostre madri, quando si facevano cose inconsulte o di termine, senza vergogna, le stesse che lasciavano un problema vergognoso irrisolto, è il legame disgiunto che seminano alcuni, quando parlano, cantano, suonano e scrivono poesia senza rispetto della diaspora e l’impegno preso dai nostri avi in esilio.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-18 / martedì

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INQUADRAMENTO STORICO DELL’ABITATO DI SOFIA IN GHATHARVETË ARBËREŞË

INQUADRAMENTO STORICO DELL’ABITATO DI SOFIA IN GHATHARVETË ARBËREŞË

Posted on 03 novembre 2025 by admin

GHAT

NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Per tracciare il percorso storico di questo Katundë, seguendo le tappe di terra in soglia, è necessario volgere lo sguardo al suo cuore più antico, quel nucleo silenzioso dove il tempo sembra aver rallentato il passo.

È qui, che tra le vie che ancora custodiscono l’eco dei primi passi e il respiro delle pietre consumate, si dischiude il centro originario, avvolto dallo storico camminare che ne delinea il perimetro come un abbraccio materno colmo di sacralità.

Solo attraversando questi tracciati fatti di braccia tese e pronte ad avvolgere stringere con le mani aperte e, ogni sensazione si può avvertire, se in grado di ascoltare l’anima di questo centro antico, oggi segnato dalla toponomastica storica, che lo rende luogo sospeso fra passato e divenire, dove ogni svolta espone il suo contributo, ogni luogo di sosta è una mano aperta e sin anche le ombre, qui conservano segni di luce.

Tracciare il confine del centro antico del Katundë Terra di Sofia, significa misurare non tanto lo spazio, quanto il respiro di una memoria antica più volte rinnovata.

I punti e le arche che lo definiscono non sono soltanto segni di pietra o di calce, ma nomi che sussurrano, il luogo che custodiscono con la sostanza del tempo.

Essi si appellano Chiesa, Strada Grande, Luogo dei Frammenti, Cancello, del Pascolo o della Lavorazione, Strada verso l’Alto, il Promontorio e Strada verso il Basso.

 Questi tutti assieme formano un abbraccio chiuso dove si raccoglie l’intero ciclo dell’esistenza in forma di fede, lavoro, ascesa, ritorno, soglia e apertura a nuove accoglienze.

Tradurli in arbëreshë è impresa ardua, in quanto la lingua dei padri non conosce la freddezza dei modernismi, né accoglie con facilità gli appellativi che si spingono oltre la sfera intima e domestica.

Ogni parola, in quell’antico idioma, è un gesto d’anima, un soffio che appartiene al mondo privato più che alla mappa del visibile.

Così, chi volesse dar luce a questi nomi, chi cercasse la corrispondenza tra la lingua e la pietra, dovrebbe spingersi fino a Napoli, là dove si conserva, ancora, la scienza del ricordo e la misura delle antiche parlate. Solo lì, forse, un lume potrà rischiarare l’ombra di queste parole, e il viandante potrà comprendere che ogni nome è un frammento d’identità, ogni strada una preghiera rivolta al tempo.

In questo abbraccio, disegnato in forma di arche e mani aperte, si compiono gesti antichi che fanno Katundë, che poi non è altro un invito all’unione, al confronto e al muoversi assieme.

Le sue pietre, disposte come dita che si tendono verso l’altro, raccontano un cammino di incontri, non di conquiste.
Qui gli indigeni offrirono ospitalità ai Bizantini,  Cistercensi che portarono il rigore della loro fede e dell’opera, poi vennero gli Arbëreshë, riecheggiando il loro parlato come un canto di memoria.

Ognuno lasciò un segno, ma nessuno impose il proprio e, tutti si riconobbero parte di un disegno più grande, dove la diversità divenne forza e la differenza, armonia.

Così, nel circoscritto silenzioso del centro antico, si legge una lezione che non conosce tempo e, dove la civiltà non nasce dominio, ma l’ascolto reciproco, non l’eccesso, ma la misura, non la forza, ma il desiderio di migliorarsi insieme, come mani che si stringono nel rispetto del comune destino.

Resta, come un’impronta di luce sulla pietra, la traccia di questa terra riflessa viva, fertile e, indomita.
Dopo una parentesi di confronto e colma di vicissitudini naturali durate sino al XVIII secolo, anno di arrivi le sue genti hanno sostenuto questo Katundë hanno generato cultura e uomini capaci di donarsi senza misura, animati dal desiderio di rendere il Meridione un luogo più giusto, più colto, più umano.
Mentre il centro antico cresceva come un cuore pensante, divenendo crocevia di credenze, di saperi e di gesti tramandati, lì si elaborava una sapienza locale, nutrita di lingua arbëreshë, parlata come una preghiera e scolpita come un atto d’amore verso la propria origine.

In quella lingua non si discuteva: si meditava e, ogni parola era un ponte fra terra e spirito, fra l’esperienza quotidiana e il mistero dell’essere.

Eppure, a distanza di secoli, un dubbio ci raggiunge e ci inquieta: quando gli Arbëreshë parlavano, chi li ascoltava davvero?

Chi era in grado di comprendere quei concetti così alti, così protesi verso il futuro da sembrare, ancora oggi, parole non completamente afferrate?

Forse pochi e, solo coloro che avevano ancora l’orecchio rivolto all’essenziale, al ritmo della natura e alla voce dell’anima, mentre gli altri, forse, udivano soltanto suoni esotici, senza cogliere il pensiero che vi ardeva dentro: un pensiero che non si imponeva, ma invitava; che non dominava, ma insegnava a vedere con occhi nuovi.

E così questa terra, pur appartata, si fece culla di un pensiero luminoso, di un umanesimo meridiano che nessuna dimenticanza potrà cancellare.

Un pensiero che ancora oggi ci parla, se abbiamo la pazienza di ascoltare, come si ascolta un vento antico che passa tra le pietre, portando con sé il segreto di chi seppe parlare prima che il mondo imparasse a capire.

Un centro antico rigenerato dagli Arbëreshë non è solo pietra e memoria, ma rappresenta una soglia incantata, un respiro che accoglie.

Le sue vie sembrano disegnate per ricevere e restituire amore, e ogni cuore che vi si posa diventa parte di un ritmo comune, un battito solidale che unisce chi resta e chi è partito.

Qui tutto vive di un’armonia segreta, dove l’antico e il nuovo si abbracciano come fratelli che si riconoscono dopo un lungo cammino.

Le soglie di un Katundë sono fatate perché non separano, ma congiungono, le linee di luce fioca del camino e quella del sole e quando si incontrano la nostalgia e la speranza, la lingua del passato e il silenzio del presente e sempre li pronta ad ascoltare.

Ogni passo dentro questo cerchio di case e memorie rinnova il voto della fratellanza, il desiderio di una vita comune fatta di gesti semplici, di rispetto e di tenerezza condivisa.

E noi, che siamo partiti, portiamo questo lume nel cuore, consapevoli di appartenere a una terra che non ci abbandona, e a un amore che non si disperde.

È a noi, figli lontani ma fedeli, che spetta il compito di affermarlo con voce chiara e, senza vergogna che siamo innamorati, che non tradiremo per nessuno e in nessun dove quei luoghi di passione senza eguali.

Perché Katundë non è solo un paese, è un sentimento che non muore, una soglia eterna dove ogni ritorno è un atto di verità.

Naturalmente, questo è un dono, un vantaggio per chi, discendente di quella stirpe luminosa, diventa olivetano e vive a Napoli.

Qui, nei vicoli dove il sole si rifrange sui portali antichi e l’eco dei passi si confonde con il respiro delle botteghe, come i riverberi dei Katundë si amplificano e prendono nuova forma.

Ogni strada del centro storico sembra custodire un riflesso della terra madre, un accento della lingua perduta, un gesto d’artigiano che reca ancora nel polso la grazia arbëreşë.

Lungo le pieghe che scendono dalla via Furcillense verso il mare, la memoria diventa vento salmastro.
Si respira la stessa vocazione al mescolarsi, al farsi ponte tra oriente e occidente e, quel mare, che i nostri avi Arbëreşë benedissero con parole di fiducia e con mani alzate al cielo, rimane oggi simbolo di un miracolo mediterraneo e, l’integrazione più solida, gentile che la storia di queste terre abbia conosciuto.
Un esempio nato dal contatto, non dalla conquista, dall’ascolto, non dal dominio e da queste rive, che si allungano verso levante, fino a lambire idealmente le sponde del Gange, dove risuona ancora il messaggio dei padri: che ogni approdo è una rinascita, e ogni incontro è una forma di salvezza.

Così Napoli, figlia del mare e madre di accoglienza, si fa custode dei riverberi arbëreşë, amplificando nel suo grembo urbano la lezione più antica, secondo cui, nessun popolo si eleva da solo, e che solo nel riconoscersi l’uno nell’altro nasce, la civiltà che resiste alle cose e al tempo.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-03 – Lunedì

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UN ARBËREŞË ADOTTATO DALA DEA PARTENOPE NEL MOMENTO DEL BISOGNO satë mëbàmj mendë mëmenë

UN ARBËREŞË ADOTTATO DALA DEA PARTENOPE NEL MOMENTO DEL BISOGNO satë mëbàmj mendë mëmenë

Posted on 28 ottobre 2025 by admin

Mamma2NAPOLI (di Atanasio Pizzi arch. Basile) – Era l’aprile del 1985 quando decisi di fare ritorno a Napoli, la città che avevo lasciato con il cuore pieno di speranze, nostalgie e promessa data.

Vi tornai con l’intento di ricostruire una casa e una famiglia insieme a mia moglie e a mio figlio, portando con me il bagaglio delle esperienze e delle fatiche accumulate sino ad allora.

Le stesse che non furono semplici da esternare e non furono anni semplici, se poi aggiungo che in poco tempo persi molti dei miei antichi punti di riferimento, quei legami che avevano segnato la mia giovinezza e dato forma alle mie prime certezze, la salita che dovetti affrontare non fu solo quella della sapienza ma di molte altre battaglie sociali.

Per questo, per almeno due decenni, non mi voltai indietro a guardare e, Napoli, mi accolse come una madre ritrovata.

Partenopee mi offrì solo il suo seno generoso, ma apri tutte le su strade migliori, nutrendomi di cultura, di arte e di umanità.

Fu grazie a lei che trovai il coraggio e la forza di rinascere, di formarmi lentamente nelle botteghe dell’architettura, dalle scuole e dalle maestranze li nella “Furcillense Via” fino alle esperienze che mi avrebbero condotto oltre quei confini, verso nuove scoperte nutrizionali di cultura, sapere e titoli.

Inizia così un percorso di crescita parallelo a quello universitario, portato moralmente a termine ma non certificato per un esame mancante e la via fu quelle delle botteghe più prestigiose dell’architettura e del restauro della scuola Napoletana.

Tra il profumo della calce e il rumore del ferro battuto, si forma lo sguardo di chi impara che l’architettura non è solo progetto, ma gesto, materia, tempo.

Le giornate si susseguono tra tavole da disegno e cantieri storici, dove ogni muro racconta una stratificazione di vite.

È qui, nel cuore vivo della città, che la teoria incontra la pratica, e la conoscenza accademica si misura con la concretezza del mestiere.

Questo stato di cose hanno innalzato, un destino intrecciato tra memoria e vocazione e, mi condusse, quasi naturalmente, a frequentare le storiche botteghe di architettura napoletana e, tutte luoghi dove il tempo sembrava essersi fermato, sospeso tra il respiro delle pietre e il suono delle matite che graffiavano la carta da lucido.

Entrare in quelle stanze era come varcare una soglia invisibile e, il mondo di fuori restava lontano, e dentro si parlava un linguaggio antico, fatto di proporzioni, di luce e di silenzio.

Sin da ragazzo, avevo stretto un patto con mia madre, un patto semplice e assoluto, come sanno esserlo solo le promesse fatte col cuore, per rendergli merito a tutto quello che gli altri non gli avevano dato, ovvero: onorala con un titolo.

Un titolo da conquistarne e che potesse rendere giustizia ai suoi sacrifici, le sue speranze, ed è stato quel voto, più di ogni altra cosa, a guidarmi lungo gli anni della mia formazione, nei corridoi umidi delle accademie, tra i cantieri e le carte ingiallite di biblioteche dimenticate.

Tuttavia anche se, la strada fu lunga e aspra, per quasi due decenni patii la fatica del mestiere e della ricerca, muovendomi tra archivi da restaurare, biblioteche da salvare, palazzi nobiliari da risanare.

In ogni lavoro cercavo non solo la cura della materia, ma anche una forma di guarigione ambientale, come se ogni muro riportato alla luce potesse lenire una ferita mia, o del mondo.

Ho lavorato nelle case private dei collezionisti, nelle botteghe degli artigiani, dove ancora si respirava il profumo del legno, della colla di pesce, del ferro battuto.

Erano maestri veri, uomini e donne che avevano nelle mani la sapienza di generazioni e tutti mi accolsero come un apprendista, e forse lo sono rimasto per sempre, un apprendista del tempo e della materia.

La mia tesi di laurea fu essa stessa un atto d’amore verso quel mondo e, la discussi due volte: la prima, il 28 marzo del 1987, insieme al mio collega, come un’opera condivisa; la seconda, da solo, il 20 ottobre del 2004, per conquistare finalmente il titolo che avevo promesso.

In quel momento, più che un traguardo, mi sembrò di mantenere fede al giuramento fatto a mia madre, e forse, in fondo, era proprio questo il vero senso di tutto quel cammino.

Una madre che riconosce ai propri figli la stessa passione non è soltanto una donna, ma un principio antico e, in lei si rinnova il gesto della Dea che allatta, che nutre senza distinzione, vedendo in ogni creatura la stessa scintilla del mondo.

Così era mia madre e, così l’ho sempre sentita, partecipe di un destino più grande del suo, custode di una fiamma che non brucia ma scalda, e che passa di mano in mano, di cuore in cuore.

Come la terra, che accoglie e non domanda, ella non risparmiò né amore né fatica e, le sue mani, pur segnate dal tempo, erano sorgenti di forza.

Essa non conosceva l’egoismo del possesso, ma la gioia del dono, quella che si rinnova ogni volta che qualcuno impara, cresce o trova il proprio posto nel mondo.

Nel mio cammino tra archivi e botteghe, l’ho vista riflessa in molte altre madri, alcune reali, altre simboliche delle donne che vegliavano sui loro figli o sui loro allievi, su giovani apprendisti o su ragazzi perduti, restituendo senso a esistenze altrimenti disperse.

Madri che, come la Dea antica, nutrivano anche chi non aveva più una madre, accogliendo nel grembo del sapere, dell’arte o della cura chi cercava un’origine nuova.

E forse è proprio questo il mistero più profondo dell’essere una madre, partecipare, ed essere ovunque come un seme che cresce, un errore che si perdona, una speranza che si accende.

Nella sua semplicità, mia madre incarnava tutto questo e, ancora oggi, quando entro in una bottega, o quando mi chino su un muro da restaurare, mi pare di sentirla accanto, la sua voce calma, il suo sguardo che non giudica ma incoraggia, come a dirmi: “Ricorda, ogni gesto che ricostruisce è un atto d’amore e, ogni cosa che torni a vivere è un figlio che rinasce.

 

Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-10-28 – Martedì

 

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COLLEGIO CORSINI FOCOLARE DI CREDENZA E FORMAZIONE DI CALABRIA CITRARA (thë nëdijturatë i thë fijaituratë ka Shën Sofia)

COLLEGIO CORSINI FOCOLARE DI CREDENZA E FORMAZIONE DI CALABRIA CITRARA (thë nëdijturatë i thë fijaituratë ka Shën Sofia)

Posted on 18 ottobre 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando la diocesi di Thurio, all’epoca del tramonto di Sibari fannullona, venne suddivisa nelle circoscrizioni ecclesiastiche di Sammarco e Bisignano, Cassano, Rossano, Anglona e Tursi, dalle quali dipendevano spiritualmente gli arbëreşë di Calabria, Basilicata, si aprì cosi una nuova fase nella storia religiosa e culturale del territorio citeriore di Calabria.

In questo contesto, a Bisignano era un convento di formazione clericale di rito latino, destinato a formare il clero locale secondo le direttive della Chiesa Romana.

Questa fondazione rappresentò un momento decisivo per la riorganizzazione della forza ecclesiale e per la diffusione di nuove forme di sapere religioso e culturale, che andarono progressivamente a innestarsi nelle comunità già radicate sul territorio, comprese quelle arbëreşë.

L’istituzione religiosa ebbe implicazioni politiche, sociali e culturali, influenzando le modalità di integrazione e di convivenza tra riti, comunità e identità differenti.

Per dare agio e stabilità ai giovani clerici in formazione, la Chiesa avviò un importante progetto di organizzazione degli spazi destinati all’istruzione religiosa.

Nel 1595 venne edificato a Santa Sofia Terra, il Palazzo Arcivescovile, destinato a ospitare le attività formative e spirituali delle giovani leve ecclesiastiche nei periodi estivi, visto il clima mite rispetto la sede di Bisignano.

Si trattò di una scelta strategica, la posizione del palazzo favoriva il controllo e la guida del territorio, creando un centro di riferimento per la formazione del clero di rito latino.

Successivamente, nel 1625, venne allestita un’altra sede a San Benedetto Ullano, con simile funzione, offrendo ambienti adatti allo studio e alla vita comunitaria.

Queste due sedi estive di formazione, strettamente collegate, alla sede di Bisignano costituirono i pilastri su cui si svilupparono formazione religiosa e civile locale.

I due presidi di permanenza estiva contribuirono non solo a creare nuove basi per generazioni ecclesiasti, ma anche a plasmare le relazioni tra il clero latino e le comunità arbëreşe nel territorio, incidendo profondamente sulla storia religiosa e culturale delle due macro aree citeriore.

Va inoltre sottolineato che, questo avvenne a seguito del Concilio di Trento, conclusosi alla fine del XVI secolo quando, le diocesi ebbero maggiore libertà nell’unificare la propria pratica religiosa e la credenza alla Chiesa di Roma.

Questa scelta politico-religiosa ebbe ripercussioni profonde nelle comunità arbëreşe, che fino ad allora avevano custodito in autonomia il proprio patrimonio spirituale di rito bizantino.

L’imposizione dell’uniformità liturgica e dottrinale creò difficoltà identitarie e, molte comunità furono costrette ad adeguarsi alla nuova linea romana, spesso contro la propria volontà, che ebbe modo di annebbiarsi.

Anche quando continuarono a praticare i propri riti tradizionali, lo sguardo venne obbligato a mirare verso Roma, che divenne simbolo di una pressione costante, segnando per lungo tempo i rapporti tra la Chiesa Latina e le comunità di rito greco-bizantino.

Questa frattura culturale e spirituale avrebbe accompagnato la storia arbëreşë per secoli, intrecciandosi con i processi di integrazione e resistenza identitaria che ne hanno plasmato la memoria collettiva.

Questo stato di imposizione religiosa, non rimase senza conseguenze e, nel corso del tempo generò una profonda deriva nella vita spirituale e comunitaria nei Katundë.

Dove le pratiche tradizionali, stratificate da secoli e legate alla ritualità bizantina, si trovarono improvvisamente in conflitto con le direttive romane, che terminarono di non essere più fondamentali.

A testimoniare questa situazione fu Giuseppe Rodotà, originario di San Benedetto Ullano e attento osservatore del mondo arbëreşë, che relazionò al Papa lo stato di “deriva malsana” in tutte le comunità.

Il Rodotà descrisse con lucidità la frattura tra fede imposta e credenza vissuta, sottolineando come nei Katundë si fosse creata una condizione di disorientamento e sfiducia nei confronti dell’autorità ecclesiastica centrale.

Secondo Rodotà, questa crisi di coesione spirituale e comunitaria rendeva necessario assumere una misura decisa e concreta, capace di ricomporre le tensioni tra Roma e le comunità arbëreşë per, restituire equilibrio a un tessuto sociale e religioso profondamente turbato.

La fondazione del Collegio italo-greco in S. Benedetto Ullano avvenne, dietro le vive e ripetute istanze di Felice Samuele Rodotà (che ne fu anche il primo Vescovo Presidente), che vennero ben accolte dal Papa Clemente XII con Bolle 11 ottobre 1732, 1° luglio 1734, 19 aprile e 10 giugno 1735 e 1° aprile 1736, che non incontrarono il compiacimento e, vennero subito avversate dai quattro vescovi ordinari latini delle Diocesi su citate, dalle quali dipendono spiritualmente gli Albanesi di Calabria e Basilicata.

Le stesse diocesi che hanno sempre ostacolato ed avversato anche il rito greco, e tale avversione moveva da diversi motivi, prima di tutto per essere il Collegio una Diocesi in Diocesi; in secondo luogo perché quei quattro Vescovi latini avevano visti scemati la loro autorità ed i loro guadagni, dovendo i chierici di rito greco essere ordinati dal loro Vescovo nazionale.

Infatti perché i sacerdoti di rito greco, illuminati, morali ed abilitati al matrimonio, divennero ben presto un ottimo elemento nella società, fecero temibile concorrenza nell’insegnamento privato ed ufficiale e brillarono nella carriera ecclesiastica.

Ma poiché quelle due istituzioni erano sostenute dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide, non pure per la conservazione del rito greco in Italia e, per l’istruzione degli arbëreşë, così i pre accennati quattro Vescovi Latini e gli Ordini monastici da loro dipendenti, misero in opposizione le superiori Autorità della Chiesa, pur celando l’odio contro il rito greco, allorché trattavasi di eleggere il Vescovo greco di S. Benedetto, di farne cadere la nomina sopra persona della loro Diocesi o di loro gradimento, lavorando e comperandosi, già s’intende, ognuno per conto proprio.

Infatti nella scuola di formazione civile ed ecclesiale di san benedetto Ullano a dare la valutazione finale per i voti ecclesiali era il vescovo della diocesi di Bisignano, che ne valutava orientamento e valore di credenza.

E’ per vero che, dopo il decesso di Monsignor Giacinto Archiopoli avvenuto addì 26 marzo 1789, aspirarono alla carica di Presidente e Vescovo del Collegio italo-greco di S. Benedetto Ullano i seguenti nove distinti sacerdoti di rito greco delle colonie albanesi della Provincia di Calabria Citra (Cosenza):

Francesco Bugliari, Arciprete di S. Sofia, Domenico Damis, Arciprete di Lungro, Antonio Roseti, Arciprete di Frascineto, Luigi Pascuzzi, Rettori di detto Collegio, Gugliemo Tocci, Curato di S. Cosmo, Ignazio Archiopoli, Salvatore Pace, Vincenzo Gancale e Pietro Bellizzi; dei quali primeggio il Bugliari Sofiota, per una traduzione eccellente che la commissione intera trovo eccellente.

A seguito di quella relazione e delle sollecitazioni provenienti dai territori arbëreşe, ebbe inizio un periodo di formazione religiosa e civile, più strutturato e consapevole, volto a sensibilizzare e rafforzare la cultura in senso generale in questi piccoli centri collinari.

Le comunità, pur mantenendo radici profonde nella tradizione bizantina, furono gradualmente coinvolte in percorsi formativi programmati per armonizzare, almeno formalmente, la loro spiritualità con quella della Chiesa di Roma.

Questo processo si tradusse nella creazione di centri educativi per giovani che si avviavano alla formazione, con l’obiettivo di rendere figure in grado di essere ponte tra la tradizione arbëreşë orientale e quella locale occidentale.

Fu così che la vita religiosa si avviò verso una fase di mediazione e adattamento, che avrebbe segnato profondamente la storia e l’identità delle comunità arbëreshë per i secoli successivi.

Tuttavia, le risorse economiche disponibili erano limitate, a San Benedetto Ullano e per questo riuscivano a formare un numero di clerici e civili non propriamente sufficiente, ma comunque indispensabile a garantire una fiammella di luce nuova alla continuità culturale e spirituale delle comunità.

Ogni giovane formato rappresentava un presidio di fede, sapere e identità, contribuendo a mantenere viva la memoria storica e la coesione sociale.

Inoltre, questo fu anche il tempo in cui si concluse la fase di costruzione di nuove chiese, segnando così l’avvio di una stagione di consolidamento spirituale e sociale nei Katundë tutti.

Parallelamente, prese forma un nuovo slancio nella crescita delle figure clericali e civili, che nei decenni successivi avrebbero inciso profondamente nella storia del Regno di Napoli.

Queste figure, formate tra tradizione bizantina e disciplina latina, divennero ponti culturali, religiosi e politici, contribuendo non solo alla vita dei propri Katundë, ma anche alla costruzione di un dialogo più ampio con le istituzioni del Regno.

Fu un’epoca di fermento silenzioso ma decisivo, in cui le radici arbëreşë si intrecciarono stabilmente con la storia meridionale.

Il Collegio Corsini di San Benedetto Ullano, sorto con l’intento di sostenere la formazione religiosa e civile delle comunità arbëreşë, assolse con fatica la sua funzione.

Le risorse economiche limitate e i mezzi a disposizione ridotti non permisero di accogliere e formare un numero elevato di allievi.

Nonostante ciò, il collegio riuscì a preparare un ristretto ma prezioso gruppo di clerici e civili, che avrebbero poi svolto un ruolo significativo all’interno dei Katundë e, nei rapporti con le istituzioni del Regno di Napoli.

Annaspando tra difficoltà logistiche, ristrettezze economiche e confini politici, il Collegio Corsini rappresentò comunque un baluardo di resistenza culturale e religiosa, garantendo la trasmissione della fede e dell’identità arbëreshë in un’epoca di profonde trasformazioni.

Fu la politica dei liberi pensatori della Napoli capitale, ad assumersi la responsabilità di elaborare e promuovere un progetto più ampio e organico, volto a istruire e preparare culturalmente quella vasta sacca di arretratezza che ancora dominava nella Calabria Citeriore.

In quell’epoca, infatti, l’assenza di un solido tessuto educativo avrebbe impedito qualsiasi reale trasformazione sociale e politica che potesse garantire privilegi diffusi a tutta la popolazione.

L’obiettivo era innalzare il livello culturale e favorire un pensiero innovativo e solidale, capace di aprire nuove prospettive al popolo tutto e, creare un terreno fertile per una partecipazione più consapevole alla vita del Regno.

Questo impulso riformatore avrebbe rappresentato una svolta decisiva, non solo per le comunità arbëreşe, ma per l’intero Mezzogiorno, allora regno di Napoli.

L’occasione per tradurre in pratica quella visione riformatrice arrivò con il luttuoso evento sismico del 1783, che devastò parte della Calabria Citeriore e di tutto il meridione, mettendo in crisi l’organizzazione ecclesiastica e sociale del territorio.

A seguito di quel terremoto, fu disposta “la dismissione della Cassa Sacra”, e numerosi conventi e proprietà ecclesiastiche passarono nelle disponibilità dei governanti, che intesero così riorganizzare il patrimonio religioso e formativo e dare agio a pochi presidi di accogliere i frati in pena.

Tra gli immobili interessati vi fu anche il complesso monastico di Sant’Adriano, che divenne parte integrante di una nuova strategia volta a razionalizzare le risorse e creare spazi per l’istruzione e la formazione.

Questo evento, pur nato da una tragedia, rappresentò un passaggio cruciale per aprire una nuova stagione educativa e civile in cui le comunità arbëreshë avrebbero avuto un ruolo significativo.

A San Demetrio Corone, il 1º febbraio 1794, in occasione del trasferimento ufficiale del Collegio da San Benedetto Ullano, la comunità locale celebrò una vera e propria festa nazionale mentre a San Benedetto Ullano, il fabbricato venne circondato al fine di impedire la migrazione dell’istituto.

L’evento fu percepito come un momento di svolta storica, poiché il nuovo insediamento del Collegio rappresentava la rinascita della formazione clericale e civile in un luogo strategico per la cultura e l’identità mentre per San Benedetto dal non essere più protagonista di cultura e credenza.

Le celebrazioni coinvolsero l’intera comunità religiosi, autorità civili, studenti e popolazione si unirono in un clima di entusiasmo da una parte e rabbia dall’altra del fiume crati e, tutti consapevoli che quella giornata avrebbe segnato l’inizio e la fine di una stagione culturale.

San Demetrio sognava di avere le terre del Collegio, mentre San Benedetto immaginava una stagione o meglio un futuro buio e di abbandono.

Il Collegio di San Demetrio Corone, divenne così un centro vitale di istruzione, spiritualità e identità, destinato a formare generazioni di figure di rilievo nel panorama politico, ecclesiastico e culturale del Regno di Napoli.

Il trasferimento del Collegio da San Benedetto Ullano a San Demetrio Corone non avvenne in modo solenne né dichiarato apertamente, ma fu condotto con un gesto astuto e strategico, degno di un momento storico delicato.

Fu il vescovo Bugliati a orchestrare l’operazione, onde evitare proteste e ostacoli da parte della comunità locale e, finse di organizzare una semplice gita lungo le rive del fiume Crati, invitando gli studenti e i religiosi del Collegio a parteciparvi come fosse un’uscita conviviale.

Una volta giunti sul luogo, ad attenderli c’erano il fratello del vescovo e alcuni uomini fidati, pronti con carri e mezzi di trasporto.

Senza clamore, gli allievi e i religiosi furono caricati sui carri e accompagnati a Santa Sofia, dove furono ospitati per la notte nel palazzo arcivescovile, quello costruito per la stagione estiva della scuola clericale dei frati di Bisignano.

E all’alba del giorno seguente, la carovana ripartì in direzione di Sant’Adriano, raggiungendo il Collegio, destinato a diventare la nuova sede della formazione religiosa e civile delle comunità arbëreshë.

Quell’azione, velata ma determinante, segnò la chiusura definitiva dell’esperienza formativa a San Benedetto Ullano e l’inizio di una nuova stagione educativa a Sant’Adriano.

Nonostante il modo improvviso e silenzioso con cui fu condotto, il trasferimento divenne un passaggio cruciale nella storia culturale e religiosa arbëreshë, imprimendo un nuovo impulso alla formazione di generazioni di giovani destinati a lasciare un segno profondo nella vita del Regno di Napoli.

Il vescovo Bugliari, operando in sintonia con le direttive provenienti dai sistemi politici ed economici dell’epoca e sostenuto da fraterne alleanze, divenne una figura centrale per Sant’Adriano.

Tuttavia, questa sua posizione di potere e le scelte compiute in nome della stabilità istituzionale non furono accolte favorevolmente da tutti.

Infatti, per coloro che si riconoscevano negli ideali del libero pensiero che aleggiavano nella Napoli rivoluzionaria di fine Settecento, Bugliari rappresentò un simbolo di compromesso e di adesione all’ordine costituito.

Quando la Rivoluzione Napoletana del 1799 ebbe il suo glorioso ma tragico epilogo, la sua figura divenne bersaglio perché lui conosceva e sapeva chi aveva tradito quegli ideali di quel grandioso progetto di rinnovamento politico e sociale.

Da ciò, il suo Paese natio e in San Adriano divennero il teatro ideale per dare seguito a un malsano piano e, luogo ideale per tensioni e contrapposizioni profonde, dove la cultura e la religione arbëreşë, si intrecciavano con i fermenti rivoluzionari e le pressioni politiche del Regno di Napoli.

Quando Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli il 15 febbraio 1806, dopo aver conquistato la città e costretto i Borbone a rifugiarsi in Sicilia, il clima politico e sociale nel Regno cambiò radicalmente.

In quel contesto di trasformazione e di resa dei conti, coloro che avevano tradito i rivoluzionari del 1799 divennero oggetto di sospetti e manovre inimmaginabili.

Tra questi, alcuni noti al vescovo Bugliari, tentarono svilire l’attenzione dalle proprie responsabilità, orchestrando una falsa rivolta locale, pretestuosamente legata a una questione di confini terrieri manomessi. In realtà, quella presunta sollevazione nascondeva calcoli politici e personali, volti a consolidare posizioni di potere e a dipingere i vecchi rivoluzionari come elementi destabilizzanti.

Questa manovra contribuì ad alimentare divisioni e tensioni all’interno dei Katundë arbëreshë, dove le fratture ideologiche nate con la rivoluzione si intrecciavano agli interessi territoriali ed economici.

San Demetrio Corone, centro vivo di cultura e politica, divenne nuovamente scenario di scontri sottili ma profondi, che segnarono la memoria collettiva per molti decenni.

 Ed ebbero la fine del capitolo, nelle sei giornate di Santa Sofia, ad iniziare dal 12 agosto del 1806 sino al 18 dello stesso mese, devastando e violentando santa Sofia intera, per devastare fisicamente il Collegio a Sant’Adriano, per tutto il decennio francese con mira la dismissione del collegio e la distruzione di quelle prove che ancora oggi non sono state lette.

Degne di cronaca sono l’eccidio del Vescovo reggente Bugliari Francesco a Santa Sofia, la violenza subita da tutta la popolazione e in particolar modo della sua casa e dei suoi familiari, la successiva devastazione del collegio, il suo abbandono e la richiesta di metterlo in vendita, dismetterlo e trasferire la scuola a Corigliano Calabro nel 1811 e, in fine la presa di posizione del Vescovo reggente Ballusci, il quale, recatosi a Napoli evidenziò, il valore e il significato civile ed ecclesiale di quella struttura, facendo ricredere il diffuso volere politico dei regnanti, infatti nel breve il collegio venne ricomposto e reso fruibile per continuare la sua missione civile e religiosa.

Altro dato fondamentale nella storia e nella memoria collettiva del Collegio Corsini a Sant’Adriano è rappresentato dal protocollo di vestizione e dai rituali che accompagnano la famiglia nel corso della sua esistenza.

Il protocollo o tema, conservato e, chissà dove venne conservato e da chi dopo essere stato compilato, realizzato, come terzo capitolo di questo istituto che nel passaggio da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oltre a formare clerici e civili illustri, ideò anche il percorso della famiglia nel tragitto che la unisce il focolare della casa con l’altare della chiesa.

Infatti il tragitto non era mero momento di una semplice cerimonia, ma vero e proprio atto fondativo della vita comunitaria, strumenti di formazione e consolidamento dell’identità collettiva a partire dalla famiglia.

In particolare, la vestizione della donna scandiva le tappe principali dell’esistenza, segnando con precisione il passaggio dallo stato di: bambina a quello di donna, madre, vedova e infine vedovo incerta sino, a figura sociale riconosciuta nel lessico e nei costumi e nella memoria terrena dell’epoca.

Ogni cambio d’abito, non era solo un gesto pratico o estetico, ma un segno visibile di trasformazione spirituale e sociale: un modo per dichiarare pubblicamente il proprio nuovo ruolo nella comunità che in questo modo era sostenuta.

Quelle vesti non erano considerate un semplice abito cucito da un sarto con ago e filo, ma rappresentavano un cammino di fede, una pedagogia silenziosa ma potente, con la quale si educava al rispetto della tradizione, alla responsabilità verso la famiglia e alla devozione religiosa.

Ogni stoffa, ogni colore, ogni piega e ornamento indossato aveva un significato preciso, riconoscibile da tutti i membri della comunità, in tutto era un messaggio visivo da seguire e rispettare perché luce di un fuoco in tutto un abbraccio materno.

L’obiettivo profondo di questo protocollo era unire il focolare domestico, con l’altare della chiesa: due poli inseparabili della vita di ogni Gjitonia, che si sostenevano a vicenda nel definire la via più dignitosa per essere parte della collettività.

La casa e la chiesa, non erano luoghi distinti, ma spazi complementari di una stessa vocazione comunitaria, dentro cui ogni individuo trovava la propria collocazione e la propria dignità.

Questi riti di passaggio, pur nella loro semplicità materiale, costituivano una vera “grammatica del vivere”: insegnavano valori, rafforzavano i legami sociali e imprimevano nelle generazioni future un senso di appartenenza forte e condiviso, per questo la vestizione, nel suo silenzio rituale, raccontava una storia di fede, di identità e di memoria.

Tuttavia il collegio non fu mai abbandonato dall’essere controllato dalle istituzioni, divenendo poi anche per i Borbone tornati al trono, il luogo delle vipere politiche culturali e clericali.

Dopo la riapertura e sino all’unità d’Italia furono numerose le eccellenze qui formatesi e sempre tutte attive per la bona gestione politica del sociale e della credenza in tutto il regno di Napoli.

 Degno di nota è il gesto di Agesilao Milano, che per i ricercatori della Z perduta, riducono quel gesto ad atto di un’capace e violento, ma chi è attento alle cose della storia perché architetto riconosce in quell’atto un grande rispetto per la vita umana e la credenza con le quali venne allevato.

E anche Garibaldi nella sua risalita verso Capua trovo agio a respirare quelle ideologie trovando il passaggio della valle del Crati, agevole e senza pena alcuna, sino a Campotenese, dove era l’inizio del Bosco del Diavolo.

Il collegio di Sant’Adriano continuò a diffondere fede e cultura dalla fine del decennio fino all’Unità d’Italia e alla sua successiva stabilizzazione romana.

Tuttavia, dopo la reggenza del vescovo Bellusci di Frascineto, la direzione dell’istituto passò ai vescovi Siciliani, ritenuti più solidali, i quali, per motivi strategici, affidarono la gestione a loro sottoposti di fiducia, la scelta, però, generò una deriva amministrativa e organizzativa che portò alla progressiva spoliazione di ogni adempimento materiale e immateriale.

Nel 1876 venne quindi nominato un nuovo vescovo sofiota, il quale garantì la solidità dell’istituto e ne pianificò il futuro sviluppo, progetto che trovò concreta e attuazione nel 1919.

Era il vescovo Giuseppe Bugliari, che ebbe l’incarico di rendere chiaro al papa e al re quali fossero le condizioni dell’istituto e, le relazioni inviate alle due autorità dell’epoca, emerse l’esigenza, poi portata a compimento, nel 1919, di scindere in tre parti, l’istituzione: la scuola civile in sant’Adriano, il vescovato, nella baricentrica e strategica Lungro e, la scuola clericale a Grottaferrata sotto la vigile attenzione della li attenta San Pietro.

Questo per grandi linee sono le tappe del collegio Corsini da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oggi celebrata secondo la visione della moderna lingua parlata albanese, che vive alla spasmodica ricerca della z mancante.

Tirando le somme, il Collegio Corsini, quando fu di San Adriano, non fu soltanto un edificio di pietra e memoria, ma una vera e propria lanterna di cultura e identità.

Esso fu immaginato, condotto, diretto e illuminato da quella stessa luce che, sorgendo e tramontando su Santa Sofia d’Epiro, rischiarò le pieghe più buie dell’unità d’Italia. durante il secolo della coscienza più alta del mondo arbëreshë.

Là, dove la tradizione si fa sapienza e la lingua si intreccia con la fede e la dignità di un popolo, furono illuminati e formati gli uomini migliori, quelli che hanno saputo custodire e tramandare la propria eredità con fierezza e visione.

Il Corsini si staglia così come un faro nella storia degli arbëreşë, secondo una luce che continua a riverberare nel tempo, segno di una comunità che non ha mai smesso di riconoscersi e di rinnovarsi nella propria forma intrisa dell’olivetano sapere della salita della Sapienza e della fratria Partenopea nella cala a nord di Napoli.

 

Atanasio Pizzi Architetto Olivetano                                                                                 Napoli 2025-10-17

 

 

 

 

 

 

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IDENTITÀ E DECLINO IN OMBRE DELL’ARCHITETTURA DEL SILENZIO NHDË KATUNDË u shuatinë e dè fitìlljètë

IDENTITÀ E DECLINO IN OMBRE DELL’ARCHITETTURA DEL SILENZIO NHDË KATUNDË u shuatinë e dè fitìlljètë

Posted on 16 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sino all’unità d’Italia, ha visto partecipi e attivi figure notevoli Arbëreşë nei fermenti culturali di tutta Europa e, i paesi allestiti secondo il bisogno vernacolare dei natii, divennero centri laboriosi, con caratteristiche identitarie, resistenza, rinnovamento sociale, culturale e architettonico.

Questa caratteristica è rimasta costante, amplificandosi senza soluzione di continuità, fino agli anni Novanta del secolo scorso, sostenuta da un interesse terminato poi in timide o incerte iniziative locali per il recupero di una memoria nobile qui sconosciuta.

Già alla fine degli anni Cinquanta, lo slancio promozionale, intrapreso dall’allora nascente Automobile Club d’Italia (A.C.I.) sembrava voler risollevare gli ambiti della “Regione Storica Sostenuta in Arbëreşë” inserendola in una visione turistica e culturale del Paese Italia in movimento veicolare.

Ma nulla di sostanziale venne realizzato se non episodi disconnessi tra loro, che per questo hanno persi sinanche il valore storico che dovevano esaltare e, le promesse di valorizzare quei territori, si sono scontrate con l’inerzia istituzionale, la mancanza di investimenti e l’assenza di una visione strategica ampia e mirata, perché incentrato esclusivamente al “regime di restanza locale”.

Le successive leggi nazionali e regionali lì a poco poste a regime, pur se fondamentali a titolo simbolico, sono state subito, intese con luce divina, generando più aspettative che risultati concreti da produrre con sudore o forse meglio dire miracoli.

Nei fatti, le leggi sono rimaste prive di una reale capacità di incidere sui territori, sulle scuole, sulle economie, sulle relazioni sociali o i beni architettonici, non includendo neanche beni materiali ed immateriale in forte disequilibrio.

Anche se la vera risorsa non doveva ricadere sulla legge o le leggi, quanti le avrebbero dovute interpretare per adoperarle e utilizzarne i fini di resilienza, materiale ed immateriale in affanno, non hanno mai saputo leggerle e interpretarle a dovere.

Nel frattempo, i Katundë arbëreşë sono diventati oggetto di una narrazione monocentrica e svuotata di ogni significato, avendo come tema innovatore il “borgo da recuperare e salvaguardare”, o “da rigenerare”.

A questa si è sommata l’onda lunga degli itinerari artistici o pittorici dirsi voglia, spesso guidati da figure incomprese o isolate, oltremodo estranee alla storia profonda di questi luoghi, colmi di parlato e ascolto, comunque tutti desiderosi di vederli all’ombra di minareti e non dei saltellanti campanili di est e di ovest.

In molti casi, queste incursioni culturali e sociali, pur se animate da buone intenzioni, hanno finito per costruire un racconto superficiale, scollegato dal vissuto delle comunità e dalle radici storiche che danno senso alla loro presenza qui nel meridione Italiano.

Oggi i Katundë arbëreşë rischiano di essere percepiti come “borghi borgate coli di bovari”, il tutto come se fossero campi di pascolo unitari dei quadrupedi senza distinguere bovini e suini, per riempire di contenuti estemporanei, sminuendo o addirittura cancellando ciò che li ha resi unici e saldamente ancorata alla storia di questi luoghi che sono i paralleli alla terra di origine oltre il fiume adriatico nel caso specifico la parte senza abbracci.

Il risultato è una trasformazione più estetica che sostanziale, che punta al “decoro ignaro dell’identità”, in tutto un’operazione che, senza consapevolezza, rischia di cancellare in nome di un “rilancio” che privilegia la forma e nulla della sostanza, innescando un processo degenerativo culturale fuori dalla promessa fatta in terra madre terra madre, (Besa).

La regione Storica Diffusa Sostenuta in Arbëreşë, è uno spazio dove si incontrano mondi diversi, vivono storie irripetibili e luogo di figure elevate, in tutto un luogo non circoscritto dove oggi viene compressa e rievocata ogni cosa immaginata liberamente secondo teoremi di memoria velata dal folclore, senza aver mai avuto una reale occasione di definirsi dentro la storia rispettosa, inclusiva e profondamente connessa al proprio passato.

La mancanza di risorse in forma di formazione e ideali che colpisce i centri antichi arbëreşë, non può essere attribuita unicamente alle istituzioni fuori dai confini locali o alle leggi oggi in vigore.

Sebbene tutte queste abbiano spesso mostrato disattenzione, la responsabilità più ampia risiede nelle trame locali, che restano ancorate a una formazione culturale debole, frammentaria e statica, paragonabile a club solitari dove si mescola il sugo con le cose del vicino, che non è mai gradito al momento del pranzo domenicale.

L’assenza di una visione condivisa, rende il peso delle dinamiche locali, al pari di  una coscienza storica sottosviluppata, in continuo bollore per ostacolare ogni possibilità di riscatto di quanti, come si fece in passato, partivano per migliorarsi.

Senza un rinnovamento dal basso, nessun intervento dall’alto potrà mai essere davvero efficace e, i risultato restano stesi al sole in quel campo che non è stato mai seminato.

Il problema non risiede tanto nell’inadeguatezza delle leggi, quanto piuttosto nella mancanza di formazione giuridica, tecnica, storica e culturale degli operatori incaricati di applicarle, i quali spesso non dispongono degli strumenti, uomini e mezzi culturali necessari per un’applicazione corretta ed efficace.

Questo ragionamento si può applicare a molti ambiti, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, fino alla gestione delle innovazioni tecnologiche e, solleva un punto chiave per la qualità dell’applicazione della legge che non sono fine a se stesse ma dipende direttamente dalla competenza di chi la gestisce o le deve interpretare secondo il tema in gestione.

Se volessimo analizzare un Katundë a caso, dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, nulla è stato fatto da chi è partito per tornare e rendere migliore, con la partecipazione corale un centro antico colmo di storia e figure di rilievo che hanno fatto la storia.

Infatti escludendo i formati si è finiti di esaltare i non giusti, i traditori e non fedeli, in tutto gli artigiani bravi ad essere candarari.

Un dato accomuna tutti i centri storici di origine arbëreşë strutturati secondo il modello del Katundë: fino al 2009, nessuno di essi era mai stato oggetto di un’analisi approfondita riguardante gli aspetti costruttivi e formali dell’architettura del bisogno all’interno dei nuclei antichi.

Si tratta di sistemi urbani sviluppatisi secondo una logica vernacolare, privi di tecnicismi o interventi progettuali certificati.

Inizialmente edificati con materiali poveri come l’adobe, successivamente in pietra, calce e sabbia, questi insediamenti si sono evoluti secondo morfologie urbanistiche via via più articolate, dapprima con impianti paralleli, poi con sviluppi verticali a servizio dei profferli.

Il tutto rispondendo a esigenze pratiche e immediate, senza alcuna pretesa estetica o accademica, infatti le prime direttive tecniche in questi ambiti arrivano imposte dalla direzione napoletana dopo il terremoto del 1783.

E dopo la riforma pel la chiusura di cassa sacra e, le relative dimostranze legali per l’acquisizione delle terre da parte di conduttori storici, rese l’economia locale più solida e molte famiglie nei centri storici edificarono i cosiddetti palazzati nobiliari con emblemi architettonici dell’illuminismo in forte ascesa.

Le famiglie più nobili costruirono i nuovi volumi di rappresentanza, avendo come cuore sempre pulsante l’antico modulo vernacolare del bisogno, ma queta volta secondo disposizioni regie e, con forme architettoniche progettate.

Essi così avevano nel propesero principale, ingresso e finestre dei depositi contornati da pietre locali lavorate, al primo piano balconi di rappresentanza e finestre, mentre tra il tetto e il pino nobile, aperture di ventilazione per i sottotetti indispensabili a temperare il volume della parte abitativa, mentre i depositi al piamo terra erano temperati dai riverberi naturali del terreno su cui erano costruiti gli elevati murari.

Questo accadeva per le famiglie più in vista mentre per i sottoposti la crescita economica si palesava nelle loro case con imitazione dei portoni di ingresso che erano allocati in quei volumi che un tempo compilavano i profferli che venivano inglobati al fabbricato di pertinenza.

Gli stessi che in alcuni casi e in epoca più recente associati alla categoria delle superfetazioni poi assoggettati al modello dell’abuso edilizio e per avere una parvenza di logica architettonica appellate case antropomorfe.

Tuttavia l’intero costruito che ebbe modo di espandersi dal decennio francese sino alle soglie del XIX secolo determina, anche il sistema toponomastico che del 1929 intitola, vie, vicoli piazzette e piazze, mentre i rioni storici restano nelle memorie storiche locali senza futuro, perché gli addetti che fanno restanza, non si muovono dai loro scanni della cultura trovando un fatto degenere andare in giro a chiedere.

Ma questa è un’altra storia per la quale la quale lo scrivente venne appellato: “lo sgarbi dell’inferno Arbëreşë”.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-16

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LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË  Mendja i Ghëravetë thona

Protetto: LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË Mendja i Ghëravetë thona

Posted on 14 luglio 2025 by admin

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PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

Posted on 23 giugno 2025 by admin

senza regNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.

Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificare i fenomeni, secondo  le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.

Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.

Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di Iunctura urbana, dove trovare risorse naturali e di conseguenza germogliare fenomeni sociale in evoluzione o di ristagno, nel corso del tempo.

Avendo per questo mira ad intrecciare culture e società, in continuo progredire, nel pieno rispetto della memoria, della integrazione tra generi e popoli.

Questi luoghi ameni sono il miraggio della fuga sull’isola deserta, o la favola sulla spiaggia per vivere di sole e darsi alla macchia per riconciliarsi con sé stessi e con il mondo, essi sono la piattaforma che a tutte le latitudini offre soluzioni catartiche e sono la frontiera dell’evasione, per una pausa temporanea o permanente dal trambusto metropolitano.

È in tutti questi sistemi urbani che spicca il panorama dell’architettura vernacolare con la dimensione antica dove rigenerare i cinque sensi, all’interno di quella culla depositata nel meridione italiano, che ti avvolgono con il candore di queste forme fiabesche, immersi tra le rive e le colline, verde di boschi uliveti, vigneti e il lagrimoso ondeggiare di fiumi e terra e mare. 

Portati sotto i riflettori del pensiero architettonico globale come esempi illustri di architettura spontanea, oggi i questi esempi di vivere comune non necessariamente classificati Patrimonio Unesco e sono sempre più una meta ambita per chi rielabora, la dimensione più autentica della vita e il contatto con la natura.

Capita spesso, specie attraverso il comune parlare in italiano o della diffusione dei mas media che i Borghi plurale di “Borgo”, che indica un piccolo centro abitato, di radice medievale, più grande di un villaggio ma più piccolo di una città, con il quale comunemente viene appellato ogni, Contrada, Paese, Villaggio e comunque agglomerato urbano che non sia una città.

Diversamente si fa con la, Polis, del greco antico, che indica una “città-stato”, tradotto semplicemente come “città”, ma con un’accezione storica legata alla Grecia antica che identificava una serie di rioni, allocati in forma piramidale distinguente cosi la popolazione più estromessa e povera posta alla base dai più distinti sino al vertice della famiglia singola.

Katundë dall’arbëreşë assume il senso di ” un insieme abitativo” o “insieme fraterno di rioni” “o luogo di confronto e movimento produttivo”, quest’ultimo letteralmente tradotto in lingua italiana dall’ arbëreşë.

Geograficamente utilizzato è di origine greca accolto in alcune macro aree Arbëreşë, Hora si può tradurre come insieme abitato e di agro secondo una tradizionale forma produttiva e di controllo de centro abitato”, quindi di connotazione rurale e abitativa cosi anche come la stessa Atene.

Pe concludere la trama di scopo e utile indicare per grandi linnee il Porto, o centro antico che riferisce a una località marittima attrezzate per l’attracco di imbarcazioni e quindi, in continua agire di scontri e confronti tra dinastie e popolazioni, qui approdate.

Tutto ciò premesso, serve a dare valore identitario sia a un abitato di mare e sia ad un insediamento di collina, entrambi di radice in bisogno vernacolare, legato alle abitudini locali, con evidenti elementi di luogo specifico che li caratterizzano, li evidenziano oli velano a secondo del luogo dove venne scelto di elevarli.

In quanto mentre il Paesi di mare è influenzato da contatti con popoli stranieri, come mercanti, marinai, invasori o fuggitivi, grazie ai quali si costruisce e si evolve il dialetto locale che includere termini di origine variegata

Come avviene nelle coste di tutta la penisola Italica, che associano al parlato comune anche rotacismi di ignota favella.

Nei centri abitati di collina, il parlato locale è più conservativo e, meno esposti a influenze esterne, in tutto una struttura linguistica più arcaica, derivante dalla popolazione qui insediatesi e, integrata una sola volta, in fraterno conviviale nel corso della storia, senza aggiunte di sorta alcuna, perché isole di terra.

A tal proposito valgono anche gli abbigliamenti tradizionali, che nelle zone di mare include tessuti leggeri, colori chiari, capi pratici per il lavoro in ambiente salmastro e copricapi, pantaloni, ampi e gilet.

Diversamente da chi vive la collina che indossa abiti più pesanti, spesso raso o panno, in colori di tessitura più finalizzati al calore del tempo che passa tra casa chiesa e agro produttivo.

Poi viene l’aspetto del bisogno o della necessità di luogo che utilizza elementi strettamente locali e realizzare l’Architettura vernacolare, che nel caso dei luoghi di costa o di mare si espone utilizzando case costruite con materiali resistenti alla salsedine, tetti piani o terrazze per asciugare reti o pesci, pareti degli elevati rifinite in coloritura indispensabili per i navigati per essere un riferimento quando rientrano la percorso di mare, il tutto per essere un faro di colore specifico del barcaiolo che riconosce la sua casa.

Diversamente da come avviene per le abitazioni di collina, le quali sono inserite nelle prospettive naturali dei boschi che li accolgono come parte sostenibile al punto tale che di giorno sono difficili da intercettare e di notte il luccichio e il fumo dei camini sa orientare gli uomini da duro lavoro eseguito nell’agro circostante, case in pietra, tetti spioventi per la pioggia e, muri spessi isolanti contro il freddo della stagione corta.

Tutto questo si può sintetizzare negli aspetti Culturali e nelle mentalità che per questo diventano consuetudine storica, in cui gli agglomerati prossimi o sulle rive del mare diventano luoghi aperti Società più aperta dove il principio commerciale, apre a contati esterni, seguendo calendari legati alla pesca, al mare, ai venti.

Diversamente dai nuclei urbani di collina Comunità più chiusa, autosufficienti, che si alimentano di ritmi scanditi dall’agricoltura e dalle stagioni e, legati con la terra, riti agricoli, transumanza.

Un paese di mare vive di processioni con statue di santi portate a mare, feste del pescatore, sagre di pesce.

Un Katundë organizza fiere, sagre, e feste del vino, rievocando le storiche tappe di accomodamento locale in solitudine e porosità lagrimosa.

Ma questo è un aspetto molto intimo e forse poche figure ad oggi potrebbero coglierne agio per migliorarsi, lasciamo il tempo che scorre ad opera di quanti dopo aver perso la strada si accontenta delle cose mediocri che un tempo si davano ai cani, e non da meno di questi ultimi sono quanti e quante si recano davanti la casa di Clementina per ironizzare, del suo figliolo che ancora non torna.

Tuttavia chi volesse ancor dipiù approfondire cosa oggi resta di questi storici episodi della storia dell’umo si possono riassumere nella figura a coronamento di questo edito, chi conosce capirà gli altri si ostineranno a non comprendere il nulla che rimane.

Fare balli inopportuni nei luoghi della memoria può essere definito come Profanazione Simbolica, questo termine forte ma appropriato quando si viola il rispetto dovuto a un luogo carico di valore storico, culturale e, il gesto può risultare offensivo, tuttavia l’approcci sottolinea la superficialità o l’ignoranza culturale di chi compie tali gesti, comunque inappropriate, specie per chi serve gli ambiti educativi, di nuovo germogli generazionali, che palesemente non sa fare il mestiere servile.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-06-23 

 

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GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

Posted on 20 gennaio 2025 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Si potrebbe riassumere nel titolo in epigrafe, le storiche ricerche comunemente divulgate con protagonisti gli arbëreşë, i relativi centri antichi e, tutto si dissolverebbe in un nulla di fatto, come avviene con resilienza inopportuna, sostenuta dai Solanizzati, i quali raccolgono ortaggi prima del tempo.

Tuttavia esistono modelli per indagare e studiare, come quelli coadiuvati da Adriano Olivetti, da cui se noti si potrebbe trarre spunto per studi e riflessioni moderne, che dopo i 517 anni dalla venuta degli Arbëreşë, solo Baffi, Bugliari, Giura e Turelli hanno saputo fare.

Immaginare che storia, idioma, consuetudini, costume, architettura, urbanistica, modelli sociali, territorio ed economia, si possano indagare, sulla base di singoli episodi, vagando per gli anfratti della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë è a dir poco un circo, dove si mira alla ricerca di un giullare protagonista, che attragga i viandanti distratti o della breve sosta.

Non è concepibile che figure terze, senza ascolto e parlato in Arbëreşë antico, possano esprimere pareri o analizzare questa emblematica minoranza, oltre modo esempio di integrazione mediterranea grazie alla propria radice identitaria solida, indivisibile espressa in parlato.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura, richiede un approccio metodologico che vada oltre le fonti scrittografiche moderne senza avere consapevolezza del parlato per il trapasso generazionale.

Un metodo molto importante è l’osservazione partecipata, che consiste nel vivere la comunità che si intende studiare per un periodo prolungato avendo ottima conoscenza del parlato e dei tempi dell’ascolto oltre le movenze relative.

Il metodo o meglio il protocollo, permette di comprendere meglio la cultura, le tradizioni, i valori e i costumi identificativi, assieme alle pratiche del vivere quotidiano.

Non ha ragione ne trova rimedio il voler costruire di sana pianta un paese arbereshe che porta con se, oltre cinque secoli di storia avvenimenti e bisogni di epoca luogo e momento storico in forma di regresso o progresso.

Le storie, i miti, le leggende e le tradizioni orali sono fondamentali per comprendere la storia e le credenze di un ben identificato lugo, specie se vissuto dagli Arbëreşë e, a tal fine diventa indispensabile raccogliere narrazioni da persone anziane, che spesso sono i custodi della memoria collettiva locale o, prendere consapevolezza della toponomastica storica.

Un paese non èun semplice componimento di case appartamenti o palazzi, ma la stesura nel temo delle necessità vernacolari dei suoi abitanti, che non cominciano nel caldo di una stanza per terminare nel freddo di un orto retrostante.

Un Paese Arbëreşë contiene e mantiene ambiti coperti e scoperti sostenibili in un ben identificato luogo costruito, non solo per dormire, mangiare e proliferare, ma per conservare memoria, costumi e credenze che non posson essere racchiusi in una stanza o nel circoscritto di una carena rovesciata.

Per questo serve analizzare il costruito con dovizia di particolari, conoscere canto, danza e tutte le forme di espressione utili e indispensabili per addentrarsi all’interno della minoranza che qui comunica e conservi la propria identità.

Le tradizioni o meglio le consuetudini, del tempo lungo e di quello corto, possono rivelare valori, credenze e dinamiche sociali.

L’uso di fotografie, video o altre registrazioni sono un ottimo strumento per documentare le pratiche culturali di una minoranza che non fa uso della scrittura e si affida al parlato e al canto tra generi.

Questo tipo di documentazione permette di inghisare aspetti che altrimenti potrebbero essere persi, come l’uso del linguaggio corporeo, il comportamento sociale e le interazioni quotidiane specie del governo delle donne, le protagoniste della divulgazione di atti e attività sociali.

Collaborare con membri della minoranza allevandole a guide culturali o interpreti, di attività locali, può diventare di fondamentale tutela per quanti appartengono alla comunità, in quando unici addetti per una comprensione profonda dei propri costumi e pratiche di vita, fornendo così insight che un ricercatore esterno potrebbe non cogliere, comprendere o immediatamente recepire.

Se la minoranza ha una lingua orale, è utile studiarla, poiché la lingua è un importante veicolo di conoscenza e cultura e l’analisi attraverso l’uso di registrazioni audio, può svelare significati celati, dalla struttura sociale e modi di esporre difficili da comprendere.

È fondamentale approcciarsi a una minoranza, con rispetto e consapevolezza delle dinamiche che potrebbero emergere tra il ricercatore e la comunità, a questo punto diviene fondamentale l’adoperarsi, per stabilire fiducia e relazioni etiche che permettano una vera comprensione reciproca priva di codici in difesa.

Se possibile, consultare studi etnografici e ricerche precedenti che abbiano trattato la minoranza secondo simili progetti, anche se non esistono documenti o attività in tale direzione.

A tal proposito non sono certo di aiuto le ricerche accademiche basate su interviste e osservazioni eseguite da ricercatori senza formazione e titolo, gli stessi che poi riportano ai docenti editi ed estrapolazioni a dir poco elementari, che se analizzate con dovizia di particolari possono essere rivisitate e dare agio alle ricerche.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura richiede un’attenzione particolare ai metodi e agli strumenti di ricerca, mantenendo sempre una mentalità aperta e rispettosa verso le tradizioni culturali e le modalità di comunicazione o gli atti di attività espressi.

Diventano per questo fondamentali gli esami delle abitazioni e gli edifici storici, senza compromettere l’integrità del paesaggio e della tradizione architettonica di un identificato momento della storia.

Di venta fondamentale per questo l’analisi e l’uso dei materiali nelle diverse epoche, con particolare attenzione alle persone che vi abitavano, e la necessità di preservare le tradizioni culturali del bisogno di ogni epoca.

A tal fine vale il principio di studiare come erano organizzate le diverse aree senza cancellare la sua autenticità, migliorando al contempo la qualità della vita degli abitanti con i nostri tempi.

Approfondire le analisi legate alle problematiche della salute pubblica e le condizioni igieniche, cercando soluzioni per l’approvvigionamento, il trattamento dei rifiuti e il miglioramento dei servizi sanitari.

Altro aspetto fondamentale divine lo studio delle attività economiche tradizionali e le possibilità di sviluppo di nuovi settori, inclusi il turismo, della breve sosta, oltre ad incentivare attività commerciali che promuovono prodotti locali.

promuovere studi specifici relativi ai rioni tipici di ogni Katundë, in tutto i più antichi o del bisogno primario vernacolare poveri e proporre soluzioni che permettessero di recuperare l’area senza distruggere la vita sociale e comunitaria che caratterizzava il rione in tutte le sue parti, specie le prospettive pittoriche.

Il tutto deve essere finalizzato a migliorare le condizioni abitative, con un’attenzione particolare all’edilizia sociale e alla qualità degli spazi pubblici dove poter far esprimere e dare agio all’antico Governo delle donne.

E garantire la sostenibilità ecologica, preservando il paesaggio naturale, migliorandone le condizioni ambientali attraverso soluzioni innovative da sottoporre a una commissione multidisciplinare superiore in tutto il governo unico e indivisibile di generi adeguatamente formati.

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