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TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

Posted on 10 febbraio 2024 by admin

cicòope dragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.

Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con  diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando  con numerosi esperti partenopei, amici del settore,  in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte  con senso “pratico chiaro”  e,  soprattutto, in grado di veicolare due  cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò  “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano  i maestri della bottega Olivetara  senza mai “oltrepassare” i1  campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.

Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.

In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.

A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?

Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.

Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.

Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.

Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.

In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di  essere diffusa con sapienza in musei dedicati.

Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e

ambiente naturale.

Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.

In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.

Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.

Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.

Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.

In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:

– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;

– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;

– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,

– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;

– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;

– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;

– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo

Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?

È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.

Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:

– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;

– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;

– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;

– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;

– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;

– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;

– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.

È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.

Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.

La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».

Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.

D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.

Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.

Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.),  individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.

Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.

Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.

La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).

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RIFINITURA DEI PALINSESTI STORICI CULTURALI NELLA REGIONE STORICA ARBËR/N

Posted on 12 luglio 2023 by admin

   Catturaii

 

“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “

“La Regione Storico degli Arbër”

(radici di Ieri, certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)

Per un più completo palinsesto storico culturale dell’estate in corso, in attività che promuovono e rilevano la storia, le cose, il genio, i costumi, le chiese, le case l’ambiente naturale dei Katundë Arbër/n, onde evitare divulgazioni, prime, seconde, terze, ecc., ecc., ecc., si propone secondo studi e analisi comprovate, i temi seguenti univocamente, solidamente definiti e comprovati all’ausilio multi dipartimentali di antica radice:

 

  1. Paese “Borgo”, o in Arbër/n, è Katundë;
  2. Rione e Quartiere, o in Arbër/n, Sheshi;
  3. Centro Antico dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  4. Piazzetta in Arbër/n, Sheshë;
  5. Vicinato, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  6. Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  7. Il valore storico dei sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  8. Municipio, Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  9. Il costume da sposa, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  10. Prospettive violate e porte vituperate in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  11. Sheshi Passionatit, memoria di cuori violati Arbër/n;
  12. Tutela dell’idioma principi e progetti sostenibili;
  13. Urbanistica e percorsi evolutivi dell’abitare secondo regole le regole Kanuniane;
  14. Chiese Bizantine, Cistercensi e del sorgere de tardo medio evo;
  15. Il collegio Corsini e le tappe degli ecclesiasti Arbër/n;
  16. La primavera degli Arber/n e la sua battaglia evolutiva;
  17. Gli uomini Primi, Secondi e ultimi dell’illuminismo Arbër/n;
  18. In Arbër/n, Gjitonia in Italiano luogo dei cinque sensi;
  19. Se un Katundë non ha: Kishën, Bregunë, Sheshin e Ka Rrin Rellëth, è Borgo con murazioni fossati e moschee;
  20. Ori addobbi e titolati alla vestizione e all’esposizione quale sposa e regina della casa;
  21. I Nascituri, Infante, Fanciulli, Donne, Spose e Madri;
  22. Giuochi, Innamoramenti, Fidanzamenti, Matrimoni e Famiglia: i tempi della Vestizione;

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LE PROMESSE PER LA CULTURA DURANTE LA CHIUSURA E ADESSO L'APERTURA?

LE PROMESSE PER LA CULTURA DURANTE LA CHIUSURA E ADESSO L’APERTURA?

Posted on 28 agosto 2021 by admin

Pinocchio3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’anno duemilaventi è trascorso senza alcuna manifestazione culturale, all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”, tutti i preposti in questo periodo erano concordi, al chiuso delle proprie abitazioni, ad iniziare con più coerenza le manifestazioni per valorizzare i ricordi consuetudinari della minoranza storica.

Specie nel rapporto mai consolidato con i canali turistici che contano, dove storicamente gli ambiti arbëreshë sono marginalmente contemplati, come episodi orografici, ma non quale eccellenza sociale d’integrazione mediterranea.

Se fosse vero che ogni promessa è debito alla luce dei mille ravvedimenti diffusi, sui social/media durante la pandemia, quanto esposto in questi pochi mesi, di relativa libertà, non lascia dubbio alcuno, sulla fratellanza con il burattino di legno che prometteva, prometteva e prometteva.

A ben vedere “l’arcobaleno” prospettato, realizzato e addirittura vantato, come espressione artistica/culturale, palesa una povertà di valori che non trova eguali, sminuendo sin anche gli ambito maggioritario delle colline Italiane.

Una promessa di ravvedimento non mantenuta che lascia a dir poco sconcertati, viste nuove ricerche o stati di fatto, posti in essere, che avrebbero dovuto fissare più solidamente le caratteristiche della minoranza, non più esclusivamente a temi linguistici, metrici, consuetudinari, religiosi, come unica meta di salvaguardia.

Oggi grazie a temi ambientali, del costruito storico, il Genius Loci espressione di città policentrica, aggiunto al riferimento settecentesco,  ponte tra credenza civile, religiosa e profana, ovvero, “il costume nuziale femminile”, si sarebbe dovuto iniziare ponendo  la minoranza in prima linea, nei canali turistici che contano e portano valore ed economia al territorio.

Ciò nonostante la catastrofe emersa in questi pochi mesi di apertura sociale, lascia a dir poco perplessi; la ragione ha la sua origine nel non aver predisposto un’istituzione centrale di controllo, in grado di delineare trascorsi e principi, redarguendo quando serve il libero arbitrio, specie se, sostenuto senza misura da istituti ed istituzioni, poco attente.

Emerge palese la non conoscenza della storia, il non distinguere centro antico, da centro storico, la toponomastica del passato remoto, quella del ventennio, oltre a quanto modificato dalle ideologie sessantottine che delineano una deriva senza precedenti.

In altre parole, caos sistemico, in cui a perdere, sono gli elementi tangibili e intangibili della minoranza arbëreshë, specie quella che si è insediata tra il sedicesimo e il quarantaduesimo parallelo Italiano.

Se a questo dato si persegue ancora, la la via secondo cui, eccellenze arbëreshë, sono esclusivamente, le figure cimentatesi a grammaticare con l’utilizzo dei numerosi alfabeti, un codice idiomatico antico, tramandato per secoli in forma orale, da la misura del valore culturale in atto.

D’altro canto ritenere e disdegnando figure arbëreshë, in campo culturale, della scienza esatta, della giurisprudenza, la sociologia, dell’ingegneria, dell’architettura, dell’urbanistica, la matematica e nel campo editoriale, si ha la percezione di quale quadro senza prospettiva si preferisce divulgare.

Se a questo aggiungiamo che ancora oggi la credenza popolar/culturale non conosce la storia e tutti attendono il messia che emerga dalle catacombe d’archivio, con il vello in trattato di capitoli, platea e onciari, la prospettiva che  emerge è chiara, limpida e senza ombre di sorta.

Una minoranza che non ha consapevolezza del confronto o dell’unione delle discipline per la ricerca storica, non è in grado di tracciare un percorso univoco solidale e condiviso.

Tutto è svolto secondo il disciplinare che gli altri non hanno documenti, perché quando si recano negli archivi non sanno che quei complessi, qualche figura d’intelletto, prima di loro, li ha progettati per facilitarne l’uso e la consultazione di  atti utili ma non indispensabili a delineare la storia di un identificato territorio.

A tal proposito e per spegnere gli entusiasmi di queste pericolose fiammelle, all’interno dei catasti, è il caso di precisare che l’atto di svolgere una ricerca storca, non termina con l’aver acquisito un generico documento, buono o inutile che sia.

Il processo di ricerca richiede la capacità di saper leggere e confrontare  gli eventi della storia che altri detengono, poi di contestualizzarli con il territorio, le memorie locali, le modificazioni naturali e del costruito, che nello scorrere del tempo è passato dalla forma estrattiva in quella additiva per essere poi frazionata e in seguito migliorata nei secoli successivi.

Realizzare una ricerca storica che sia condivisa all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”non è un tema di facile attuazione.

Chi è riuscito nell’impresa, ha raggiunto l’intento, perché, coadiuvato da figure opportunamente  formate, oltre a istituti universitari specifici, con una dose di sapienza che non ha mai eccede negli elementi distintivi.

Solo seguendo questa diplomatica è stato possibile creare l’ intreccio arboreo ideale, in grado di raffigurare gli oltre cento Katundë, suddivisi in ventuno rami di macro aree in grado di raffigurare e dare forma alla regione storica.

Comporre l’albero genealogico in cui le radici alimentano e sostengono, solo ed esclusivamente le sei caratteristiche fondamentali che distinguono gli Arbëreshë dagli altri popoli del mediterraneo, è il risultato a cui si è addivenuti e da cui partire per diffondere certezze.

Si è definito da dove inizia la storia degli arbëreshë, senza andare troppo indietro nel tempo e perdere il filo del tempo; quali siano stati gli elementi fondanti; cosa ha determinato la volontà di migrare, tra il 1469 e il 1502 , e tracciare  con sacrificio le basi della odierna regione storica diffusa arbëreshë.

In oltre è stato definito, cosa ha permesso di sostenere le macro aree,  diffuse nel meridione Italiano e senza collegamenti brevi e diretti sia stato possibile resistere e rispondere alle diverse epoche con la stessa misura identitaria; quali siano stati gli elementi tangibili e intangibili che sostenuti questa metrica identitaria e cosa fondamentale, perché nella valle del Crati nella alle falde della Sila sia nato il costume tipico, che racchiude tutta la credenza di fratellanza civile religiosa e profana della storica regione .

Solo grazie agli studi realizzati a seguito di un preciso progetto di indagine archivistica, sul territorio e di confronto con le memorie storiche, grazie alla conoscenza delle parlate tipiche e il saper interpretare usi e costumi si è potuto approdare alla definizione che gli Arbëreshë, rappresentano il modello d’integrazione tra i più longevi, il più riuscito solido e vivo del bacino del mediterraneo.

Considerando fatti avvenimenti e paure, che diffusamente si diffondono attraverso i media nell’epoca che viviamo, parlare della storia degli arbëreshë, servirebbe utile diffondere tranquillità a tutta la popolazione europea in ansia, per le costanti ed innumerevoli migrazioni, immaginate tutte come eversive.

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L’ARTICOLO 3 - 6 - 9  DELLA COSTITUZIONE NON SONO PER IL PARLARE SOLTANTO

L’ARTICOLO 3 – 6 – 9 DELLA COSTITUZIONE NON SONO PER IL PARLARE SOLTANTO

Posted on 29 luglio 2021 by admin

CasaNAPOLI; Atanasio Architetto Pizzi  Basile – La caparbia volontà di aprire un nuovo stato di fatto,  per consolidare i trascorsi storici e culturali della regione arbëreshë, non trova favori nella scia spenta della cometa le  cui ceneri  ingrigiscono ogni cosa.

Continuare imperterriti a ritenere quale unica fonte, possa essere l’oasi che stagionalmente irriga metrica, consuetudini, costumi e religione, non fa presagire futuri longevi.

Non è concepibile immaginare che una scialuppa mal ridotta, poco capiente, di legno antico, possa adempiere a ruolo di cisterna per mantenere a galla, genio locale e i parallelismi di ambiente, è puro idealismo e quanti immaginano ciò, sono e restano in malafede o non hanno elementi culturali sufficienti per comprendere una diplomatica così complessa.

Nonostante siano stati innumerevoli i protocolli del passato e sino al secolo scorso, ad affiancare diverse discipline per la sostenibilità di questi modelli antichi, l’ arbëreshë, figlia delle prediche domenicali, resta materia per prescelti, in quanto, le linee di tutela sono immaginate “esclusivamente” nel numero dei parlati e a null’altro.

Si persegue, con ostinazione, la via degli archivi, biblioteche e depositi fascicolati comunalclericali, dove si conservano molte cose, delle quali poche utili, elevandole a regola indiscussa della storia di una non meglio identificata macro area.

Purtroppo, queste ostinazioni irreali, non vedono  i solchi della storia incisi sul territorio, arte degli uomini, che vi hanno vissuto in comune accordo con la natura.

L’uomo è l’artefice, attinge la punta del suo aratro, nel calamaio dell’ambiente naturale, suggella così il patto “irripetibile”, spetta poi agli uomini che verranno  sostenere con  parsimonia misurato il patrimonio.

Quanti hanno immaginato di lasciare il Genio Locale, al libero arbitrio dei comunemente, fuori dalle aule per le discussioni di sostenibilità, non facevano progetti sostenibili per il futuro.

Quanti si sono resi protagonisti di questo vetusto stato di fatto, si  assumano, oggi, la responsabilità storica della deriva prodotta e ancora in atto pericolosa.

Sono i colpevoli morali delle vicissitudini anomale che vivono gli elevati, le vie della storia, in nome delle esigenze moderne si preferisce coprire e cancella le forme della storia; in altre parole debilitare se non addirittura rimodellare il senso armonico dell’involucro protettivo la metrica arbëreshë.

Sino a pochi decenni addietro, emergevano con forza la vitalità di questi ambiti nel mentre si percorrevano  le vie  un tempo arbër; palesi erano le tante case con intonachi consumati, culle fondamentali per nuove generazioni, sulla scia di antiche consuetudini oggi non più tali.

Involucri costruiti in cui si parla, si piangeva e si gridava in antica inflessione; strati invernali di fumo, ricoperti calce, come i fogli di un calendario della vita, ormai ferma di scuro perenne.

Sono questi i segni attraverso i quali si percepisce l’insieme di case e di cose, unite idealmente da quel ponte  di canto, patti di mutuo soccorso in  valje di genere.

Solo pochi decenni addietro, quando camminando tra sheshi, rrhugat e hudat, i luoghi ameni di primavera,  conferma di gjitonia sostenibile, si faceva spogliatura agreste, tessendo legami familiari, mentre felici bambini crescevano giocando in lingua materna; poco più in la, case silenziose, sedie vuote vivevano di memoria, mentre si preparavano  semine di abbondanza per il futuro.

Oggi la memoria altrui si dipinge sui muri, quella locale cancellata e i luoghi che segnarono la storia, diventano una lavagna irriverente, per quanti offrirono la propria vita in giusta causa.

Ritenere che sia ininfluente il “genio locale degli arbëreshë”, quando tutto e facilmente rilevabile nei segni incontaminati sul territorio, da la misura di quanta cultura sia stata messa in campo.

Se nei secoli XV e XVII poco si sia attinto, per  lo scontro e il confronto tra indigeni e minoritari, tollerato nel secolo XVIII, perché iniziava il processo di formazione, oggi non si può immaginare tutela, in forma monoclonale in dormienza,  in epoca multimediale.

In base ai frammenti fisici e di memoria ancora vivi nelle macro aree che compongono la regione storica, non si concepisce perché si continua a porre nelle disponibilità di singoli o associati, la possibilità di tracciare percorsi inesistenti, nel mentre forme di cartografia statica, sono peculiarità in attesa per circoscrivere e tracciare percorsi di minoranza.

Di tutte le civiltà della storia, cui sono state attribuite attività di sviluppo, è del genio che le ha contraddistinte, lasciando tracce indelebili di epoca e luogo, quelle arbëreshë non sono ancora presenti in elenco.

Le minoranze storiche generalmente, emergono dal piano generale di una nazione, per le forme idiomatiche, tuttavia, questa singolarità identificativa non può e non deve essere come il modello risolutore, giacché, per disegnare una forma completa riferibile a un gruppo minoritario, vanno rilevati gli elementi fondanti e riverberanti l’espressione parlata.

A tal proposito valga di esempio cosa è successo quando si è dovuti operare per trasferire o meglio delocalizzare un paese minoritario del meridione.

Avendo per decenni i divulgatori ufficiali, tradotto erroneamente, il modello di mutuo soccorso o meglio, luogo pulsante dei cinque sensi: la “Gjitonia”, come “Vicinato” è avvenuto quanto qui di seguito s’informa e si racconta come monito per il futuro.

Oltre duecento famiglie hanno subito l’incubo, percorso il calvario ancora non terminato, pagando pegno, per colpa di quanto condussero ricerche identificative senza alcuna formazione specifica in seno alla minoranza.

La storia ricorderà per molto tempo a venire, in quanto, la mera forma orale erroneamente tradotta, anzi si dice sia stata estrapolata da ambienti indigeni e altre diaspore sociali, ha indotto i progettisti del nuovo sito in grave errore, segnando la vita dei malcapitati de locati, molti dei quali hanno preferito migrare, altri adire le vie legali e le figure più anziane passare a miglior vita.

Essendo questa vicenda largamente documentata con carte originali di prima mano, ancora non archiviate, si può affermare senza commettere errori di sorta, che la frase comunemente divulgata, più devastante e pericolosa in senso di smarrimento e soppressione dell’identità minoritaria, “sia stata”, dagli anni settanta del secolo scorso e sino a oggi senza ravvedimento o soluzione di continuità:

 

” La gjitonia, come il vicinato, il rione o il quartiere, disposta su uno slargo circolare”

 

Come un concetto così intimo e profondo sia stato lasciato alla libera interpretazione, non è dato a sapersi, eppure le avvisaglie disarmoniche erano palesi o facilmente deducibili, visto i sostantivi noti, per ogni genere capace di sfogliare un banalissimo dizionario.

La Gjitonia estrapolata dal consuetudinario linguistico doveva caratterizzare la minoranza non certo per banalizzarla, doveva risvegliare titoli di lettura, capitoli, specie in campo sociale urbanistico e architettonico, innescando processi di pensiero univoco sotto i quali riconoscersi.

Ciò nonostante si è fatta una confusione, a dir poco paradossale, tra: Gjitonia, Vicinato, Rione, Quartiere, Shesho, e Medina immaginandoli tutti come ingredienti da utilizzare secondo le salse che si ritenevano più gradite.

Se poi a queste volessimo aprire la penosa vicenda che associa gli agglomerati arbëreshë al modello urbano  denominato Borgo, è segno che il fondo della botte e stata talmente raschiato da dover utilizzare lo storico caratello di buon sangue, come legna da ardere.

La malgama di riferimenti pur avendo un sostantivo definitivo e preciso, illustrata in maniera poco attenta, poi offerta e distribuita ricoprendola da veli di melassa, ha consentito ai liberi pensatori, di utilizzare la radice a proprio piacimento e le dinamiche storiche di Katundë, Medina e Gjitonia, furono un banale componimento numerico o semplice certificato di estratto catastale.

Il dato ha così, sintetizzato il senso storico del modello urbano e sociale più antico del mediterraneo, determinato dalla numerazione di particella storica di vicinanza,  del catasto edilizio e dei terreni.

La leggerezza con cui si declinano le forme sociali della minoranza storica, più longeva del mediterraneo, devono da oggi in poi far riflettere, certamente vanno saggiamente, ponderate con ragione, da gruppi di lavoro multidisciplinare debitamente e preventivamente formati.

Non è più concepibile che singoli ricercatori, possano disporre della storia di tutti noi minoritari; l’atto della divulgazione deve essere condiviso, prima di esporre in pubblico, in conferenze divulgative o qualsiasi forma scritta, giacché, producono danno inestimabile alla consuetudine sociale se inesatte e quello che più fa danno lasciano  un tempo peggiore di quello trovato.

Se a questo associamo il dato che parliamo di popolazioni, come gli arbëreshë, notoriamente privi di qualsiasi forma scritta, se non casi tumultuosi che allontanano e non rende solidale la regione storica, si deve avere un rispetto maniacale delle cose dette fatte per conto e per nome degli arbëreshë.

Questo è uno solo degli argomenti, liberamente interpretati e lasciati nelle trattative dell’arbitrio di tutela ancora privo di un indirizzo condiviso, cui dovrebbero dare seguito alle attività, che con risorse istituzionali dovrebbero valorizzare con determinazione, le cose e i trascorsi delle minoranze.

Si sarebbe da trattare il costume tipico, ritenuto emblema unico, quanto invece non va oltre le macro aree.

Si dovrebbe creare un archivio degli illustri che hanno portato la regione storica arbëreshë in auge a brillare e alcune volte in ombra a penare.

Si dovrebbe realizzare la scala delle priorità, dove distinguere, pionieri della regione storica arbëreshë quali protagonisti incontrastati, nel campo dell’editoria, della scienza esatta, della cultura e nella ricerca di soluzioni sociali, come quella poi non più intrapresa e ancora sospesa della questione meridionale.

Qui pero entriamo troppo nei dettagli della politica e della storia che conta, forse e meglio rimandare ad altra sede gli argomenti, per adesso cerchiamo di focalizzare, gjitonia, costume e calendario arbëreshë, quello che prevede: il tempo grande e il piccolo, definiti da Aristotele, l’Estate per confrontarsi e l’Inverno per isolarsi.

Questi e molti altri ancora sono gli argomenti che dovrebbero rientrare nei trattati da focalizzare per rispettare gli articoli 3, 6 e 9 della Costituzione, senza voler entrare nei meriti Europei, che renderebbero troppo complicato e arduo l’argomento di tema diffuso, ma sin quando si ritiene che questo sia materia mono cellula e non per gruppi di ricerca e definizione, tutto si risolve in una coltre di cenere, la stessa che dal secolo scorso, strato dopo strato appiattisce ogni cosa, come prevede il disciplinare imperterrito della globalizzazione.

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PARLATE, PARLANTI, COMMEDIE E COMMEDIANTI: IL POCO RISPETTO PER SE STESSI

PARLATE, PARLANTI, COMMEDIE E COMMEDIANTI: IL POCO RISPETTO PER SE STESSI

Posted on 13 giugno 2020 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) -Nello studio degli elementi che caratterizzano i luoghi attraversati, bonificati e vissuti dalle genti arbëreshë, oggi, sono in auge appellativi quali: Borgo Arbëreshë, Sheshi la Piazzetta, Gjtonia come il Vicinato, o addirittura Gjtonia come Rione e Quartiere (????????????????).

Per essi i dipartimenti, elevati per rafforzare i percorsi storici o meglio l’evoluzione della lingua, non hanno svolto alcuna azione identificativa per marcare la distinzione, dal comunemente indigeno, a quanto attribuito agli arbëreshë.

I temi di questi luoghi istituzionali hanno preferito seguire le gesta di Diogene, invece che  tracciare una strada comune o almeno stendere un filo di guida identitaria a modo di “Arianna” cui affidarsi per non perdersi nel buio dei boschi la retta via.

Rimane inesorabile ad oggi lo scenario delle riverberate divagazioni,  privata della più elementare base culturale, tale da poter fornire almeno una spalla certezze, in quanto sono stati seguiti i protocolli processuali o rotacismi linguistici, terminando l’inutile corsa all’oro, addirittura  accogliendo le divagazioni di figure il cui unico titolo era racchiuso nel volume del campanile innalzato con pena e opere di carità, muratura incerta senza un idoneo legante di sapienza scientifica.

Non è più tempo di eleggersi storici, immaginando che la ricerca sia un giudizio dove trionfa chi ha più testimoni e prove documentali da esibire.

Lo storico è simile ad uno atleta che scala una montagna; la cima potrà raggiungerla solamente se ha energie, capacità e intelletto fuori dal comune.

È inutile addentrarsi in luoghi e ambiti articolati o dove nessuno per rispetto dei propri avi non ha mai osato, la montagna sacra, si potrà scalare solo con un buon progetto a tappe predefinite; nulla è scontato o garantito perché la prima volta ti porta ad indagare e prendere le misure, solo dopo in seguito con la giusta cautela e tanto sacrificio si raggiunge la cima.

Saranno tante le volte che si dovrà tornare in dietro e rivedere il progetto, perché non esistono capitolazioni a cui aggrapparsi, non esistono catasti onciari a cui assicurare le corde; quando si scala la montagna si è soli, l’unico supporto logistico sono il bagaglio di conoscenza, l’elasticità mentale: solo su di esse si può contare per scalare la montagna e raggiungere la meta ambita.

Una catastrofe culturale in senso di attribuzioni accadimenti senza precedenti imperterrita invade gli ambiti della regione storica arbëreshë e nonostante un grande velo di buon senso si prodigano ad avvolgere il patrimonio per evitare usurpazioni, è sempre numerosa l’avanzata degli “ArbhAttila con le mani volte al cielo” in cerca di un equilibrio che non troveranno mai e intanto rendono arido ogni anfratto in cui transitano.

A tal proposito e bene precisare, che gli arbëreshë, notoriamente tramandano il codice identitario, nella sola forma orale ritmata nelle consuetudini pagane e della religione, greco bizantino.

La forza di tale sistema è regolata da figure fondamentali quali; il capofamiglia, lo stato, la forza decisionale e quella politica economica la moglie, un sistema forte e invalicabile che sino a quando è stato rispettato e condiviso ha dato risultati solidi.

I paesi di origine arbëreshë, innalzati a seguito di ripopolamento programmato secondo le arche definite, dallo stratega Giorgio Castriota e i regnanti Angioni nelle regioni dell’Italia meridionale, sono tutti caratterizzati da elementi identitari, riconducibili a: epoca, luogo e sistema urbano e toponomastica.

Relativamente al periodo storico esso comprende il basso medioevo e l’inizio del rinascimento, era questa l’epoca che gli arbëreshë sceglievano il luogo dove insediarsi seguendo le direttive secondo l’antico enunciato di Aristotle.

Il principio prediligeva, aree collinari, le stesse che notoriamente i luoghi del trittico dell’agricoltura mediterranea: vite, ulivo e cereali.

I piccoli centri si sviluppano sotto l’aspetto urbano secondo quattro fuochi, gli stessi che caratterizzano tutti gli insediamenti Arbanon lungo le antiche arche ovvero: Kisia, il luogo di culto, Brègù, l’ambito di avvistamento, Sheschi, gli insediamenti civili e Katundë, le aree di interscambio o di movimento sociale e culturale.

La sub-regione calabrese citeriore, assieme alla parte confinante ulteriore, in virtù di storia, politica e sociale, sono sempre state oggetto di lasciti forzati, nuove fondazioni o ripopolamento territoriale, che poi trovavano come luogo di identificazione e protezione i  detti “centri storici minori”.

La macro area, nota per l’alto grado di sismicità e rischio idrogeologico è stata spesso scenario di questi fenomeni sociali le cui conseguenze innescavano processi le cui conseguenze a breve e lungo termine erano rispettivamente: distruzione, abbandono  e bisogno di ricominciare.

Se a tutto questo protocollo, avuto luogo più volte, associamo le carestie e le pandemie di macro area, a rigenerarsi e ripopolare questi ambiti, sono state sicuramente le popolazioni di un “livello caparbio superiore”.

Una buona parte di questi centri minori, sono stati totalmente abbandonati, mentre in altri casi la popolazione si è trasferita in quei pochi sistemi abitativi, posti a satellite dei centri più rappresentativi, che erano risultati miracolosamente poco danneggiati o facilmente riedificabili.

A interessare questo breve scritto, sono proprio quei centri, che si possono identificare anche come luoghi di rifugio, per quanti predisponevano per valorizzare o rendere produttivi terreni incolti o idonei ad essere bonificati, in specie questi centri abitati sono denominati: Kastro, Motte, Casali, Villaggi, Terre, Vichi e Katundë.

Sono questi a contenere e sigillare l’alto potenziale storico delle genti che trovarono rifugio in questi modelli urbanistico abitativi e le forme elementi furono indispensabili modelli che se opportunamente letti, attraverso uno studio approfondito e sistematico, che poi sono le indiscusse, carte attraverso cui tracciare le diverse tipologie insediative o crono tipologie dei materiali.

Un iter che sino ad oggi, ha dato i suoi frutti e rese chiare le tecniche costruttive, veri e propri manuali del costruito e del caratterizzato arbëreshë, a seguito di patti sociali, indispensabili a generare urbanistica, architettura e tecniche costruttive, risorsa del circostante habitat rurale di quelle aree.

Le certezze potrebbe essere ancor più solida, con non poche difficoltà, ma comunque con pochissimi contributi economici privati, il cui risultato darebbe il via a una serie di analisi e  ricerche su un numero ben identificati di centri antichi minori di origine arbëreshë, gli stessi che a seguito di analisi sono ritenuti rappresentativi delle più radicate tradizioni tipologie, le stesse ad avere interessato la Calabria Alto Medioevo, all’alba dell’epoca Moderna.

In riferimento a quanto già racconto e definito con risorse private, in un circoscritto numero di Katundë, andrebbero analizzati un complesso cinto ben identificato più ampio, composto da un articolato sistema di case, strade, vicoletti, spazi e chiese, sviluppatesi seguendo l’orografia del luogo, un vero e proprio agglomerato “rurale diffuso”, nato con il fine di promuovere la messa coltura, prevalentemente a grano e foraggio, coadiuvato da uliveti, vigneti e cereali, medie e grandi distese che si articolano con irregolari ma dolci profili tra le alture del pollino e della presila comunemente detta greca, non per le popolazioni che sono arbëreshë, ma per il credo religioso alessandrino.

Le ricerche sono indirizzate anche, verso presidio militare posto a tutela del limes dai Bizantini contro la minaccia longobarda.

La scelta di questo contesto territoriale è stata dettata dalle particolari caratteristiche dell’area e dalla possibilità di analizzare al suo interno tipologie insediative differenti e dal diverso iter storico.

Gli studi condotti sugli insediamenti della regione mostrano una tipologia di occupazione del territorio caratterizzata da un sistema difensivo ben radicato, con rari stabilimenti di tipo urbano fortificato,in quanto l’abitato prediletto appare univocamente sparso e aperto, non di rado ruotante attorno a, enceintes refuges, promontori la cui fortificazione naturale, ra il luogo dove poter trovare rifugio in caso di necessità.

Questa tipologia d’insediamenti è sorta in funzione della difesa programmata della regione, nel tempo subirà un forte ridimensionamento, limitandosi alla difesa di territori sempre più circoscritti e immediatamente adiacenti, secondo un modello insediativo enucleato che sembra caratterizzare ampie regioni, centro-meridionale.

Kastra a diretto controllo sui numerosi “chorìa”, termine utilizzato per designare tanto il villaggio rurale, quanto il suo territorio di pertinenza, generalmente sfruttato nella coltivazione di ulivi, viti e gelso, e che nell’ordinamento bizantino indicava anche la minima unità fiscale.

La presenza del kastron è stata sicuramente uno dei fattori caratteristici nell’evoluzione del territorio contiguo, favorendo sviluppare in senso rurale, delle varie zone di pertinenza grazie anche, alla presenza di fondazioni monastiche italo greche.

I Monasteri sorgevano nei pressi dei centri di controllo del territorio e le pertinenze di origine arbanon, formando in questo modo un vero e proprio sistema fatto di luoghi di clericali liberi e murati dell’anima, come quelli amministrativi e di operosità, in tutto un modello dello sostenibile  del territorio in cui gli ultimi trainavano senza gloria l’intero sistema.

I sistemi abitativi o centri storici minori si reggono su elementi i cui fondamenti fissano le radici nelle teorizzazioni del luogo a impronta di greci, alessandrini e di tutte quelle popolazioni che hanno reso il bacino del mediterraneo un esempio naturale di vita e di cooperazione tra popoli, lo stesso che è stato nel corso della storia sempre dieci passi più avanti rispetto alle altre popolazioni del globo intero.

Cosi quando comunemente trattiamo e parliamo del noto sheshi, genericamente fatto terminare o finire nel piccolo spazio davanti casa o che mediamente si estende sino a quello del vicino più prossimo, bisogna stare più attenti.

Lo Sheshi è un sistema articolato che avvolge più isolati, un innumerevole sistema di stradine piccole finestre gemellate alle porte delle case, un sistema compatto, intimità costruita dall’uomo del sistema gjitonia.

Lo spazio esterno ovvero quello agreste è quello dello spazio di comune convivenza all’interno del Katundë hanno come ideale murazione il sistema “ingressi finestrelle e strette strade inerpicanti”, una sorta di prova identitaria prima di accedere allo spazio comune che conduce nelle proprie abitazioni.

“Sheshi” non è uno spazio non meglio identificato è una prova identitaria, dove si giunge solo se riconosciuti, diversamente non ti farà mai vedere la luce di quello spazio intimo, se ciò avviene abitualmente conferma di essere stato accolto e di fare parte della famiglia allargata arbëreshë, diversamente dagli altri che vagano e non sapranno mai quando giungeranno a destinazione.

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Mostra "l'oro arbëreschë a Napoli

Mostra “l’oro arbëreschë a Napoli

Posted on 28 febbraio 2020 by admin

Mostra

NAPOLI (da Un’idea di Atanasio architetto Pizzi)

L’ORO ARBËRESHË A NAPOLI (Haretë Arbrëshë në Napulë)

 

Il Mediterraneo nella storia rappresenta il bacino che unisce, uomini, civiltà, consuetudini, religioni e pratiche di vita differenti.

Napoli sin dai tempi dei suoi fondatori Cumani, fu per le sue peculiarità climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, questo spinge l’ideatore di questo progetto a illustrare quale patrimonio culturale sia stato accumulato in secoli di incontri e confronto tra popoli di radice dissimile.

Attraverso l’idea di progetto, di seguito illustrato, si vuole evidenziare il seme dell’accoglienza  e illustrare, le eccellenze della minoranza Arbëreshë, la storica popolazione dell’Epiro che, dal XV secolo, preferì allocarsi nell’allora regno di Napoli.

Porre  in  evidenza gli aspetti storico/sociali, di  nicchia  partenopea,  assieme  a  quelli  notoriamente divulgati, di estrazione ambientale ed estetica, serve a dare completezza al luogo dove furono elevati i valori di democrazia, convivenza e giustizia del meridione.

Il centro antico partenopeo è sempre stato un luogo baricentrico del mediterraneo e per questo vi trovarono approdo, romani, greci, bizantini, normanni, francesi, spagnoli, austriaci e tante altre popolazioni o dinastie di rilievo; ognuna di essi avendo depositato temi indissolubili, nel tempo, si trasformarono in forza, per la popolazione oltre il costruito storico che divenne per questo unico   e difficile da imitare o riprodurre, dal punto di vista storico, sociale e di confronto tra popoli.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto, dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine verso le periferie, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica di un tempo e quelli di oggi della multimedialità.

La città metropolitana oggi, e il suo centro antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione di essenza Greco Bizantina e poi anche quella arbëreshë.

L’excursus storico, parte proprio nel cuore del centro antico, in quello spazio dove oggi è collocata la statua che raffigura giacente il fiume Nilo; allestito secondo le regole tipiche del sedile lungo il decumano inferiore, dove la piazza intersecava anche la strada che conduceva alla “porta ventosa”detta vico degli Alessandrini.

Il sistema piazza, decumano, vico e porta, erano gli ambiti frequentati da numerosi commercianti sin dai tempi di Nerone.

L’imperatore, apprezzando notevolmente le adulazioni di queste popolazioni di scuola greca, ne fece venire molti altri: fu così formarono in questa città, una piccola colonia, detta “Nilense” ispirati dal nome del fiume benefico della madre patria.

Il monumento, rappresentato con la figura di un vecchio sdraiato, sul lato sinistro su un rozzo sasso da cui sgorga acqua; l’anziano si presenta nudo nella parte superiore del corpo e le parti inferiori coperte da una veste; sotto i suoi piedi sorge la testa di un coccodrillo e intorno bambini gioiosi, che simboleggiano il prodigio naturale  del fiume le cui acque, secondo la credenza locale, fecondava le terre, le donne e ogni essere che si abbeverasse.

Nei pressi di questo monumento, si presume che vi sia stato un tempio, che gli Alessandrini dedicarono ad Iside, si racconta in oltre, che nel pronao del tempio si depositavano le tavole votive, che attestavano le grazie ricevute dal “Fiume”, la maggior parte delle quali erano di marinai Alessandrini scampati da naufragi.

Davanti al frequentatissimo tempio sostavano donne vestite di bianco che cantando le lodi della dea salutare, dopo le preghiere si trascinavano carponi con la faccia, sul pavimento del tempio, pregando per la salute e il benessere dei loro cari.

Si presume che da queste credenze popolari siano state ispirate quelle partenopee degli ex voto o dei santuari dove tra sacro e profano, si onorano alcuni santi locali.

La via oggi di Mezzocannone, nella sua parte inferiore alle origini dell’espansione muraria era interrata fra le alture dell’Università e di S. Giovanni Maggiore.

Il tratto della cinta, che in origine coincideva con il lato orientale di questa via, fu mutato dopo il 326 a.v. C., l’anno del trattato di alleanza con Roma, per accogliere gli abitanti della città vecchia, (Parthenope) nella cinta della nuova (Neapolis) e così furono ampliate le mura nella parte di occidente con l’unione dell’altura di S. Giovanni Maggiore in principio esclusa dalla città.

Per evitare successivi affanni economici il muro dal vicoletto Mezzocannone a poco oltre la rampa di S. Giovanni Maggiore fu conservato, realizzando a poca di stanza e parallelamente un altro muro, incassando la via fra le due murazioni, chiusa da una porta nell’estremo superiore dalla “Porta della Ventosa”.

Nelle annotazioni delle strade e i vicoli ricadenti nel perimetro di questa  regione,  non  e  superfluo ricordare la strada che si apriva sulla porta, appellata l’Alessandrina per la rilevante presenza di mercanti di quelle terre riuniti qui a pregare e negoziare.

La conferma è resa dalle citazioni di Svetonio e di Seneca; il primo scriveva: autem modulatis Alexandrinorum modulationibus , qui de commeatu Neapolim confluxerunt, e  Seneca: Subilo nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae preamitti solent et nunciare sequuturae clasis adventum.

Camillo Tutini, lega la strada in epoca cristiana riferendo che in questo vico vi fosse stata edificata una chiesa dedicata a S.Atanasio Patriarca d’Alessandria, come si raccoglie dal libro delle visite della Chiesa maggiore Napolitana, ove si legge: S. Athanasius Alexandrinus in regione Nili, in vico dicto Alessan- drinorum.

Alla fratria ricadente in questo rione del decumano inferiore, erano ascritte un numero considerevole di nobili famiglie, tra le più antiche, infatti  dimoravano nei loro sontuosi palazzi di rappresentanza allocati nell’impianto ad impronta greca, gli:

Acquaviva • Afflitto • Avalo • Barberini • Bologna • Brancaccio • Capano • Capua • Capuano • Capece • Carafa • Cardenas • Cavaniglia • Dentice • Filingiero • Frezza • Gaetano • Gallerati • Galluccio • Giudice  •  Guevara • Luna • Milano • Montalto • Piccolomini • Pignatelli • Sangro • Sanseverino • Sarracino • Sersale • Spinelli • Ulcano.

A seguito della diaspora balcanica, varcarono l’Adriatico, apprendisti, soldati, contadini e clerici, con lo scopo di riscattare un mestiere, bonificare terre, difendere lingua, consuetudini e la religione.

Identificati notoriamente come “Greci”, va precisato che tutte le popolazioni del levante seguivano il rito  cosi  denominato,  pertanto  l’appellativo  “va  inteso  più  come  riferito  alla  religione  che  alla nazionalità”; riconducibile ai discendenti di quanti abitarono gli antichi themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus.

Nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, comunemente denominato dai turchi, “Scanderbeg” fu posto alla testa dell’esercito in difesa di quelle terre per contrastare l’avanzata degli ottomani.

Il condottiero distinguendosi in numerose battaglie della cristianità, oltre ad onorare il patto dell’ordine del drago, ereditato dal padre, in difesa degli Aragonesi contro le armate Angioine rappresenta il bilico per la divisione dei ruoli del suo popolo.

Durante la sua permanenza  nette  terre  dell’allora  regno di Napoli,   ebbe  modo  di tracciare “le Arché dell’infinito arbër”, linee strategiche dìinsediamento, avevano anche lo scopo di preservare la radice originaria degli arbereshe e nel contempo ripopolae Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) indispensabili punti di avvistamento e controllo dei territori, o meglio focolai delle ideologie Angioine.

Altra nota degna di citazione è la visita a Napoli di Giorgio Castriota, la sosta a Portici, ospite di nobili locali, la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla via della Libertà).

È da qui che si mosse la mattina seguente, per giungere nella capitale dal lato orientale della città, proprio nel rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguito si diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per il quale, Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota preferì, Napoli alla cristiana Roma e alla lagunare Venezia.

La nobile vedova dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara, proprio a ridosso del decumano inferiore e prima di piazza del Gesù.

Tommaso Assan Paleologo nel 1518 costruì a Napoli una chiesetta padronale dedicata a SS. Apostoli e nel 1522 eresse un altare gentilizio nella basilica di San Giovanni Maggiore la chiesa prospiciente l’antica via degli Alessandrini.

Fu scenario di accoglienza la piazza del Nilo e la strada detta degli Alessandrini ora detta Mezzocannone, quando, cadute Corone e Modone, Carlo V accolse con tutti gli onori l’esodo delle popolazioni cristiane giunte a Napoli con le navi di Gian Andrea Doria.

Nel luglio del 1534 va citato l’episodio, in quanto, solo in quella giornata vi giunsero a Napoli più di 8000 esuli, di questi più della metà trovarono accoglienza nelle regioni del regno.

Questi cenni e molti altri caratterizzarono la storia di Napoli e del meridione italiano in senso di accoglienza il cui seme ha iniziato a germogliare dalla piazza del Nilo, il decumano inferiore e le vie limitrofe, espandendosi in ben sette regioni del meridione italiano.

Divenendo per questo teatri di vita a cielo aperto dove anche gli arbëreshë furono e sono tutt’oggi protagonisti in quanto portano alta la bandiere del modello d’integrazione più solido del mediterraneo. Oggi le gesta di Zoti Gjergj detto Scanderbeg in favore di Ortodossi, Bizantini, Alessandrini e Cristiani rappresentano una parentesi incancellabile degli accadimenti a partire, dal XV secolo.

Le gesta dell’eroe e la disponibilità partenopea del mutuo soccorso racchiudono il senso dell’integrazione e il rispetto dei popoli diversi, vero è che proprio per questa opportunità le genti di queste terre furono divise in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria, ma con compiti e menzioni da portare avanti.

Gli Albanesi si assunsero l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e identificata come Shqip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, accumunati dalle ereditata forma orale; nella consuetudine; nella metrica del confronto canoro fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in pacifico rispetto con le genti indigene.

L’integrazione di queste popolazioni nei territori ritrovati cosi come nella capitale Partenopea, avvenne a seguito di quattro distinte fasi storiche di sedimentazione:

  1. 1. la prima, di scontro o del nomadismo e identificato come dei “Materiali alterabili”;
  2. 2. la seconda, di avvicinamento o dei “Materiali inalterabili”;
  3. 3. la terza, di confronto con le comunità indigene “Festa di primavera”;
  4. 4. la quarta, della formazione politico culturale “Le menti Arbëreshë”;

Quando a Napoli nel 1734 si insediò Carlo II di Borbone, Il 26 febbraio del 1733 a San Benedetto Ullano (CS) aveva aperto i suoi battenti, il nuovo seminario di formazione per la minoranza Arbëreshë, con 17 alunni e 3 professori, ben presto la regione definita dalla Piazza del Nilo, il Decumano Inferiore oltre i cardini superiori e inferiori ad esso connessi, divennero i luoghi di riferimento per gli esuli, in senso di valori culturali, sociali, economici, della scienza esatta, della politica e della religione.

Un fiume di rinnovamento allineato alle politiche unitarie e di riscatto del meridione, senza distinzione di appartenenza sia sociale e sia religiosa.

È l’era degli uomini illustri e Napoli si confronta con il resto dell’Europa, ed è in questo capoluogo ad offrire alle menti più illustri il palcoscenico ideale per confrontarsi con Bugliari, Baffi, Torelli, Giura, Scura, Masci, Crispi, e tanti altri illustri che per le loro idee liberali contribuirono al rendere più efficaci aspetti in ambito culturale economico e scientifico, con lo stesso entusiasmo degli indigeni, che li consideravano fratelli.

La piazza del Gesù con le emozionanti prospettive delle chiese li allocate, sono il luogo più rappresentativo per riunirsi in religiosa “concelebrazione religiosa pontificale”, già spazio per la dimora dei Sanseverino nella capitale del regno e che per una serie di annoverate vicissitudini divenne l’emblema religioso che domina la Piazza.

Lo stesso nobile casato della Calabria i nobili che accolse la parte più consistente di migranti del XV secolo e oggi conservano identicamente gli elementi caratteristici in seno alla lingua le consuetudini la metrica e la religione, dopo che la diaspora ebbe inizio.

Cenni del rito greco -bizantino

Gli esuli Arbëreshë, in seguito dell’imperare dominazione ottomana, fuggirono dalle terre natie nel XIV sec.,per non essere soffocati anche della propria credenza religiosa; e si insediarono, secondo le arche disegnate in comune accordo tra il re Alfonso I d’Aragona e il condottiero Giorgio Kastriota, nell’allora Regno di Napoli.

Gli esuli legati alle peculiarità del rito Greco-Bizantina alla fine di questa secolare vicenda, videro elevarsi l’Eparchia di Lungro, in Calabria, promulgata da Papa Benedetto XV con la bolla “Catholici fideles ritus graeci…”, del 19 Febbraio del 1919.

Poi affiancata , nel 1937, dall’Eparchia di Piana degli Albanesi sotto la giurisdizione di un proprio eparca in Sicilia, con bolla Apostolica Sedes di papa Pio XI.

È opportuno focalizzare questa nascente finestra di confronto tra la chiesa di oriente e quella di occidente, citando brevemente le frizioni che nascono dopo l’insediamento degli esuli, con la realtà dottrinale, seguita dai Vescovi locali.

Inizialmente  gli  arbëreshë  furono  lasciati  ai  riti  dei  prelati  che  li  accompagnarono  nei  territori  di pertinenza delle varie Diocesi latine, immaginando queste ultime, che costoro pur avendo le proprie tradizioni liturgiche e religiose orientali, ben presto avrebbero seguito la via dei latini.

Lo scopo mirava al dato che sarebbe bastato fermare vietando il canale di ricambio di nuovi prelati provenienti dalle terre di origine “i nuovi ortodossi” per questo furono argomento e bersaglio, di accuse, violenze, soprusi, vessazioni di ogni genere, però, non sufficienti a piegarli alle tradizioni liturgiche e religiose latine, e oggi in ossequio, al tempo “ ortodosso”; secondo il rito cattolico greco-bizantino.

La soluzione di questa secolare vicenda raggiunge l’inizio della soluzionwe nel 1742 con l’intuizione di Samuele Rodotà di San Benedetto Ullano, che con l’istituzione del Collegio Corsini, consenti di formare nuovi prelati, in terra meridionale, nominati dal vescovo di Bisignano.

Prima nella sede Ullanese sulla sinistra del fiume Crati e poi in quella destra, lungo lo scorrere dello stesso fiume, nel convento di Sant’Adriano nei pressi di San Demetrio Corone, tutto ciò sino alla vigilia dell’istituzione della prima diocesi, dell’Eparchia di Lungro, la quale apre formalmente il colloquio tra le chiese di oriente ed occidente, tutt’oggi legato da un costruttivo e florido confronto.

Al fine di lasciare un impronta indelebile si vogliono porre in essere le seguenti manifestazioni:

  • In occasione si  auspicano di una concelebrazione religiosa pontificale di rito Greco Bizantino.
  • Raduno dei sindaci dei paesi della regione storica, con gonfalone e ragazza vestite in costume tipico
  • Convegno: storia Arbëreshë e le Arche del regno;
  • Mostra “ NAPOLI E L’ORO ARBËRESHË”;
  • Conferenze, tavole rotonde, per la popolazione scolastica della città metropolitana;
  • Conferenze, tavole rotonde, museo archeologico di Napoli;
  • Conferenze, tavole rotonde, nei plessi Universitari;

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Dita Jote

Dita Jote

Posted on 24 aprile 2017 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Atanasio detto il Grande (in greco: θανάσιος, in latino: Athanasius; Alessandria d’Egitto, 295 circa – 2 maggio 373) fu patriarca di Alessandria d’Egitto. Il suo nome è legato alla Scuola teologica di Alessandria, assieme a Clemente e Origene; le chiese ortodossa, copta, e cattolica lo venerano come santo, quest’ultima lo annovera tra i 33 dottori della Chiesa.

È ricordato inoltre nel calendario dei santi anglicano e luterano, la sua festa è celebrata concordemente da tutte le Chiese il 2 maggio.

Santa Sofia d’Epiro anche quest’anno è in fermento per realizzare la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità.

Il ricordo va a tutti quei personaggi che nell’approssimarsi del 2 di Maggio,a Santa Sofia si prodigavano per realizzare la festa più suggestiva e piena di novità, essi sono tanti ma basta il rievocare gli eventi e il ricordo va ad ognuno di loro.

Si sfornavano ceste di taralli per ben accogliere le visite di rito ed offrirli lungo la processione ai fedeli e ai devoti.

Si ordinavano rendendo più idonee le strade, si adornavano le finestre e i balconi con essenze floreali.

Ogni anno si caratterizzava l’evento con una novità pianificata dalla brillante Commissione e messa in atto dalla popolazione in modo univoco ed esemplare.

L’operosità e l’inventiva paesana realizzarono i rudimentali supporti elettrotecnici, che illuminarono tutto il paese la sera dell’evento religioso, attraverso il contributo di ogni famiglia, che dalle proprie case forniva i segmenti energetici atti a produrre la nuova veste illuminotecnica novità esemplare per quei tempi.

Un altro anno si dipinsero, a calce pigmentata a pastello, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza, producendo così una nuova prospettiva incantevole ed emozionante.

Altri anni si preferirono addobbare la chiesa madre, con arazzi e tendaggi di colore porpora in modo da renderla calda e sontuosa, poiché la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese.

I multicolori Palloni aerostatici che da semplici e rudimentali opere, realizzate con carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e rappezzi di sacchi, oggi sono divenuti esempi che vanno per la maggiore in tutta la provincia, grazie ai progressi della N.A.S.A.(Nucleo Aerospaziale Sant Atanasio).

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che Padre Capparelli, la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona di Sant’Atanasio.

Sentivo mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, la mattina del ventitré vestirsi di tutto punto col tipico costume arbëreshë, avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di un manipolo di devote tra le quali è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt, Anmarja Vukastòrtit, Serafina Kurthvet, Annetta Abelit, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli non vadano calpestati da chi non lo ha adeguatamente conosciuto e probabilmente ignora,  un gioiello  Sofiota irripetibile.

Sicuramente anche quest’anno si snoderanno le consuete processioni verso la Kona e poi all’Ottava per le vie del paese, assieme uniti e rispettosi del nostro grande ed amato Sant’Atanasio, capace di unire tutti i sofioti il giorno del 2 di Maggio nella ideale processione dove o con la presenza fisica, o col cuore o con i ricordi ognuno partecipa a questa corale e antica credenza sofiota.

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STANDARD…….. MA COSA?

Posted on 21 ottobre 2010 by admin

Leggendo questo passo di Norman Douglas, nel volume Vecchia Calabria del 1915 riflettevo su cosa sia cambiato da allora ad oggi, se in meglio o in peggio.

“ La prima impres­sione del visitatore è di un abbandono peggiore di quello che si vede in Oriente. Non c’è soltanto disor­dine alla periferia: è un caos deliberato e sinistro Continue Reading

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