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INQUADRAMENTO STORICO DELL’ABITATO DI SOFIA IN GHATHARVETË ARBËREŞË

INQUADRAMENTO STORICO DELL’ABITATO DI SOFIA IN GHATHARVETË ARBËREŞË

Posted on 03 novembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Per tracciare il percorso storico di questo Katundë, seguendo le tappe di terra in soglia, è necessario volgere lo sguardo al suo cuore più antico, quel nucleo silenzioso dove il tempo sembra aver rallentato il passo.

È qui, che tra le vie che ancora custodiscono l’eco dei primi passi e il respiro delle pietre consumate, si dischiude il centro originario, avvolto dallo storico camminare che ne delinea il perimetro come un abbraccio materno colmo di sacralità.

Solo attraversando questi tracciati fatti di braccia tese e pronte ad avvolgere stringere con le mani aperte e, ogni sensazione si può avvertire, se in grado di ascoltare l’anima di questo centro antico, oggi segnato dalla toponomastica storica, che lo rende luogo sospeso fra passato e divenire, dove ogni svolta espone il suo contributo, ogni luogo di sosta è una mano aperta e sin anche le ombre, qui conservano segni di luce.

Tracciare il confine del centro antico del Katundë Terra di Sofia, significa misurare non tanto lo spazio, quanto il respiro di una memoria antica più volte rinnovata.

I punti e le arche che lo definiscono non sono soltanto segni di pietra o di calce, ma nomi che sussurrano, il luogo che custodiscono con la sostanza del tempo.

Essi si appellano Chiesa, Strada Grande, Luogo dei Frammenti, Cancello, del Pascolo o della Lavorazione, Strada verso l’Alto, il Promontorio e Strada verso il Basso.

 Questi tutti assieme formano un abbraccio chiuso dove si raccoglie l’intero ciclo dell’esistenza in forma di fede, lavoro, ascesa, ritorno, soglia e apertura a nuove accoglienze.

Tradurli in arbëreshë è impresa ardua, in quanto la lingua dei padri non conosce la freddezza dei modernismi, né accoglie con facilità gli appellativi che si spingono oltre la sfera intima e domestica.

Ogni parola, in quell’antico idioma, è un gesto d’anima, un soffio che appartiene al mondo privato più che alla mappa del visibile.

Così, chi volesse dar luce a questi nomi, chi cercasse la corrispondenza tra la lingua e la pietra, dovrebbe spingersi fino a Napoli, là dove si conserva, ancora, la scienza del ricordo e la misura delle antiche parlate. Solo lì, forse, un lume potrà rischiarare l’ombra di queste parole, e il viandante potrà comprendere che ogni nome è un frammento d’identità, ogni strada una preghiera rivolta al tempo.

In questo abbraccio, disegnato in forma di arche e mani aperte, si compiono gesti antichi che fanno Katundë, che poi non è altro un invito all’unione, al confronto e al muoversi assieme.

Le sue pietre, disposte come dita che si tendono verso l’altro, raccontano un cammino di incontri, non di conquiste.
Qui gli indigeni offrirono ospitalità ai Bizantini,  Cistercensi che portarono il rigore della loro fede e dell’opera, poi vennero gli Arbëreshë, riecheggiando il loro parlato come un canto di memoria.

Ognuno lasciò un segno, ma nessuno impose il proprio e, tutti si riconobbero parte di un disegno più grande, dove la diversità divenne forza e la differenza, armonia.

Così, nel circoscritto silenzioso del centro antico, si legge una lezione che non conosce tempo e, dove la civiltà non nasce dominio, ma l’ascolto reciproco, non l’eccesso, ma la misura, non la forza, ma il desiderio di migliorarsi insieme, come mani che si stringono nel rispetto del comune destino.

Resta, come un’impronta di luce sulla pietra, la traccia di questa terra riflessa viva, fertile e, indomita.
Dopo una parentesi di confronto e colma di vicissitudini naturali durate sino al XVIII secolo, anno di arrivi le sue genti hanno sostenuto questo Katundë hanno generato cultura e uomini capaci di donarsi senza misura, animati dal desiderio di rendere il Meridione un luogo più giusto, più colto, più umano.
Mentre il centro antico cresceva come un cuore pensante, divenendo crocevia di credenze, di saperi e di gesti tramandati, lì si elaborava una sapienza locale, nutrita di lingua arbëreshë, parlata come una preghiera e scolpita come un atto d’amore verso la propria origine.

In quella lingua non si discuteva: si meditava e, ogni parola era un ponte fra terra e spirito, fra l’esperienza quotidiana e il mistero dell’essere.

Eppure, a distanza di secoli, un dubbio ci raggiunge e ci inquieta: quando gli Arbëreshë parlavano, chi li ascoltava davvero?

Chi era in grado di comprendere quei concetti così alti, così protesi verso il futuro da sembrare, ancora oggi, parole non completamente afferrate?

Forse pochi e, solo coloro che avevano ancora l’orecchio rivolto all’essenziale, al ritmo della natura e alla voce dell’anima, mentre gli altri, forse, udivano soltanto suoni esotici, senza cogliere il pensiero che vi ardeva dentro: un pensiero che non si imponeva, ma invitava; che non dominava, ma insegnava a vedere con occhi nuovi.

E così questa terra, pur appartata, si fece culla di un pensiero luminoso, di un umanesimo meridiano che nessuna dimenticanza potrà cancellare.

Un pensiero che ancora oggi ci parla, se abbiamo la pazienza di ascoltare, come si ascolta un vento antico che passa tra le pietre, portando con sé il segreto di chi seppe parlare prima che il mondo imparasse a capire.

Un centro antico rigenerato dagli Arbëreshë non è solo pietra e memoria, ma rappresenta una soglia incantata, un respiro che accoglie.

Le sue vie sembrano disegnate per ricevere e restituire amore, e ogni cuore che vi si posa diventa parte di un ritmo comune, un battito solidale che unisce chi resta e chi è partito.

Qui tutto vive di un’armonia segreta, dove l’antico e il nuovo si abbracciano come fratelli che si riconoscono dopo un lungo cammino.

Le soglie di un Katundë sono fatate perché non separano, ma congiungono, le linee di luce fioca del camino e quella del sole e quando si incontrano la nostalgia e la speranza, la lingua del passato e il silenzio del presente e sempre li pronta ad ascoltare.

Ogni passo dentro questo cerchio di case e memorie rinnova il voto della fratellanza, il desiderio di una vita comune fatta di gesti semplici, di rispetto e di tenerezza condivisa.

E noi, che siamo partiti, portiamo questo lume nel cuore, consapevoli di appartenere a una terra che non ci abbandona, e a un amore che non si disperde.

È a noi, figli lontani ma fedeli, che spetta il compito di affermarlo con voce chiara e, senza vergogna che siamo innamorati, che non tradiremo per nessuno e in nessun dove quei luoghi di passione senza eguali.

Perché Katundë non è solo un paese, è un sentimento che non muore, una soglia eterna dove ogni ritorno è un atto di verità.

Naturalmente, questo è un dono, un vantaggio per chi, discendente di quella stirpe luminosa, diventa olivetano e vive a Napoli.

Qui, nei vicoli dove il sole si rifrange sui portali antichi e l’eco dei passi si confonde con il respiro delle botteghe, come i riverberi dei Katundë si amplificano e prendono nuova forma.

Ogni strada del centro storico sembra custodire un riflesso della terra madre, un accento della lingua perduta, un gesto d’artigiano che reca ancora nel polso la grazia arbëreşë.

Lungo le pieghe che scendono dalla via Furcillense verso il mare, la memoria diventa vento salmastro.
Si respira la stessa vocazione al mescolarsi, al farsi ponte tra oriente e occidente e, quel mare, che i nostri avi Arbëreşë benedissero con parole di fiducia e con mani alzate al cielo, rimane oggi simbolo di un miracolo mediterraneo e, l’integrazione più solida, gentile che la storia di queste terre abbia conosciuto.
Un esempio nato dal contatto, non dalla conquista, dall’ascolto, non dal dominio e da queste rive, che si allungano verso levante, fino a lambire idealmente le sponde del Gange, dove risuona ancora il messaggio dei padri: che ogni approdo è una rinascita, e ogni incontro è una forma di salvezza.

Così Napoli, figlia del mare e madre di accoglienza, si fa custode dei riverberi arbëreşë, amplificando nel suo grembo urbano la lezione più antica, secondo cui, nessun popolo si eleva da solo, e che solo nel riconoscersi l’uno nell’altro nasce, la civiltà che resiste alle cose e al tempo.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-11-03 – Lunedì

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UN ARBËREŞË ADOTTATO DALA DEA PARTENOPE NEL MOMENTO DEL BISOGNO satë mëbàmj mendë mëmenë

UN ARBËREŞË ADOTTATO DALA DEA PARTENOPE NEL MOMENTO DEL BISOGNO satë mëbàmj mendë mëmenë

Posted on 28 ottobre 2025 by admin

Mamma2NAPOLI (di Atanasio Pizzi arch. Basile) – Era l’aprile del 1985 quando decisi di fare ritorno a Napoli, la città che avevo lasciato con il cuore pieno di speranze, nostalgie e promessa data.

Vi tornai con l’intento di ricostruire una casa e una famiglia insieme a mia moglie e a mio figlio, portando con me il bagaglio delle esperienze e delle fatiche accumulate sino ad allora.

Le stesse che non furono semplici da esternare e non furono anni semplici, se poi aggiungo che in poco tempo persi molti dei miei antichi punti di riferimento, quei legami che avevano segnato la mia giovinezza e dato forma alle mie prime certezze, la salita che dovetti affrontare non fu solo quella della sapienza ma di molte altre battaglie sociali.

Per questo, per almeno due decenni, non mi voltai indietro a guardare e, Napoli, mi accolse come una madre ritrovata.

Partenopee mi offrì solo il suo seno generoso, ma apri tutte le su strade migliori, nutrendomi di cultura, di arte e di umanità.

Fu grazie a lei che trovai il coraggio e la forza di rinascere, di formarmi lentamente nelle botteghe dell’architettura, dalle scuole e dalle maestranze li nella “Furcillense Via” fino alle esperienze che mi avrebbero condotto oltre quei confini, verso nuove scoperte nutrizionali di cultura, sapere e titoli.

Inizia così un percorso di crescita parallelo a quello universitario, portato moralmente a termine ma non certificato per un esame mancante e la via fu quelle delle botteghe più prestigiose dell’architettura e del restauro della scuola Napoletana.

Tra il profumo della calce e il rumore del ferro battuto, si forma lo sguardo di chi impara che l’architettura non è solo progetto, ma gesto, materia, tempo.

Le giornate si susseguono tra tavole da disegno e cantieri storici, dove ogni muro racconta una stratificazione di vite.

È qui, nel cuore vivo della città, che la teoria incontra la pratica, e la conoscenza accademica si misura con la concretezza del mestiere.

Questo stato di cose hanno innalzato, un destino intrecciato tra memoria e vocazione e, mi condusse, quasi naturalmente, a frequentare le storiche botteghe di architettura napoletana e, tutte luoghi dove il tempo sembrava essersi fermato, sospeso tra il respiro delle pietre e il suono delle matite che graffiavano la carta da lucido.

Entrare in quelle stanze era come varcare una soglia invisibile e, il mondo di fuori restava lontano, e dentro si parlava un linguaggio antico, fatto di proporzioni, di luce e di silenzio.

Sin da ragazzo, avevo stretto un patto con mia madre, un patto semplice e assoluto, come sanno esserlo solo le promesse fatte col cuore, per rendergli merito a tutto quello che gli altri non gli avevano dato, ovvero: onorala con un titolo.

Un titolo da conquistarne e che potesse rendere giustizia ai suoi sacrifici, le sue speranze, ed è stato quel voto, più di ogni altra cosa, a guidarmi lungo gli anni della mia formazione, nei corridoi umidi delle accademie, tra i cantieri e le carte ingiallite di biblioteche dimenticate.

Tuttavia anche se, la strada fu lunga e aspra, per quasi due decenni patii la fatica del mestiere e della ricerca, muovendomi tra archivi da restaurare, biblioteche da salvare, palazzi nobiliari da risanare.

In ogni lavoro cercavo non solo la cura della materia, ma anche una forma di guarigione ambientale, come se ogni muro riportato alla luce potesse lenire una ferita mia, o del mondo.

Ho lavorato nelle case private dei collezionisti, nelle botteghe degli artigiani, dove ancora si respirava il profumo del legno, della colla di pesce, del ferro battuto.

Erano maestri veri, uomini e donne che avevano nelle mani la sapienza di generazioni e tutti mi accolsero come un apprendista, e forse lo sono rimasto per sempre, un apprendista del tempo e della materia.

La mia tesi di laurea fu essa stessa un atto d’amore verso quel mondo e, la discussi due volte: la prima, il 28 marzo del 1987, insieme al mio collega, come un’opera condivisa; la seconda, da solo, il 20 ottobre del 2004, per conquistare finalmente il titolo che avevo promesso.

In quel momento, più che un traguardo, mi sembrò di mantenere fede al giuramento fatto a mia madre, e forse, in fondo, era proprio questo il vero senso di tutto quel cammino.

Una madre che riconosce ai propri figli la stessa passione non è soltanto una donna, ma un principio antico e, in lei si rinnova il gesto della Dea che allatta, che nutre senza distinzione, vedendo in ogni creatura la stessa scintilla del mondo.

Così era mia madre e, così l’ho sempre sentita, partecipe di un destino più grande del suo, custode di una fiamma che non brucia ma scalda, e che passa di mano in mano, di cuore in cuore.

Come la terra, che accoglie e non domanda, ella non risparmiò né amore né fatica e, le sue mani, pur segnate dal tempo, erano sorgenti di forza.

Essa non conosceva l’egoismo del possesso, ma la gioia del dono, quella che si rinnova ogni volta che qualcuno impara, cresce o trova il proprio posto nel mondo.

Nel mio cammino tra archivi e botteghe, l’ho vista riflessa in molte altre madri, alcune reali, altre simboliche delle donne che vegliavano sui loro figli o sui loro allievi, su giovani apprendisti o su ragazzi perduti, restituendo senso a esistenze altrimenti disperse.

Madri che, come la Dea antica, nutrivano anche chi non aveva più una madre, accogliendo nel grembo del sapere, dell’arte o della cura chi cercava un’origine nuova.

E forse è proprio questo il mistero più profondo dell’essere una madre, partecipare, ed essere ovunque come un seme che cresce, un errore che si perdona, una speranza che si accende.

Nella sua semplicità, mia madre incarnava tutto questo e, ancora oggi, quando entro in una bottega, o quando mi chino su un muro da restaurare, mi pare di sentirla accanto, la sua voce calma, il suo sguardo che non giudica ma incoraggia, come a dirmi: “Ricorda, ogni gesto che ricostruisce è un atto d’amore e, ogni cosa che torni a vivere è un figlio che rinasce.

 

Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)

Napoli 2025-10-28 – Martedì

 

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COLLEGIO CORSINI FOCOLARE DI CREDENZA E FORMAZIONE DI CALABRIA CITRARA (thë nëdijturatë i thë fijaituratë ka Shën Sofia)

COLLEGIO CORSINI FOCOLARE DI CREDENZA E FORMAZIONE DI CALABRIA CITRARA (thë nëdijturatë i thë fijaituratë ka Shën Sofia)

Posted on 18 ottobre 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando la diocesi di Thurio, all’epoca del tramonto di Sibari fannullona, venne suddivisa nelle circoscrizioni ecclesiastiche di Sammarco e Bisignano, Cassano, Rossano, Anglona e Tursi, dalle quali dipendevano spiritualmente gli arbëreşë di Calabria, Basilicata, si aprì cosi una nuova fase nella storia religiosa e culturale del territorio citeriore di Calabria.

In questo contesto, a Bisignano era un convento di formazione clericale di rito latino, destinato a formare il clero locale secondo le direttive della Chiesa Romana.

Questa fondazione rappresentò un momento decisivo per la riorganizzazione della forza ecclesiale e per la diffusione di nuove forme di sapere religioso e culturale, che andarono progressivamente a innestarsi nelle comunità già radicate sul territorio, comprese quelle arbëreşë.

L’istituzione religiosa ebbe implicazioni politiche, sociali e culturali, influenzando le modalità di integrazione e di convivenza tra riti, comunità e identità differenti.

Per dare agio e stabilità ai giovani clerici in formazione, la Chiesa avviò un importante progetto di organizzazione degli spazi destinati all’istruzione religiosa.

Nel 1595 venne edificato a Santa Sofia Terra, il Palazzo Arcivescovile, destinato a ospitare le attività formative e spirituali delle giovani leve ecclesiastiche nei periodi estivi, visto il clima mite rispetto la sede di Bisignano.

Si trattò di una scelta strategica, la posizione del palazzo favoriva il controllo e la guida del territorio, creando un centro di riferimento per la formazione del clero di rito latino.

Successivamente, nel 1625, venne allestita un’altra sede a San Benedetto Ullano, con simile funzione, offrendo ambienti adatti allo studio e alla vita comunitaria.

Queste due sedi estive di formazione, strettamente collegate, alla sede di Bisignano costituirono i pilastri su cui si svilupparono formazione religiosa e civile locale.

I due presidi di permanenza estiva contribuirono non solo a creare nuove basi per generazioni ecclesiasti, ma anche a plasmare le relazioni tra il clero latino e le comunità arbëreşe nel territorio, incidendo profondamente sulla storia religiosa e culturale delle due macro aree citeriore.

Va inoltre sottolineato che, questo avvenne a seguito del Concilio di Trento, conclusosi alla fine del XVI secolo quando, le diocesi ebbero maggiore libertà nell’unificare la propria pratica religiosa e la credenza alla Chiesa di Roma.

Questa scelta politico-religiosa ebbe ripercussioni profonde nelle comunità arbëreşe, che fino ad allora avevano custodito in autonomia il proprio patrimonio spirituale di rito bizantino.

L’imposizione dell’uniformità liturgica e dottrinale creò difficoltà identitarie e, molte comunità furono costrette ad adeguarsi alla nuova linea romana, spesso contro la propria volontà, che ebbe modo di annebbiarsi.

Anche quando continuarono a praticare i propri riti tradizionali, lo sguardo venne obbligato a mirare verso Roma, che divenne simbolo di una pressione costante, segnando per lungo tempo i rapporti tra la Chiesa Latina e le comunità di rito greco-bizantino.

Questa frattura culturale e spirituale avrebbe accompagnato la storia arbëreşë per secoli, intrecciandosi con i processi di integrazione e resistenza identitaria che ne hanno plasmato la memoria collettiva.

Questo stato di imposizione religiosa, non rimase senza conseguenze e, nel corso del tempo generò una profonda deriva nella vita spirituale e comunitaria nei Katundë.

Dove le pratiche tradizionali, stratificate da secoli e legate alla ritualità bizantina, si trovarono improvvisamente in conflitto con le direttive romane, che terminarono di non essere più fondamentali.

A testimoniare questa situazione fu Giuseppe Rodotà, originario di San Benedetto Ullano e attento osservatore del mondo arbëreşë, che relazionò al Papa lo stato di “deriva malsana” in tutte le comunità.

Il Rodotà descrisse con lucidità la frattura tra fede imposta e credenza vissuta, sottolineando come nei Katundë si fosse creata una condizione di disorientamento e sfiducia nei confronti dell’autorità ecclesiastica centrale.

Secondo Rodotà, questa crisi di coesione spirituale e comunitaria rendeva necessario assumere una misura decisa e concreta, capace di ricomporre le tensioni tra Roma e le comunità arbëreşë per, restituire equilibrio a un tessuto sociale e religioso profondamente turbato.

La fondazione del Collegio italo-greco in S. Benedetto Ullano avvenne, dietro le vive e ripetute istanze di Felice Samuele Rodotà (che ne fu anche il primo Vescovo Presidente), che vennero ben accolte dal Papa Clemente XII con Bolle 11 ottobre 1732, 1° luglio 1734, 19 aprile e 10 giugno 1735 e 1° aprile 1736, che non incontrarono il compiacimento e, vennero subito avversate dai quattro vescovi ordinari latini delle Diocesi su citate, dalle quali dipendono spiritualmente gli Albanesi di Calabria e Basilicata.

Le stesse diocesi che hanno sempre ostacolato ed avversato anche il rito greco, e tale avversione moveva da diversi motivi, prima di tutto per essere il Collegio una Diocesi in Diocesi; in secondo luogo perché quei quattro Vescovi latini avevano visti scemati la loro autorità ed i loro guadagni, dovendo i chierici di rito greco essere ordinati dal loro Vescovo nazionale.

Infatti perché i sacerdoti di rito greco, illuminati, morali ed abilitati al matrimonio, divennero ben presto un ottimo elemento nella società, fecero temibile concorrenza nell’insegnamento privato ed ufficiale e brillarono nella carriera ecclesiastica.

Ma poiché quelle due istituzioni erano sostenute dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide, non pure per la conservazione del rito greco in Italia e, per l’istruzione degli arbëreşë, così i pre accennati quattro Vescovi Latini e gli Ordini monastici da loro dipendenti, misero in opposizione le superiori Autorità della Chiesa, pur celando l’odio contro il rito greco, allorché trattavasi di eleggere il Vescovo greco di S. Benedetto, di farne cadere la nomina sopra persona della loro Diocesi o di loro gradimento, lavorando e comperandosi, già s’intende, ognuno per conto proprio.

Infatti nella scuola di formazione civile ed ecclesiale di san benedetto Ullano a dare la valutazione finale per i voti ecclesiali era il vescovo della diocesi di Bisignano, che ne valutava orientamento e valore di credenza.

E’ per vero che, dopo il decesso di Monsignor Giacinto Archiopoli avvenuto addì 26 marzo 1789, aspirarono alla carica di Presidente e Vescovo del Collegio italo-greco di S. Benedetto Ullano i seguenti nove distinti sacerdoti di rito greco delle colonie albanesi della Provincia di Calabria Citra (Cosenza):

Francesco Bugliari, Arciprete di S. Sofia, Domenico Damis, Arciprete di Lungro, Antonio Roseti, Arciprete di Frascineto, Luigi Pascuzzi, Rettori di detto Collegio, Gugliemo Tocci, Curato di S. Cosmo, Ignazio Archiopoli, Salvatore Pace, Vincenzo Gancale e Pietro Bellizzi; dei quali primeggio il Bugliari Sofiota, per una traduzione eccellente che la commissione intera trovo eccellente.

A seguito di quella relazione e delle sollecitazioni provenienti dai territori arbëreşe, ebbe inizio un periodo di formazione religiosa e civile, più strutturato e consapevole, volto a sensibilizzare e rafforzare la cultura in senso generale in questi piccoli centri collinari.

Le comunità, pur mantenendo radici profonde nella tradizione bizantina, furono gradualmente coinvolte in percorsi formativi programmati per armonizzare, almeno formalmente, la loro spiritualità con quella della Chiesa di Roma.

Questo processo si tradusse nella creazione di centri educativi per giovani che si avviavano alla formazione, con l’obiettivo di rendere figure in grado di essere ponte tra la tradizione arbëreşë orientale e quella locale occidentale.

Fu così che la vita religiosa si avviò verso una fase di mediazione e adattamento, che avrebbe segnato profondamente la storia e l’identità delle comunità arbëreshë per i secoli successivi.

Tuttavia, le risorse economiche disponibili erano limitate, a San Benedetto Ullano e per questo riuscivano a formare un numero di clerici e civili non propriamente sufficiente, ma comunque indispensabile a garantire una fiammella di luce nuova alla continuità culturale e spirituale delle comunità.

Ogni giovane formato rappresentava un presidio di fede, sapere e identità, contribuendo a mantenere viva la memoria storica e la coesione sociale.

Inoltre, questo fu anche il tempo in cui si concluse la fase di costruzione di nuove chiese, segnando così l’avvio di una stagione di consolidamento spirituale e sociale nei Katundë tutti.

Parallelamente, prese forma un nuovo slancio nella crescita delle figure clericali e civili, che nei decenni successivi avrebbero inciso profondamente nella storia del Regno di Napoli.

Queste figure, formate tra tradizione bizantina e disciplina latina, divennero ponti culturali, religiosi e politici, contribuendo non solo alla vita dei propri Katundë, ma anche alla costruzione di un dialogo più ampio con le istituzioni del Regno.

Fu un’epoca di fermento silenzioso ma decisivo, in cui le radici arbëreşë si intrecciarono stabilmente con la storia meridionale.

Il Collegio Corsini di San Benedetto Ullano, sorto con l’intento di sostenere la formazione religiosa e civile delle comunità arbëreşë, assolse con fatica la sua funzione.

Le risorse economiche limitate e i mezzi a disposizione ridotti non permisero di accogliere e formare un numero elevato di allievi.

Nonostante ciò, il collegio riuscì a preparare un ristretto ma prezioso gruppo di clerici e civili, che avrebbero poi svolto un ruolo significativo all’interno dei Katundë e, nei rapporti con le istituzioni del Regno di Napoli.

Annaspando tra difficoltà logistiche, ristrettezze economiche e confini politici, il Collegio Corsini rappresentò comunque un baluardo di resistenza culturale e religiosa, garantendo la trasmissione della fede e dell’identità arbëreshë in un’epoca di profonde trasformazioni.

Fu la politica dei liberi pensatori della Napoli capitale, ad assumersi la responsabilità di elaborare e promuovere un progetto più ampio e organico, volto a istruire e preparare culturalmente quella vasta sacca di arretratezza che ancora dominava nella Calabria Citeriore.

In quell’epoca, infatti, l’assenza di un solido tessuto educativo avrebbe impedito qualsiasi reale trasformazione sociale e politica che potesse garantire privilegi diffusi a tutta la popolazione.

L’obiettivo era innalzare il livello culturale e favorire un pensiero innovativo e solidale, capace di aprire nuove prospettive al popolo tutto e, creare un terreno fertile per una partecipazione più consapevole alla vita del Regno.

Questo impulso riformatore avrebbe rappresentato una svolta decisiva, non solo per le comunità arbëreşe, ma per l’intero Mezzogiorno, allora regno di Napoli.

L’occasione per tradurre in pratica quella visione riformatrice arrivò con il luttuoso evento sismico del 1783, che devastò parte della Calabria Citeriore e di tutto il meridione, mettendo in crisi l’organizzazione ecclesiastica e sociale del territorio.

A seguito di quel terremoto, fu disposta “la dismissione della Cassa Sacra”, e numerosi conventi e proprietà ecclesiastiche passarono nelle disponibilità dei governanti, che intesero così riorganizzare il patrimonio religioso e formativo e dare agio a pochi presidi di accogliere i frati in pena.

Tra gli immobili interessati vi fu anche il complesso monastico di Sant’Adriano, che divenne parte integrante di una nuova strategia volta a razionalizzare le risorse e creare spazi per l’istruzione e la formazione.

Questo evento, pur nato da una tragedia, rappresentò un passaggio cruciale per aprire una nuova stagione educativa e civile in cui le comunità arbëreshë avrebbero avuto un ruolo significativo.

A San Demetrio Corone, il 1º febbraio 1794, in occasione del trasferimento ufficiale del Collegio da San Benedetto Ullano, la comunità locale celebrò una vera e propria festa nazionale mentre a San Benedetto Ullano, il fabbricato venne circondato al fine di impedire la migrazione dell’istituto.

L’evento fu percepito come un momento di svolta storica, poiché il nuovo insediamento del Collegio rappresentava la rinascita della formazione clericale e civile in un luogo strategico per la cultura e l’identità mentre per San Benedetto dal non essere più protagonista di cultura e credenza.

Le celebrazioni coinvolsero l’intera comunità religiosi, autorità civili, studenti e popolazione si unirono in un clima di entusiasmo da una parte e rabbia dall’altra del fiume crati e, tutti consapevoli che quella giornata avrebbe segnato l’inizio e la fine di una stagione culturale.

San Demetrio sognava di avere le terre del Collegio, mentre San Benedetto immaginava una stagione o meglio un futuro buio e di abbandono.

Il Collegio di San Demetrio Corone, divenne così un centro vitale di istruzione, spiritualità e identità, destinato a formare generazioni di figure di rilievo nel panorama politico, ecclesiastico e culturale del Regno di Napoli.

Il trasferimento del Collegio da San Benedetto Ullano a San Demetrio Corone non avvenne in modo solenne né dichiarato apertamente, ma fu condotto con un gesto astuto e strategico, degno di un momento storico delicato.

Fu il vescovo Bugliati a orchestrare l’operazione, onde evitare proteste e ostacoli da parte della comunità locale e, finse di organizzare una semplice gita lungo le rive del fiume Crati, invitando gli studenti e i religiosi del Collegio a parteciparvi come fosse un’uscita conviviale.

Una volta giunti sul luogo, ad attenderli c’erano il fratello del vescovo e alcuni uomini fidati, pronti con carri e mezzi di trasporto.

Senza clamore, gli allievi e i religiosi furono caricati sui carri e accompagnati a Santa Sofia, dove furono ospitati per la notte nel palazzo arcivescovile, quello costruito per la stagione estiva della scuola clericale dei frati di Bisignano.

E all’alba del giorno seguente, la carovana ripartì in direzione di Sant’Adriano, raggiungendo il Collegio, destinato a diventare la nuova sede della formazione religiosa e civile delle comunità arbëreshë.

Quell’azione, velata ma determinante, segnò la chiusura definitiva dell’esperienza formativa a San Benedetto Ullano e l’inizio di una nuova stagione educativa a Sant’Adriano.

Nonostante il modo improvviso e silenzioso con cui fu condotto, il trasferimento divenne un passaggio cruciale nella storia culturale e religiosa arbëreshë, imprimendo un nuovo impulso alla formazione di generazioni di giovani destinati a lasciare un segno profondo nella vita del Regno di Napoli.

Il vescovo Bugliari, operando in sintonia con le direttive provenienti dai sistemi politici ed economici dell’epoca e sostenuto da fraterne alleanze, divenne una figura centrale per Sant’Adriano.

Tuttavia, questa sua posizione di potere e le scelte compiute in nome della stabilità istituzionale non furono accolte favorevolmente da tutti.

Infatti, per coloro che si riconoscevano negli ideali del libero pensiero che aleggiavano nella Napoli rivoluzionaria di fine Settecento, Bugliari rappresentò un simbolo di compromesso e di adesione all’ordine costituito.

Quando la Rivoluzione Napoletana del 1799 ebbe il suo glorioso ma tragico epilogo, la sua figura divenne bersaglio perché lui conosceva e sapeva chi aveva tradito quegli ideali di quel grandioso progetto di rinnovamento politico e sociale.

Da ciò, il suo Paese natio e in San Adriano divennero il teatro ideale per dare seguito a un malsano piano e, luogo ideale per tensioni e contrapposizioni profonde, dove la cultura e la religione arbëreşë, si intrecciavano con i fermenti rivoluzionari e le pressioni politiche del Regno di Napoli.

Quando Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli il 15 febbraio 1806, dopo aver conquistato la città e costretto i Borbone a rifugiarsi in Sicilia, il clima politico e sociale nel Regno cambiò radicalmente.

In quel contesto di trasformazione e di resa dei conti, coloro che avevano tradito i rivoluzionari del 1799 divennero oggetto di sospetti e manovre inimmaginabili.

Tra questi, alcuni noti al vescovo Bugliari, tentarono svilire l’attenzione dalle proprie responsabilità, orchestrando una falsa rivolta locale, pretestuosamente legata a una questione di confini terrieri manomessi. In realtà, quella presunta sollevazione nascondeva calcoli politici e personali, volti a consolidare posizioni di potere e a dipingere i vecchi rivoluzionari come elementi destabilizzanti.

Questa manovra contribuì ad alimentare divisioni e tensioni all’interno dei Katundë arbëreshë, dove le fratture ideologiche nate con la rivoluzione si intrecciavano agli interessi territoriali ed economici.

San Demetrio Corone, centro vivo di cultura e politica, divenne nuovamente scenario di scontri sottili ma profondi, che segnarono la memoria collettiva per molti decenni.

 Ed ebbero la fine del capitolo, nelle sei giornate di Santa Sofia, ad iniziare dal 12 agosto del 1806 sino al 18 dello stesso mese, devastando e violentando santa Sofia intera, per devastare fisicamente il Collegio a Sant’Adriano, per tutto il decennio francese con mira la dismissione del collegio e la distruzione di quelle prove che ancora oggi non sono state lette.

Degne di cronaca sono l’eccidio del Vescovo reggente Bugliari Francesco a Santa Sofia, la violenza subita da tutta la popolazione e in particolar modo della sua casa e dei suoi familiari, la successiva devastazione del collegio, il suo abbandono e la richiesta di metterlo in vendita, dismetterlo e trasferire la scuola a Corigliano Calabro nel 1811 e, in fine la presa di posizione del Vescovo reggente Ballusci, il quale, recatosi a Napoli evidenziò, il valore e il significato civile ed ecclesiale di quella struttura, facendo ricredere il diffuso volere politico dei regnanti, infatti nel breve il collegio venne ricomposto e reso fruibile per continuare la sua missione civile e religiosa.

Altro dato fondamentale nella storia e nella memoria collettiva del Collegio Corsini a Sant’Adriano è rappresentato dal protocollo di vestizione e dai rituali che accompagnano la famiglia nel corso della sua esistenza.

Il protocollo o tema, conservato e, chissà dove venne conservato e da chi dopo essere stato compilato, realizzato, come terzo capitolo di questo istituto che nel passaggio da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oltre a formare clerici e civili illustri, ideò anche il percorso della famiglia nel tragitto che la unisce il focolare della casa con l’altare della chiesa.

Infatti il tragitto non era mero momento di una semplice cerimonia, ma vero e proprio atto fondativo della vita comunitaria, strumenti di formazione e consolidamento dell’identità collettiva a partire dalla famiglia.

In particolare, la vestizione della donna scandiva le tappe principali dell’esistenza, segnando con precisione il passaggio dallo stato di: bambina a quello di donna, madre, vedova e infine vedovo incerta sino, a figura sociale riconosciuta nel lessico e nei costumi e nella memoria terrena dell’epoca.

Ogni cambio d’abito, non era solo un gesto pratico o estetico, ma un segno visibile di trasformazione spirituale e sociale: un modo per dichiarare pubblicamente il proprio nuovo ruolo nella comunità che in questo modo era sostenuta.

Quelle vesti non erano considerate un semplice abito cucito da un sarto con ago e filo, ma rappresentavano un cammino di fede, una pedagogia silenziosa ma potente, con la quale si educava al rispetto della tradizione, alla responsabilità verso la famiglia e alla devozione religiosa.

Ogni stoffa, ogni colore, ogni piega e ornamento indossato aveva un significato preciso, riconoscibile da tutti i membri della comunità, in tutto era un messaggio visivo da seguire e rispettare perché luce di un fuoco in tutto un abbraccio materno.

L’obiettivo profondo di questo protocollo era unire il focolare domestico, con l’altare della chiesa: due poli inseparabili della vita di ogni Gjitonia, che si sostenevano a vicenda nel definire la via più dignitosa per essere parte della collettività.

La casa e la chiesa, non erano luoghi distinti, ma spazi complementari di una stessa vocazione comunitaria, dentro cui ogni individuo trovava la propria collocazione e la propria dignità.

Questi riti di passaggio, pur nella loro semplicità materiale, costituivano una vera “grammatica del vivere”: insegnavano valori, rafforzavano i legami sociali e imprimevano nelle generazioni future un senso di appartenenza forte e condiviso, per questo la vestizione, nel suo silenzio rituale, raccontava una storia di fede, di identità e di memoria.

Tuttavia il collegio non fu mai abbandonato dall’essere controllato dalle istituzioni, divenendo poi anche per i Borbone tornati al trono, il luogo delle vipere politiche culturali e clericali.

Dopo la riapertura e sino all’unità d’Italia furono numerose le eccellenze qui formatesi e sempre tutte attive per la bona gestione politica del sociale e della credenza in tutto il regno di Napoli.

 Degno di nota è il gesto di Agesilao Milano, che per i ricercatori della Z perduta, riducono quel gesto ad atto di un’capace e violento, ma chi è attento alle cose della storia perché architetto riconosce in quell’atto un grande rispetto per la vita umana e la credenza con le quali venne allevato.

E anche Garibaldi nella sua risalita verso Capua trovo agio a respirare quelle ideologie trovando il passaggio della valle del Crati, agevole e senza pena alcuna, sino a Campotenese, dove era l’inizio del Bosco del Diavolo.

Il collegio di Sant’Adriano continuò a diffondere fede e cultura dalla fine del decennio fino all’Unità d’Italia e alla sua successiva stabilizzazione romana.

Tuttavia, dopo la reggenza del vescovo Bellusci di Frascineto, la direzione dell’istituto passò ai vescovi Siciliani, ritenuti più solidali, i quali, per motivi strategici, affidarono la gestione a loro sottoposti di fiducia, la scelta, però, generò una deriva amministrativa e organizzativa che portò alla progressiva spoliazione di ogni adempimento materiale e immateriale.

Nel 1876 venne quindi nominato un nuovo vescovo sofiota, il quale garantì la solidità dell’istituto e ne pianificò il futuro sviluppo, progetto che trovò concreta e attuazione nel 1919.

Era il vescovo Giuseppe Bugliari, che ebbe l’incarico di rendere chiaro al papa e al re quali fossero le condizioni dell’istituto e, le relazioni inviate alle due autorità dell’epoca, emerse l’esigenza, poi portata a compimento, nel 1919, di scindere in tre parti, l’istituzione: la scuola civile in sant’Adriano, il vescovato, nella baricentrica e strategica Lungro e, la scuola clericale a Grottaferrata sotto la vigile attenzione della li attenta San Pietro.

Questo per grandi linee sono le tappe del collegio Corsini da San Benedetto Ullano a Sant’Adriano, oggi celebrata secondo la visione della moderna lingua parlata albanese, che vive alla spasmodica ricerca della z mancante.

Tirando le somme, il Collegio Corsini, quando fu di San Adriano, non fu soltanto un edificio di pietra e memoria, ma una vera e propria lanterna di cultura e identità.

Esso fu immaginato, condotto, diretto e illuminato da quella stessa luce che, sorgendo e tramontando su Santa Sofia d’Epiro, rischiarò le pieghe più buie dell’unità d’Italia. durante il secolo della coscienza più alta del mondo arbëreshë.

Là, dove la tradizione si fa sapienza e la lingua si intreccia con la fede e la dignità di un popolo, furono illuminati e formati gli uomini migliori, quelli che hanno saputo custodire e tramandare la propria eredità con fierezza e visione.

Il Corsini si staglia così come un faro nella storia degli arbëreşë, secondo una luce che continua a riverberare nel tempo, segno di una comunità che non ha mai smesso di riconoscersi e di rinnovarsi nella propria forma intrisa dell’olivetano sapere della salita della Sapienza e della fratria Partenopea nella cala a nord di Napoli.

 

Atanasio Pizzi Architetto Olivetano                                                                                 Napoli 2025-10-17

 

 

 

 

 

 

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IDENTITÀ E DECLINO IN OMBRE DELL’ARCHITETTURA DEL SILENZIO NHDË KATUNDË u shuatinë e dè fitìlljètë

IDENTITÀ E DECLINO IN OMBRE DELL’ARCHITETTURA DEL SILENZIO NHDË KATUNDË u shuatinë e dè fitìlljètë

Posted on 16 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sino all’unità d’Italia, ha visto partecipi e attivi figure notevoli Arbëreşë nei fermenti culturali di tutta Europa e, i paesi allestiti secondo il bisogno vernacolare dei natii, divennero centri laboriosi, con caratteristiche identitarie, resistenza, rinnovamento sociale, culturale e architettonico.

Questa caratteristica è rimasta costante, amplificandosi senza soluzione di continuità, fino agli anni Novanta del secolo scorso, sostenuta da un interesse terminato poi in timide o incerte iniziative locali per il recupero di una memoria nobile qui sconosciuta.

Già alla fine degli anni Cinquanta, lo slancio promozionale, intrapreso dall’allora nascente Automobile Club d’Italia (A.C.I.) sembrava voler risollevare gli ambiti della “Regione Storica Sostenuta in Arbëreşë” inserendola in una visione turistica e culturale del Paese Italia in movimento veicolare.

Ma nulla di sostanziale venne realizzato se non episodi disconnessi tra loro, che per questo hanno persi sinanche il valore storico che dovevano esaltare e, le promesse di valorizzare quei territori, si sono scontrate con l’inerzia istituzionale, la mancanza di investimenti e l’assenza di una visione strategica ampia e mirata, perché incentrato esclusivamente al “regime di restanza locale”.

Le successive leggi nazionali e regionali lì a poco poste a regime, pur se fondamentali a titolo simbolico, sono state subito, intese con luce divina, generando più aspettative che risultati concreti da produrre con sudore o forse meglio dire miracoli.

Nei fatti, le leggi sono rimaste prive di una reale capacità di incidere sui territori, sulle scuole, sulle economie, sulle relazioni sociali o i beni architettonici, non includendo neanche beni materiali ed immateriale in forte disequilibrio.

Anche se la vera risorsa non doveva ricadere sulla legge o le leggi, quanti le avrebbero dovute interpretare per adoperarle e utilizzarne i fini di resilienza, materiale ed immateriale in affanno, non hanno mai saputo leggerle e interpretarle a dovere.

Nel frattempo, i Katundë arbëreşë sono diventati oggetto di una narrazione monocentrica e svuotata di ogni significato, avendo come tema innovatore il “borgo da recuperare e salvaguardare”, o “da rigenerare”.

A questa si è sommata l’onda lunga degli itinerari artistici o pittorici dirsi voglia, spesso guidati da figure incomprese o isolate, oltremodo estranee alla storia profonda di questi luoghi, colmi di parlato e ascolto, comunque tutti desiderosi di vederli all’ombra di minareti e non dei saltellanti campanili di est e di ovest.

In molti casi, queste incursioni culturali e sociali, pur se animate da buone intenzioni, hanno finito per costruire un racconto superficiale, scollegato dal vissuto delle comunità e dalle radici storiche che danno senso alla loro presenza qui nel meridione Italiano.

Oggi i Katundë arbëreşë rischiano di essere percepiti come “borghi borgate coli di bovari”, il tutto come se fossero campi di pascolo unitari dei quadrupedi senza distinguere bovini e suini, per riempire di contenuti estemporanei, sminuendo o addirittura cancellando ciò che li ha resi unici e saldamente ancorata alla storia di questi luoghi che sono i paralleli alla terra di origine oltre il fiume adriatico nel caso specifico la parte senza abbracci.

Il risultato è una trasformazione più estetica che sostanziale, che punta al “decoro ignaro dell’identità”, in tutto un’operazione che, senza consapevolezza, rischia di cancellare in nome di un “rilancio” che privilegia la forma e nulla della sostanza, innescando un processo degenerativo culturale fuori dalla promessa fatta in terra madre terra madre, (Besa).

La regione Storica Diffusa Sostenuta in Arbëreşë, è uno spazio dove si incontrano mondi diversi, vivono storie irripetibili e luogo di figure elevate, in tutto un luogo non circoscritto dove oggi viene compressa e rievocata ogni cosa immaginata liberamente secondo teoremi di memoria velata dal folclore, senza aver mai avuto una reale occasione di definirsi dentro la storia rispettosa, inclusiva e profondamente connessa al proprio passato.

La mancanza di risorse in forma di formazione e ideali che colpisce i centri antichi arbëreşë, non può essere attribuita unicamente alle istituzioni fuori dai confini locali o alle leggi oggi in vigore.

Sebbene tutte queste abbiano spesso mostrato disattenzione, la responsabilità più ampia risiede nelle trame locali, che restano ancorate a una formazione culturale debole, frammentaria e statica, paragonabile a club solitari dove si mescola il sugo con le cose del vicino, che non è mai gradito al momento del pranzo domenicale.

L’assenza di una visione condivisa, rende il peso delle dinamiche locali, al pari di  una coscienza storica sottosviluppata, in continuo bollore per ostacolare ogni possibilità di riscatto di quanti, come si fece in passato, partivano per migliorarsi.

Senza un rinnovamento dal basso, nessun intervento dall’alto potrà mai essere davvero efficace e, i risultato restano stesi al sole in quel campo che non è stato mai seminato.

Il problema non risiede tanto nell’inadeguatezza delle leggi, quanto piuttosto nella mancanza di formazione giuridica, tecnica, storica e culturale degli operatori incaricati di applicarle, i quali spesso non dispongono degli strumenti, uomini e mezzi culturali necessari per un’applicazione corretta ed efficace.

Questo ragionamento si può applicare a molti ambiti, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, fino alla gestione delle innovazioni tecnologiche e, solleva un punto chiave per la qualità dell’applicazione della legge che non sono fine a se stesse ma dipende direttamente dalla competenza di chi la gestisce o le deve interpretare secondo il tema in gestione.

Se volessimo analizzare un Katundë a caso, dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, nulla è stato fatto da chi è partito per tornare e rendere migliore, con la partecipazione corale un centro antico colmo di storia e figure di rilievo che hanno fatto la storia.

Infatti escludendo i formati si è finiti di esaltare i non giusti, i traditori e non fedeli, in tutto gli artigiani bravi ad essere candarari.

Un dato accomuna tutti i centri storici di origine arbëreşë strutturati secondo il modello del Katundë: fino al 2009, nessuno di essi era mai stato oggetto di un’analisi approfondita riguardante gli aspetti costruttivi e formali dell’architettura del bisogno all’interno dei nuclei antichi.

Si tratta di sistemi urbani sviluppatisi secondo una logica vernacolare, privi di tecnicismi o interventi progettuali certificati.

Inizialmente edificati con materiali poveri come l’adobe, successivamente in pietra, calce e sabbia, questi insediamenti si sono evoluti secondo morfologie urbanistiche via via più articolate, dapprima con impianti paralleli, poi con sviluppi verticali a servizio dei profferli.

Il tutto rispondendo a esigenze pratiche e immediate, senza alcuna pretesa estetica o accademica, infatti le prime direttive tecniche in questi ambiti arrivano imposte dalla direzione napoletana dopo il terremoto del 1783.

E dopo la riforma pel la chiusura di cassa sacra e, le relative dimostranze legali per l’acquisizione delle terre da parte di conduttori storici, rese l’economia locale più solida e molte famiglie nei centri storici edificarono i cosiddetti palazzati nobiliari con emblemi architettonici dell’illuminismo in forte ascesa.

Le famiglie più nobili costruirono i nuovi volumi di rappresentanza, avendo come cuore sempre pulsante l’antico modulo vernacolare del bisogno, ma queta volta secondo disposizioni regie e, con forme architettoniche progettate.

Essi così avevano nel propesero principale, ingresso e finestre dei depositi contornati da pietre locali lavorate, al primo piano balconi di rappresentanza e finestre, mentre tra il tetto e il pino nobile, aperture di ventilazione per i sottotetti indispensabili a temperare il volume della parte abitativa, mentre i depositi al piamo terra erano temperati dai riverberi naturali del terreno su cui erano costruiti gli elevati murari.

Questo accadeva per le famiglie più in vista mentre per i sottoposti la crescita economica si palesava nelle loro case con imitazione dei portoni di ingresso che erano allocati in quei volumi che un tempo compilavano i profferli che venivano inglobati al fabbricato di pertinenza.

Gli stessi che in alcuni casi e in epoca più recente associati alla categoria delle superfetazioni poi assoggettati al modello dell’abuso edilizio e per avere una parvenza di logica architettonica appellate case antropomorfe.

Tuttavia l’intero costruito che ebbe modo di espandersi dal decennio francese sino alle soglie del XIX secolo determina, anche il sistema toponomastico che del 1929 intitola, vie, vicoli piazzette e piazze, mentre i rioni storici restano nelle memorie storiche locali senza futuro, perché gli addetti che fanno restanza, non si muovono dai loro scanni della cultura trovando un fatto degenere andare in giro a chiedere.

Ma questa è un’altra storia per la quale la quale lo scrivente venne appellato: “lo sgarbi dell’inferno Arbëreşë”.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-16

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LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË  Mendja i Ghëravetë thona

Protetto: LA CULTURA SOSTENUTA DALLE DONNE ARBËREŞË Mendja i Ghëravetë thona

Posted on 14 luglio 2025 by admin

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PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

PORTI, BORGHI, POLIS, KATUNDË E HORA (I bëtë relljà relljà)

Posted on 23 giugno 2025 by admin

senza regNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando si vogliono conoscere le attività svolte dall’uomo nei meriti dello sviluppo urbanistico, architettonico e del valore sociale di un determinato e identificato centro antico, l’indagine da svolgere con tale fine deve seguire il percorso secondo cui sono stati identificati i primi pianori su cui elevare gli adempimenti del bisogno nel corso dei secoli.

Il lavoro di ricerca per questo deve individuare e diversificare i fenomeni, secondo  le tessiture di: Borgo, Polis, Katundë, Hora e Porto.

Queste tipologie di fondamento, sono comunemente associate a epoche luoghi e tempi secondo cui le trame identificativa fanno smarrire il senso in forma chiusa o aperta dell’insediamento, in tutto, la sostanziale differenza delle fucine che amalgamarono economia, produttività e convivenza sociale all’interno e all’esterno del nucleo abitativo. O meglio si smarrisce il senso proprio di insediamenti isolati di convivenza ugualitaria di generi e cose con altre prospettive di vita più esposte ai venti e le attività provenienti dal mare.

Il tema qui trattato, vuole evidenziare i valori distintivi di questi sistemi di Iunctura urbana, dove trovare risorse naturali e di conseguenza germogliare fenomeni sociale in evoluzione o di ristagno, nel corso del tempo.

Avendo per questo mira ad intrecciare culture e società, in continuo progredire, nel pieno rispetto della memoria, della integrazione tra generi e popoli.

Questi luoghi ameni sono il miraggio della fuga sull’isola deserta, o la favola sulla spiaggia per vivere di sole e darsi alla macchia per riconciliarsi con sé stessi e con il mondo, essi sono la piattaforma che a tutte le latitudini offre soluzioni catartiche e sono la frontiera dell’evasione, per una pausa temporanea o permanente dal trambusto metropolitano.

È in tutti questi sistemi urbani che spicca il panorama dell’architettura vernacolare con la dimensione antica dove rigenerare i cinque sensi, all’interno di quella culla depositata nel meridione italiano, che ti avvolgono con il candore di queste forme fiabesche, immersi tra le rive e le colline, verde di boschi uliveti, vigneti e il lagrimoso ondeggiare di fiumi e terra e mare. 

Portati sotto i riflettori del pensiero architettonico globale come esempi illustri di architettura spontanea, oggi i questi esempi di vivere comune non necessariamente classificati Patrimonio Unesco e sono sempre più una meta ambita per chi rielabora, la dimensione più autentica della vita e il contatto con la natura.

Capita spesso, specie attraverso il comune parlare in italiano o della diffusione dei mas media che i Borghi plurale di “Borgo”, che indica un piccolo centro abitato, di radice medievale, più grande di un villaggio ma più piccolo di una città, con il quale comunemente viene appellato ogni, Contrada, Paese, Villaggio e comunque agglomerato urbano che non sia una città.

Diversamente si fa con la, Polis, del greco antico, che indica una “città-stato”, tradotto semplicemente come “città”, ma con un’accezione storica legata alla Grecia antica che identificava una serie di rioni, allocati in forma piramidale distinguente cosi la popolazione più estromessa e povera posta alla base dai più distinti sino al vertice della famiglia singola.

Katundë dall’arbëreşë assume il senso di ” un insieme abitativo” o “insieme fraterno di rioni” “o luogo di confronto e movimento produttivo”, quest’ultimo letteralmente tradotto in lingua italiana dall’ arbëreşë.

Geograficamente utilizzato è di origine greca accolto in alcune macro aree Arbëreşë, Hora si può tradurre come insieme abitato e di agro secondo una tradizionale forma produttiva e di controllo de centro abitato”, quindi di connotazione rurale e abitativa cosi anche come la stessa Atene.

Pe concludere la trama di scopo e utile indicare per grandi linnee il Porto, o centro antico che riferisce a una località marittima attrezzate per l’attracco di imbarcazioni e quindi, in continua agire di scontri e confronti tra dinastie e popolazioni, qui approdate.

Tutto ciò premesso, serve a dare valore identitario sia a un abitato di mare e sia ad un insediamento di collina, entrambi di radice in bisogno vernacolare, legato alle abitudini locali, con evidenti elementi di luogo specifico che li caratterizzano, li evidenziano oli velano a secondo del luogo dove venne scelto di elevarli.

In quanto mentre il Paesi di mare è influenzato da contatti con popoli stranieri, come mercanti, marinai, invasori o fuggitivi, grazie ai quali si costruisce e si evolve il dialetto locale che includere termini di origine variegata

Come avviene nelle coste di tutta la penisola Italica, che associano al parlato comune anche rotacismi di ignota favella.

Nei centri abitati di collina, il parlato locale è più conservativo e, meno esposti a influenze esterne, in tutto una struttura linguistica più arcaica, derivante dalla popolazione qui insediatesi e, integrata una sola volta, in fraterno conviviale nel corso della storia, senza aggiunte di sorta alcuna, perché isole di terra.

A tal proposito valgono anche gli abbigliamenti tradizionali, che nelle zone di mare include tessuti leggeri, colori chiari, capi pratici per il lavoro in ambiente salmastro e copricapi, pantaloni, ampi e gilet.

Diversamente da chi vive la collina che indossa abiti più pesanti, spesso raso o panno, in colori di tessitura più finalizzati al calore del tempo che passa tra casa chiesa e agro produttivo.

Poi viene l’aspetto del bisogno o della necessità di luogo che utilizza elementi strettamente locali e realizzare l’Architettura vernacolare, che nel caso dei luoghi di costa o di mare si espone utilizzando case costruite con materiali resistenti alla salsedine, tetti piani o terrazze per asciugare reti o pesci, pareti degli elevati rifinite in coloritura indispensabili per i navigati per essere un riferimento quando rientrano la percorso di mare, il tutto per essere un faro di colore specifico del barcaiolo che riconosce la sua casa.

Diversamente da come avviene per le abitazioni di collina, le quali sono inserite nelle prospettive naturali dei boschi che li accolgono come parte sostenibile al punto tale che di giorno sono difficili da intercettare e di notte il luccichio e il fumo dei camini sa orientare gli uomini da duro lavoro eseguito nell’agro circostante, case in pietra, tetti spioventi per la pioggia e, muri spessi isolanti contro il freddo della stagione corta.

Tutto questo si può sintetizzare negli aspetti Culturali e nelle mentalità che per questo diventano consuetudine storica, in cui gli agglomerati prossimi o sulle rive del mare diventano luoghi aperti Società più aperta dove il principio commerciale, apre a contati esterni, seguendo calendari legati alla pesca, al mare, ai venti.

Diversamente dai nuclei urbani di collina Comunità più chiusa, autosufficienti, che si alimentano di ritmi scanditi dall’agricoltura e dalle stagioni e, legati con la terra, riti agricoli, transumanza.

Un paese di mare vive di processioni con statue di santi portate a mare, feste del pescatore, sagre di pesce.

Un Katundë organizza fiere, sagre, e feste del vino, rievocando le storiche tappe di accomodamento locale in solitudine e porosità lagrimosa.

Ma questo è un aspetto molto intimo e forse poche figure ad oggi potrebbero coglierne agio per migliorarsi, lasciamo il tempo che scorre ad opera di quanti dopo aver perso la strada si accontenta delle cose mediocri che un tempo si davano ai cani, e non da meno di questi ultimi sono quanti e quante si recano davanti la casa di Clementina per ironizzare, del suo figliolo che ancora non torna.

Tuttavia chi volesse ancor dipiù approfondire cosa oggi resta di questi storici episodi della storia dell’umo si possono riassumere nella figura a coronamento di questo edito, chi conosce capirà gli altri si ostineranno a non comprendere il nulla che rimane.

Fare balli inopportuni nei luoghi della memoria può essere definito come Profanazione Simbolica, questo termine forte ma appropriato quando si viola il rispetto dovuto a un luogo carico di valore storico, culturale e, il gesto può risultare offensivo, tuttavia l’approcci sottolinea la superficialità o l’ignoranza culturale di chi compie tali gesti, comunque inappropriate, specie per chi serve gli ambiti educativi, di nuovo germogli generazionali, che palesemente non sa fare il mestiere servile.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-06-23 

 

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GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

Posted on 20 gennaio 2025 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Si potrebbe riassumere nel titolo in epigrafe, le storiche ricerche comunemente divulgate con protagonisti gli arbëreşë, i relativi centri antichi e, tutto si dissolverebbe in un nulla di fatto, come avviene con resilienza inopportuna, sostenuta dai Solanizzati, i quali raccolgono ortaggi prima del tempo.

Tuttavia esistono modelli per indagare e studiare, come quelli coadiuvati da Adriano Olivetti, da cui se noti si potrebbe trarre spunto per studi e riflessioni moderne, che dopo i 517 anni dalla venuta degli Arbëreşë, solo Baffi, Bugliari, Giura e Turelli hanno saputo fare.

Immaginare che storia, idioma, consuetudini, costume, architettura, urbanistica, modelli sociali, territorio ed economia, si possano indagare, sulla base di singoli episodi, vagando per gli anfratti della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë è a dir poco un circo, dove si mira alla ricerca di un giullare protagonista, che attragga i viandanti distratti o della breve sosta.

Non è concepibile che figure terze, senza ascolto e parlato in Arbëreşë antico, possano esprimere pareri o analizzare questa emblematica minoranza, oltre modo esempio di integrazione mediterranea grazie alla propria radice identitaria solida, indivisibile espressa in parlato.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura, richiede un approccio metodologico che vada oltre le fonti scrittografiche moderne senza avere consapevolezza del parlato per il trapasso generazionale.

Un metodo molto importante è l’osservazione partecipata, che consiste nel vivere la comunità che si intende studiare per un periodo prolungato avendo ottima conoscenza del parlato e dei tempi dell’ascolto oltre le movenze relative.

Il metodo o meglio il protocollo, permette di comprendere meglio la cultura, le tradizioni, i valori e i costumi identificativi, assieme alle pratiche del vivere quotidiano.

Non ha ragione ne trova rimedio il voler costruire di sana pianta un paese arbereshe che porta con se, oltre cinque secoli di storia avvenimenti e bisogni di epoca luogo e momento storico in forma di regresso o progresso.

Le storie, i miti, le leggende e le tradizioni orali sono fondamentali per comprendere la storia e le credenze di un ben identificato lugo, specie se vissuto dagli Arbëreşë e, a tal fine diventa indispensabile raccogliere narrazioni da persone anziane, che spesso sono i custodi della memoria collettiva locale o, prendere consapevolezza della toponomastica storica.

Un paese non èun semplice componimento di case appartamenti o palazzi, ma la stesura nel temo delle necessità vernacolari dei suoi abitanti, che non cominciano nel caldo di una stanza per terminare nel freddo di un orto retrostante.

Un Paese Arbëreşë contiene e mantiene ambiti coperti e scoperti sostenibili in un ben identificato luogo costruito, non solo per dormire, mangiare e proliferare, ma per conservare memoria, costumi e credenze che non posson essere racchiusi in una stanza o nel circoscritto di una carena rovesciata.

Per questo serve analizzare il costruito con dovizia di particolari, conoscere canto, danza e tutte le forme di espressione utili e indispensabili per addentrarsi all’interno della minoranza che qui comunica e conservi la propria identità.

Le tradizioni o meglio le consuetudini, del tempo lungo e di quello corto, possono rivelare valori, credenze e dinamiche sociali.

L’uso di fotografie, video o altre registrazioni sono un ottimo strumento per documentare le pratiche culturali di una minoranza che non fa uso della scrittura e si affida al parlato e al canto tra generi.

Questo tipo di documentazione permette di inghisare aspetti che altrimenti potrebbero essere persi, come l’uso del linguaggio corporeo, il comportamento sociale e le interazioni quotidiane specie del governo delle donne, le protagoniste della divulgazione di atti e attività sociali.

Collaborare con membri della minoranza allevandole a guide culturali o interpreti, di attività locali, può diventare di fondamentale tutela per quanti appartengono alla comunità, in quando unici addetti per una comprensione profonda dei propri costumi e pratiche di vita, fornendo così insight che un ricercatore esterno potrebbe non cogliere, comprendere o immediatamente recepire.

Se la minoranza ha una lingua orale, è utile studiarla, poiché la lingua è un importante veicolo di conoscenza e cultura e l’analisi attraverso l’uso di registrazioni audio, può svelare significati celati, dalla struttura sociale e modi di esporre difficili da comprendere.

È fondamentale approcciarsi a una minoranza, con rispetto e consapevolezza delle dinamiche che potrebbero emergere tra il ricercatore e la comunità, a questo punto diviene fondamentale l’adoperarsi, per stabilire fiducia e relazioni etiche che permettano una vera comprensione reciproca priva di codici in difesa.

Se possibile, consultare studi etnografici e ricerche precedenti che abbiano trattato la minoranza secondo simili progetti, anche se non esistono documenti o attività in tale direzione.

A tal proposito non sono certo di aiuto le ricerche accademiche basate su interviste e osservazioni eseguite da ricercatori senza formazione e titolo, gli stessi che poi riportano ai docenti editi ed estrapolazioni a dir poco elementari, che se analizzate con dovizia di particolari possono essere rivisitate e dare agio alle ricerche.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura richiede un’attenzione particolare ai metodi e agli strumenti di ricerca, mantenendo sempre una mentalità aperta e rispettosa verso le tradizioni culturali e le modalità di comunicazione o gli atti di attività espressi.

Diventano per questo fondamentali gli esami delle abitazioni e gli edifici storici, senza compromettere l’integrità del paesaggio e della tradizione architettonica di un identificato momento della storia.

Di venta fondamentale per questo l’analisi e l’uso dei materiali nelle diverse epoche, con particolare attenzione alle persone che vi abitavano, e la necessità di preservare le tradizioni culturali del bisogno di ogni epoca.

A tal fine vale il principio di studiare come erano organizzate le diverse aree senza cancellare la sua autenticità, migliorando al contempo la qualità della vita degli abitanti con i nostri tempi.

Approfondire le analisi legate alle problematiche della salute pubblica e le condizioni igieniche, cercando soluzioni per l’approvvigionamento, il trattamento dei rifiuti e il miglioramento dei servizi sanitari.

Altro aspetto fondamentale divine lo studio delle attività economiche tradizionali e le possibilità di sviluppo di nuovi settori, inclusi il turismo, della breve sosta, oltre ad incentivare attività commerciali che promuovono prodotti locali.

promuovere studi specifici relativi ai rioni tipici di ogni Katundë, in tutto i più antichi o del bisogno primario vernacolare poveri e proporre soluzioni che permettessero di recuperare l’area senza distruggere la vita sociale e comunitaria che caratterizzava il rione in tutte le sue parti, specie le prospettive pittoriche.

Il tutto deve essere finalizzato a migliorare le condizioni abitative, con un’attenzione particolare all’edilizia sociale e alla qualità degli spazi pubblici dove poter far esprimere e dare agio all’antico Governo delle donne.

E garantire la sostenibilità ecologica, preservando il paesaggio naturale, migliorandone le condizioni ambientali attraverso soluzioni innovative da sottoporre a una commissione multidisciplinare superiore in tutto il governo unico e indivisibile di generi adeguatamente formati.

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PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

Posted on 17 gennaio 2025 by admin

GIORGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreşë e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.

Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.

La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.

Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.

Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.

Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.

La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano si a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.

Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.

Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.

Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.

L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.

Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord Giovanni Castriota, uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.

Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariati e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.

Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.

Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.

Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare  ad Alessandro Magno.

Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.

Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbër, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.

Portò a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti, sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana di tornare, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.  

Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.

Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.

Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto  di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perché quest’ultimo pare fosse  morto da qualche; entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariati dei Castriota.

Tuttavia l’atteggiamento denotava lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; vero è che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Arbanon a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.

Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.

Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.

Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la“Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica  tipica dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.

I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbëreşë.

E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già comunemente denominato Scanderberg.

Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, così dicendo:

“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbër, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piuttosto mi volgerò a espor, quale sia stata la cagione delle nostre disavventure; acciocché di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.

Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandosi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.

Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’usurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopo di che fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).

E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ove trovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.

Imperciocché: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni degli Arbër restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.

O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.

Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbër, tutti gli Arbër volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura, ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’Arbër la perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi, e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocché si disponga alla necessità de’ rimedi.

L’unione è l’unica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.

L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un, si recente, e un si illustre esempio.

Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo, e insuperabile fiume.

Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.

Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia po alcuna travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.

Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.

 Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento, di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.

La battaglia di Morava (per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi una poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.

Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.

Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Aarbëreşë, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi. Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.

Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiore agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.

L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva la regione arbëreşë, infonda nei Principi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”

La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.

Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreşë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.

Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.

Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.

A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Aarbëreşë era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.

Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbëreşë, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Aarbëreşë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.

Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).

Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove fu accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero.

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Comneno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.

Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso in Palazzo Reale il 27 Agosto del 1469 si pagano un ducato e un tari per far trasportare la roba di Madama Donica, moglie, che fu di Scanderbeg, alle case di Pietro Cola d’Alessandro che qui dimora sino al 1477, per poi tornare a vivere all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le furono affidate finanche le discendenze reali e la giovane figlia di Vlad III affidatale sino a raggiungere l’età per maritarsi.

La vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.

Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.

Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreşë”.

Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comneno, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono a essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.

A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:

i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;

i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.

In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.

Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.

Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreşë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.

Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbëreşë, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreşë.

Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.

Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.

Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene  utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.

Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.

Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.

Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.

Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa,  il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.

Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.

Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.

Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani del XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.

Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di lì a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.

Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.

I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:

“la giornata del risveglio della fratellanza Arbëreşë”

Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).

Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbëreşë “le Vallje”.

 

 

** – Nel Volume II° della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani – quando è tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellati non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo popolo, voleva dire:  “comunemente Scanderberg.

 

Commenti disabilitati su PRIMA GIORGIO CATRIOTA POI SCANDERBERG IL MUSSULMANO E POI GIORGIO LOSTRATGA ATLETA ARBËREŞË

Regno

I TEORETI ARBËREŞË CHE COPRONO LA GJITONIA CON PENA DI VICINATO (Conosco le strade e trovo tutte le case dove ha abitato la storia) U dji udetë e cìognë shëpitë i fiallëvetë thë mendë

Posted on 03 dicembre 2024 by admin

Regno

Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gjitonia è un concetto o principio cardine per la formazione culturale degli arbëreshë, ed essa, va oltre il semplice o banalissimo significato di mero “vicinato” di radice Materana.

Il termine di origine tardo antica che va oltre i tempi dei Saraceni, raccoglie, gestisce e valorizza l’insieme sociale secondo cui si univano “tutti i nostri” letteralmente tradotto nella parlata degli Arbëreşë e, riassunto in Gjitonia o Gjitonàtë.

La radice gjit- assume il senso di gjithë (che significa “tutti” – “intero”), con l’aggiunta del suffisso -on o -oni, che indica appartenenza o connessione di un determinato gruppo di famiglie “tonàtë”.

Nei contesti diffusi delle comunità Arbëreşë, Gjitonia è il luogo simbolico ideale per l’interazione sociale, di mutuo aiuto e gestione condivisa della vita quotidiana, assumendo per questo e così, il solido ruolo delle donne nel campo delle politiche della famiglia allargata, assumendone la guida del governo e in specie per la formazione educativa delle leve di genere in crescita formativa.

Essa, ingloba la coesione sociale, secondo concetti antichi delle terre dei Balcani e, senza alcuna soluzione di continuità storica, in ogni dove si sono trasferite le famiglie di uno stesso gruppo di Iunctura allargata, si è data vita a questo nido ideale di necessità, riseguendo e rispettando consuetudini antichissime per il buon esito sociale.

Gli aspetti secondo cui definirla o accostarla al mero vicinato indigeno, offende il valore identitario di questo protocollo e delle genti che ne sanno fare uso, oltre le numerose risorse sociali e di genio che i popoli in grado di attuarle ne ebbero agio.

Ma non solo questo, infatti si sminuiscono le operose radici, che non terminano di germogliare ancora oggi, e restano sempre pronte e volte ad accogliere quanti, le hanno tagliato e bruciato il tronco.

E nonostante tutto la rivedranno a breve fiorire, visto il bisogno generato dalle numerose derive che attanagliano le odierne società intese, pur non essendole civili, solidali e sicuramente inopportune per le nuove generazioni che vedono nella politica di parte il germoglio di seminato buono.

Gjitonia era e ha rappresentato, per secoli, il luogo della scuola, per le nuove generazioni, dove trovare risposte ai bisogni quotidiani per il portamento sociale più corretto, dedicata e diretta verso ogni necessità, di tutte le nuove leve secondo cui erano allevate e valorizzate, senza prevaricazioni, se non per le proprie attitudini o attività utili al sociale, senza mai discriminare niente e nessuno.

Qui vigeva il valore comune per il supporto pratico, come accadeva per i lavori agricoli, inserendo o disponendo le menti in crescita orientandoli per il migliore agio, nelle attività del governo degli uomini.

Tutto questo, trovava una solida radice nel sistema di Iunctura urbana dei Katundë, favorendone i temi della socializzazione sia in inverno che in estate e, questi spazi condivisi, senza recinzione alcuna, rappresentavano i teatri naturali o ideali trampolini, dove si dimostrava praticamente di saper conversare, raccontare, cantare e tramandare l’idioma arbëreşë secondo movenze culturali tipiche di chi non possiede modelli scrittografici.

All’interno della Gjitonia si delineavano e rafforzavano le norme di comportamento tradizionali, assumendo all’occorrenza, anche la funzione di tribunale, condotto e diretto dalle donne, riportando rimedio ai piccoli conflitti, senza ricorrere alle autorità formali o far intervenire quello degli uomini laboriosi.

Essa non si limitava al contesto abitativo privato o di tutti il sistema urbano, ma con e come cerchi concentrici senza limes, faceva riecheggiare patti intimi e concreti, tra famiglie legate da vincoli di promessa data, in tutto un’antica espressione condivisa e nota e intrisa dei valori dei cinque sensi.

Questo concetto è particolarmente significativo nei Katundë arbëreşë, dove la disposizione di iunctura familiare fornivano la giusta dimensione per innescare, giusti principi di coesione comunitaria, contribuendo attraverso la civile e attenta conservazione di usi, costumi e gesta che legavano la collettività, rafforzandone il senso di identità e appartenenza dell’antica promessa data: “Besa”.

Gjitonia, evidenzia aspetti e profondamente culturali, giacché la traduzione letterale “tutti noi” o “tutti i nostri” denota, accentuandone il valore condiviso e indissolubile di un determinato gruppo o collettività relativamente al senso di appartenenza, caratterizzando questa realtà unita.

Inoltre, gli intrecci condivisi, delineano un ambito ideale pulsante che solo l’insieme delle madri conosce e allestisce quotidianamente e dove trovava prevalenza ilgoverno delle donne”, il che suggerisce e da senso al ruolo centrale che esse ricoprivano nella gestione delle relazioni quotidiane, a livello pratico, simbolico e della credenza superiore che non era mai unica.

Nasce legittimo lo descrivere la Gjitonia come un luogo dei cinque sensi, una dimensione poetica o spazio indefinibile, perché volubile, in contino progredire o regredire di componenti inclusi o esclusi, in cui le attività di vita quotidiana si manifestavano in tutte le forme, come dialogo, suoni, odori, colori e tatto delle di mani operose che si tendevano per aiutare; in tutto, una visione affascinante e profondamente umanistica della solidità sociale degli Arbëreşë.

La Iunctura familiare allargata, tratta e riferisce di un modello abitativo che privilegiava l’aggregazione di più nuclei familiari imparentati, struttura comune, con spazi in cui erano condivisi anche aree private, un modello di sviluppo in risposta a esigenze pratiche come:

  • La sicurezza nei periodi di instabilità politica e incursioni avvenute nel corso dei secoli, generando un’economia secondo una scala di risorse naturali e strategiche come pozzi, forni e cortili.
  • Il rispetto della tradizione culturali relativa ai legami familiari che era sopra e prevaleva riconosciuto da tutti il rispetto e la coabitazione dei valori sociali nelle Gjitonie: tuttavia, ben presto venne influenzata dalle famiglie divenute a seguito di matrimoni più nobili, ed è da questo momento che gli originari valori egualitari, influenzarono fortemente l’organizzazione urbana, e le il vivere nelle proprie case, essendo tutto divenute luogo di cultura spesso includevano più generazioni e rami familiari, modificandone fortemente il modello della Iunctura familiare originario.

Tutto questo, incise fortemente nell’organizzazione degli insediamenti, rafforzandone il controllo sociale e garantire una gestione efficiente del lavoro agricolo e dei redditi garantiti a figure totalitarie.

La Chiesa, con la sua rete capillare di parroci e addetti, ebbe un ruolo importante nella diffusione di modelli abitativi comunitari, sin anche nella definizione e il circoscritto di specifici rioni.

Le confraternite e le organizzazioni ecclesiastiche, sempre di più, promuovevano l’assistenza reciproca e la coabitazione tra famiglie imparentate, specie nei contesti urbani, dove si allestivano valori metrici e di misura; con i noti, monti del grano.

Nei centri rurali e semi-urbani, furono le comunità di contadini e artigiani a rendere la Iunctura familiare una prassi consolidata e, vista la necessità di cooperare per il lavoro nei campi o nelle botteghe, favorì la creazione di unità abitative integrate a mulini, botteghe e attività artigiane utili al bisogno agreste silvicolo e pastorale e, in specie del trasporto a dorso di animali e carri.

In molti casi, l’organizzazione degli spazi era funzionale alla gestione collettiva delle attività lavorative, attraverso norme di urbanistica e tassazione, influenzò indirettamente il consolidarsi della Iunctura.

L’accentramento delle abitazioni consentiva un controllo più agevole sulle popolazioni e facilitava la raccolta di tasse e tributi, a tal fine furono promosse politiche che rafforzavano il modello urbano basato su rioni organizzati secondo gruppi e famiglie più estese.

Il modello si diffuse prevalentemente nei centri collinari e montani, dove la configurazione del terreno incoraggiava l’addensamento abitativo ed è così che i centri antichi abitati e sostenuti dagli Arbëreshë, sono un caso particolare, dove il modello della Iunctura familiare si estese alle tradizioni più intime, trasporta di tempi della diasopra, nel cuore e nella mente, tuttavia con il tempo, il modello si evolse per rispondere ai cambiamenti sociali ed economici:

L’espansione del centro antico a storico e la nascita di una classe borghese portò alla trasformazione degli spazi abitativi.

Tuttavia, in molti centri arbëreşë, il modello della Iunctura familiare rimane visibile nella struttura dei palazzi e dei rioni, con spazi comuni, cortili, scalinate e vicoli irregolari.

In sintesi, la diffusione del modello di Iunctura familiare fu il risultato di una combinazione di influssi popolari, ecclesiastici, nobiliari e poi dell’espansione dei centri antichi a cui le conseguenze economiche definirono la nuova Gjitonia, supportata da esigenze economiche e sociali che caratterizzarono le comunità.

L’ambiente naturale quando venne vissuto dagli Albanofoni ha subito trasformazioni in mutua convivenza con i parametri morfologici, orografici, della flora, della fauna e climatici, fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambito paralleli per addivenire alle tipologie urbane ancora leggibili;

  • il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, era costituita da un unico ambiente in cui vivere, con i pochi animali domestici, difendere le poche suppellettili e conservare alimenti;
  • il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale e botanico per i farmaci Naturali.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli Arbëreşë lentamente, hanno riposto il modello familiare allargato, assimilando esigenze di famiglia urbana e in seguito in tempi più recenti, vive il modello della multimedialità metropolitana che ignora le cose comuni.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, ha inizio la disposizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari e poi via via sempre più estesi e irriconoscibili.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati, tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica romana a scapito di quella greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat, oggi diventati i viali di espansione che non hanno regole familiari, ma necessità economica come ai tempi dei romani.

E’ sempre Gjitonia ad essere protagonista incontrastata, nel corso dei secolo, a dare agio alla famiglia allargata, facendola diventare famiglia urbana, oggi dopo gli anni sessanta del secolo scorso, vive nella misura metropolitana delle cose moderne, avendo a memoria poche cose riferite secondo le necessita dell’apparire e dei campanili locali che esaltano i singoli a scapito dei legami sociali che attendono rimedio e accoglienza per i tanti cuori li depositati a pulsare per far vivere quegli ambiti ameni.

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KRÙNDJEN E ZUNURATË ARBËREŞË TROVA AGIO TRA LA TERRA DI SOFIA E LE MURA DI NAPOLI  (lljeva Zëmëren ndë Katundë pësè besa imè hështë me motë e gjalë)

Protetto: KRÙNDJEN E ZUNURATË ARBËREŞË TROVA AGIO TRA LA TERRA DI SOFIA E LE MURA DI NAPOLI (lljeva Zëmëren ndë Katundë pësè besa imè hështë me motë e gjalë)

Posted on 20 settembre 2024 by admin

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